N. 196 ORDINANZA 5 - 14 giugno 2007

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Reati  e  pene  - Societa' commerciali - Reato di false comunicazioni
  sociali   -   Trattamento  sanzionatorio  -  Ritenuta  carenza  dei
  requisiti   di   adeguatezza   ed   effettivita',  con  particolare
  riferimento  alle soglie di rilevanza penale del fatto e ai termini
  di  prescrizione  - Denunciata elusione degli obblighi comunitari -
  Sopravvenuta   modifica  delle  norme  censurate  -  Necessita'  di
  verifica della persistente rilevanza della questione - Restituzione
  degli atti ai giudici rimettenti.
- Cod.  civ.,  artt. 2621, 2622, come sostituiti dal d.lgs. 11 aprile
  2002, n. 61, art. 1.
- Costituzione,  artt. 3,  10, 11 e 117; direttiva CEE, 9 marzo 1968,
  n. 151, art. 6; Trattato CE, art. 10.
(GU n.24 del 20-6-2007 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Giovanni  Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Paolo  MADDALENA,  Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE,
Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei  giudizi  di  legittimita' costituzionale degli artt. 2621 e 2622
del   codice   civile,   come   sostituiti  dall'art. 1  del  decreto
legislativo  11 aprile 2002 n. 61 (Disciplina degli illeciti penali e
amministrativi   riguardanti   le   societa'   commerciali,  a  norma
dell'articolo 11  della  legge  3 ottobre 2001, n. 366), promossi con
ordinanze  del  27 settembre  2005  dal  Tribunale di Milano e del 1°
giugno 2005  dal  giudice  per l'udienza preliminare del Tribunale di
Potenza,  nei  procedimenti  penali  a carico di D.U.M. ed altri e di
S.F.  ed  altri, iscritte al n. 568 del registro ordinanze 2005 ed al
n. 15  del  registro  ordinanze  2006  e  pubblicate  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 49, 1ª serie speciale, dell'anno 2005 e
n. 5, 1ª serie speciale, dell'anno 2006.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  Camera  di  consiglio del 23 maggio 2007 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto che con la prima delle ordinanze indicate in epigrafe il
Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, 11
e   117   della  Costituzione,  nonche'  all'art. 6  della  direttiva
68/151/CEE  del  9 marzo  1968  del  Consiglio  (intesa a coordinare,
rendendole  equivalenti,  le garanzie che sono richieste, negli Stati
membri,  alle  societa'  a  mente  dell'art. 58,  secondo  comma, del
Trattato   per  proteggere  gli  interessi  dei  soci  e  dei  terzi:
cosiddetta  prima  direttiva  in materia di societa) e all'art. 5 del
Trattato  istitutivo  della  comunita' economica europea (ora art. 10
del  Trattato  istitutivo  della  comunita'  europea),  questione  di
legittimita'  costituzionale  degli  artt. 2621  e  2622  del  codice
civile, come sostituiti dall'art. 1 del decreto legislativo 11 aprile
2002,  n. 61  (Disciplina  degli  illeciti  penali  e  amministrativi
riguardanti  le  societa' commerciali, a norma dell'articolo 11 della
legge 3 ottobre 2001, n. 366);
        che  il Tribunale rimettente premette di essere investito del
processo  penale  nei confronti di tre persone imputate, tra l'altro,
di  reati  di  «falso  in  bilancio»  commessi  fino  al  1993: fatti
originariamente  puniti  dagli  artt. 2621  e  2640  cod.  civ. ed in
relazione  ai quali - dopo la riforma dei reati societari attuata dal
d.lgs.  n. 61 del 2002 - era stata contestata la violazione del nuovo
art. 2622 cod. civ. («false comunicazioni sociali in danno dei soci o
dei creditori»);
        che   il   giudice   a   quo  riferisce,  altresi',  di  aver
precedentemente  sottoposto  alla  Corte di giustizia delle comunita'
europee,  ai  sensi  dell'art. 234  del Trattato CE, alcune questioni
pregiudiziali   attinenti   all'interpretazione   dell'art. 6   della
direttiva  68/151/CEE  e  dell'art. 5  del Trattato CEE, nonche' alla
compatibilita' con tali disposizioni dei nuovi artt. 2621 e 2622 cod.
civ.;
        che  alla Corte europea era stato chiesto, in particolare, di
chiarire:  a)  se  l'art. 6 della prima direttiva - nell'imporre agli
Stati  membri di prevedere «adeguate sanzioni» per i casi di «mancata
pubblicita'  del  bilancio  e  del  conto  dei  profitti e perdite» -
obbligasse  gli  Stati  membri a sanzionare in modo adeguato anche la
falsificazione  degli  anzidetti  documenti  contabili; b) se, a tali
fini,  il  concetto  di  «sanzione  adeguata» dovesse essere inteso -
anche ai sensi dell'art. 5 del Trattato CEE (ora art. 10 del Trattato
CE)   -   nel  senso  di  sanzione  «efficace,  effettiva,  realmente
dissuasiva»,  avuto  riguardo  al  concreto  panorama  normativo, sia
sostanziale che processuale, del singolo Stato membro; c) se, infine,
le   caratteristiche   di   adeguatezza   dianzi   indicate   fossero
riscontrabili nelle sanzioni previste dai novellati artt. 2621 e 2622
cod. civ.;
        che il dubbio circa la conformita' delle disposizioni interne
alle   richiamate  norme  comunitarie,  ove  interpretate  nel  senso
indicato  nei  primi  due  quesiti,  discenderebbe  -  ad  avviso del
rimettente - da una duplice considerazione;
        che,  in  primo  luogo,  i  reati  di  falso  in bilancio non
produttivi  di  danno  patrimoniale  ai  soci o ai creditori - ovvero
produttivi  di  danno  patrimoniale,  ma  non  perseguibili  ai sensi
dell'art. 2622 cod. civ., per difetto della querela richiesta da tale
norma,  ove il fatto sia commesso nell'ambito di societa' non quotate
in   borsa   (piu'   precisamente:  di  societa'  non  soggette  alle
disposizioni  della  parte  IV,  titolo  III,  capo II,  del  decreto
legislativo  24 febbraio  1998,  n. 58, recante il «Testo unico delle
disposizioni  in  materia  di  intermediazione  finanziaria, ai sensi
degli  articoli 8  e  21  della  legge  6 febbraio  1996,  n. 52»)  -
risultano  configurati  dall'art. 2621  cod. civ. quale mero illecito
contravvenzionale;
        che  tale configurazione implica non soltanto la comminatoria
di   pene   -   secondo   il   rimettente   -  «risibili»,  ma  anche
l'assoggettamento  della  fattispecie  criminosa  ad  un  termine  di
prescrizione comunque non superiore a quattro anni e sei mesi, tenuto
conto  del  massimo  prolungamento  possibile  in conseguenza di atti
interruttivi;
        che  la brevita' di tale termine impedirebbe, in concreto, di
concludere  il  processo  prima  dell'estinzione del reato: e cio' in
considerazione  tanto  delle  garanzie  offerte  dal  nostro  sistema
processuale,  che  contempla  tre  gradi  di  giudizio;  quanto della
particolare  complessita'  dell'accertamento  dell'illecito, il quale
richiede  indagini  «di  tipo  contabile  ed economico»: complessita'
peraltro  accresciuta  dal  fatto che - in deroga all'art. 42, quarto
comma,  del  codice  penale - la contravvenzione di cui all'art. 2621
cod.  civ.  non soltanto non risulta punibile a titolo di mera colpa,
ma   richiede   addirittura   un   dolo  specifico,  di  non  agevole
dimostrazione;
        che,  in secondo luogo, per il falso in bilancio causativo di
danno  ai  soci o ai creditori - punito dall'art. 2622 cod. civ. come
delitto  e  con  pena  piu' energica - e' prevista, nel caso di fatto
commesso  nell'ambito  di  societa'  non quotate, la procedibilita' a
querela:  con  conseguente  subordinazione dell'esercizio dell'azione
penale  alla  volonta'  della  persona offesa, pur in presenza di una
lesione  del  bene  -  collettivo e tipicamente indisponibile - della
«trasparenza» del «mercato societario»;
        che  la Corte di giustizia delle comunita' europee - prosegue
il giudice rimettente - si e' pronunciata sulla predetta richiesta di
interpretazione   in   via  pregiudiziale  e  su  analoghe  richieste
formulate  da  altre  autorita'  giudiziarie  italiane  con  sentenza
3 maggio  2005,  nei  procedimenti  riuniti  C-387/2002, C-391/2002 e
C-403/2002,  rispondendo in modo inequivocamente affermativo ai primi
due quesiti dianzi ricordati;
        che la Corte europea ha infatti riconosciuto, da un lato, che
l'art. 6  della  prima direttiva obbliga gli Stati membri a prevedere
adeguate  sanzioni  non soltanto per la mancata pubblicita', ma anche
per  la  falsificazione  dei  bilanci;  e,  dall'altro  lato,  che il
connotato  dell'«adeguatezza» implica che, «pur conservando la scelta
delle  sanzioni»,  gli  Stati  membri debbono conferire alla sanzione
prescelta «un carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo»;
        che  la Corte di Lussemburgo - osserva il giudice a quo - non
si  e'  pronunciata,  invece, sull'ultimo quesito ad essa sottoposto,
inerente  alla  adeguatezza  o  meno  delle  sanzioni  previste dagli
artt. 2621   e  2622  cod.  civ.:  concludendo  nel  senso  che,  «in
circostanze  come  quelle  in  questione  nelle cause principali», la
direttiva  68/151/CEE  «non puo' essere invocata in quanto tale dalle
autorita'   di   uno   Stato  membro  nei  confronti  degli  imputati
nell'ambito di procedimenti penali»;
        che  tale  conclusione risulterebbe basata - apparentemente -
su  un  duplice ordine di motivi: e, cioe', da un lato, sull'asserita
esistenza  di  un principio generale di diritto comunitario - mutuato
dalle  «tradizionali  costituzionali  comuni  agli Stati membri» - di
«applicazione  retroattiva  della  pena piu' mite» (discutendosi, nei
giudizi  principali,  di  fatti  commessi  sotto il vigore della piu'
severa disciplina prevista dall'originario art. 2621 cod. civ., ma ai
quali - in base all'art. 2 cod. pen. - dovrebbero comunque applicarsi
le  nuove e piu' favorevoli disposizioni degli artt. 2621 e 2622 cod.
civ.); dall'altro lato, sulla impossibilita' di invocare le direttive
comunitarie, in difetto di una legge nazionale di attuazione, al fine
di  determinare  o  aggravare  la  responsabilita'  penale di singoli
soggetti;
        che  in realta' - rileva ancora il rimettente - a prescindere
dalle  perplessita'  generate  dalla prima delle due affermazioni ora
ricordate, la stessa Corte di giustizia delle comunita' europee si e'
espressamente  chiesta  se il principio dell'applicazione retroattiva
della pena piu' mite sia destinato a valere anche quando quest'ultima
risulti  contraria  ad  altre  norme  di  diritto  comunitario: ma ha
ritenuto  non  necessario  risolvere  tale  questione  «ai fini delle
controversie  principali»,  in  quanto la norma comunitaria di cui si
discute  «e' contenuta in una direttiva fatta valere nei confronti di
un  soggetto  dall'autorita'  giudiziaria nell'ambito di procedimenti
penali»;
        che,  per  costante  giurisprudenza  della  stessa  Corte  di
giustizia, infatti, una direttiva comunitaria non puo', in difetto di
una  legge  nazionale  di adeguamento, creare obblighi a carico di un
soggetto e, in particolare, determinare nei suoi confronti effetti in
malam partem di natura penale;
        che  dall'iter  argomentativo  ora  esposto  si  desumerebbe,
dunque,  che  l'effettiva  ragione  della dichiarata inapplicabilita'
della prima direttiva nel caso in questione non risiede nell'esigenza
di evitare che si producano conseguenze contrastanti con il principio
di  retroattivita' della lex mitior; bensi' soltanto nel fatto che la
direttiva  stessa  -  in  quanto  non  «dettagliata»  -  e'  priva di
efficacia   diretta   nell'ordinamento   nazionale,   richiedendo  un
intervento legislativo interno di attuazione;
        che   tale  circostanza  impedirebbe,  altresi',  al  giudice
nazionale  di «disapplicare», di propria iniziativa, le norme interne
incompatibili   con   le  regole  comunitarie,  come  sarebbe  invece
possibile  e doveroso - in base alla giurisprudenza tanto della Corte
di  giustizia  che  della  Corte costituzionale - qualora si fosse al
cospetto di una direttiva cosiddetta «self executing»;
        che,  su  tali  premesse,  il  Tribunale  rimettente ritiene,
quindi,  che  la  via  onde  rimuovere il denunciato contrasto con il
diritto   comunitario  sia  rappresentata  dalla  proposizione  della
questione   incidentale  di  legittimita'  costituzionale  dei  nuovi
artt. 2621  e  2622 cod. civ. per violazione degli artt. 10, 11 e 117
Cost.,  stante  la  «totale  inadeguatezza»  delle norme censurate «a
sanzionare  in  modo  efficace e dissuasivo le condotte colpevoli ivi
previste»,  cosi'  come richiesto dall'art. 6 della prima direttiva e
dall'art. 5 del Trattato CEE (ora art. 10 del Trattato CE);
        che  anche  in  presenza  di  una  direttiva  comunitaria non
«dettagliata»,  ma  comunque inequivoca nella sua interpretazione, il
legislatore   sarebbe   infatti   tenuto   ad   uniformare   ad  essa
l'ordinamento  interno; onde il mancato adeguamento si tradurrebbe in
un atto suscettibile di censura, alla stregua degli evocati parametri
costituzionali;
        che,  quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo
ricorda  come  questa  Corte,  con la sentenza n. 148 del 1983, abbia
ritenuto  suscettibili  di  scrutinio  di costituzionalita', anche in
malam  partem,  le  cosiddette «norme penali di favore»: tali dovendo
qualificarsi,  in  assunto,  le  disposizioni  censurate,  le quali -
ponendosi  in  linea  di  continuita'  normativa  con  il  previgente
art. 2621,  numero  1),  cod.  civ. - hanno introdotto un trattamento
sanzionatorio «piu' favorevole» per i fatti da esse contemplati;
        che  - alla stregua di quanto affermato nella citata sentenza
n. 148  del  1983  - la declaratoria di illegittimita' costituzionale
delle   norme   penali   di   favore,   pur   non   potendo  produrre
retroattivamente   conseguenze  negative  per  il  reo,  puo'  sempre
incidere  «sul  dispositivo  e  sulla ratio decidendi» della sentenza
penale  emessa  nei  suoi  confronti,  spettando  al  giudice  a  quo
stabilire   in   qual   modo   il  sistema  giuridico  debba  reagire
all'annullamento della norma di favore;
        che  nella  specie,  peraltro,  trattandosi di fatti commessi
anteriormente  all'entrata in vigore delle disposizioni impugnate, la
dichiarazione  di incostituzionalita' di queste ultime consentirebbe,
«con   ogni   probabilita»  - secondo  il  giudice  rimettente  -  di
sottoporre  a  pena  gli imputati sulla base del previgente art. 2621
cod. civ.;
        che   l'eventuale   ablazione   delle   norme  incriminatrici
censurate,  difatti,  non  comporterebbe  necessariamente  la  totale
perdita   di  rilevanza  penale  delle  false  comunicazioni  sociali
(abolitio  criminis):  potendosi  ipotizzare,  al  contrario,  che la
rimozione   della   norma   sopravvenuta   piu'   mite  determini  la
«reviviscenza»  di  quella  pregressa,  in  vigore  al  momento della
commissione dei fatti oggetto di giudizio;
        che  tale  soluzione  si  imporrebbe alla luce di una lettura
«piu'  attenta»  dell'art. 2,  terzo comma, cod. pen., a fronte della
quale  la  norma posteriore piu' favorevole prevarrebbe su quella del
tempo del commesso reato solo se «ancora vigente», e non, dunque, ove
la stessa venga rimossa a seguito di accertata incostituzionalita': e
cio'   anche   per   una   esigenza  di  rispetto  del  principio  di
ragionevolezza,  di cui all'art. 3 Cost., onde evitare che si ricorra
all'emanazione  di  una  lex  mitior a fini di riduzione dell'area di
rilevanza  penalistica,  in  luogo  di  percorrere altre strade «piu'
aderenti   allo   spirito  costituzionale»  (quale,  ad  esempio,  la
concessione di un'amnistia);
        che,  in  ogni  caso  -  conclude il rimettente - quando pure
l'ablazione   delle   norme   censurate  determinasse  la  «drastica»
conseguenza  di  una  totale  abolitio  della  fattispecie  criminosa
considerata,  tale  circostanza  «non  rileverebbe nel procedimento a
quo, se non nel determinare una diversa formula definitoria dei fatti
contestati»;
        che  nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  quale ha chiesto che la
questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata;
        che,  con  la  seconda delle ordinanze indicate in epigrafe -
pervenuta  alla  Corte  il  16 gennaio 2006 - il giudice dell'udienza
preliminare  del  Tribunale  di  Potenza ha sollevato, in riferimento
agli  artt. 11  e  117 Cost. e all'art. 6 della direttiva 68/151/CEE,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del d.lgs. n. 61
del  2002,  nella  parte  in  cui,  nel  disciplinare  la fattispecie
criminosa  delle «false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei
creditori», di cui al novellato art. 2622 cod. civ.:
        a) esclude  la punibilita' dei fatti previsti dal primo e dal
terzo  comma  se  le  falsita'  o  le  omissioni non alterano in modo
sensibile    la    rappresentazione   della   situazione   economica,
patrimoniale  o finanziaria della societa' o del gruppo al quale essa
appartiene,  o  comunque  determinano  una  variazione  del risultato
economico  di  esercizio,  al lordo delle imposte, non superiore al 5
per cento (art. 2622, quinto comma, cod. civ.);
        b) stabilisce che il fatto non e', in ogni caso, punibile «se
conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate,
differiscono  in  misura  non  superiore  al  10  per cento da quella
corretta» (art. 2622, sesto comma, cod. civ.);
        c) prevede,  per  il  reato  di  falso  in  bilancio commesso
nell'ambito   di  societa'  non  quotate  in  borsa,  la  pena  della
reclusione da sei mesi a tre anni;
        che  il  giudice  rimettente - chiamato a celebrare l'udienza
preliminare  nei  confronti  di  persone  imputate  del  reato di cui
all'art. 2622  cod.  civ.  (donde  la  limitazione a tale norma delle
censure di costituzionalita) - assume che il regime punitivo previsto
dalla  disposizione  denunciata  non  presenti  le caratteristiche di
efficacia,  proporzionalita'  e dissuasivita' che, in base all'art. 6
della prima direttiva, deve possedere la sanzione diretta a reprimere
la pubblicazione di bilanci falsi, cosi' come chiarito dalla Corte di
giustizia  delle  comunita'  europee  con sentenza 3 maggio 2005, nei
procedimenti riuniti C-387/2002, C-391/2002 e C-403/2002;
        che,  difatti,  una pena edittale non superiore nel massimo a
tre   anni   di   reclusione   -   pena   che  consente,  dunque,  il
«patteggiamento»  e  che  e'  suscettibile,  di norma, di sospensione
condizionale, in assenza di precedenti penali e con il riconoscimento
delle   attenuanti   generiche  -  non  potrebbe  essere  considerata
proporzionata  rispetto  ad  un reato plurioffensivo, quale quello in
discorso,  che  lede non soltanto l'interesse patrimoniale dei soci e
dei  creditori sociali, ma anche l'affidamento dei terzi nella fedele
rappresentazione   delle   condizioni   economico-finanziarie   della
societa';
        che  l'applicazione della predetta pena, d'altra parte, resta
comunque  esclusa qualora non si sia verificata, in conseguenza della
condotta  illecita,  una sensibile alterazione della rappresentazione
della   situazione   economica,   patrimoniale  e  finanziaria  della
societa',  ovvero  non  venga  accertato il superamento di «soglie di
tolleranza»  a  carattere  percentuale: e cio' sebbene la lesione del
bene  tutelato  si connetta, in ogni caso, alla semplice intenzionale
falsificazione dei dati contabili;
        che  la  pena  prevista dall'art. 2622 cod. civ. risulterebbe
carente  anche  sul  piano  dell'efficacia  dissuasiva:  efficacia da
valutare  con  riferimento  non  soltanto al tipo e alla misura della
sanzione,  ma  anche  alla  probabilita'  che  la stessa possa essere
irrogata in concreto;
        che,  a  fronte  del  limite edittale massimo di tre anni, il
reato  risulterebbe  soggetto, infatti, ad un termine di prescrizione
comunque  non  superiore - anche in presenza di atti interruttivi - a
sette  anni  e  mezzo:  termine da reputare inidoneo ad assicurare la
punizione dei colpevoli, per la sua eccessiva brevita';
        che  il  delitto  di false comunicazioni sociali in danno dei
soci  o  dei  creditori  si  consuma,  infatti,  con  il deposito del
bilancio,  dal  quale  inizia  pertanto  a  decorrere  il  termine di
prescrizione;   la   notitia  criminis,  tuttavia,  viene  di  regola
acquisita   solo  a  distanza  di  tempo,  a  seguito  di  «verifiche
ispettive»:  d'altro canto, sia l'attivita' di indagine che quella di
acquisizione  della  prova  in  dibattimento presuppongono l'esame di
«copiosa  documentazione»  e  l'espletamento  di complesse consulenze
contabili;
        che   ove   si   consideri,   poi,  che  la  definizione  del
procedimento  passa, di norma, attraverso tre gradi di giudizio e che
il  reato  rientra  nella  cognizione  del giudice collegiale, con la
conseguente    necessita'   di   celebrare   l'udienza   preliminare,
apparirebbe  estremamente  improbabile  che  il reato in parola venga
accertato  con  sentenza irrevocabile prima dello spirare del termine
di prescrizione;
        che  sotto  diverso profilo, poi, la circostanza che la Corte
di  giustizia,  nella citata sentenza 3 maggio 2005, abbia escluso la
diretta    operativita'    della    prima    direttiva    all'interno
dell'ordinamento   italiano,   non  implicherebbe  l'irrilevanza  del
riscontrato contrasto con la norma comunitaria;
        che  l'impossibilita' di applicare in modo immediato l'art. 6
della   prima  direttiva  nell'ordinamento  interno  deriverebbe,  in
effetti,  da  una  duplice  ragione:  e, cioe', sia dal fatto che una
direttiva  comunitaria  non  puo'  mai  determinare,  di  per  se'  -
indipendentemente  dall'adozione di una legge interna di attuazione -
un aggravamento della responsabilita' penale dell'imputato; sia dalla
circostanza    che   il   citato   art. 6   non   costituisce   norma
«autoapplicativa»,  in  quanto  -  nell'imporre  agli Stati membri di
prevedere  «adeguate  sanzioni» per i casi di mancata pubblicita' dei
conti  annuali  -  lascia  ai  singoli  Stati  un  certo  margine  di
discrezionalita' nella scelta degli strumenti per la sua attuazione;
        che,  in  simile situazione, non sarebbe dunque consentito al
giudice  italiano  «disapplicare»  sic et simpliciter le disposizioni
della  legge interna contrastanti con la norma comunitaria in parola,
come   viceversa  e'  possibile  -  alla  luce  della  giurisprudenza
costituzionale  -  ove  il  contrasto si manifesti in rapporto ad una
norma  comunitaria immediatamente efficace nell'ordinamento nazionale
(quali   quelle  contenute  in  regolamenti  comunitari  o  anche  in
direttive, purche' «self executing»);
        che il vulnus del precetto comunitario andrebbe fatto valere,
per   contro,  mediante  proposizione  di  questione  incidentale  di
legittimita'  costituzionale,  sotto  il profilo della violazione dei
principi  posti  tanto  dall'art. 11 Cost., il quale vincola lo Stato
all'osservanza  degli  impegni  assunti con l'adesione alla comunita'
europea;  quanto  dall'art. 117  Cost.  (come  sostituito dall'art. 3
della   legge  costituzionale  18 ottobre  2001,  n. 3),  che  impone
espressamente  allo  Stato  e  alle Regioni di esercitare la potesta'
legislativa  nel  rispetto  dei  vincoli  derivanti  dalla  normativa
comunitaria;
        che   quanto,   poi,   alla  rilevanza  della  questione,  il
rimettente  osserva  che,  nella specie, gli imputati sono chiamati a
rispondere  del  reato  di  cui  all'art. 2622  cod.  civ.  per fatti
commessi   sotto   il  vigore  dell'art. 2621  cod.  civ.  nella  sua
originaria formulazione;
        che  si tratta, in particolare, di falsi in bilancio commessi
al  termine  degli esercizi 1996, 1997 e 1998, in relazione ad alcuni
dei  quali il termine di prescrizione potrebbe essere gia' maturato o
prossimo  a  scadere;  e per i quali, comunque, sarebbe necessaria la
valutazione - non effettuata nel corso delle indagini preliminari, in
quanto concluse prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina -
del  superamento  delle  «soglie  di tolleranza» attualmente previste
dall'art. 2622  cod. civ.: valutazione che allungherebbe notevolmente
i   tempi  di  definizione  dell'udienza  preliminare  e  condurrebbe
verosimilmente  ad  una  pronuncia  di  estinzione  del  reato per lo
spirare, medio tempore, dei termini di prescrizione;
        che     l'eventuale     dichiarazione    di    illegittimita'
costituzionale  della  norma denunciata inciderebbe, dunque - secondo
il  rimettente - sull'esito del procedimento: giacche', provocando la
cessazione ex tunc dell'efficacia di detta norma, essa determinerebbe
la  «riespansione»  della  norma incriminatrice del falso in bilancio
nella  sua  originaria formulazione; con conseguente operativita' del
termine  di  prescrizione di dieci anni (prolungabili fino a quindici
in  presenza  di  atti  interruttivi)  e  con il riconoscimento della
completezza  dell'attivita'  di  indagine  espletata,  ai  fini della
decisione;
        che  l'applicazione agli attuali imputati dell'art. 2621 cod.
civ.,  nel  testo  originario,  sarebbe d'altra parte possibile - pur
trattandosi di norma meno favorevole di quella sottoposta a scrutinio
di  costituzionalita'  - proprio perche' i fatti contestati risultano
commessi nel vigore della disposizione piu' severa: onde l'operazione
non  comporterebbe  alcuna  lesione del principio nullum crimen nulla
poena sine lege, sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost.
    Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni in
larga  misura  analoghe,  onde  i  relativi giudizi vanno riuniti per
essere definiti con unica decisione;
        che,   successivamente   alle  ordinanze  di  rimessione,  e'
intervenuta  la  legge  28 dicembre 2005, n. 262 (Disposizioni per la
tutela  del  risparmio  e  la  disciplina  dei  mercati  finanziari),
pubblicata  nella  Gazzetta Ufficiale n. 301 del 28 dicembre 2005, il
cui  art. 30  ha sostituito le norme impugnate, modificando l'assetto
delle  figure  criminose  in  esame  in  rapporto  a  diversi profili
investiti dalle censure di costituzionalita' (risposta sanzionatoria,
impunita'  dei  fatti  che  restino  al  di  sotto  delle «soglie» di
rilevanza penale e, indirettamente, prescrizione);
        che il nuovo testo degli artt. 2621 e 2622 del codice civile,
quale  risultante  a  seguito della citata legge - oltre ad includere
fra  i  soggetti  attivi  dei  reati anche i «dirigenti preposti alla
redazione dei documenti contabili societari» (nuova figura introdotta
dall'art. 14,  comma 1,  lettera  n),  della  stessa legge n. 262 del
2005);  e  ad  inserire  fra  i soggetti passivi del danno penalmente
rilevante,  in  rapporto al delitto di cui all'art. 2622 cod. civ. (e
dunque titolari del diritto di querela), anche la societa' - prevede,
infatti,   rispetto   al  testo  immediatamente  precedente,  oggetto
dell'impugnativa,   una   pena   piu'  elevata  nel  massimo  per  la
fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 2621 cod. civ. (arresto
fino  a  due  anni,  anziche' fino ad un anno e sei mesi); e una pena
specifica  e  piu'  severa (reclusione da due a sei anni) per i fatti
delittuosi  commessi  nell'ambito  di  societa'  quotate  che abbiano
cagionato  «un grave nocumento ai risparmiatori» (art. 2622, quarto e
quinto comma, cod. civ.);
        che  le  nuove norme prevedono, inoltre, l'irrogazione di una
sanzione  amministrativa  pecuniaria,  unitamente  a  misure  di tipo
interdittivo,  nei  confronti  degli  amministratori  e  degli  altri
soggetti  qualificati  autori  di  falsita', quando queste ultime non
siano   punibili   come  reato:  o  perche'  non  produttive  di  una
alterazione   «sensibile»  della  rappresentazione  della  situazione
economica,  patrimoniale e finanziaria della societa' o del gruppo al
quale  quest'ultima appartiene; ovvero perche' rimaste comunque al di
sotto  delle  «soglie»,  a carattere percentuale, di rilevanza penale
del  fatto  (artt. 2621,  ultimo  comma,  e  2622, ultimo comma, cod.
civ.);
        che  tale  ultima  previsione  si  presta,  d'altro  canto, a
rendere applicabile alle falsita' ora indicate la disciplina generale
della    prescrizione   stabilita   in   rapporto   alle   violazioni
amministrative  dall'art. 28  della  legge  24 novembre  1981, n. 689
(Modifiche  al  sistema  penale),  la  quale,  oltre a contemplare un
termine  quinquennale, rinvia alle norme del codice civile in tema di
interruzione,  in  forza  delle  quali  la prescrizione non corre nel
corso del giudizio (art. 2945 cod. civ.);
        che  le  neointrodotte  sanzioni amministrative non sono poi,
ovviamente, suscettibili di sospensione condizionale: istituto la cui
applicabilita'  e'  addotta  dal giudice dell'udienza preliminare del
Tribunale  di  Potenza tra gli argomenti a comprova del carattere non
efficace  e  proporzionato  della  pena  prevista dall'art. 2622 cod.
civ.;
        che, per altro verso, l'ordinanza di rimessione del Tribunale
di Milano non specifica se, nel caso concreto, le soglie di rilevanza
penale del fatto risultino o meno superate; mentre quella del giudice
dell'udienza  preliminare del Tribunale di Potenza riferisce che tale
dato e' ignoto e che occorrerebbe accertarlo;
        che,  avuto  riguardo  anche al particolare parametro evocato
(l'asserita  contrarieta'  al  disposto  dell'art. 6  della direttiva
68/151/CEE),  il  quale  postula  una valutazione di «adeguatezza» di
risposte  sanzionatorie  non  predefinite,  compete quindi ai giudici
rimettenti  verificare  se  - anche alla luce dei principi in tema di
successione  delle  leggi  penali  (concernendo  i giudizi principali
fatti  commessi  sotto  il  vigore  dell'originaria disciplina di cui
all'art. 2621,  numero  1, cod. civ. e, dunque, in epoca anteriore ad
entrambi   gli  interventi  novativi  succedutisi  nel  tempo)  -  le
questioni  sollevate  restino  o  meno  rilevanti alla luce dello ius
superveniens;
        che  tale  verifica appare tanto piu' necessaria a fronte del
fatto   che   ambedue  i  rimettenti  sollevano  le  questioni  nella
convinzione  che  l'eventuale  rimozione delle norme denunciate - gli
artt. 2621  e 2622 cod. civ., come sostituiti dal decreto legislativo
11 aprile   2002,   n. 61   -  farebbe  «rivivere»  (o  potrebbe  far
«rivivere»,  secondo  il  Tribunale  di Milano) l'art. 2621 cod. civ.
nella    previgente    formulazione;   con   conseguente   automatico
«ripristino»  di  una  situazione di rispetto del diritto comunitario
(essendo,  quella  previgente, una norma in assunto «comunitariamente
adeguata»);
        che una simile convinzione si basa sull'implicito presupposto
che   l'invocata   declaratoria   di   costituzionalita'  verrebbe  a
travolgere,   oltre  alle  norme  impugnate  in  quanto  tali,  anche
l'effetto abrogativo da esse prodotto sulla norma anteriore: la quale
ultima, d'altro canto, potrebbe essere applicata nei giudizi a quibus
senza  alcuna  compromissione del principio di irretroattivita' della
norma  penale sfavorevole, di cui agli artt. 25, secondo comma, della
Costituzione  e  2, primo comma, del codice penale, in quanto i fatti
sono stati commessi nel tempo della sua vigenza;
        che,  peraltro  -  a prescindere da ogni considerazione circa
l'effettiva  ammissibilita'  dell'intervento di reintroduzione di una
fattispecie  criminosa  abrogata o modificata dal legislatore, che in
tal modo viene sostanzialmente richiesto a questa Corte (e cio' anche
alla  luce  di  quanto  precisato  nella  sentenza  n. 394  del 2006,
successiva  alle  ordinanze  di rimessione) - appare evidente come la
sequenza   di   effetti  prospettata  dai  rimettenti  non  sia  piu'
ipotizzabile dopo la sopravvenienza della legge n. 262 del 2005;
        che  la  ventilata  «reviviscenza»  dell'originario art. 2621
cod.  civ. non potrebbe, infatti, comunque discendere dalla rimozione
delle  norme  «intermedie»  di  cui agli artt. 2621 e 2622 cod. civ.,
come  sostituiti  dal  d.lgs.  n. 61  del  2002,  proprio perche' nel
frattempo  e'  intervenuta una successiva legge, che ha introdotto un
ulteriore  e  diverso testo delle norme denunciate (artt. 2621 e 2622
cod.  civ.,  come  sostituiti  dalla  legge  n. 262 del 2005): testo,
peraltro,  sempre  piu'  favorevole  per  il  reo  rispetto  a quello
dell'originario  art. 2621  cod.  civ., e dunque applicabile anche ai
fatti  pregressi, in luogo di quest'ultimo (una volta venute meno, in
ipotesi, le norme «intermedie»), sulla base dell'attuale quarto comma
dell'art. 2 cod. pen.;
        che,  alla  luce  di  tali  considerazioni - e a prescindere,
altresi',  da  ogni  rilievo  circa  le possibili manchevolezze delle
ordinanze  di  rimessione  in  punto  di  motivazione sulla rilevanza
(avuto riguardo segnatamente alla mancata espressa specificazione sia
della natura, quotata o non, delle societa' nel cui ambito sono state
commesse   le   falsita'   oggetto   dei   giudizi   principali;  sia
dell'avvenuta   presentazione   o   meno   della   querela  richiesta
dall'art. 2622  cod. civ. in rapporto alle societa' non quotate) - si
impone  dunque  la  restituzione  degli  atti ai giudici a quibus, in
conformita'  a  quanto  gia' disposto da questa Corte in relazione ad
analoghe ordinanze di rimessione (ordinanza n. 70 del 2006).
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Riuniti i giudizi,
    Ordina la restituzione degli atti ai giudici rimettenti.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2007.
                         Il Presidente: Bile
                         Il redattore: Flick
                      Il cancelliere: Fruscella
    Depositata in cancelleria il 14 giugno 2007.
                      Il cancelliere: Fruscella
07C0788