N. 420 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 gennaio 2007
Ordinanza emessa il 16 gennaio 2007 dalla Corte di appello di Torino nel procedimento penale a carico di Leoni Antonietta Reati e pene - Circostanze del reato - Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti - Divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309/1990 (in materia di traffico e detenzione illeciti di stupefacenti) nel caso di imputato recidivo - Contrasto con il principio della funzione rieducativa della pena - Violazione dei principi di ragionevolezza e di offensivita' del reato - Contrasto con il principio di proporzionalita' della pena. - Codice penale, art. 69, comma quarto, come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251. - Costituzione, artt. 3, 25, comma secondo, e 27, comma terzo.(GU n.23 del 13-6-2007 )
LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di Leoni Antonietta, nata a Sassari il 17 giugno 1952, difesa dall'avv. Fabrizio Bonfante del foro di Cuneo, la quale in primo grado, giudicata con sentenza in data 30 maggio 2006 dal Tribunale di Torino, e' stata dichiarata responsabile del reato a lei ascritto e, concessa l'attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990, e' stata condannata, valutata la diminuente del rito, alla pena di anni quattro di reclusione e 18.000,00 euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e di mantenimento durante la custodia cautelare; Premesso che all'imputata nel presente giudizio e' ascritto il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 1-bis, d.P.R. n. 309/1990, perche', senza l'autorizzazione di cui all'art. 17 e fuori dalla ipotesi previste dall'art. 75 stessa legge, cedeva, distribuiva, commerciava, procurava ad altri, consegnava e comunque illecitamente deteneva ad evidente fine di messa in vendita e commercio, un involucro termosaldato contenente grammi 9,9703 netti di eroina in pietra, sostanza stupefacente di cui alla tab. I prevista dall'art. 13, comma 1 e 14 della legge medesima; commesso in Torino in data 16 maggio 2006; con la recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale; Rilevato che il difensore dell'imputata ha presentato tempestivo appello avverso la sentenza pronunciata in primo grado richiedendo, tra l'altro, che la pena sia contenuta nei minimi edittali; Rilevato che e' stata pertanto fissata udienza innanzi a questa sezione della Corte di appello per la trattazione dell'appello come sopra proposto; Sentite le parti comparse nell'udienza odierna, concludenti, il p.g., per la conferma della sentenza appellata e, la difesa, per l'accoglimento dei motivi dell'appello; Osserva quanto segue 1. - Il difensore dell'imputata invoca, tra l'altro, il riconoscimento delle attenuanti generiche e comunque la riduzione della pena che e' stata irrogata in primo grado alla prevenuta in forza della prevalenza sulla recidiva che vorrebbe vedere attribuita all'ipotesi attenuata prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990. La richiesta cosi' formulata, tuttavia, e' evidentemente in contrasto con la previsione dell'art. 69, quarto comma c.p., come modificato dall'art. 3 della legge n. 251/2005, nel punto in cui stabilisce che vi e' divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti. Infatti, come la sentenza appellata non ha mancato di rilevare nella motivazione, stante l'espresso divieto di prevalenza delle attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti stabilito per i recidivi reiterati dall'art. 69, quarto comma c.p. (cosi' come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251), nel caso che ne occupa il giudizio di bilanciamento con la recidiva non puo' andare oltre la mera equivalenza. Poiche' la volonta' del legislatore e' indubbiamente nel senso indicato nella motivazione ora richiamata, non e' quindi consentito aderire alla richiesta della difesa di formulare il giudizio di prevalenza dell'attenuante prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R n. 309/1990, - eventualmente in unione con le pure richieste attenuanti generiche, - sulla recidiva che la sentenza emessa in primo grado ha ritenuto fosse stata correttamente contestata. Conseguentemente, dal menzionato divieto di prevalenza dell'attenuante ad effetto speciale dell'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990, sulla recidiva discendono l'impossibilita' di riformare in senso favorevole all'imputata la valutazione di equivalenza della citata attenuante con la recidiva e la necessita' di irrogare la pena nella misura indicata dall'art. 73, primo comma, d.P.R. citato, di gran lunga piu' elevata di quella prevista dal quinto comma della stessa disposizione (basti pensare che la pena detentiva prevista dal primo comma dell'art. 73 e', nel minimo, di sei anni di reclusione, mentre quella prevista dal quinto comma della stessa disposizione e' invece, sempre nel minimo, pari ad un anno di reclusione, per rendersi conto della sensibile differenza di trattamento che scaturisce dal divieto di prevalenza sancito dall'art. 69, quarto comma c.p., come novellato dall'art. 3 della legge n. 251/2005). Orbene, secondo questa Corte, non e' manifestamente infondato sostenere che il limite posto dal divieto di cui in premessa alla possibilita' di calcolare il trattamento sanzionatorio sulla base della prevalenza alle attenuanti appare in contrasto con i principi che si ricavano dall'interpretazione combinata degli artt. 27, terzo comma, 25, secondo comma e 3 della Carta costituzionale, vale a dire con i principi della finalita' rieducativa della pena, dell'offensivita' del reato e, in diretta correlazione con i principi prima indicati, della proporzionalita' e della ragionevolezza della pena. In effetti, la tesi, prospettata dalla difesa nei motivi dell'appello, secondo cui la previsione dell'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990, integrerebbe una fattispecie autonoma di reato e non un'attenuante ad effetto speciale, si pone in contraddizione con l'insegnamento di numerose pronunce della giurisprudenza di legittimita' (si vedano, tra altre, Cass. pen., sez. IV, 18 novembre 1995, n. 2611; Cass. pen., sez. IV, 1° giugno 1992, n. 3914; Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 1991, n. 356; Cass. pen., sez. VI, 20 settembre 1991, n. 10278; Cass. pen., sez. unite, 31 maggio 1991, n. 9148: tutte concordi nel ritenere che si tratti di una circostanza attenuante ad effetto speciale, anziche' di una distinta ipotesi di reato). Non puo' percio' essere accolta. Inoltre, non pare si possa affermare che sarebbe sufficiente che il giudice di merito decidesse di non tenere nessun conto della recidiva nel calcolo della pena per vanificare il divieto stabilito dall'art. 69, comma quarto c.p., sul presupposto che l'aumento di pena che dipende dall'applicazione della recidiva reiterata e' oggetto di una scelta discrezionale del giudice. Infatti, il divieto in questione e' stabilito con riguardo all'ipotesi che le circostanze aggravanti siano ritenute. La formulazione lessicale usata (ritenute) consente, percio', di presumere che e' sufficiente che il giudice accerti che sussistono le condizioni che sono previste dalla legge per ritenere corretta la contestazione della recidiva reiterata perche' il divieto stesso divenga per lui vincolante, sebbene sia orientato, nell'esercizio della sua discrezionalita' nel determinare la pena, a non applicare l'aumento di pena che e' connesso alla recidiva contestata. D'altro verso, non si puo' accogliere il diverso indirizzo ermeneutico in forza del quale il giudice di merito, operando in analogia con l'interpretazione che e' stata adottata con riguardo alla circostanza aggravante di cui all'art. 1, terzo comma, legge 6 febbraio 1980, n. 15, non e' tenuto ad inserire nel giudizio di comparazione, in conformita' alla disposizione dell'art. 69 c.p., tutte le circostanze aggravanti ed attenuanti che ravvisa, ma puo' operare la comparazione soltanto tra le circostanze diverse da quella che gode di una particolare protezione, applicando prima la pena che consegue al giudizio di comparazione tra le altre circostanze e procedendo poi all'aumento di pena per quest'ultima aggravante. In senso contrario e' dato opporre che la norma dell'art. 1, legge 6 febbraio 1980, n. 15, ora richiamata, oltre a sancire il divieto di prevalenza e di equivalenza delle circostanze attenuanti (diverse da quelle di cui agli artt. 98 e 114 c.p.) rispetto all'aggravante della finalita' di terrorismo, prescrive che le diminuzioni di pena per le attenuanti si operano sulla quantita' di pena risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti e percio' fornisce l'indicazione di valutare l'incidenza delle attenuanti sul calcolo della pena dopo che sia stato applicato l'aumento che dipende dall'aggravante, mentre, nel caso che costituisce oggetto della presente discussione, la norma in esame non e' formulata in termini assimilabili a quelli usati per l'aggravante della finalita' di terrorismo. Pertanto nel caso di specie non ci si puo' discostare dalla regola generale dettata dall'art. 69, comma quarto c.p., come novellato, che, dunque, costituisce una deroga alla disposizione stabilita dall'art. 63, terzo comma c.p. E', in altre parole, chiara intenzione del legislatore di introdurre, per i casi come quello di cui si dibatte, il divieto per il giudice di merito di operare l'aumento per la recidiva sulla pena che sia stata preventivamente diminuita in forza del riconoscimento dell'attenuante prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990. Si pone a questo punto il quesito che chiede di verificare se la disposizione dell'art. 69, quarto comma c.p., interpretata nel senso ora chiarito, e' coerente con i principi dettati dalla Carta costituzionale in tema di pena. E discende dalle osservazioni prima esposte, in virtu' di un'inferenza caratterizzata da rigorosa plausibilita', che si tratta di un'indagine rilevante ai fini della decisione poiche' e' destinata a riflettersi sull'entita' del trattamento sanzionatorio. 2. - Questo giudice, come gia' anticipato, ritiene che i principi che devono essere presi in esame nella presente analisi siano quello che assegna alla pena la funzione rieducativa stabilito dall'art. 27, terzo comma Cost. e quello della proporzionalita' della pena, ricavato dal principio della necessaria offensivita' del reato che si evince dall'art. 25, secondo comma Cost. e dal principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Soccorre al riguardo l'analisi che segue. 2.1. - Sotto il profilo che concerne la funzione rieducativa che viene attribuita dall'art. 27, terzo comma Cost. alla sanzione penale non si puo', infatti, evitare di rilevare che la norma ordinaria della cui legittimita' costituzionale si controverte pone alla discrezionalita' del giudice un limite nella determinazione della pena che deve essere inflitta al colpevole che in questo caso trae origine essenzialmente da una qualita' personale (quella cioe' di essere stato gia' condannato almeno due volte per delitto) che e' considerata indipendentemente dalla gravita' del fatto che l'imputato ha commesso e per cui egli viene condannato. L'irrogazione di una sanzione che si caratterizza, come nel caso di specie, per una notevole severita', e soprattutto non e' in diretto rapporto con la gravita' del fatto commesso, appare, pertanto, in contrasto con il criterio, al quale peraltro e' stato riconosciuto valore costituzionale, della finalita' rieducativa della pena: criterio che non dovrebbe soltanto guidare il giudice, ma anche orientare le scelte compiute dal legislatore. E', infatti, ovvio che una pena che l'imputato e' portato a ritenere sproporzionata per eccesso rispetto all'effettiva gravita' del fatto di cui egli si e' reso responsabile non adempie alla funzione di risocializzazione che e' chiamata ad assolvere perche' viene da costui soggettivamente percepita come iniqua e genera percio' dei sentimenti di ripulsa e di ribellione. L'osservazione ora svolta vale, a maggiore ragione, se, come accade appunto nella fattispecie in esame, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti si estende ad un'attenuante ad effetto speciale, quale e' quella prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990. Infatti, in questo caso lo stesso legislatore ha ritenuto, sulla scorta di una previsione generale ed astratta, di valutare come accentuatamente lieve la lesivita' della condotta tenuta dall'agente, fino al punto di prevedere una pena base molto piu' mite di quella che invece e' prevista per il reato non attenuato. Cio' nondimeno, con la modifica del testo dell'art. 69 quarto comma c.p., ha escluso che detta attenuante, nel giudizio di correparazione con la recidiva reiterata, possa assolvere la funzione di diminuire la pena. Non e' fuori luogo porre in rilievo che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha chiarito, al riguardo, che l'attenuante speciale prevista dall'art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per i reati di produzione e traffico di stupefacenti, trova applicazione quando la fattispecie concreta risulti di trascurabile offensivita', sia per l'oggetto materiale del reato, in relazione alle caratteristiche qualitative e quantitative della sostanza, sia per la condotta, riferibile ai mezzi, alle modalita' e alle circostanze della stessa (cosi' inter plures Cass. pen., sez. IV, 24 febbraio 2005, n. 20556; Cass. pen., sez. IV, 21 dicembre 2004, n. 10211; Cass. pen., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17). La constatazione che, nonostante il riconoscimento della trascurabile offensivita' del fatto commesso, la pena che in definitiva viene irrogata al soggetto colpevole di un fatto giudicato di lieve entita' e' equivalente a quella, molto piu' elevata, prevista per il fatto dotato di ordinaria offensivita' di cui all'art. 73, primo comma, d.P.R. citato appare, con ogni evidenza, suscettibile di generare delle conseguenze negative sulla possibilita' che essa sia realmente idonea a tendere, nell'ipotesi in esame, alla rieducazione del condannato. Per questo motivo appare, dunque, in special modo importante e non eludibile la necessita' che il giudice non venga limitato nell'esercizio del potere discrezionale di valutare l'incidenza dell'attenuante ad effetto speciale sulla misura della pena e possa tenere conto a questo fine di ogni peculiarita' della concreta fattispecie sottoposta al suo vaglio, attribuendo in particolare un rilievo non marginale, ove del caso, alla lieve entita' del fatto prevista dall'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990. La valutazione del legislatore che, sulla base della considerazione, elaborata una volta per tutte, della preminente importanza di un elemento di ordine eminentemente personologico qual e' la recidiva, invece intende vietare in modo categorico al giudice di ritenere la prevalenza dell'attenuante, appare percio' in palese contrasto nell'ipotesi in cui sia riconosciuta la tenue offensivita' del fatto, considerato questo sia sotto l'aspetto oggettivo, sia sotto quello soggettivo. Pare integrare, per questo motivo, una violazione del principio costituzionale della finalita' rieducativa della pena. 2.2. - Il divieto di ritenere la prevalenza delle attenuanti ad effetto speciale sulla recidiva reiterata implica anche, con particolare riferimento all'attenuante prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990, una paventabile violazione del principio della necessaria proporzionalita' tra la pena concretamente inflitta ed il fatto commesso, desunto come corollario del principio di offensivita' del reato e di quello della ragionevolezza della pena. E' noto che la Corte costituzionale ha riconosciuto che, pur in assenza di una norma che lo contempli espressamente, il principio di offensivita' (nullum crimen sine iniuria) ha valenza costituzionale. Ha, infatti, ritenuto che il principio della necessaria offensivita' del reato costituisce un vincolo non soltanto per l'interprete, ma anche per il legislatore, avendo affermato, con sentenza n. 519/2000, che esso opera sia sul terreno della previsione normativa, sia su quello dell'applicazione giudiziale. La stessa Corte, con sentenza n. 360/1995, ha, inoltre, sottolineato che si tratta, in primo luogo, di un limite di rango costituzionale alla discrezionalita' del legislatore ordinario, a cui fa riscontro il compito del giudice di accertare in concreto, nel momento applicativo, se il comportamento posto in essere lede effettivamente l'interesse tutelato dalla norma. Coerentemente con tale impostazione ha parlato, nella pronuncia n. 263/2000, di un ininterrotto operare del principio di offensivita' dal momento dell'astratta previsione normativa a quello dell'applicazione concreta da parte del giudice. Sul punto la dottrina ha prevalentemente osservato che il principio trova radice nella formulazione dell'art. 25, secondo comma Cost., poiche' l'uso della locuzione fatto (nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso) e' incompatibile con il riferimento a meri atteggiamenti interiori ed a meri sintomi di pericolosita' individuale, poiche' intende che siano punite condotte materiali connotate dall'essere offensive. Altri referenti normativi sono stati variamente individuati: nell'art. 27, terzo comma Cost. che, assegnando alla condanna il fine di tendere alla rieducazione del condannato, presuppone che quest'ultimo percepisca nitidamente l'antigiuridicita' del proprio comportamento e comporta che la condanna per violazioni di doveri ai quali non corrisponde nessuna offesa sia destinata a vanificare la funzione rieducativa della pena; nell'art. 13 Cost. che tutela la liberta' personale, poiche' l'irrogazione di una pena limitativa del bene della liberta' puo' essere concepita solo come reazione ad una condotta che offende un bene di uguale rango; nell'art. 21 Cost. che tutela ogni agire umano come forma di libera espressione del pensiero, sicche' la punizione di meri comportamenti inoffensivi, benche' corrispondenti al tipo normativo, concreterebbe un'arbitraria compressione della liberta' di pensiero. E', dunque, indiscutibile che il principio invocato trova una molteplice matrice costituzionale. Tuttavia il riferimento al principio enunciato dall'art. 25, secondo comma svolge, in tale quadro, il ruolo piu' significativo. In perfetta coerenza con questa impostazione la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 263/2000, ha espressamente fatto rinvio, appunto, all'art. 25 Cost. quando ha affermato che esso postula, come gia' esposto, l'ininterrotto operare del principio di offensivita' dal momento dell'astratta previsione normativa a quello dell'applicazione concreta da parte del giudice. Analogamente, nella sentenza n. 354/2002, ha ribadito che il limite alla discrezionalita' legislativa in materia penale costituito dal principio di offensivita' e' desumibile dall'art. 25, secondo comma Cost., nel suo legame sistematico con l'insieme dei valori connessi alla dignita' umana. In conclusione, e' certo che un ordinamento che si ispira a valori di laicita' e di tolleranza e riconosce ad ogni uomo un nucleo di diritti inviolabili, tributando, nell'art. 3, primo comma Cost., pari dignita' sociale ed eguaglianza davanti alla legge a tutti gli uomini, non puo' punire la mera disobbedienza, intesa come sintomo di pura pericolosita' e di individuale antisocialita', svincolate dal collegamento ad un fatto offensivo di un bene giuridico. E' questa una garanzia irrinunciabile in un ordinamento ispirato a valori di liberta' e di uguaglianza e trova consacrazione nell'art. 25, secondo comma della Carta costituzionale. Cio' premesso, e' dato ricavare dall'elaborazione compiuta dalla giurisprudenza della Consulta che il principio di offensivita' non puo' non essere inteso in necessaria correlazione con il principio di proporzionalita' della pena all'offesa prodotta in danno del bene giuridico protetto, interpretato alla luce del fondamentale principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.). La Corte costituzionale ha, infatti, piu' volte chiarito che la pena edittale non puo' mancare di essere necessariamente proporzionata al grado di offesa realizzato dalla condotta del colpevole. In conformita' con questa impostazione, invocando il principio di ragionevolezza, ha ammesso il sindacato delle norme penali che prevedono sanzioni non proporzionate all'intensita' dell'offesa arrecata sotto il profilo che ha ricavato dall'art. 3 Cost., laddove ha ribadito che la pena deve essere proporzionata al disvalore del fatto illecito. Sviluppando con chiarezza questa stessa linea interpretativa, nella sentenza n. 341/1994, ha, con significativa enunciazione, espressamente affermato che, pur non spettando alla Corte di rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, ne' di stabilire quantificazioni sanzionatorie, le rimane il compito di verificare che l'uso della discrezionalita' legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza e il principio di proporzionalita' tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra. Il punto di equilibrio tra il principio di legalita' e l'esigenza di individualizzazione della pena in cui, dunque, si colloca il principio di proporzionalita' deve indubbiamente essere ricercato nella predeterminazione, per ogni singola ipotesi normativa, di una cornice di pena, vale a dire di un minimo e di un massimo edittalmente previsti dal legislatore entro il quale il giudice deve scegliere la sanzione che ritiene adeguata al caso concreto. La Corte costituzionale, a tale riguardo, ha puntualmente precisato, con pronuncia n. 131/1970, che il principio di legalita' della pena non puo' prescindere dall'individualizzazione di questa, ossia non puo' prescindere dal suo adeguamento alle singole fattispecie. Inoltre, con sentenza n. 50/1980, ha posto in evidenza che l'individualizzazione della pena si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio di eguaglianza), quanto attinenti direttamente la materia penale. Con la stessa sentenza ha inteso, altresi', sottolineare che l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti - in termini di uguaglianza e/o di differenziazione di trattamento - contribuisce, da un lato, a rendere quanto piu' possibile personale la responsabilita' penale nella prospettiva segnata dall'art. 27, primo comma; e nello stesso tempo e' strumento per una determinazione della pena quanto piu' possibile finalizzata nella prospettiva dell'art. 27, terzo comma Cost. Ha, pertanto, concluso che l'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, proporzione della pena rispetto alle personali responsabilita' ed alle esigenze di risposta che ne conseguono. L'intento di assicurare la proporzionalita' della pena non esclude, per altro verso, che il dubbio di illegittimita' costituzionale suscitato da una sanzione troppo rigida possa essere, caso per caso, superato quando la previsione di una pena edittale fissa (o comunque, viene fatto di soggiungere, non modulata in relazione alla particolarita' del caso di specie) appaia ragionevolmente proporzionata all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato. Ma, salva l'eccezione qui menzionata, in linea di massima, stando alle statuizioni della Corte, le previsioni sanzionatorie connotate da eccessiva rigidita' non appaiono in armonia con il volto costituzionale del sistema penale. Il profilo che nel caso di cui si discute appare, in particolare, di dubbia compatibilita' con il criterio guida della proporzionalita' della pena, - che pure, si ripete, possiede un rango costituzionale, essendo correlato al principio di ragionevolezza ed a quello di offensivita', - e' rappresentato dal rilievo che il limite posto alla discrezionalita' del giudice nel determinare la sanzione che e' concretato dal divieto di prevalenza delle attenuanti in generale, e in particolare delle attenuanti ad effetto speciale, sulla ritenuta recidiva reiterata non viene fatto derivare dal grado e dall'intensita' dell'offesa che il fatto arreca al bene protetto dall'ordinamento, bensi' dalle precedenti condanne dalle quali dipende la possibilita' che sia ritenuta la recidiva reiterata. Si delinea, quindi, il pericolo che venga punita, ricorrendo al mezzo rappresentato dal divieto in questione, non gia' in primo e principale luogo l'offesa causata al bene tutelato, ma prevalentemente la colpevolezza per la condotta di vita tenuta dal colpevole nel tempo che ha preceduto il fatto costituente reato. Ritiene questa Corte, in altre parole, che la disposizione esaminata comporti lo spostamento dell'accento dagli elementi oggettivi agli elementi soggettivi e personalistici del reato e che la volonta' colpevole non sia intesa come il criterio vincolante per l'attribuzione all'imputato della responsabilita' di avere causato offesa ad un bene giuridico protetto dall'ordinamento, ma come il fondamento principale della responsabilita' penale in funzione dell'intrinseca attitudine antisociale della persona e della sua pericolosita' presunta, ancorche' queste qualita' siano determinate mediante il rinvio agli elementi oggettivi costituiti dalle precedenti condanne. Avverte inoltre che affiora, sullo sfondo, la tentazione di riesumare la figura del tipo di autore. Nel caso qui analizzato e', in special modo, fonte di forte perplessita' che sia riconosciuto solo un risalto alquanto limitato alla lieve entita' del fatto di cui all'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990, cioe' alla sua trascurabile offensivita', rispetto al peso preponderante che invece viene attribuito alla recidiva reiterata, dando cosi' luogo ad ingiustificate ed importanti ripercussioni sulla misura della pena. E la perplessita' viene accresciuta dal rilievo che la recidiva e' assunta dal legislatore come l'indice sulla scorta del quale il giudice deve presumere obbligatoriamente la pericolosita' del soggetto senza che gli sia lasciata la possibilita' di sindacare l'attendibilita' in concreto della presunzione formulata, nonostante questa sia destinata a riflettere drasticamente i suoi effetti sul trattamento sanzionatorio applicato all'imputato. E', pertanto, dato individuare, nei sensi segnalati nelle osservazioni che precedono, un possibile contrasto tra la disposizione esaminata e le norme degli artt. 25, secondo comma e 3 della Costituzione, nella parte in cui la disposizione presa in considerazione prevede il divieto della prevalenza delle circostanze attenuanti ad effetto speciale e, in particolare, della circostanza attenuante prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990, sulla ritenuta recidiva reiterata. La norma ordinaria oggetto di valutazione appare, infatti, in conflitto con il principio della proporzionalita' della pena che, come esposto, assurge a criterio di primario rango costituzionale perche', a sua volta, e' strettamente collegato con il principio della necessaria offensivita' del fatto costituente reato e con quello della ragionevolezza della pena. 3. - La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, quarto comma c.p. prospettata nelle precedenti osservazioni e' sicuramente rilevante, poiche' il presente giudizio non puo' essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione. Inoltre, per le ragioni illustrate, non si puo' ritenere manifestamente infondata sotto il duplice profilo del contrasto con il principio della finalita' rieducativa della pena e del contrasto con il principio di proporzionalita' della sanzione rispetto all'offesa, desunto dai principi di offensivita' del reato di cui all'art. 25, secondo comma citato e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Deve, dunque, essere sottoposta al vaglio della Corte costituzionale.
P. Q. M. Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, quarto comma c.p., come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, per contrasto con gli articoli 27 terzo comma, 25, secondo comma e 3 della Costituzione, nella parte in cui in cui prevede il divieto della prevalenza della circostanza attenuante prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990, sulla ritenuta circostanza aggravante della recidiva reiterata; Pertanto dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il giudizio in corso ed i termini di prescrizione del reato; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e che essa sia comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Torino, addi' 11 gennaio 2007 Il Presidente: Ogge' 07C0734