N. 280 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 novembre 2006

Ordinanza emessa il 11 novembre 2006 dal collegio arbitrale di Napoli
nell'arbitrato in corso tra Consorzio CPR2 contro Curia Arcivescovile
di Napoli

Arbitrato  -  Controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche
  comprese  in  programmi  di  ricostruzione  di territori colpiti da
  calamita'  naturali  - Divieto di devoluzione a collegi arbitrali -
  Contrasto  con  il  complessivo quadro normativo teso a favorire la
  composizione  delle  liti  tra P.A. e privati in sede alternativa a
  quella   giudiziaria   -   Denunciata   lesione  del  principio  di
  ragionevolezza  sotto  i  profili  dell'ingiustificata  distinzione
  normativa  dei  cd.  «arbitrati  da calamita» e della disparita' di
  trattamento  rispetto  ai  giudizi  arbitrali  introdotti  con atto
  notificato   anteriormente   alla   data   di   entrata  in  vigore
  dell'impugnato   divieto  legislativo  -  Asserita  violazione  dei
  principi   costituzionali  relativi  alla  liberta'  di  iniziativa
  economica  privata - Denunciata lesione del diritto di difesa e del
  principio  del  giudice naturale precostituito per legge - Asserita
  violazione  dei  limiti alla potesta' legislativa statale derivanti
  dall'ordinamento  comunitario  -  Incidenza  sui  principi  di buon
  andamento e imparzialita' della pubblica amministrazione.
- Decreto-legge  11 giugno 1998,  n. 180, art. 3, comma 2, convertito
  nella legge 3 agosto 1998, n. 267; decreto legislativo 20 settembre
  1999,  n. 354,  art. 8, comma 1, lett. d); decreto-legge 7 febbraio
  2003,   n. 15,   art. 1,  comma 2-quater,  convertito  nella  legge
  8 aprile 2003, n. 62.
- Costituzione, artt. 3, 24, 25, 41, 42, 97 e 117.
(GU n.17 del 2-5-2007 )
                        IL COLLEGIO ARBITRALE

    Ha  pronunziato  la  seguente  ordinanza per la risoluzione della
controversia  insorta  tra  il  Consorzio  CPR2, con sede in Pozzuoli
(Napoli) alla via Campana n. 268, in persona del legale rappresentate
pro  tempore,  rappresentato  a  difeso dagli avvocati prof. Vincenzo
Spagnuolo Vigorita, prof. Bruno Capponi e Domenica Di Falco, e presso
il  primo  elettivamente  domiciliato  in  Napoli  alla via Posillipo
n. 394  e  la  Curia  Arcivescovile  di Napoli, con sede in Napoli al
Largo  Donnaregina  n. 22,  in  persona del legale rappresentante pro
tempore,  rappresentata e difesa dagli avv.ti prof. Aristide Police e
Ivan  Del  giudice,  e presso il secondo elettivamente domiciliata in
Napoli alla via Scarlatti n. 211/e.

                              F a t t o

    1.  -  Con  atto introduttivo di arbitrato, notificato alla Curia
Arcivescovile  di  Napoli  in  data  9 marzo  2006, il Consorzio CPR2
dichiarava  che  con  convenzione  del  31 luglio  1981,  rep. n. 4 e
successivi  atti  aggiuntivi  del  7 febbraio  1985, rep. n. 46 e del
15 gennaio  1986,  rep.  n. 82,  il  sindaco  di Napoli - Commissario
straordinario   di   Governo,   aveva   affidato  in  concessione  la
realizzazione  dei  lavori  di  costruzione  di  alloggi  ed opere di
urbanizzazione  primaria  e secondaria del comparto 7 in San Pietro a
Patierno.
    Precisava che, nell'ambito del rapporto concessorio, rientrava la
realizzazione  di un intervento per la realizzazione di una Chiesa in
via  Caloria,  in  ordine al quale, nel corso dell'esecuzione, veniva
redatta  perizia di variante che prorogava il termine di consegna dei
lavori  di centocinquanta giorni; termine ulteriormente prorogato per
la   necessita'  di  ottenere  i  nullaosta  per  l'agibilita'  e  le
fognature.
    Dopo  l'ultimazione  dei  lavori, al Consorzio veniva affidata la
realizzazione di ulteriori lavorazioni.
    Nelle  more  dell'esecuzione  dei lavori, l'opera (nello stato in
cui  si  trovava)  veniva  trasferita,  con  ordinanza  n. 12827  del
27 marzo  1996,  alla  Curia  Arcivescovile di Napoli, secondo quanto
disposto  dal decreto ministeriale 4 novembre 1994 adottato in virtu'
dell'art. 2, legge 23 dicembre 1993, n. 559, con il quale erano stati
individuati   dal  Ministero  del  bilancio  e  della  programmazione
economica gli enti ai quali trasferire le opere realizzate nel quadro
del programma straordinario di edilizia residenziale a Napoli, di cui
al titolo VIII della legge n. 219/1981.
    I  lavori,  in  attesa  del  perfezionamento  del  trasferimento,
venivano  interrotti fino all'aprile 1997 e ultimati nel luglio dello
stesso anno.
    Nel  gennaio  del  1998 l'opera veniva definitivamente consegnata
alla Curia.
    Con  il  citato  atto  introduttivo d'arbitrato il Consorzio CPR2
chiede  alla  Curia  Arcivescovile  di Napoli, in ragione del mancato
collaudo  dell'opera,  i  maggiori  oneri  derivanti  dal servizio di
guardiania   ed   i   maggiori  oneri  derivanti  dalla  manutenzione
dell'opera.
    Con  lo  stesso  atto  il Consorzio CPR2 nominava proprio arbitro
l'avv. Raffaele Ferola ed invitava la Curia Arcivescovile di Napoli a
procedere alla nomina del proprio arbitro.
    2.  -  La  Curia  Arcivescovile di Napoli, con atto del 16 maggio
2006, nominava proprio arbitro il prof. avv. Mario Rosario Spasiano e
designava altresi' i propri difensori.
    Gli  arbitri,  con  verbale del 25 maggio 2006, designavano terzo
arbitro,  con  funzioni  di  Presidente del Collegio, l'avv. Gherardo
Marone che accettava.
    Nella  stessa  data si costituiva il Collegio arbitrale, fissando
la propria sede in Napoli alla via Cesario Console n. 3, nello studio
dell'avv.  Gherardo  Marone  e  veniva designato quale segretario del
Collegio l'avv. Francesco Marone.
    3.  -  Il  Collegio  fissava  i  termini  per  lo svolgimento del
giudizio  e,  rilevata  ex officio la necessita' di valutare, ai fini
della    procedibilita'    dell'arbitrato,   l'applicabilita'   nella
fattispecie  dell'art. 1,  comma  2-quater,  decreto-legge 7 febbraio
2003,  n. 15,  convertito  in legge 8 aprile 2003, n. 62, invitava le
parti  a  dedurre  sul  punto  in  occasione  della  costituzione  in
giudizio.
    Con  memoria  depositata  in  data 26 giugno 2006 la difesa della
parte   attrice   ha   sollevato   la   questione   di   legittimita'
costituzionale   della   norma   di  cui  all'art. 3,  comma  2,  del
decreto-legge  11 giugno  1998,  n. 180  convertito in legge 3 agosto
1998,  n. 267,  la  cui  vigenza  e'  ribadita dall'espresso richiamo
contenuto  nell'art. 1,  comma  2-quater del decreto-legge 7 febbraio
2003, n. 15, convertito in legge 8 aprile 2003, n. 62.
    Si  tratta  della norma alla stregua della quale «Le controversie
relative  all'esecuzione  di opere pubbliche comprese in programmi di
ricostruzione  di territori colpiti da calamita' naturali non possono
essere devolute a Collegi arbitrali».
    Con memoria di costituzione depositata in data 26 giugno 2006, la
difesa  della Curia, nel controdedurre alle eccezioni di controparte,
si rimetteva al Collegio in ordine alla valutazione preliminare della
questione di costituzionalita'.
    Il  Collegio,  dunque, sentite le parti all'udienza del 17 luglio
2006,  non  puo'  che  passare  all'esame della rilevanza e della non
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
sollevata.

                            D i r i t t o

    1.   -   Sulla   rilevanza   della   questione   di  legittimita'
costituzionale.
    Il  decreto-legge  6 novembre  1998,  n. 180, convertito in legge
3 agosto  1998,  n. 267,  al  comma  2  dell'art. 3  prevede  che «le
controversie  relative  all'esecuzione di opere pubbliche comprese in
programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali
non possono essere devolute a collegi arbitrali».
    Successivamente    e'    intervenuto   il   decreto   legislativo
20 settembre  1999,  n. 354  recante  disposizioni  sulla  definitiva
chiusura  del  programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della
legge n. 219/1981.
    In   particolare   l'art. 8   del   citato   decreto  legislativo
n. 354/1999  non  lascia  adito  a dubbi circa l'applicabilita' della
norma  di  cui  all'art. 3,  comma 2, decreto-legge n. 180/1998 anche
alle  opere  pubbliche di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981,
laddove  dispone che il Commissario straordinario liquidatore ai fini
della  transazione considera «I giudizi ordinari o arbitrali in corso
o  le  istanze di accesso ad arbitrato notificate prima della data di
entrata in vigore del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180».
    Il  combinato  disposto  dell'art. 3,  comma 2, del decreto-legge
n. 180/1998  e  della  lett.  d)  dell'art. 8 del decreto legislativo
n. 354/1999  non  lascia  spazio  interpretativo e cioe' non puo' che
essere  letto  nel  senso  che  anche  le  controversie relative alla
esecuzione  di  opere  pubbliche  inerenti  gli  interventi di cui al
titolo VIII della legge n. 219/1981, pur non direttamente collegati a
calamita' naturali, non possono essere devolute a Collegi arbitrali.
    In  seguito  l'art. 7,  comma  1, lett. v), della legge 1° agosto
2002,  n. 166, ha aggiunto il comma 4-bis all'articolo 32 della legge
11 febbraio 1994, n. 109, alla stregua del quale «Sono abrogate tutte
le  disposizioni  che, in contrasto con i precedenti commi, prevedono
limitazioni  ai mezzi di risoluzione delle controversie nella materia
dei lavori pubblici come definita dall'articolo 2».
    Da   questa   disposizione,   contenente  una  generale  clausola
abrogativa  di tutte le norme di limitazione dei mezzi di risoluzione
delle controversie nella materia delle opere pubbliche, discenderebbe
l'abrogazione   tacita  anche  dell'art. 3,  comma  2,  decreto-legge
n. 180/1998, poiche' non e' revocabile in dubbio che essa indichi una
espressa  limitazione  dei mezzi di risoluzione delle controversie in
materia  di  lavori pubblici, escludendo la possibilita' di devolvere
ad arbitri le liti eventualmente nascenti dall'esecuzione di opere di
ricostruzione successive a calamita' naturali.
    Tuttavia,  il decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, convertito in
legge  8 aprile  2003,  n. 62,  ha  stabilito,  con  l'art. 1,  comma
2-quater,  che  «alle controversie derivanti dall'esecuzione di opere
pubbliche  inerenti  programmi di ricostruzione dei territori colpiti
da   calamita'   naturali,  ivi  compresi  gli  interventi  derivanti
dall'applicazione  della  legge  14 maggio 1981, n. 219, e successive
modificazioni,  continua ad applicarsi il disposto di cui all'art. 3,
comma  2,  del  decreto-legge  11 giugno 1998, n. 180 convertito, con
modificazioni, dalla legge 3 agosto 1998, n. 267».
    Di  conseguenza, tralasciando i problemi inerenti la reviviscenza
degli  atti  normativi, che non assumono rilievo ai fini del presente
giudizio   in   quanto   introdotti  dopo  l'entrata  in  vigore  del
decreto-legge  n. 15/2003, deve concludersi che la norma che vieta di
devolvere  ad  arbitri  le  controversie  di cui al titolo VIII della
legge n. 219/1981 e' ancora vigente nell'ordinamento.
    Vi e', dunque, un insuperabile impedimento (anche interpretativo)
a  che il Collegio addivenga alla decisione della controversia di cui
all'atto  di  accesso  notificato il 9 marzo 2006 dal Consorzio CPR2;
questa, infatti, rientra tra quelle aventi titolo ex lege n. 219/1981
ed  e', pertanto, evidente che la normativa della cui legittimita' si
dubita  debba  trovare  applicazione  nel  giudizio devoluto a questo
Collegio  arbitrale,  risultando  impeditiva  della  pronuncia  sulle
richieste avanzate nell'atto di accesso.
    2.   -  Sulla  non  manifesta  infondatezza  della  questione  di
legittimita' costituzionale.
    Il  Collegio ritiene che siano fondati i dubbi sulla legittimita'
costituzionale   della   disciplina   normativa   che   impedisce  di
pronunciarsi  con lodo sulle richieste avanzate nell'atto di accesso.
Si procede, quindi, ad esplicitare le ragioni per le quali si ritiene
sussista   la   non   manifesta   infondatezza   della  questione  di
legittimita'   costituzionale   dell'art. 1,   comma   2-quater,  del
decreto-legge  7 febbraio  2003,  n. 15, convertito in legge 8 aprile
2003,  n. 62, dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998,
n. 180,  convertito  in  legge  3 agosto  1998, n. 267 e dell'art. 8,
lett.  d),  del  decreto  legislativo  20 settembre 1999, n. 354, per
violazione degli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione.
    2.1.    -    Contrasto   con   l'art.   3   della   Costituzione.
Irragionevolezza.
    E'   noto  al  Collegio  che  la  Corte  costituzionale  ha  gia'
affrontato  la  questione,  risolvendola nel senso della infondatezza
dei  denunciati  vizi di legittimita' costituzionale, con la sentenza
28 novembre  2001, n. 376 e con le ordinanze 13 gennaio 2003, n. 11 e
26 marzo 2003, n. 122.
    Con  particolare riferimento alla asserita violazione dell'art. 3
della  Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, la Corte,
dopo  aver  ribadito che la discrezionalita' del legislatore incontra
il  solo  limite  della  manifesta irragionevolezza, ha precisato che
nella   fattispecie   quel   limite  non  poteva  ritenersi  superato
«considerato  il rilevante interesse pubblico di cui risulta permeata
la materia relativa alle opere di ricostruzione dei territori colpiti
da  calamita'  naturali,  anche  in ragione dell'elevato valore delle
relative  controversie  e  della conseguente entita' dei costi che il
ricorso  ad  arbitrato comporterebbe per le pubbliche amministrazioni
interessate» (Corte costituzionale, 28 novembre 2001, n. 376).
    Si  tratta  di  affermazioni certamente condivisibili, ma che non
spiegano in che modo l'esclusione della compromettibilita' in arbitri
delle controversie eventualmente nascenti dai contratti stipulati per
la  ricostruzione,  possa  connettersi  alla  presenza  di  interessi
pubblici  sottesi  alla  realizzazione  di  opere  successive  ad una
calamita' naturale.
    La  Corte costituzionale non ha potuto affrontare con completezza
la  questione  perche',  naturalmente,  ha  dovuto  limitarsi  ad uno
scrutinio  interno  al  thema decidendum definito con le ordinanze di
rimessione,  che  invero non sembrano aver colto pienamente la misura
del vizio di ragionevolezza che affligge la norma denunciata.
    Il  punto  nodale della questione appare essere l'esistenza di un
legame  tra  la  causa  per  la quale si decide di appaltare un'opera
pubblica e la disciplina dell'arbitrato, ovvero, piu' chiaramente, se
la  ragione contingente sottesa alla decisione di realizzare un opera
possa   giustificare   un'eccezione   alla   regola   generale  della
possibilita' di devolvere ad arbitri eventuali controversie derivanti
da un contratto di appalto.
    Sembra,  piuttosto,  che  la  liberta' delle parti di deferire ad
arbitri  eventuali  controversie  non  possa  essere  in  alcun  modo
collegata  alle  ragioni congiunturali (calamita' naturale) che hanno
portato  alla  decisione  dell'Amministrazione  di realizzare l'opera
pubblica.  La  compatibilita' della norma denunciata con il principio
di   ragionevolezza   deve,  quindi,  essere  verificata  in  termini
parzialmente diversi.
    E  la  norma  impugnata,  esaminata sotto diverso angolo visuale,
risulta viziata da irragionevolezza, poiche' individua una disciplina
speciale  per  una  determinata  classe  di  ipotesi che pero', a ben
vedere,  non  si  differenzia  dalle  altre  sotto  il  profilo della
compatibilita'   con   la  ratio  sottesa  alla  disciplina  generale
dell'arbitrato.
    Piu'  precisamente si individua una sotto-categoria di arbitrati,
caratterizzati  dal  fatto di riguardare contratti pubblici aventi ad
oggetto   la  realizzazione  di  opere  pubbliche  originate  da  una
calamita' naturale.
    Dunque  l'elemento di discrimine, all'interno della materia opere
pubbliche, tra le controversie che possono essere devolute ad arbitri
e  quelle  che,  invece,  vi  sono  sottratte,  e'  costituito  dalla
circostanza che il contratto, all'interno del quale si e' inserita la
clausola  compromissoria,  sia  stato  originato  dalla necessita' di
appaltare  lavori  pubblici  a  seguito  di  un  evento calamitoso o,
viceversa, da qualsiasi altra esigenza ritenuta meritevole dalla p.a.
in quanto comunque rispondente ad un pubblico interesse.
    Ma   la   ragione  per  la  quale  un'amministrazione  decide  di
realizzare    un'opera   pubblica   e'   assolutamente   irrilevante,
considerato che non vi e' differenza nelle modalita' di affidamento e
di esecuzione e quindi nella possibilita' che dai contratti stipulati
sorgano controversie.
    Piu'  chiaramente non e' dato comprendere quale differenza vi sia
tra  appaltare,  ad  esempio,  i  lavori  di  ristrutturazione  di un
edificio  pubblico rovinato dall'usura del tempo piuttosto che da una
calamita' naturale.
    Il  fatto  che le opere siano collegate ad una calamita' naturale
non  influisce  in  alcun  modo sulle modalita' del loro affidamento,
sulla  tutela  del pubblico interesse ne' sul contenzioso, ne' quindi
sulla  logica  della compromettibilita' in arbitri delle controversie
eventualmente     scaturenti     dal    contratto    stipulato    tra
l'amministrazione  e l'appaltatore. L'interesse pubblico sotteso alla
realizzazione  di  un'opera  pubblica non muta in ragione della causa
che ha originato la decisione di realizzare l'opera stessa.
    E  gli  interessi  nascenti  dalla realizzazione di un'opera - e,
dunque,  anche l'eventuale contenzioso - sono esattamente gli stessi,
indipendentemente  dalla  finalita'  dell'opera e dall'evento a causa
del quale si e' deciso di appaltare i lavori.
    Se  vi  saranno ritardi, sospensione dei lavori, riserve, penali,
che  potranno  dar  luogo  ad  un  contenzioso  tra  l'appaltatore  e
l'amministrazione, questo e' del tutto indipendente dalla congiuntura
in  cui  si  inquadra  l'opera  realizzanda, ma attiene soltanto alle
modalita'  e ai tempi di esecuzione, che non sono in relazione con la
finalita' cui la realizzazione dell'opera e' funzionale.
    In  sintesi,  la  norma  impugnata  ha sottratto all'applicazione
della   regola   generale,  secondo  cui  le  controversie  derivanti
dall'esecuzione  di contratti pubblici relativi alla realizzazione di
opere  pubbliche  possono  essere  deferite  a Collegi arbitrali, una
classe  di  ipotesi  (c.d. arbitrati da calamita), caratterizzata dal
fatto  che  il  contratto  e'  relativo  alla  realizzazione di opere
pubbliche necessarie a far fronte ad una calamita' naturale.
    La   distinzione   e'   manifestamente   irragionevole,   poiche'
disciplina  in modo diseguale fattispecie del tutto analoghe, ne', ai
fini  in  questione,  sembrano  in  qualche  modo  rilevare il valore
economico  delle  controversie  ed  il  costo  di  funzionamento  del
Collegio arbitrale. E' evidente, da un lato, che il costo di un'opera
pubblica  e'  assolutamente  slegato dalla ragione per la quale si e'
deciso di realizzare quell'opera (la messa in sicurezza di una strada
danneggiata   da  un'alluvione  costa  certamente  molto  meno  della
realizzazione  del ponte sullo stretto di Messina, che nulla ha a che
vedere  con  eventi calamitosi). Sussistono opere pubbliche di valore
economico   ingentissimo  che  prescindono  dal  prodursi  di  eventi
calamitosi  e  che  non  per  questo  sono  sottratte  all'accesso  a
procedure  arbitrali,  con  ricorso  all'applicazione  delle  tariffe
professionali,  anch'esse in nulla condizionate dalla circostanza che
la  controversia  da  risolvere  riguardi  opere connesse a calamita'
naturali  piuttosto  che  a  qualunque  altra  ragione  di  interesse
pubblico.
    Con  la  precisazione  che  il  Legislatore,  nella  sua opera di
bilanciamento  dei  valori  che  venivano in rilievo, sembra non aver
tenuto  assolutamente  conto dei vantaggi, anche economici, derivanti
dalla devoluzione ad arbitri delle controversie. E' vero che le parti
devono far fronte alle spese di funzionamento del Collegio arbitrale,
ma e' altrettanto vero che il codice di procedura civile assegnava un
termine perentorio di centottanta giorni (oggi duecentoquaranta) agli
arbitri  per  definire la controversia, il che vuol dire che una lite
devoluta ad arbitri si chiude necessariamente in un tempo brevissimo,
restando  comune,  quanto  ai  tempi,  la  fase  della impugnativa in
secondo  grado. Di contro la media di risoluzione di una controversia
civile,  mediante  la giustizia ordinaria, e' di circa dieci anni. Ed
il  fatto  che  vi  sia  una cosi' evidente sproporzione nei tempi di
definizione  della  controversia non puo' che avere anche riflessi di
natura economica per la pubblica amministrazione, non fosse altro per
gli  interessi e la svalutazione che maturano nel caso di soccombenza
e  che  il  piu' delle volte conducono ad un incremento notevolissimo
della  spesa pubblica rispetto alla sorta capitale dovuta. Il maggior
costo  delle  procedure  arbitrali rispetto al ricorso alla giustizia
ordinaria  va  valutato dunque non in astratto, ma deve costituire il
frutto  di  una  piu'  ampia  e  complessiva  valutazione  di  ordine
economico,  considerando  peraltro,  nella  stessa  prospettiva,  che
l'eccessiva  durata  del  processo  civile  - come noto - costituisce
talora di per se' causa di fallimento per le imprese, impossibilitate
a  reggere  l'elevatissimo  costo derivante dall'esposizione bancaria
alla  quale  le  stesse  sono costrette a ricorrere anche a causa dei
lunghissimi   tempi   d'attesa   necessari   alle  definizione  delle
controversie.  Anche  questo  dato,  profondamente  negativo sotto il
profilo  socio-economico,  costituisce un elemento di valutazione che
oggettivamente induce a riconsiderare l'astratta pretesa di eccessiva
onerosita' delle procedure arbitrali.
    Ma  l'irragionevolezza della norma che si assume viziata e' ancor
piu'  evidente  se organicamente letta nel quadro delle norme dettate
dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.
    La  lettera  d)  del  comma  34  dell'art. 253  del citato d.lgs.
stabilisce:  «Sono  abrogate  tutte le disposizioni che, in contrasto
con la disciplina del presente codice, prevedono limitazioni ai mezzi
di   risoluzione  delle  controversie  nella  materia  dei  contratti
pubblici  e  relativi  a  lavori,  servizi  e forniture o contemplano
arbitrati obbligatori. E' salvo il disposto dell'art. 3, comma 2, del
decreto-legge  11 giugno 1998 n. 180, convertito dalla legge 8 agosto
1998,   n. 267  e  dall'art. 1,  comma  2-quater,  del  decreto-legge
7 febbraio 2003, n. 15, convertito dalla legge 8 aprile 2003, n. 15».
    E  il  comma 1 dell'art. 241 prevede: «Le controversie su diritti
soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi
a  lavori,  servizi,  forniture, concorsi di progettazione e di idee,
comprese  quelle  conseguenti  al mancato raggiungimento dell'accordo
bonario previsto dall'art. 240, possono essere deferite ad arbitri».
    Si tratta di disposizioni irrilevanti in questo giudizio, poiche'
inapplicabili   ex   art. 253,  comma  1,  d.lgs.  n. 163/2006,  come
sostituito  dall'art. 1-octies,  decreto-legge n. 173/2006 convertito
in  legge  n. 228/2006,  ma  che  tuttavia sono utili per comprendere
appieno   la   irragionevolezza   della   distinzione   operata   dal
legislatore.
    E'  evidente  che  le citate norme del nuovo codice dei contratti
pubblici  fanno  applicazione  di  un  principio  generale di massima
liberta'  di  scelta  dei  mezzi  di  risoluzione  delle controversie
inerenti  l'esecuzione  dei  contratti  pubblici. Ed in questo quadro
risulta  assolutamente  ingiustificata la sottrazione a questa regola
generale delle sole controversie inerenti le opere pubbliche connesse
a calamita' naturali.
    Sia  consentito  notare  che, pur non essendo le citate norme del
codice  dei  contratti pubblici rilevanti in questo giudizio, codesta
ecc.ma  Corte  costituzionale,  qualora  accogliesse  la questione di
legittimita'    costituzionale    sollevata    dovrebbe    dichiarare
incostituzionale  in  parte  qua,  in applicazione dell'art. 27 della
legge  n. 87 del 1953, l'art. 253, comma 34, lett. d), seconda parte,
del d.lgs. n. 163/2006.
    2.1.1.  -  Sotto  ulteriore  profilo,  va  rilevato  che le norme
denunciate - attribuendo un regime normativo differenziato ad appalti
oggettivamente   e   soggettivamente   identici   -   ne  individuano
l'illegittima   ratio   nella   genesi  remota  della  necessita'  di
provvedere (all'esecuzione dell'opera), facendo cosi' coincidere tale
causa remota con un criterio di localizzazione territoriale.
    In tal modo si determina una discriminazione di tipo territoriale
non  solo  rispetto  al  piu'  ampio  ambito  comunitario  -  ove  e'
consentito  che  la  disciplina degli appalti si differenzi da quella
generale   solo   per  particolari  oggetti  o  determinati  soggetti
aggiudicatori, senza alcun «privilegio» di tipo territoriale ma anche
nel  piu' ristretto territorio nazionale, laddove le imprese operanti
nei luoghi colpiti da calamita' naturali, anche per lavori connessi a
finalita'  di  sviluppo  e  non  certo  di  ricostruzione  (si  pensi
all'ampliamento  dell'originario titolo VIII legge n. 219/1981 con le
previsioni  di  cui  agli  art. 5-bis e 5-ter, legge n. 456/1981, che
concernono grandi infrastrutture), si trovano a subire un trattamento
ingiustificatamente differenziato rispetto a quelle operanti in altri
distretti  del paese, per di piu' in un sistema che considera giudice
naturale della esecuzione degli appalti il giudice onorario.
    2.2. - Contrasto con gli artt. 41 e 42 della costituzione.
    La  norma  oggetto della questione di legittimita' costituzionale
che  si  solleva in questa sede risulta essere in contrasto anche con
il  principio della liberta' dell'iniziativa economica privata di cui
agli  artt. 41  e  42 della Costituzione, limitando irragionevolmente
l'autonomia privata.
    E' vero che la liberta' di iniziativa economica non e' un diritto
assoluto,   ma   puo'   e  deve  essere  condizionata  per  orientare
finalisticamente  l'intrapresa  economica all'utilita' sociale, ma le
limitazioni  debbono essere, oltre che ragionevoli, collegabili ad un
pubblico  interesse prevalente. Piu' chiaramente, l'autonomia privata
e'  libera  fintantoche'  non  vi  sia  una  finalita' sociale il cui
perseguimento richieda di limitarla.
    La  regola  generale  e'  dunque  quella  della  massima ampiezza
dell'autonomia   privata,   e   le   limitazioni   ne   rappresentano
l'eccezione.
    Con  specifico  riferimento  alla questione che qui interessa, la
regola  generale e' dunque quella della possibilita' di derogare alla
giurisdizione  comune  per  affidarsi  ad  arbitri privati. Non vi e'
dubbio che anche questa regola possa subire eccezioni, ma esse devono
essere  connesse  ad  un interesse pubblico che nella fattispecie non
appare   riscontrabile,  di  talche'  la  limitazione  dell'autonomia
privata appare nella specie arbitraria.
    E  la  questione  non  sembra  doversi  leggere nell'ottica della
legittima  distinzione  di  situazioni identiche ratione temporis. Il
problema  non  e' se il legislatore possa o meno disciplinare in modo
diverso  una  situazione  in  diversi  momenti  storici, individuando
quindi,  inevitabilmente,  una  differenziazione  di  disciplina  per
rapporti  giuridici identici a seconda del momento in cui questi sono
sorti;  si  tratta  evidentemente delle normali regole di successione
delle norme nel tempo, informate al principio del tempus regit actum.
    Nella  fattispecie non si tratta del semplice avvicendarsi di due
discipline  legislative,  ma  della  sottrazione alla regola generale
secondo cui e' possibile deferire ad arbitri le controversie nascenti
dai  contratti  pubblici  relativi a lavori, di una classe di ipotesi
che  nulla  hanno di diverso rispetto alle altre e che rappresentano,
quindi,  una  arbitraria ed irragionevole compressione dell'autonomia
privata.
    E  cio'  sia  detto  non senza considerare che l'utilita' sociale
idonea a costituire limite all'autonomia privata deve necessariamente
consistere  (non in un interesse contingente dello Stato-apparato ma)
in  un beneficio di ordine generale della collettivita': vi e' dunque
un'antinomia  di  fondo  nel  considerare  utilita'  sociale cio' che
determina sperequazioni di tipo soggettivo e territoriale.
    2.3.  - Ulteriore contrasto con gli artt. 41 e 42 e con gli artt.
3, 24, 25 e 97 della Costituzione.
    Qualora   codesta   ecc.ma  Corte  costituzionale  ritenesse  non
sussistente  la illegittimita' costituzionale della norma che sottrae
alle   parti   la   possibilita'   di  compromettere  in  arbitri  le
controversie  relative  all'esecuzione di opere pubbliche comprese in
programmi   di   ricostruzione  di  territori  colpiti  da  calamita'
naturali,  il  Collegio  rileva un ulteriore motivo di illegittimita'
costituzionale  dell'art. 3,  comma  2, decreto-legge 11 giugno 1998,
n. 180,  nella  parte in cui esclude dall'applicazione della norma di
cui al primo periodo soltanto «Le controversie per le quali sia stata
gia'  notificata  la  domanda  di  arbitrato  alla data di entrata in
vigore  del presente decreto» e non tutte quelle relative a contratti
gia' stipulati, contenenti clausola compromissoria.
    Una  tale  previsione,  determinando  la  nullita' retroattiva di
tutte  le  clausole  compromissorie  precedentemente stipulate, viola
l'art. 41 della Costituzione in combinato disposto con gli artt. 24 e
25.
    Una  tale conclusione discende dalle seguenti considerazioni. Per
consolidato  orientamento  della Corte costituzionale, soprattutto in
ordine  al  divieto  di  istituzione  di  arbitrati  obbligatori,  il
fenomeno  arbitrale  trova  il  proprio riconoscimento costituzionale
nell'art. 41,  trattandosi  di  una delle modalita' di manifestazione
dell'autonomia   privata.  Allo  stesso  tempo  non  e'  dubbio  che,
attraverso il giudizio arbitrale, le parti esercitano il loro diritto
di  azione,  costituzionalmente tutelato ex art. 24, tanto che - come
chiarito   dalla   stessa   Corte   costituzionale  con  la  sentenza
n. 376/2001  -  il giudizio degli arbitri e' potenzialmente fungibile
con  quello  degli  organi  della giurisdizione. L'affermazione della
Corte  costituzionale  risulta  oggi confermata dalla recente novella
del  codice  di  procedura civile che ha rivisto le norme riguardanti
l'arbitrato (decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40).
    Da  un  lato e' stato introdotto l'art. 824-bis che ha stabilito,
con riferimento all'efficacia del lodo arbitrale, che esso dalla data
della  sua  ultima  sottoscrizione  ha  «gli  effetti  della sentenza
pronunciata  dall'autorita'  giudiziaria»;  dall'altro il nuovo testo
dell'art. 829 del codice di procedura civile sembra avere ampliato le
ipotesi di impugnazione del lodo.
    Ne  risulta  che alla fattispecie arbitrale non e' meccanicamente
applicabile   la   giurisprudenza   costituzionale   in  ordine  alla
possibilita',   riconosciuta  al  legislatore,  di  disciplinare  con
effetti  retroattivi  i  rapporti  contrattuali  pendenti, risultando
coinvolte,  nel  caso dell'arbitrato, le forme attraverso le quali e'
possibile  ottenere  la tutela della propria situazione soggettiva ed
il  «giudice»  chiamato  a  riconoscere  una  tale  tutela.  In altri
termini,  al  momento  della sottoscrizione del compromesso, le parti
(salvi  i  casi  di incompromettibilita) hanno acquisito un diritto a
che  la  definizione  della  lite  avvenga  nelle  forme del giudizio
arbitrale,  precostituendosi cosi' l'organo destinato a definire ogni
controversia  che  eventualmente  dovesse  insorgere tra le parti. La
clausola  compromissoria,  infatti,  assume  una  rilevanza specifica
nell'economia  dei  rapporti  tra  le parti non potendosi in astratto
escludere  che  in  sua  assenza  le stesse sarebbero addivenute alle
medesime pattuizioni contrattuali.
    Risulta   cosi'   chiaro  come  del  tutto  irragionevolmente  il
legislatore   abbia  ritenuto  di  fare  salvi  solo  i  procedimenti
arbitrali   nei  quali  era  gia'  stata  notificata  la  domanda  di
arbitrato,  e non quelli per i quali vi fosse stata la sottoscrizione
della  clausola  compromissoria, attraverso la quale le parti avevano
gia'  concordato  di  devolvere  ad  un  collegio arbitrale (sia pure
concretamente  da  identificare) - e non ad un organo giurisdizionale
statale  - la decisione di future controversie eventualmente nascenti
tra loro.
    La  scelta  di  considerare  la  notificazione  della  domanda di
arbitrato come elemento di riferimento in base al quale individuare i
procedimenti  arbitrali  destinati  a  proseguire non tiene conto, in
particolare,  del  fatto  che  nell'ambito  del giudizio arbitrale la
volonta'  delle  parti di attribuire la cognizione sulla lite in atto
(o  potenzialmente  in  atto)  ad  un  organo privato si manifesta al
momento  del  compromesso,  dovendosi  riconoscere alla notificazione
della   domanda  arbitrale  il  diverso  e  piu'  limitato  ruolo  di
rappresentare   il  momento  di  produzione  dei  principali  effetti
sostanziali e processuali della domanda giudiziale.
    Ne'  e'  possibile  giustificare  l'operato  del legislatore, che
incide  irragionevolmente  sulla volonta' delle parti di scegliere le
forme   di  tutela  del  proprio  diritto  con  effetti  retroattivi,
richiamando  l'istituto  della  perpetuatio iurisdictionis, nel senso
che  puntualmente sarebbe stato rispettato dalla legge nella parte in
cui   esclude   dal   divieto  di  devoluzione  in  arbitri  le  sole
controversie  per  le  quali  sia gia' stata notificata la domanda di
arbitrato.
    Ed  infatti, l'istituto della perpetuatio costituisce espressione
di  un  principio  di  diritto  intertemporale, in forza del quale la
validita'   ed   efficacia   degli  atti  del  processo  deve  essere
considerata alla stregua della legge vigente al momento in cui l'atto
e'  stato compiuto. Ne consegue che, una volta che sia legittimamente
espressa  la  volonta'  delle  parti  di  affidare la decisione ad un
giudice  privato,  sulla  base  della  legge vigente al momento della
formazione   dell'atto,   non   appare   consentita   una  successiva
sottrazione  di  «competenza» all'organo arbitrale, e cio' proprio in
applicazione dello stesso canone della perpetuatio.
    A  cio'  si  aggiunga  come  al  momento della proposizione della
domanda  arbitrale  «il  giudice» chiamato a decidere la controversia
non  si  sia  ancora  costituito, potendosi concretamente riconoscere
investito  della  questione  solo  al momento della sua accettazione.
Questa  non irrilevante differenza tra giustizia statale (nella quale
vi  e'  un  giudice  che  e' costituito preventivamente all'insorgere
della   lite,  e  al  quale  le  parti  si  rivolgono  attraverso  la
proposizione  della  domanda) e giustizia privata (caratterizzata dal
fatto  che  solo  dopo  la  notificazione  della  domanda  si compone
concretamente   l'organo   decidente),   lungi  dall'attribuire  alla
notificazione  della  domanda il significato di momento a partire dal
quale  si  consolida  la  giurisdizione  arbitrale,  deve  condurre a
riconoscere  come  all'atto  della  stipula  del  compromesso o della
clausola  compromissoria  si  sia  realizzata  la precostituzione del
giudice.
    In  questo momento, infatti, nasce il diritto delle parti a veder
decisa la lite dagli arbitri, si precostituisce il loro affidamento a
che  la  tutela  processuale  delle  loro  situazioni  soggettive sia
legittimamente  sottratta  all'imperio  statale,  si  esprime la loro
autonomia  privata,  costituzionalmente  garantita,  e  che  non puo'
essere irragionevolmente soppressa mediante effetti retroattivi.
    Peraltro,   la   denunciata   irragionevolezza  della  norma  che
individua  come  momento  di  passaggio  tra  la  vecchia  e la nuova
disciplina quello della proposizione della domanda arbitrale, diviene
ancor  piu'  manifesta  se  si  assume quale tertium comparationis il
d.lgs.  2 febbraio  2006,  n. 40,  che  ha  modificato  il  codice di
procedura civile.
    Esso,  infatti,  ha differenziato l'entrata in vigore delle nuove
disposizioni,  sulla  base  della  natura, sostanziale o procedurale,
delle  stesse. Piu' specificamente le modifiche introdotte nel Capo I
del  Titolo  VIII  del  codice di procedura civile, che disciplina la
convenzione  d'arbitrato,  produce  effetti  soltanto per le clausole
compromissorie  sottoscritte  dopo  l'entrata  in vigore del decreto,
mentre  le  norme  riguardanti  lo  svolgimento  della  procedura  si
applicano  a  tutti  gli  arbitrati  per i quali la domanda sia stata
proposta successivamente all'entrata in vigore della riforma.
    E'  evidente  che queste disposizioni sono rispettose della ratio
complessiva  dell'istituto  arbitrale, riconoscendo la sottoscrizione
della  clausola  compromissoria  come momento iniziale del rapporto e
dunque  come  momento  in  cui  sorge  il  diritto  delle parti a far
decidere la controversia da arbitri.
    In  quest'ottica,  la norma censurata, se paragonata a quelle del
d.lgs. n. 40/2006, integra una evidente disparita' di trattamento nei
confronti  di  tutti coloro i quali avevano sottoscritto una clausola
compromissoria   prima   dell'entrata  in  vigore  del  decreto-legge
n. 180/1998,   che   irragionevolmente,   a   differenza   di  quanto
correttamente  deciso  in  sede  di riforma organica della disciplina
dell'arbitrato,  ha  individuato  come  momento di separazione tra la
vecchia e la nuova norma quello della proposizione della domanda.
    2.4.  -  Violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., violazione
degli  artt. 3  e 41 cost. sotto ulteriore profilo: discriminazione a
rovescio.
    Sotto  ulteriori aspetti, anch'essi subordinati al pari di quello
illustrato al punto 2.3 che precede, le norme denunciate si pongono -
ad  avviso  del Collegio remittente - in contrasto con gli artt. 117,
3, e 41 della Costituzione.
    Come  e'  noto,  in  ambito  comunitario i principi di parita' di
trattamento   tra   gli   operatori,  di  non  discriminazione  e  di
trasparenza impongono di tenere immutabili le condizioni contrattuali
rappresentate   alle   imprese   accorrenti   all'appalto   ai   fini
dell'offerta, che deve essere necessariamente calibrata tenendo conto
di  tutti gli elementi che possono influire sul corrispettivo offerto
o negoziato ovvero sulla valutazione dell'offerta nel suo complesso.
    Insegna  in  proposito  la Corte di giustizia, con considerazioni
ora  recepite  anche  dal  Consiglio  di  Stato  italiano  (Corte  di
giustizia,  24 novembre  2005  in causa C-331/2004; id., 17 settembre
2002  in  causa  C-513/1999; id., 18 ottobre 2001 in causa C-19/2000;
Cons.  Stato, 6ª, 14 settembre 2006, n. 5323), che non possono essere
variati  o  aggiunti  elementi  che, se fossero stati noti al momento
della  preparazione  delle  offerte,  avrebbero potuto influenzare la
detta preparazione (cosi' Corte di giustizia, 24 novembre 2005 cit.).
    Il  dictum  della  Corte, sebbene pronunciato in una controversia
relativa  alla  fissazione  postuma (rispetto al bando) di criteri di
valutazione   delle   offerte,   risulta  derivare  direttamente  dai
principi,  rinvenibili  nel Trattato (artt. 49 ss.) e nelle direttive
di  settore  (71/305;  89/440; 93/37), di parita' di trattamento e di
non discriminazione.
    Afferma  infatti  la  Corte  (sent. 24 novembre 2005 cit.) che il
dovere   di   rispettare  il  principio  di  parita'  di  trattamento
corrisponde  all'essenza stessa delle direttive in materia di appalti
pubblici  (sent.  17 settembre  2002 cit.) e che i concorrenti devono
trovarsi  su un piano di parita' nel momento in cui essi preparano le
loro  offerte  (sent.  18 ottobre  2001  cit.):  di qui il divieto di
modificare ex post le condizioni conosciute all'atto dell'offerta.
    Puntuale  riscontro  del  saldo  ancoraggio  delle  direttive  di
settore  ai  principi  espressi  dal  trattato si evince, invero, dai
considerando  X  e  XI  della  direttiva  93/37  (vigente al tempo di
entrata  in  vigore  delle  norme qui denunciate), VI della direttiva
89/440,  IX  e X della direttiva 71/305, laddove si sottolinea che le
informazioni  contenute nei bandi devono permettere agli imprenditori
di  valutare  se gli appalti proposti presentino per loro interesse e
che  occorre dar loro una sufficiente conoscenza delle prestazioni da
fornire e delle relative condizioni.
    Tra  tali  condizioni assume rilievo significativo, ai fini della
predisposizione  o  negoziazione dell'offerta, la possibilita' o meno
di  deferimento  agli  arbitri  delle  controversie, in ragione della
enorme  divaricazione  tra  i tempi della giustizia onoraria e quelli
della   giustizia  togata  civile,  gia'  illustrata  in  precedenza;
cosicche'   l'invalidazione  postuma  della  clausola  compromissoria
liberamente  sottoscritta  dalle  parti determina un rilevante vulnus
dei principi che devono governare, secondo il diritto comunitario, la
conclusione  del  contratto di appalto (o dell'equiparata concessione
di sola costruzione, come nella specie).
    Le  norme  nazionali  oggi  all'esame  del  Collegio contrastano,
quindi,  con  la  normativa  comunitaria  richiamata e con i principi
generali  del  diritto  comunitario ivi espressi, nella misura in cui
modificano   le   condizioni  conosciute  al  tempo  dello  stipulato
contratto.
    E  a  seguito  della  riforma  di  cui  alla legge costituzionale
18 ottobre   2001,   n. 3,   che   ha   modificato  l'art. 117  della
Costituzione,  quest'ultimo puo' essere assunto quale parametro della
legittimita'  costituzionale  delle leggi che si pongono in contrasto
con le norme comunitarie.
    L'art. 117,  comma  1,  del nuovo testo dispone, infatti, che «la
potesta'  legislativa  e'  esercitata dallo Stato e dalla Regione nel
rispetto   della   Costituzione,   nonche'   dei   vincoli  derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
    Si   tratta  di  una  disposizione  che  potrebbe  consentire  il
superamento  dello  schema dei rapporti tra norme interne e normativa
comunitaria  conformato  dalla sentenza 5 giugno 1984, n. 170, ovvero
il superamento della concezione dei due ordinamenti distinti, seppure
coordinati,   per   addivenire   ad  una  concezione  monista  di  un
ordinamento  gerarchicamente organizzato, al cui vertice si pongono i
principi  fondamentali  della Costituzione ed i principi generali del
diritto comunitario.
    D'altra   parte  codesta  ecc.ma  Corte  costituzionale  ha  gia'
utilizzato  il primo comma, art. 117, quale parametro di legittimita'
costituzionale  di  una legge con la sentenza 3 novembre 2005, n. 406
nella quale la legge regionale Abruzzo 1° aprile 2004, n. 14 e' stata
dichiarata   costituzionalmente   illegittima   poiche',  essendo  in
contrasto  con  la  normativa  comunitaria,  violava  il  primo comma
dell'art. 117 che nel suo testo novellato impone alla legge statale e
alla legge regionale di rispettare gli obblighi derivanti dal diritto
comunitario.
    Sotto   ulteriore  profilo,  sembra  al  Collegio  che  le  norme
nazionali  denunciate, nella parte in cui fanno salve solo le domande
arbitrali  anteatte e non tutti i contratti gia' stipulati contenenti
clausola   compromissoria,   determinino   una   situazione  c.d.  di
«discriminazione  a  rovescio»  (Corte  cost.,  n. 30 dicembre  1997,
n. 443)  a  danno  degli  operatori  colpiti  da tale divieto, che in
ambito  comunitario  non  sarebbe  consentito stabilire in virtu' dei
principi  richiamati  dalle citate sentenze della Corte di giustizia;
discriminazione,  questa,  di  ordine  soggettivo,  da cui non appare
disgiunta la discriminazione di tipo territoriale.
    Anche per tale ragione, quindi, le norme denunciate si pongono in
contrasto  con il congiunto operare degli artt. 3 e 41 Cost. giacche'
in ambito comunitario nessuna altra norma interna potrebbe imporre, e
di   fatto   nessuna   altra   norma   degli   Stati  membri  impone,
l'invalidazione  postuma  di  una  clausola contrattuale rilevante ai
fini della predisposizione o negoziazione dell'offerta.
                              P. Q. M.
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'   costituzionale  dell'art. 3,  comma  2,  decreto-legge
11 giugno  1998,  n. 180,  convertito in legge 3 agosto 1998, n. 267,
dell'art. 8,   lett.  d)  del  d.lgs.  20 settembre  1999,  n. 354  e
dell'art. 1,  comma  2-quater,  decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15,
convertito  in  legge  8 aprile  2003,  n. 62,  per contrasto con gli
artt. 3, 41, 42, 24, 25, 97 e 117 della Costituzione.
    Dispone  la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti
alla Corte costituzionale.
    Ordina  che  la presente ordinanza sia notificata alle parti e al
Presidente  del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti
delle due Camere del Parlamento.
    Cosi' deciso in conferenza personale degli Arbitri nelle riunioni
del  26 ottobre  2006  e  8 novembre  2006 nella sede del Collegio in
Napoli   ove  l'ordinanza  viene  di  seguito  sottoscritta  in  data
11 novembre 2006.
                        Il Presidente: Marone
07C0528