N. 289 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 agosto 2006

Ordinanza  emessa il 2 agosto 2006 dalla Corte di appello di Cagliari
-  Sezione  distaccata di Sassari nel procedimento penale a carico di
Canu Antonio ed altri

Processo  penale  -  Appello  -  Modifiche  normative - Previsione di
  limiti  al  potere  d'appello  del  pubblico  ministero  contro  le
  sentenze  di  proscioglimento nel giudizio ordinario e nel giudizio
  abbreviato   -   Inammissibilita'   dell'appello   proposto   prima
  dell'entrata  in  vigore  della novella - Disparita' di trattamento
  tra la parte pubblica e le parti private - Violazione del principio
  di  parita'  delle  parti  nel  processo - Contrasto con i principi
  dell'obbligatorieta'   dell'azione   penale   e   della   finalita'
  rieducativa della pena.
- Legge  20 febbraio  2006, n. 46, artt. 1 (sostitutivo dell'art. 593
  del  codice di procedura penale), 2 (modificativo dell'art. 443 del
  codice di procedura penale) e 10.
- Costituzione, artt. 3, 27, comma terzo, 111 e 112.
(GU n.17 del 2-5-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nel procedimento penale a
carico di:
        1) Canu  Antonio,  nato  ad Alghero il 1° settembre 1961, ivi
residente in via Cavour, 80;
        2) Marrosu  Alberto,  nato ad Alghero il 7 febbraio 1961, ivi
residente in via Kennedy, 123;
        3) Piras Antonio Emiliano, nato ad Alghero il 30 agosto 1974,
ivi in residente localita' «Lu Fangal»;
        4) Donapai  Giuseppe,  nato  ad  Alghero il 4 marzo 1973, ivi
residente in via De Gasperi, 88;
        5) Marconi Giuseppe, nato ad Alghero il 13 novembre 1961, ivi
residente in via Palomba, 31;
                           I m p u t a t i
    I primi quattro:
        A) del  delitto di cui agli artt. 81 cpv., 110 c.p., 73 primo
e  sesto  comma d.P.R. n. 309/1990 perche', con piu' azioni esecutive
del  medesimo  disegno  criminoso,  in  concorso tra loro e con Sauna
Luigino,  Doppiu  Giovanni  Maria,  Demartis  Thomas  Efisio, Marconi
Giuseppe,  Ibba Carmelo, Correddu Franco, Tavera Gianni, Guidetti Ugo
Claudio Angelo, Masala Giuseppe, Masala Gianluigi e Marrosu Fernanda,
acquistavano,  trasportavano  e  comunque  illecitamente detenevano e
cedevano a terzi, sostanza stupefacente del tipo eroina;
    In Alghero dalla fine del mese di maggio 2001 a febbraio 2002;
    Marconi Giuseppe:
        B) del delitto di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309/1990 perche',
fuori  delle  ipotesi  di cui all'art. 75 stesso d.P.R., deteneva, ad
evidente fini di spaccio, 5 flaconi di metadone cloridrato.
    In Alghero, il 19 marzo 2002.
    Ritenuto  che  con  sentenza  del  15 luglio 2005 il Tribunale di
Sassari  ha  mandato  assolti  Canu  Antonio,  Marrosu Alberto, Piras
Antonio   Emiliano,   Donapai   Giuseppe  e  Marconi  Giuseppe  dalle
imputazioni  loro  ascritte per insussistenza dei fatti, e che contro
questa  decisione  ha  interposto  appello il p.m. presso il medesimo
tribunale  chiedendo  l'affermazione  di responsabilita' di tutti gli
imputati e la loro condanna;
    Ritenuto  che,  a  norma  dell'art.  10,  legge 20 febbraio 2006,
n. 46,  dovrebbe  dichiararsi  la inammissibilita' della impugnazione
proposta  dal  p.m.  restando  a  questo  la possibilita' di proporre
ricorso  per  cassazione  giusta  il  disposto  del  terzo  comma del
medesimo art. 10;
    Ritenuto  che vi e' tuttavia motivo di dubitare della conformita'
della  legge  anzidetta alla Costituzione e che il p.g. presso questo
ufficio ha ritenuto ravvisabili i profili di incostituzionalita' gia'
denunciati da questa Corte in casi analoghi.

                            O s s e r v a

    L'art.  111  della  Costituzione  garantisce  il  principio della
parita'   delle   parti  nel  processo,  e  questo  principio,  nella
previsione  costituzionale,  non  soffre  di eccezioni di sorta (come
invece puo' avvenire per altri principi, come quello della formazione
della prova in contraddittorio pure stabilito dal medesimo art. 111).
L'esclusione  della  possibilita'  che  il  pubblico  ministero possa
gravarsi  contro  le  sentenze di proscioglimento con lo stesso mezzo
riconosciuto  all'imputato  avverso  le sentenze di condanna comporta
l'introduzione   nel  sistema  delle  impugnazioni  di  una  evidente
irragionevole   disparita'   di  trattamento  che  contrasta  con  il
richiamato  principio della parita' delle parti nello svolgimento del
processo.
    Ad  avviso di questa Corte l'enunciato ora espresso non confligge
con le ripetute pronunce negative della Corte costituzionale chiamata
ad  esprimersi  sulle  limitazioni  al  potere d'appello del pubblico
ministero  stabilite  dall'art.  443.3  c.p.p., essendo le disparita'
derivanti  da questa disposizione ragionevolmente giustificabili alla
luce  del  risultato  perseguito  con il ricorso al rito abbreviato e
delle  peculiarita'  di  questo.  Il risultato e' quello della rapida
definizione  dei  processi  penali conseguita attraverso la decisione
del  processo solo sulla base del materiale probatorio raccolto dalla
parte   pubblica  fuori  del  contraddittorio,  e  pertanto  con  una
correlativa  rinuncia dell'imputato, in vista del miglior trattamento
sanzionatorio   a   lui   riservato   in   caso  di  affermazione  di
responsabilita', ad intervenire nel delicato momento della formazione
della prova.
    E  tuttavia,  se  in  un  quadro  siffatto  e'  parso ragionevole
limitare  la  facolta'  di impugnazione del pubblico ministero quanto
alle   sentenze   di   condanna   (e   pertanto   in  relazione  alla
quantificazione della pena), altrettanto non pare proprio possa dirsi
in  relazione alle sentenze di assoluzione, pur pronunciate a seguito
di  rito  abbreviato,  stante  il  perdurante  interesse  della parte
pubblica    all'accertamento    della   verita'   (e   quindi   della
responsabilita'  dell'imputato  che  dall'acclaramento  della verita'
possa  risultare),  come d'altro canto dimostra il fatto che e' stata
conservata  al  p.m.  la facolta' di appellarsi contro le sentenze di
condanna  che  modifichino  il  titolo  del  reato. E a proposito del
generale  interesse del p.m. a proporre appello contro la sentenza di
proscioglimento  conserva  piena  validita' il richiamo contenuto nel
messaggio  del  Presidente  della  Repubblica alle Camere la' dove si
osserva   che   «la   soppressione  dell'appello  delle  sentenze  di
proscioglimento ...  fa  si'  che la stessa posizione delle parti nel
processo  venga  ad  assumere una condizione di disparita' che supera
quella  compatibile  con  la  diversita'  delle funzioni svolte dalle
parti  stesse  nel  processo.  Le  asimmetrie  tra  accusa  e  difesa
costituzionalmente  compatibili  non  devono mai travalicare i limiti
fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione».
    Ne'  appaiono  decisive  le  obbiezioni che potrebbero farsi alla
tesi  qui sostenuta e secondo le quali la soppressione della facolta'
d'appello   del   p.m.   contro   le   sentenze   di  proscioglimento
risponderebbe  ad  esigenze  di celerita' del processo, e sarebbe per
altro  verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o
con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata
oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni
giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di celerita' non hanno
impedito  la  conservazione  della  facolta'  di  cui  all'art. 443.3
c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita'
ad  essere  sacrificate  quando, nel caso di accoglimento del ricorso
per  cassazione  proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il
processo   ritornera'   in  primo  grado  con  la  prospettiva  della
celebrazione  (anche)  del  giudizio  d'appello  in  caso di condanna
dell'imputato.
    Il principio di non colpevolezza implica soltanto che gli effetti
pratici   della  condanna  possano  discendere  solo  dalla  sentenza
definitiva,  e  nessuna  conseguenza puo' trarsi da esso circa l'iter
per  il quale si debba pervenire al giudicato. Quello per il quale la
colpevolezza puo' essere affermata solo quando sia provata oltre ogni
ragionevole  dubbio  sembra,  invece, in questo caso, un principio di
lettura  equivoca, posto che se si sostiene la inappellabilita' della
sentenza  con  la  quale  un  giudice  abbia  pronunciato assoluzione
poiche'   l'eventuale   successiva   condanna   non  potrebbe  essere
pronunciata  fuor  di  ogni  ragionevole dubbio, potrebbe altrettanto
legittimamente  sostenersi  che  sarebbe del pari inutile un giudizio
d'appello  contro  una  sentenza  di  condanna  che,  ad  esito di un
processo  celebrato  in  condizioni  di  parita' delle parti, sarebbe
pronunciata  sulla scorta di prove che dimostrino la colpevolezza con
lo stesso grado di sicurezza.
    E'  stato  peraltro  espresso  l'avviso  che  l'esclusione  della
appellabilita'  delle  sentenze  di  proscioglimento  da  parte della
accusa  pubblica  sia  coerente  all'esplicazione  dei  diritti della
difesa:  deve in proposito osservarsi che insopprimibile funzione del
processo  penale  e'  quello  dell'accertamento della verita', e tale
prospettiva  deve  essere  perseguita  nel rispetto dei diritti della
difesa da far valere tuttavia nell'ambito del processo e non gia' nel
senso  che  il  confronto  fra le tesi debba essere evitato (in altri
termini:  deve  esercitarsi  la  difesa  nel  processo e non gia' dal
processo). Nessuno dubita che anche nel giudizio d'appello l'imputato
debba  godere  del  pieno  dispiegamento dei diritti che la legge gli
riconosce:  ma  non  si  vede in che cosa la celebrazione del secondo
grado  del  giudizio  di  merito,  sia  pure  ad istanza del pubblico
ministero,  possa compromettere il diritto di difesa (diverso sarebbe
se  ci  si  appellasse al principio del favor rei, che pero' vale nei
soli  casi  in  cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta
essere stato ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte  le  notazioni  sopra  svolte  puo'  aggiungersi  che il
contrasto  delle  disposizioni  denunciate  rispetto all'art. 111 (ed
anche, a questo punto, all'art. 3) della Costituzione apparira' ancor
piu'  evidente  quando  si osservi che nella stesura definitiva della
legge  20  febbraio  2006,  n. 46  alla  parte civile e' stato invece
conservato  il  diritto  d'appello avverso le sentenze di assoluzione
(la  genesi  della locuzione del secondo periodo dell'art. 576 c.p.p.
alinea  nell'attuale  formulazione  persuade  che  l'impugnazione ivi
menzionata consista nell'appello, tanto piu' che nessuna menzione del
gravame  della  parte  civile  si  rinviene  nell'art. 10 della legge
n. 46/2006  che  detta  regole  sul  regime transitorio in materia di
appello   dell'imputato  o  del  p.m.:  tanto  e'  vero  che  per  il
riconoscimento  del  diritto  della  parte  civile a proporre appello
avverso  le  sentenze  di  assoluzione  si e' pronunciata la Corte di
cassazione  con  la  recente sentenza n. 22924 del 4 luglio u.s.). Si
deve  constatare  pertanto  che alla parte pubblica, portatrice degli
interessi  rilevantissimi  su cui si tornera' tra breve, e' stato del
tutto  ingiustificatamente  riservato  un potere di impugnazione piu'
ridotto  che alle parti private e questo dato, indubitabile, non puo'
che  far  risaltare  in maniera ancor piu' evidente il vulnus subito,
per  effetto  delle  norme  che  vengono  sottoposte al Giudice delle
leggi, dal principio della parita' delle parti.
    Oltre  a  tutto  quanto sopra enunciato, partendo dal rilievo che
gli  interessi  tutelati dal pubblico ministero sono, in uno Stato di
diritto,  apprezzabili  quanto  quelli  delle  altre  parti, compreso
l'imputato  (ed  in  realta', per quanto le ultime riforme in materia
processuale  abbiano  avuto di mira soprattutto il riequilibrio della
posizione  dell'imputato rispetto a quella del p.m., mai l'importanza
degli  interessi  tutelati  attraverso  l'azione  di questo era stata
reputata  sottovalente  rispetto a quella degli interessi delle altre
parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al pubblico ministero il
potere   di  appellarsi  contro  le  sentenze  di  assoluzione  o  di
proscioglimento  significa  rendere  piu'  difficoltosa  l'attuazione
della  ricerca  della  verita'  e,  quindi  dell'istanza di giustizia
propria della collettivita', istanza che e' addirittura pregiuridica,
posto  che su di essa si basa qualsiasi civile convivenza nella quale
si voglia evitare che i consociati siano tentati di ricorrere a forme
private di giustizia.
    Di  questo  primario interesse della collettivita' e' espressione
la  previsione  dell'art.  112  della  Costituzione e, in definitiva,
anche  quella  circa  l'emenda del condannato sancita dal terzo comma
dell'art.  27  della stessa Costituzione: dalla lettura coordinata di
queste due norme si ricava che il pubblico ministero (parte pubblica,
e  quindi  tenuta  al  rispetto  di  comportamenti ispirati a massima
correttezza  e moralita', oltre che onerata anche della ricerca degli
elementi  favorevoli all'imputato) non e' un ottuso persecutore degli
incolpati,  ma  soggetto  che persegue il compito, della cui primaria
importanza  si e' detto, di far si' che i devianti vengano recuperati
ad  una convivenza civile e ordinata. E menomare i mezzi attraverso i
quali  l'azione del pubblico ministero, nel rispetto del principio di
parita'  delle  parti,  si  deve  esplicare  significa  in definitiva
legiferare  in contrasto, anche, con le due previsioni costituzionali
ora richiamate.
    La  Corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
delle  sopra  illustrate  questioni  di  legittimita' costituzionale,
riconosciuta  la  impossibilita'  di  addivenire  alla  decisione del
processo   sottoposto   al   suo   giudizio  indipendentemente  dalla
risoluzione  delle  cennate  questioni  (l'applicazione  delle  norme
denunciate  impedirebbe  infatti  la  definizione del processo con il
possibile   ribaltamento,  quanto  agli  aspetti  penalistici,  della
decisione  di  primo  grado e la condanna degli imputati), dispone la
trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale sospendendo il
giudizio in corso.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di
legittimita'  costituzionale  esposte  in parte motiva, e, sospeso il
processo  in  corso,  ordina l'immediata trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale perche' giudichi:
        della  questione  di  legittimita'  costituzionale  circa  il
contrasto  fra  gli  artt. 1, 2 e 10, legge 20 febbraio 2006, n. 46 e
gli artt. 3 e 111 della Costituzione;
        della  questione  di  legittimita'  costituzionale  circa  il
contrasto  fra  gli  artt. 1, 2 e 10, legge 20 febbraio 2006, n. 46 e
gli artt. 27, terzo comma e 112 della Costituzione.
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.
        Sassari, addi' 1° agosto 2006
                  Il Presidente estensore: Tabasso
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