N. 280 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 novembre 2006
Ordinanza emessa il 11 novembre 2006 dal collegio arbitrale di Napoli nell'arbitrato in corso tra Consorzio CPR2 contro Curia Arcivescovile di Napoli Arbitrato - Controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali - Divieto di devoluzione a collegi arbitrali - Contrasto con il complessivo quadro normativo teso a favorire la composizione delle liti tra P.A. e privati in sede alternativa a quella giudiziaria - Denunciata lesione del principio di ragionevolezza sotto i profili dell'ingiustificata distinzione normativa dei cd. «arbitrati da calamita» e della disparita' di trattamento rispetto ai giudizi arbitrali introdotti con atto notificato anteriormente alla data di entrata in vigore dell'impugnato divieto legislativo - Asserita violazione dei principi costituzionali relativi alla liberta' di iniziativa economica privata - Denunciata lesione del diritto di difesa e del principio del giudice naturale precostituito per legge - Asserita violazione dei limiti alla potesta' legislativa statale derivanti dall'ordinamento comunitario - Incidenza sui principi di buon andamento e imparzialita' della pubblica amministrazione. - Decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180, art. 3, comma 2, convertito nella legge 3 agosto 1998, n. 267; decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354, art. 8, comma 1, lett. d); decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, art. 1, comma 2-quater, convertito nella legge 8 aprile 2003, n. 62. - Costituzione, artt. 3, 24, 25, 41, 42, 97 e 117.(GU n.17 del 2-5-2007 )
IL COLLEGIO ARBITRALE Ha pronunziato la seguente ordinanza per la risoluzione della controversia insorta tra il Consorzio CPR2, con sede in Pozzuoli (Napoli) alla via Campana n. 268, in persona del legale rappresentate pro tempore, rappresentato a difeso dagli avvocati prof. Vincenzo Spagnuolo Vigorita, prof. Bruno Capponi e Domenica Di Falco, e presso il primo elettivamente domiciliato in Napoli alla via Posillipo n. 394 e la Curia Arcivescovile di Napoli, con sede in Napoli al Largo Donnaregina n. 22, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti prof. Aristide Police e Ivan Del giudice, e presso il secondo elettivamente domiciliata in Napoli alla via Scarlatti n. 211/e. F a t t o 1. - Con atto introduttivo di arbitrato, notificato alla Curia Arcivescovile di Napoli in data 9 marzo 2006, il Consorzio CPR2 dichiarava che con convenzione del 31 luglio 1981, rep. n. 4 e successivi atti aggiuntivi del 7 febbraio 1985, rep. n. 46 e del 15 gennaio 1986, rep. n. 82, il sindaco di Napoli - Commissario straordinario di Governo, aveva affidato in concessione la realizzazione dei lavori di costruzione di alloggi ed opere di urbanizzazione primaria e secondaria del comparto 7 in San Pietro a Patierno. Precisava che, nell'ambito del rapporto concessorio, rientrava la realizzazione di un intervento per la realizzazione di una Chiesa in via Caloria, in ordine al quale, nel corso dell'esecuzione, veniva redatta perizia di variante che prorogava il termine di consegna dei lavori di centocinquanta giorni; termine ulteriormente prorogato per la necessita' di ottenere i nullaosta per l'agibilita' e le fognature. Dopo l'ultimazione dei lavori, al Consorzio veniva affidata la realizzazione di ulteriori lavorazioni. Nelle more dell'esecuzione dei lavori, l'opera (nello stato in cui si trovava) veniva trasferita, con ordinanza n. 12827 del 27 marzo 1996, alla Curia Arcivescovile di Napoli, secondo quanto disposto dal decreto ministeriale 4 novembre 1994 adottato in virtu' dell'art. 2, legge 23 dicembre 1993, n. 559, con il quale erano stati individuati dal Ministero del bilancio e della programmazione economica gli enti ai quali trasferire le opere realizzate nel quadro del programma straordinario di edilizia residenziale a Napoli, di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981. I lavori, in attesa del perfezionamento del trasferimento, venivano interrotti fino all'aprile 1997 e ultimati nel luglio dello stesso anno. Nel gennaio del 1998 l'opera veniva definitivamente consegnata alla Curia. Con il citato atto introduttivo d'arbitrato il Consorzio CPR2 chiede alla Curia Arcivescovile di Napoli, in ragione del mancato collaudo dell'opera, i maggiori oneri derivanti dal servizio di guardiania ed i maggiori oneri derivanti dalla manutenzione dell'opera. Con lo stesso atto il Consorzio CPR2 nominava proprio arbitro l'avv. Raffaele Ferola ed invitava la Curia Arcivescovile di Napoli a procedere alla nomina del proprio arbitro. 2. - La Curia Arcivescovile di Napoli, con atto del 16 maggio 2006, nominava proprio arbitro il prof. avv. Mario Rosario Spasiano e designava altresi' i propri difensori. Gli arbitri, con verbale del 25 maggio 2006, designavano terzo arbitro, con funzioni di Presidente del Collegio, l'avv. Gherardo Marone che accettava. Nella stessa data si costituiva il Collegio arbitrale, fissando la propria sede in Napoli alla via Cesario Console n. 3, nello studio dell'avv. Gherardo Marone e veniva designato quale segretario del Collegio l'avv. Francesco Marone. 3. - Il Collegio fissava i termini per lo svolgimento del giudizio e, rilevata ex officio la necessita' di valutare, ai fini della procedibilita' dell'arbitrato, l'applicabilita' nella fattispecie dell'art. 1, comma 2-quater, decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, convertito in legge 8 aprile 2003, n. 62, invitava le parti a dedurre sul punto in occasione della costituzione in giudizio. Con memoria depositata in data 26 giugno 2006 la difesa della parte attrice ha sollevato la questione di legittimita' costituzionale della norma di cui all'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180 convertito in legge 3 agosto 1998, n. 267, la cui vigenza e' ribadita dall'espresso richiamo contenuto nell'art. 1, comma 2-quater del decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, convertito in legge 8 aprile 2003, n. 62. Si tratta della norma alla stregua della quale «Le controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali non possono essere devolute a Collegi arbitrali». Con memoria di costituzione depositata in data 26 giugno 2006, la difesa della Curia, nel controdedurre alle eccezioni di controparte, si rimetteva al Collegio in ordine alla valutazione preliminare della questione di costituzionalita'. Il Collegio, dunque, sentite le parti all'udienza del 17 luglio 2006, non puo' che passare all'esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata. D i r i t t o 1. - Sulla rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. Il decreto-legge 6 novembre 1998, n. 180, convertito in legge 3 agosto 1998, n. 267, al comma 2 dell'art. 3 prevede che «le controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali non possono essere devolute a collegi arbitrali». Successivamente e' intervenuto il decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354 recante disposizioni sulla definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981. In particolare l'art. 8 del citato decreto legislativo n. 354/1999 non lascia adito a dubbi circa l'applicabilita' della norma di cui all'art. 3, comma 2, decreto-legge n. 180/1998 anche alle opere pubbliche di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981, laddove dispone che il Commissario straordinario liquidatore ai fini della transazione considera «I giudizi ordinari o arbitrali in corso o le istanze di accesso ad arbitrato notificate prima della data di entrata in vigore del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180». Il combinato disposto dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 180/1998 e della lett. d) dell'art. 8 del decreto legislativo n. 354/1999 non lascia spazio interpretativo e cioe' non puo' che essere letto nel senso che anche le controversie relative alla esecuzione di opere pubbliche inerenti gli interventi di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981, pur non direttamente collegati a calamita' naturali, non possono essere devolute a Collegi arbitrali. In seguito l'art. 7, comma 1, lett. v), della legge 1° agosto 2002, n. 166, ha aggiunto il comma 4-bis all'articolo 32 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, alla stregua del quale «Sono abrogate tutte le disposizioni che, in contrasto con i precedenti commi, prevedono limitazioni ai mezzi di risoluzione delle controversie nella materia dei lavori pubblici come definita dall'articolo 2». Da questa disposizione, contenente una generale clausola abrogativa di tutte le norme di limitazione dei mezzi di risoluzione delle controversie nella materia delle opere pubbliche, discenderebbe l'abrogazione tacita anche dell'art. 3, comma 2, decreto-legge n. 180/1998, poiche' non e' revocabile in dubbio che essa indichi una espressa limitazione dei mezzi di risoluzione delle controversie in materia di lavori pubblici, escludendo la possibilita' di devolvere ad arbitri le liti eventualmente nascenti dall'esecuzione di opere di ricostruzione successive a calamita' naturali. Tuttavia, il decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, convertito in legge 8 aprile 2003, n. 62, ha stabilito, con l'art. 1, comma 2-quater, che «alle controversie derivanti dall'esecuzione di opere pubbliche inerenti programmi di ricostruzione dei territori colpiti da calamita' naturali, ivi compresi gli interventi derivanti dall'applicazione della legge 14 maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni, continua ad applicarsi il disposto di cui all'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180 convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 1998, n. 267». Di conseguenza, tralasciando i problemi inerenti la reviviscenza degli atti normativi, che non assumono rilievo ai fini del presente giudizio in quanto introdotti dopo l'entrata in vigore del decreto-legge n. 15/2003, deve concludersi che la norma che vieta di devolvere ad arbitri le controversie di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981 e' ancora vigente nell'ordinamento. Vi e', dunque, un insuperabile impedimento (anche interpretativo) a che il Collegio addivenga alla decisione della controversia di cui all'atto di accesso notificato il 9 marzo 2006 dal Consorzio CPR2; questa, infatti, rientra tra quelle aventi titolo ex lege n. 219/1981 ed e', pertanto, evidente che la normativa della cui legittimita' si dubita debba trovare applicazione nel giudizio devoluto a questo Collegio arbitrale, risultando impeditiva della pronuncia sulle richieste avanzate nell'atto di accesso. 2. - Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale. Il Collegio ritiene che siano fondati i dubbi sulla legittimita' costituzionale della disciplina normativa che impedisce di pronunciarsi con lodo sulle richieste avanzate nell'atto di accesso. Si procede, quindi, ad esplicitare le ragioni per le quali si ritiene sussista la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 2-quater, del decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, convertito in legge 8 aprile 2003, n. 62, dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180, convertito in legge 3 agosto 1998, n. 267 e dell'art. 8, lett. d), del decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354, per violazione degli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione. 2.1. - Contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Irragionevolezza. E' noto al Collegio che la Corte costituzionale ha gia' affrontato la questione, risolvendola nel senso della infondatezza dei denunciati vizi di legittimita' costituzionale, con la sentenza 28 novembre 2001, n. 376 e con le ordinanze 13 gennaio 2003, n. 11 e 26 marzo 2003, n. 122. Con particolare riferimento alla asserita violazione dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, la Corte, dopo aver ribadito che la discrezionalita' del legislatore incontra il solo limite della manifesta irragionevolezza, ha precisato che nella fattispecie quel limite non poteva ritenersi superato «considerato il rilevante interesse pubblico di cui risulta permeata la materia relativa alle opere di ricostruzione dei territori colpiti da calamita' naturali, anche in ragione dell'elevato valore delle relative controversie e della conseguente entita' dei costi che il ricorso ad arbitrato comporterebbe per le pubbliche amministrazioni interessate» (Corte costituzionale, 28 novembre 2001, n. 376). Si tratta di affermazioni certamente condivisibili, ma che non spiegano in che modo l'esclusione della compromettibilita' in arbitri delle controversie eventualmente nascenti dai contratti stipulati per la ricostruzione, possa connettersi alla presenza di interessi pubblici sottesi alla realizzazione di opere successive ad una calamita' naturale. La Corte costituzionale non ha potuto affrontare con completezza la questione perche', naturalmente, ha dovuto limitarsi ad uno scrutinio interno al thema decidendum definito con le ordinanze di rimessione, che invero non sembrano aver colto pienamente la misura del vizio di ragionevolezza che affligge la norma denunciata. Il punto nodale della questione appare essere l'esistenza di un legame tra la causa per la quale si decide di appaltare un'opera pubblica e la disciplina dell'arbitrato, ovvero, piu' chiaramente, se la ragione contingente sottesa alla decisione di realizzare un opera possa giustificare un'eccezione alla regola generale della possibilita' di devolvere ad arbitri eventuali controversie derivanti da un contratto di appalto. Sembra, piuttosto, che la liberta' delle parti di deferire ad arbitri eventuali controversie non possa essere in alcun modo collegata alle ragioni congiunturali (calamita' naturale) che hanno portato alla decisione dell'Amministrazione di realizzare l'opera pubblica. La compatibilita' della norma denunciata con il principio di ragionevolezza deve, quindi, essere verificata in termini parzialmente diversi. E la norma impugnata, esaminata sotto diverso angolo visuale, risulta viziata da irragionevolezza, poiche' individua una disciplina speciale per una determinata classe di ipotesi che pero', a ben vedere, non si differenzia dalle altre sotto il profilo della compatibilita' con la ratio sottesa alla disciplina generale dell'arbitrato. Piu' precisamente si individua una sotto-categoria di arbitrati, caratterizzati dal fatto di riguardare contratti pubblici aventi ad oggetto la realizzazione di opere pubbliche originate da una calamita' naturale. Dunque l'elemento di discrimine, all'interno della materia opere pubbliche, tra le controversie che possono essere devolute ad arbitri e quelle che, invece, vi sono sottratte, e' costituito dalla circostanza che il contratto, all'interno del quale si e' inserita la clausola compromissoria, sia stato originato dalla necessita' di appaltare lavori pubblici a seguito di un evento calamitoso o, viceversa, da qualsiasi altra esigenza ritenuta meritevole dalla p.a. in quanto comunque rispondente ad un pubblico interesse. Ma la ragione per la quale un'amministrazione decide di realizzare un'opera pubblica e' assolutamente irrilevante, considerato che non vi e' differenza nelle modalita' di affidamento e di esecuzione e quindi nella possibilita' che dai contratti stipulati sorgano controversie. Piu' chiaramente non e' dato comprendere quale differenza vi sia tra appaltare, ad esempio, i lavori di ristrutturazione di un edificio pubblico rovinato dall'usura del tempo piuttosto che da una calamita' naturale. Il fatto che le opere siano collegate ad una calamita' naturale non influisce in alcun modo sulle modalita' del loro affidamento, sulla tutela del pubblico interesse ne' sul contenzioso, ne' quindi sulla logica della compromettibilita' in arbitri delle controversie eventualmente scaturenti dal contratto stipulato tra l'amministrazione e l'appaltatore. L'interesse pubblico sotteso alla realizzazione di un'opera pubblica non muta in ragione della causa che ha originato la decisione di realizzare l'opera stessa. E gli interessi nascenti dalla realizzazione di un'opera - e, dunque, anche l'eventuale contenzioso - sono esattamente gli stessi, indipendentemente dalla finalita' dell'opera e dall'evento a causa del quale si e' deciso di appaltare i lavori. Se vi saranno ritardi, sospensione dei lavori, riserve, penali, che potranno dar luogo ad un contenzioso tra l'appaltatore e l'amministrazione, questo e' del tutto indipendente dalla congiuntura in cui si inquadra l'opera realizzanda, ma attiene soltanto alle modalita' e ai tempi di esecuzione, che non sono in relazione con la finalita' cui la realizzazione dell'opera e' funzionale. In sintesi, la norma impugnata ha sottratto all'applicazione della regola generale, secondo cui le controversie derivanti dall'esecuzione di contratti pubblici relativi alla realizzazione di opere pubbliche possono essere deferite a Collegi arbitrali, una classe di ipotesi (c.d. arbitrati da calamita), caratterizzata dal fatto che il contratto e' relativo alla realizzazione di opere pubbliche necessarie a far fronte ad una calamita' naturale. La distinzione e' manifestamente irragionevole, poiche' disciplina in modo diseguale fattispecie del tutto analoghe, ne', ai fini in questione, sembrano in qualche modo rilevare il valore economico delle controversie ed il costo di funzionamento del Collegio arbitrale. E' evidente, da un lato, che il costo di un'opera pubblica e' assolutamente slegato dalla ragione per la quale si e' deciso di realizzare quell'opera (la messa in sicurezza di una strada danneggiata da un'alluvione costa certamente molto meno della realizzazione del ponte sullo stretto di Messina, che nulla ha a che vedere con eventi calamitosi). Sussistono opere pubbliche di valore economico ingentissimo che prescindono dal prodursi di eventi calamitosi e che non per questo sono sottratte all'accesso a procedure arbitrali, con ricorso all'applicazione delle tariffe professionali, anch'esse in nulla condizionate dalla circostanza che la controversia da risolvere riguardi opere connesse a calamita' naturali piuttosto che a qualunque altra ragione di interesse pubblico. Con la precisazione che il Legislatore, nella sua opera di bilanciamento dei valori che venivano in rilievo, sembra non aver tenuto assolutamente conto dei vantaggi, anche economici, derivanti dalla devoluzione ad arbitri delle controversie. E' vero che le parti devono far fronte alle spese di funzionamento del Collegio arbitrale, ma e' altrettanto vero che il codice di procedura civile assegnava un termine perentorio di centottanta giorni (oggi duecentoquaranta) agli arbitri per definire la controversia, il che vuol dire che una lite devoluta ad arbitri si chiude necessariamente in un tempo brevissimo, restando comune, quanto ai tempi, la fase della impugnativa in secondo grado. Di contro la media di risoluzione di una controversia civile, mediante la giustizia ordinaria, e' di circa dieci anni. Ed il fatto che vi sia una cosi' evidente sproporzione nei tempi di definizione della controversia non puo' che avere anche riflessi di natura economica per la pubblica amministrazione, non fosse altro per gli interessi e la svalutazione che maturano nel caso di soccombenza e che il piu' delle volte conducono ad un incremento notevolissimo della spesa pubblica rispetto alla sorta capitale dovuta. Il maggior costo delle procedure arbitrali rispetto al ricorso alla giustizia ordinaria va valutato dunque non in astratto, ma deve costituire il frutto di una piu' ampia e complessiva valutazione di ordine economico, considerando peraltro, nella stessa prospettiva, che l'eccessiva durata del processo civile - come noto - costituisce talora di per se' causa di fallimento per le imprese, impossibilitate a reggere l'elevatissimo costo derivante dall'esposizione bancaria alla quale le stesse sono costrette a ricorrere anche a causa dei lunghissimi tempi d'attesa necessari alle definizione delle controversie. Anche questo dato, profondamente negativo sotto il profilo socio-economico, costituisce un elemento di valutazione che oggettivamente induce a riconsiderare l'astratta pretesa di eccessiva onerosita' delle procedure arbitrali. Ma l'irragionevolezza della norma che si assume viziata e' ancor piu' evidente se organicamente letta nel quadro delle norme dettate dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163. La lettera d) del comma 34 dell'art. 253 del citato d.lgs. stabilisce: «Sono abrogate tutte le disposizioni che, in contrasto con la disciplina del presente codice, prevedono limitazioni ai mezzi di risoluzione delle controversie nella materia dei contratti pubblici e relativi a lavori, servizi e forniture o contemplano arbitrati obbligatori. E' salvo il disposto dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998 n. 180, convertito dalla legge 8 agosto 1998, n. 267 e dall'art. 1, comma 2-quater, del decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, convertito dalla legge 8 aprile 2003, n. 15». E il comma 1 dell'art. 241 prevede: «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell'accordo bonario previsto dall'art. 240, possono essere deferite ad arbitri». Si tratta di disposizioni irrilevanti in questo giudizio, poiche' inapplicabili ex art. 253, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, come sostituito dall'art. 1-octies, decreto-legge n. 173/2006 convertito in legge n. 228/2006, ma che tuttavia sono utili per comprendere appieno la irragionevolezza della distinzione operata dal legislatore. E' evidente che le citate norme del nuovo codice dei contratti pubblici fanno applicazione di un principio generale di massima liberta' di scelta dei mezzi di risoluzione delle controversie inerenti l'esecuzione dei contratti pubblici. Ed in questo quadro risulta assolutamente ingiustificata la sottrazione a questa regola generale delle sole controversie inerenti le opere pubbliche connesse a calamita' naturali. Sia consentito notare che, pur non essendo le citate norme del codice dei contratti pubblici rilevanti in questo giudizio, codesta ecc.ma Corte costituzionale, qualora accogliesse la questione di legittimita' costituzionale sollevata dovrebbe dichiarare incostituzionale in parte qua, in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, l'art. 253, comma 34, lett. d), seconda parte, del d.lgs. n. 163/2006. 2.1.1. - Sotto ulteriore profilo, va rilevato che le norme denunciate - attribuendo un regime normativo differenziato ad appalti oggettivamente e soggettivamente identici - ne individuano l'illegittima ratio nella genesi remota della necessita' di provvedere (all'esecuzione dell'opera), facendo cosi' coincidere tale causa remota con un criterio di localizzazione territoriale. In tal modo si determina una discriminazione di tipo territoriale non solo rispetto al piu' ampio ambito comunitario - ove e' consentito che la disciplina degli appalti si differenzi da quella generale solo per particolari oggetti o determinati soggetti aggiudicatori, senza alcun «privilegio» di tipo territoriale ma anche nel piu' ristretto territorio nazionale, laddove le imprese operanti nei luoghi colpiti da calamita' naturali, anche per lavori connessi a finalita' di sviluppo e non certo di ricostruzione (si pensi all'ampliamento dell'originario titolo VIII legge n. 219/1981 con le previsioni di cui agli art. 5-bis e 5-ter, legge n. 456/1981, che concernono grandi infrastrutture), si trovano a subire un trattamento ingiustificatamente differenziato rispetto a quelle operanti in altri distretti del paese, per di piu' in un sistema che considera giudice naturale della esecuzione degli appalti il giudice onorario. 2.2. - Contrasto con gli artt. 41 e 42 della costituzione. La norma oggetto della questione di legittimita' costituzionale che si solleva in questa sede risulta essere in contrasto anche con il principio della liberta' dell'iniziativa economica privata di cui agli artt. 41 e 42 della Costituzione, limitando irragionevolmente l'autonomia privata. E' vero che la liberta' di iniziativa economica non e' un diritto assoluto, ma puo' e deve essere condizionata per orientare finalisticamente l'intrapresa economica all'utilita' sociale, ma le limitazioni debbono essere, oltre che ragionevoli, collegabili ad un pubblico interesse prevalente. Piu' chiaramente, l'autonomia privata e' libera fintantoche' non vi sia una finalita' sociale il cui perseguimento richieda di limitarla. La regola generale e' dunque quella della massima ampiezza dell'autonomia privata, e le limitazioni ne rappresentano l'eccezione. Con specifico riferimento alla questione che qui interessa, la regola generale e' dunque quella della possibilita' di derogare alla giurisdizione comune per affidarsi ad arbitri privati. Non vi e' dubbio che anche questa regola possa subire eccezioni, ma esse devono essere connesse ad un interesse pubblico che nella fattispecie non appare riscontrabile, di talche' la limitazione dell'autonomia privata appare nella specie arbitraria. E la questione non sembra doversi leggere nell'ottica della legittima distinzione di situazioni identiche ratione temporis. Il problema non e' se il legislatore possa o meno disciplinare in modo diverso una situazione in diversi momenti storici, individuando quindi, inevitabilmente, una differenziazione di disciplina per rapporti giuridici identici a seconda del momento in cui questi sono sorti; si tratta evidentemente delle normali regole di successione delle norme nel tempo, informate al principio del tempus regit actum. Nella fattispecie non si tratta del semplice avvicendarsi di due discipline legislative, ma della sottrazione alla regola generale secondo cui e' possibile deferire ad arbitri le controversie nascenti dai contratti pubblici relativi a lavori, di una classe di ipotesi che nulla hanno di diverso rispetto alle altre e che rappresentano, quindi, una arbitraria ed irragionevole compressione dell'autonomia privata. E cio' sia detto non senza considerare che l'utilita' sociale idonea a costituire limite all'autonomia privata deve necessariamente consistere (non in un interesse contingente dello Stato-apparato ma) in un beneficio di ordine generale della collettivita': vi e' dunque un'antinomia di fondo nel considerare utilita' sociale cio' che determina sperequazioni di tipo soggettivo e territoriale. 2.3. - Ulteriore contrasto con gli artt. 41 e 42 e con gli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione. Qualora codesta ecc.ma Corte costituzionale ritenesse non sussistente la illegittimita' costituzionale della norma che sottrae alle parti la possibilita' di compromettere in arbitri le controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali, il Collegio rileva un ulteriore motivo di illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 2, decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180, nella parte in cui esclude dall'applicazione della norma di cui al primo periodo soltanto «Le controversie per le quali sia stata gia' notificata la domanda di arbitrato alla data di entrata in vigore del presente decreto» e non tutte quelle relative a contratti gia' stipulati, contenenti clausola compromissoria. Una tale previsione, determinando la nullita' retroattiva di tutte le clausole compromissorie precedentemente stipulate, viola l'art. 41 della Costituzione in combinato disposto con gli artt. 24 e 25. Una tale conclusione discende dalle seguenti considerazioni. Per consolidato orientamento della Corte costituzionale, soprattutto in ordine al divieto di istituzione di arbitrati obbligatori, il fenomeno arbitrale trova il proprio riconoscimento costituzionale nell'art. 41, trattandosi di una delle modalita' di manifestazione dell'autonomia privata. Allo stesso tempo non e' dubbio che, attraverso il giudizio arbitrale, le parti esercitano il loro diritto di azione, costituzionalmente tutelato ex art. 24, tanto che - come chiarito dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 376/2001 - il giudizio degli arbitri e' potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione. L'affermazione della Corte costituzionale risulta oggi confermata dalla recente novella del codice di procedura civile che ha rivisto le norme riguardanti l'arbitrato (decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40). Da un lato e' stato introdotto l'art. 824-bis che ha stabilito, con riferimento all'efficacia del lodo arbitrale, che esso dalla data della sua ultima sottoscrizione ha «gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorita' giudiziaria»; dall'altro il nuovo testo dell'art. 829 del codice di procedura civile sembra avere ampliato le ipotesi di impugnazione del lodo. Ne risulta che alla fattispecie arbitrale non e' meccanicamente applicabile la giurisprudenza costituzionale in ordine alla possibilita', riconosciuta al legislatore, di disciplinare con effetti retroattivi i rapporti contrattuali pendenti, risultando coinvolte, nel caso dell'arbitrato, le forme attraverso le quali e' possibile ottenere la tutela della propria situazione soggettiva ed il «giudice» chiamato a riconoscere una tale tutela. In altri termini, al momento della sottoscrizione del compromesso, le parti (salvi i casi di incompromettibilita) hanno acquisito un diritto a che la definizione della lite avvenga nelle forme del giudizio arbitrale, precostituendosi cosi' l'organo destinato a definire ogni controversia che eventualmente dovesse insorgere tra le parti. La clausola compromissoria, infatti, assume una rilevanza specifica nell'economia dei rapporti tra le parti non potendosi in astratto escludere che in sua assenza le stesse sarebbero addivenute alle medesime pattuizioni contrattuali. Risulta cosi' chiaro come del tutto irragionevolmente il legislatore abbia ritenuto di fare salvi solo i procedimenti arbitrali nei quali era gia' stata notificata la domanda di arbitrato, e non quelli per i quali vi fosse stata la sottoscrizione della clausola compromissoria, attraverso la quale le parti avevano gia' concordato di devolvere ad un collegio arbitrale (sia pure concretamente da identificare) - e non ad un organo giurisdizionale statale - la decisione di future controversie eventualmente nascenti tra loro. La scelta di considerare la notificazione della domanda di arbitrato come elemento di riferimento in base al quale individuare i procedimenti arbitrali destinati a proseguire non tiene conto, in particolare, del fatto che nell'ambito del giudizio arbitrale la volonta' delle parti di attribuire la cognizione sulla lite in atto (o potenzialmente in atto) ad un organo privato si manifesta al momento del compromesso, dovendosi riconoscere alla notificazione della domanda arbitrale il diverso e piu' limitato ruolo di rappresentare il momento di produzione dei principali effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale. Ne' e' possibile giustificare l'operato del legislatore, che incide irragionevolmente sulla volonta' delle parti di scegliere le forme di tutela del proprio diritto con effetti retroattivi, richiamando l'istituto della perpetuatio iurisdictionis, nel senso che puntualmente sarebbe stato rispettato dalla legge nella parte in cui esclude dal divieto di devoluzione in arbitri le sole controversie per le quali sia gia' stata notificata la domanda di arbitrato. Ed infatti, l'istituto della perpetuatio costituisce espressione di un principio di diritto intertemporale, in forza del quale la validita' ed efficacia degli atti del processo deve essere considerata alla stregua della legge vigente al momento in cui l'atto e' stato compiuto. Ne consegue che, una volta che sia legittimamente espressa la volonta' delle parti di affidare la decisione ad un giudice privato, sulla base della legge vigente al momento della formazione dell'atto, non appare consentita una successiva sottrazione di «competenza» all'organo arbitrale, e cio' proprio in applicazione dello stesso canone della perpetuatio. A cio' si aggiunga come al momento della proposizione della domanda arbitrale «il giudice» chiamato a decidere la controversia non si sia ancora costituito, potendosi concretamente riconoscere investito della questione solo al momento della sua accettazione. Questa non irrilevante differenza tra giustizia statale (nella quale vi e' un giudice che e' costituito preventivamente all'insorgere della lite, e al quale le parti si rivolgono attraverso la proposizione della domanda) e giustizia privata (caratterizzata dal fatto che solo dopo la notificazione della domanda si compone concretamente l'organo decidente), lungi dall'attribuire alla notificazione della domanda il significato di momento a partire dal quale si consolida la giurisdizione arbitrale, deve condurre a riconoscere come all'atto della stipula del compromesso o della clausola compromissoria si sia realizzata la precostituzione del giudice. In questo momento, infatti, nasce il diritto delle parti a veder decisa la lite dagli arbitri, si precostituisce il loro affidamento a che la tutela processuale delle loro situazioni soggettive sia legittimamente sottratta all'imperio statale, si esprime la loro autonomia privata, costituzionalmente garantita, e che non puo' essere irragionevolmente soppressa mediante effetti retroattivi. Peraltro, la denunciata irragionevolezza della norma che individua come momento di passaggio tra la vecchia e la nuova disciplina quello della proposizione della domanda arbitrale, diviene ancor piu' manifesta se si assume quale tertium comparationis il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che ha modificato il codice di procedura civile. Esso, infatti, ha differenziato l'entrata in vigore delle nuove disposizioni, sulla base della natura, sostanziale o procedurale, delle stesse. Piu' specificamente le modifiche introdotte nel Capo I del Titolo VIII del codice di procedura civile, che disciplina la convenzione d'arbitrato, produce effetti soltanto per le clausole compromissorie sottoscritte dopo l'entrata in vigore del decreto, mentre le norme riguardanti lo svolgimento della procedura si applicano a tutti gli arbitrati per i quali la domanda sia stata proposta successivamente all'entrata in vigore della riforma. E' evidente che queste disposizioni sono rispettose della ratio complessiva dell'istituto arbitrale, riconoscendo la sottoscrizione della clausola compromissoria come momento iniziale del rapporto e dunque come momento in cui sorge il diritto delle parti a far decidere la controversia da arbitri. In quest'ottica, la norma censurata, se paragonata a quelle del d.lgs. n. 40/2006, integra una evidente disparita' di trattamento nei confronti di tutti coloro i quali avevano sottoscritto una clausola compromissoria prima dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 180/1998, che irragionevolmente, a differenza di quanto correttamente deciso in sede di riforma organica della disciplina dell'arbitrato, ha individuato come momento di separazione tra la vecchia e la nuova norma quello della proposizione della domanda. 2.4. - Violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., violazione degli artt. 3 e 41 cost. sotto ulteriore profilo: discriminazione a rovescio. Sotto ulteriori aspetti, anch'essi subordinati al pari di quello illustrato al punto 2.3 che precede, le norme denunciate si pongono - ad avviso del Collegio remittente - in contrasto con gli artt. 117, 3, e 41 della Costituzione. Come e' noto, in ambito comunitario i principi di parita' di trattamento tra gli operatori, di non discriminazione e di trasparenza impongono di tenere immutabili le condizioni contrattuali rappresentate alle imprese accorrenti all'appalto ai fini dell'offerta, che deve essere necessariamente calibrata tenendo conto di tutti gli elementi che possono influire sul corrispettivo offerto o negoziato ovvero sulla valutazione dell'offerta nel suo complesso. Insegna in proposito la Corte di giustizia, con considerazioni ora recepite anche dal Consiglio di Stato italiano (Corte di giustizia, 24 novembre 2005 in causa C-331/2004; id., 17 settembre 2002 in causa C-513/1999; id., 18 ottobre 2001 in causa C-19/2000; Cons. Stato, 6ª, 14 settembre 2006, n. 5323), che non possono essere variati o aggiunti elementi che, se fossero stati noti al momento della preparazione delle offerte, avrebbero potuto influenzare la detta preparazione (cosi' Corte di giustizia, 24 novembre 2005 cit.). Il dictum della Corte, sebbene pronunciato in una controversia relativa alla fissazione postuma (rispetto al bando) di criteri di valutazione delle offerte, risulta derivare direttamente dai principi, rinvenibili nel Trattato (artt. 49 ss.) e nelle direttive di settore (71/305; 89/440; 93/37), di parita' di trattamento e di non discriminazione. Afferma infatti la Corte (sent. 24 novembre 2005 cit.) che il dovere di rispettare il principio di parita' di trattamento corrisponde all'essenza stessa delle direttive in materia di appalti pubblici (sent. 17 settembre 2002 cit.) e che i concorrenti devono trovarsi su un piano di parita' nel momento in cui essi preparano le loro offerte (sent. 18 ottobre 2001 cit.): di qui il divieto di modificare ex post le condizioni conosciute all'atto dell'offerta. Puntuale riscontro del saldo ancoraggio delle direttive di settore ai principi espressi dal trattato si evince, invero, dai considerando X e XI della direttiva 93/37 (vigente al tempo di entrata in vigore delle norme qui denunciate), VI della direttiva 89/440, IX e X della direttiva 71/305, laddove si sottolinea che le informazioni contenute nei bandi devono permettere agli imprenditori di valutare se gli appalti proposti presentino per loro interesse e che occorre dar loro una sufficiente conoscenza delle prestazioni da fornire e delle relative condizioni. Tra tali condizioni assume rilievo significativo, ai fini della predisposizione o negoziazione dell'offerta, la possibilita' o meno di deferimento agli arbitri delle controversie, in ragione della enorme divaricazione tra i tempi della giustizia onoraria e quelli della giustizia togata civile, gia' illustrata in precedenza; cosicche' l'invalidazione postuma della clausola compromissoria liberamente sottoscritta dalle parti determina un rilevante vulnus dei principi che devono governare, secondo il diritto comunitario, la conclusione del contratto di appalto (o dell'equiparata concessione di sola costruzione, come nella specie). Le norme nazionali oggi all'esame del Collegio contrastano, quindi, con la normativa comunitaria richiamata e con i principi generali del diritto comunitario ivi espressi, nella misura in cui modificano le condizioni conosciute al tempo dello stipulato contratto. E a seguito della riforma di cui alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha modificato l'art. 117 della Costituzione, quest'ultimo puo' essere assunto quale parametro della legittimita' costituzionale delle leggi che si pongono in contrasto con le norme comunitarie. L'art. 117, comma 1, del nuovo testo dispone, infatti, che «la potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalla Regione nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Si tratta di una disposizione che potrebbe consentire il superamento dello schema dei rapporti tra norme interne e normativa comunitaria conformato dalla sentenza 5 giugno 1984, n. 170, ovvero il superamento della concezione dei due ordinamenti distinti, seppure coordinati, per addivenire ad una concezione monista di un ordinamento gerarchicamente organizzato, al cui vertice si pongono i principi fondamentali della Costituzione ed i principi generali del diritto comunitario. D'altra parte codesta ecc.ma Corte costituzionale ha gia' utilizzato il primo comma, art. 117, quale parametro di legittimita' costituzionale di una legge con la sentenza 3 novembre 2005, n. 406 nella quale la legge regionale Abruzzo 1° aprile 2004, n. 14 e' stata dichiarata costituzionalmente illegittima poiche', essendo in contrasto con la normativa comunitaria, violava il primo comma dell'art. 117 che nel suo testo novellato impone alla legge statale e alla legge regionale di rispettare gli obblighi derivanti dal diritto comunitario. Sotto ulteriore profilo, sembra al Collegio che le norme nazionali denunciate, nella parte in cui fanno salve solo le domande arbitrali anteatte e non tutti i contratti gia' stipulati contenenti clausola compromissoria, determinino una situazione c.d. di «discriminazione a rovescio» (Corte cost., n. 30 dicembre 1997, n. 443) a danno degli operatori colpiti da tale divieto, che in ambito comunitario non sarebbe consentito stabilire in virtu' dei principi richiamati dalle citate sentenze della Corte di giustizia; discriminazione, questa, di ordine soggettivo, da cui non appare disgiunta la discriminazione di tipo territoriale. Anche per tale ragione, quindi, le norme denunciate si pongono in contrasto con il congiunto operare degli artt. 3 e 41 Cost. giacche' in ambito comunitario nessuna altra norma interna potrebbe imporre, e di fatto nessuna altra norma degli Stati membri impone, l'invalidazione postuma di una clausola contrattuale rilevante ai fini della predisposizione o negoziazione dell'offerta.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 2, decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180, convertito in legge 3 agosto 1998, n. 267, dell'art. 8, lett. d) del d.lgs. 20 settembre 1999, n. 354 e dell'art. 1, comma 2-quater, decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, convertito in legge 8 aprile 2003, n. 62, per contrasto con gli artt. 3, 41, 42, 24, 25, 97 e 117 della Costituzione. Dispone la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in conferenza personale degli Arbitri nelle riunioni del 26 ottobre 2006 e 8 novembre 2006 nella sede del Collegio in Napoli ove l'ordinanza viene di seguito sottoscritta in data 11 novembre 2006. Il Presidente: Marone 07C0528