N. 607 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 febbraio 2007

Ordinanza emessa il 16 febbraio 2007 dalla Corte di appello di Torino
nel procedimento penale a carico di Laaouina Nourredine

Reati  e  pene  -  Circostanze  del  reato  - Concorso di circostanze
  aggravanti  e  attenuanti - Divieto di prevalenza della circostanza
  attenuante  di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309/1990 (in
  materia di traffico e detenzione illeciti di stupefacenti) nel caso
  di  imputato  recidivo  -  Violazione  dei  principi della funzione
  rieducativa  della pena e di offensivita' del reato - Contrasto con
  il principio di proporzionalita' e della ragionevolezza della pena.
- Codice  penale,  art. 69, comma quarto, come modificato dall'art. 3
  della legge 5 dicembre 2005, n. 251.
- Costituzione, artt. 3, 25, comma secondo, e 27, comma terzo.
(GU n.36 del 19-9-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nel procedimento penale a
carico  di  Laaouina  Nourredine,  nato  a  Casablanca  (Marocco)  il
30 agosto  1974,  alias Kamis Mohamed, nato a Casablanca (Marocco) il
30 luglio  1980,  elettivamente domiciliato presso l'avv. Calogero La
Verde  del foro di Torino, difeso dallo stesso avv. Calogero La Verde
del  foro  di Torino, imputato del delitto di cui all'art. 73, d.P.R.
n. 309/1990,  per  avere  illecitamente  detenuto  a  fini di spaccio
complessivi  gr. 147  di  hashish,  contenenti  gr. 2,61 di principio
attivo;   in   Torino,  il  7 marzo  2006;  con  recidiva  specifica,
reiterata, infraquinquennale;
    Premesso  che  l'imputato, essendo stato giudicato in primo grado
dal  g.u.p.  del  tribunale di Torino, con la sentenza emessa in data
13 ottobre   2006   e'   stato   dichiarato  responsabile  del  reato
ascrittogli  e pertanto, riconosciuta l'attenuante di cui all'art. 73
comma 5 d.P.R. n. 309/1990 e le attenuanti generiche equivalenti alla
recidiva  contestata, e' stato condannato, valutata la diminuente del
rito,  alla  pena  di anni quattro di reclusione ed euro 16.000,00 di
multa,  oltre  al pagamento delle spese processuali e di mantenimento
durante la custodia cautelare;
    Premesso  che il difensore dell'imputato ha presentato tempestivo
appello  avverso la sentenza pronunciata in primo grado nei confronti
del  proprio  assistito  richiedendo, tra l'altro, che il giudice del
gravame  contenesse  la  pena a costui irrogata ed applicasse la pena
edittalmente prevista dall'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990;
    Rilevato che e' stata pertanto fissata udienza camerale innanzi a
questa  sezione  della  Corte di appello di Torino per la trattazione
dell'appello come sopra proposto;
    Sentite  le  parti  che  sono comparse nell'udienza odierna ed al
termine  della  discussione  hanno concluso testualmente nei seguenti
termini:
        il  p.g.  ha  chiesto  che la Corte, ritenuta rilevante e non
manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 69,  comma  4 c.p. novellato, nella parte in cui prevede il
divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti e, in particolare,
di  quella  di  cui  all'art. 73,  comma  5, d.P.R. n. 309/1990 sulla
ritenuta   circostanza   aggravante   della  recidiva  reiterata  per
contrasto  con gli artt. 3, 25, secondo comma e 27, terzo comma della
Costituzione,   ordini   la   trasmissione   degli  atti  alla  Corte
costituzionale  sospendendo  il  processo, in subordine, che la Corte
confermi la sentenza appellata;
    La  difesa  in  principalita'  si  e'  associata  alla  richiesta
formulata  dal p.g.; in subordine ha richiamato i motivi di appello e
ne ha chiesto l'accoglimento;
    Tutto cio' premesso, osserva quanto segue.
    1.  -  La difesa dell'imputato, nel motivare il gravame proposto,
lamenta  l'eccessivita'  della  pena  che  la  sentenza  appellata ha
inflitto  al  proprio  assistito  e  chiede  pertanto  che  essa  sia
congruamente ridotta.
    Ricorda   che  la  decisione  impugnata,  dopo  avere  dichiarato
l'imputato   responsabile   del   reato  di  cui  all'art. 73  d.P.R.
n. 309/1990,  ha  peraltro  ritenuto  di  applicare  alla fattispecie
concreta  l'ipotesi  attenuata prevista dal quinto comma della citata
disposizione di legge in considerazione della sue lieve entita'; che,
inoltre,  ha  riconosciuto  il  prevenuto meritevole delle attenuanti
generiche;  che, da ultimo, ha ritenuto le due menzionate circostanze
attenuanti equivalenti alla contestata recidiva specifica, reiterata,
infraquinquennale,  cosi' come prescrive l'art. 69, ultimo comma c.p.
a  seguito  della  riforma introdotta dalla legge n. 251/2005. Rileva
che  cio'  significa, stando all'interpretazione alla quale mostra di
avere aderito il giudice di prime cure, che il giudice ha modulato la
pena  entro  i  limiti  previsti  dall'art. 73,  primo  comma  d.P.R.
n. 309/1990:  ovvero che e' partito a questo fine dall'assunto che la
pena  dovesse  essere  determinata  tra  un  minimo  di  sei  anni di
reclusione ed un massimo di venti anni quanto alla reclusione, tra un
minimo di euro 26.000 e un massimo di euro 260.000 quanto alla multa;
e  cio'  nonostante  avesse  riconosciuto  la lieve entita' del fatto
commesso, oltre al buon comportamento serbato dal prevenuto nel corso
del processo.
    Cio' premesso, dissente dall'interpretazione che risulta adottata
nella  sentenza.  E precisamente obietta che, a suo avviso, l'ipotesi
della  lieve entita' del fatto considerata nel citato art. 73, quinto
comma non puo' essere reputata una semplice circostanza attenuante ad
effetto   speciale,   bensi'   una  fattispecie  autonoma  di  reato.
Dall'attribuzione di una diversa qualificazione giuridica all'ipotesi
in  esame  (ritenuta  ipotesi  autonoma,  non circostanza attenuante)
ricava,  pertanto,  che il giudice di merito avrebbe dovuto contenere
la sanzione entro i limiti previsti dall'art. 73, quinto comma d.P.R.
n. 309/1990:  e cioe' avrebbe dovuto determinarla tra un minimo di un
anno  ed un massimo di sei anni di reclusione e tra un minimo di euro
3.000  ed un massimo di euro 26.000 di multa, appunto perche' avrebbe
dovuto  operare il calcolo della pena partendo dal presupposto che si
tratta di un'autonoma fattispecie normativa.
    La  difesa  motiva la propria valutazione che pone in discussione
la  natura  dell'ipotesi  delineata nell'art. 73, quinto comma citato
postulando  che  debba  essere  attribuita  una  particolare  portata
all'introduzione,  attuata  con  la legge n. 251/2005, del successivo
comma   5-bis.   Questa  disposizione  infatti,  nel  prevedere  che,
nell'ipotesi di cui al quinto comma dello stessa articolo, il giudice
possa  applicare  alla  persona  tossicodipendente o all'assuntore di
sostanze  stupefacenti o psicotrope che ne facciano richiesta la pena
del  lavoro  di  pubblica  utilita',  anziche'  le  pene  detentive e
pecuniarie in essa stabilite, a modo di vedere della parte appellante
ha  implicitamente  presupposto  che l'ipotesi prevista dall'art. 73,
quinto comma citato costituisce un'autonoma figura di reato. Adduce a
tale  proposito che, se l'ipotesi in questione fosse qualificata come
attenuante  ad  effetto speciale, allora non avrebbe senso l'espressa
eccezione prospettata per il caso che si debba concedere il beneficio
della  sospensione  condizionale  della pena. Pensa, in altre parole,
che  la  mancata concessione del beneficio il piu' delle volte, nelle
occorrenze  che  si  possono  frequentemente  verificare, sia dettata
dall'impedimento  costituito  dalla  recidiva  prevista dall'art. 99,
quarto   comma   c.p.   Pertanto  ritiene  che  l'esplicito  richiamo
all'ipotesi  del  quinto  comma  citato  consenta di presumere che il
legislatore   consideri   come  ordinariamente  molto.  probabile,  e
comunque non implausibile, l'eventualita' che le pene irrogate siano,
in  linea  di  massima,  contenute  entro  i  limiti previsti in tale
disposizione,  poiche' solo l'irrogazione di pene comprese entro tali
limiti  e' compatibile con un'eventuale concessione della sospensione
condizionale della pena a cui osti la recidiva.
    Questa  Corte  di  appello tuttavia non condivide la tesi esposta
nel   motivo  di  gravame  circa  l'esatta  qualificazione  giuridica
dell'ipotesi attenuata di cui si disputa.
    Non  puo'  evitare  di  obiettare  che  non  e'  corretto  basare
l'interpretazione intesa a ricostruire l'intendimento del legislatore
sopra l'id quod plerumque accidit nelle vicende concrete che la norma
e'   chiamata   a  disciplinare:  nel  caso  di  specie,  sul  tacito
presupposto che il legislatore riferisca la mancata concessione della
sospensione   condizionale   della  pena  all'eventualita',  ritenuta
probabile,   che   alla  concessione  del  beneficio  si  opponga  la
contestazione della recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma c.p.
La  natura  generale  ed astratta della legge penale e' incompatibile
con un procedimento ermeneutico che faccia riferimento ad accadimenti
che  non  esauriscono  del  tutto  la  sfera del particolare fenomeno
esaminato  perche'  sono solo probabili, ma non certi. Quindi la mera
eventualita'  che  il  soggetto  condannato  non  abbia  diritto alla
sospensione condizionale della pena perche' e' recidivo reiterato non
puo' offrire un criterio vincolante per l'interpretazione della norma
che  intende  disciplinare  tutte  le ipotesi in cui non gli si possa
concedere il beneficio, non soltanto alcune tra esse.
    E' del resto evidente che sotto piu' di un profilo il legislatore
ha  inteso  considerare  l'ipotesi  attenuata  prevista dall'art. 73,
quinto  comma,  d.P.R. n. 309/1990 come una circostanza attenuante ad
effetto  speciale.  Infatti  e' innegabile che la stessa osservazione
che  l'ipotesi  configurata  nella  disposizione dell'art. 73, quinto
comma  d.P.R.  citato  puo'  essere  riconosciuta soltanto in caso di
minima  offensivita' penale della condotta, - deducibile sia dal dato
qualitativo  e  quantitativo,  sia  dagli  altri parametri richiamati
dalla   disposizione   (mezzi,  modalita',  circostanze  dell'azione,
qualita'  e quantita' delle sostanze stupefacenti), - pone in risalto
che   la  situazione  presa  in  esame  configura  una  fatti  specie
caratterizzata  essenzialmente  dal  requisito di essere connotata da
una minore lesivita' in rapporto a quella presa in considerazione dal
primo  comma,  sicche'  dunque  e'  coerente ritenere che, rispetto a
questa,   non   puo'   che   costituire  una  circostanza  attenuante
dell'ipotesi che e' invece considerata quella ordinaria.
    Pertanto  e'  del  tutto  conseguente  dedurre dalla premessa ora
precisata  che,  in mancanza di una diversa determinazione normativa,
l'ipotesi  di  cui si dibatte integra una circostanza attenuante, sia
pure  ad  effetto  speciale.  Infatti,  qualora il legislatore avesse
voluto  qualificarla  come  autonoma  fattispecie  di  reato, avrebbe
dovuto  enunciarlo  espressamente,  ma  non  l'ha  fatto. Il silenzio
osservato  al riguardo impone percio' di considerarla una circostanza
attenuante.
    D'altronde occorre soggiungere che la tesi sostenuta dalla difesa
nell'appello,  secondo  cui  la previsione dell'art. 73, quinto comma
d.P.R.  n. 309/1990  integrerebbe una fattispecie autonoma di reato e
non  un'attenuante ad effetto speciale, si pone in contraddizione con
l'insegnamento   di   numerose   pronunce   della  giurisprudenza  di
legittimita'    che    compongono   un   orientamento   assolutamente
consolidato,  sia  pure  con riferimento alla precedente formulazione
della  norma  (si vedano, tra altre, Cass. pen., sez. IV, 18 novembre
1995,  n. 2611;  Cass.  pen., sez. IV, 1° giugno 1992, n. 8914; Cass.
pen.,   sez.  IV,  11 luglio  1991,  n. 356;  Cass.  pen.,  sez.  VI,
20 settembre  1991, n. 10278; Cass. pen., sez. unite, 31 maggio 1991,
n. 9148:  tutte  sono  concordi  nel  ritenere  che  si tratti di una
circostanza  attenuante ad effetto speciale, anziche' di una distinta
ipotesi di reato). Non puo' percio' essere accolta.
    Inoltre,  non  pare che, con interpretazione alternativa intesa a
conseguire  lo  stesso  risultato,  si  possa  affermare  che sarebbe
sufficiente  che  il giudice di merito decidesse di non tenere nessun
conto della recidiva nel calcolo della pena per vanificare il divieto
stabilito   dall'art. 69,   comma   quarto  c.p.,  presupponendo  che
l'aumento  di  pena  che  dipende  dall'applicazione  della  recidiva
reiterata  sia  oggetto  di  una  scelta  discrezionale  del giudice.
Infatti,   il   divieto   in  questione  e'  stabilito  con  riguardo
all'ipotesi   che   le  circostanze  aggravanti  siano  ritenute.  La
formulazione   lessicale   usata  (ritenute)  consente,  percio',  di
presumere che e' sufficiente che il giudice accerti che sussistono le
condizioni  che  sono  previste  dalla legge per ritenere corretta la
contestazione  della  recidiva  reiterata  perche'  il divieto stesso
divenga vincolante, sebbene l'organo giudicante possa essere incline,
nell'esercizio  della sua discrezionalita' nel determinare la pena, a
non  applicare  l'aumento  di  pena  che  e'  connesso  alla recidiva
contestata.
    D'altro  verso,  non  puo'  nemmeno  essere  seguito  il  diverso
indirizzo  ermeneutico  in  forza  del  quale  il  giudice di merito,
operando  in analogia con l'interpretazione che e' stata adottata con
riguardo  alla circostanza aggravante di cui all'art. 1, terzo comma,
legge  6 febbraio 1980, n. 15, non e' tenuto ad inserire nel giudizio
di  comparazione, in conformita' alla disposizione dell'art. 69 c.p.,
tutte  le  circostanze  aggravanti ed attenuanti che ravvisa, ma puo'
operare la comparazione soltanto tra le circostanze diverse da quella
che  gode di una particolare protezione, applicando prima la pena che
consegue  al  giudizio  di  comparazione  tra  le altre circostanze e
procedendo poi all'aumento di pena per quest'ultima aggravante.
    In  senso  contrario  e'  dato  opporre che la norma dell'art. 1,
legge  6 febbraio  1980,  n. 15,  ora  richiamata, oltre a sancire il
divieto  di  prevalenza e di equivalenza delle circostanze attenuanti
(diverse  da  quelle  di  cui  agli  artt. 98  e  114  c.p.) rispetto
all'aggravante della finalita' di terrorismo, prescrive espressamente
che  le  diminuzioni  di  pena  per  le  attenuanti  si operano sulla
quantita'  di  pena risultante dall'aumento conseguente alle predette
aggravanti  e  percio' fornisce l'indicazione di valutare l'incidenza
delle  attenuanti sul calcolo della pena dopo che sia stato applicato
l'aumento   che   dipende   dall'aggravante,  mentre,  nel  caso  che
costituisce oggetto della presente discussione, la norma in esame non
e'  formulata in termini assimilabili a quelli usati per l'aggravante
della  finalita' di terrorismo. Pertanto nel caso di specie non ci si
puo'  discostare  dalla  regola  generale dettata dall'art. 69, comma
quarto c.p., come novellato, che, dunque, costituisce una deroga alla
disposizione  stabilita  dall'art. 63,  terzo comma c.p. E', in altre
parole,  chiara  intenzione del legislatore di introdurre, per i casi
come  quello che e' oggetto di valutazione, il divieto per il giudice
di  merito  di  operare  l'aumento per la recidiva sulla pena che sia
stata   preventivamente   determinata  in  forza  del  riconoscimento
dell'attenuante   prevista   dall'art. 73,   quinto   comma,   d.P.R.
n. 309/1990,  avendo operato il giudizio di comparazione tra le altre
circostanze.
    Superata  l'obiezione  avanzata  nel motivo di gravame, non resta
quindi che concludere che la richiesta della parte appellante che sia
applicata  la pena prevista dal menzionato quinto comma dell'art. 73,
d.P.R.   n. 309/1990  si  pone  indubbiamente  in  contrasto  con  la
previsione   dell'art. 69,   quarto   comma   c.p.,  come  modificato
dall'art. 3   della  legge  n. 251/2005,  nel  punto  in  cui  questa
stabilisce   che  vi  e'  divieto  di  prevalenza  delle  circostante
attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti.
    Infatti,  come  la  sentenza  appellata ha puntualmente rilevato,
stante  l'espresso  divieto  di  prevalenza  delle  attenuanti  sulle
ritenute  circostanze  aggravanti  stabilito per i recidivi reiterati
dall'art. 69,  quarto  comma  c.p. (cosi' come modificato dall'art. 3
della  legge  5 dicembre  2005,  n. 251),  nel  caso che ne occupa il
giudizio  di  bilanciamento  con la recidiva non puo' andare oltre la
mera equivalenza.
    Poiche'  la  volonta'  del  legislatore  e'  certamente nel senso
indicato  nella motivazione ora richiamata, non e' consentito aderire
alla tesi secondo cui si potrebbe formulare il giudizio di prevalenza
dell'attenuante    prevista   dall'art. 73,   quinto   comma   d.P.R.
n. 309/1990,   -  in  unione  con  le  pure  riconosciute  attenuanti
generiche,  - sulla recidiva che la sentenza emessa in primo grado ha
ritenuto   fosse   correttamente  contestata.  Conseguentemente,  dal
menzionato  divieto  di  ritenere  la  prevalenza  dell'attenuante ad
effetto  speciale dell'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990 sulla
recidiva discendono l'impossibilita' di riformare in senso favorevole
all'imputato  la  valutazione  di equivalenza della citata attenuante
con  la  recidiva  contestata  e  la  sua seguente necessita' che sia
irrogata  la  pena  nella  misura  indicata dall'art. 73, primo comma
d.P.R.  citato,  di  gran  lunga  piu' elevata di quella prevista dal
quinto  comma  della  stessa  disposizione (basti pensare che la pena
detentiva  prevista  dal  primo comma dell'art. 73 e', nel minimo, di
sei anni di reclusione, mentre quella prevista dal quinto comma della
stessa  disposizione e' invece, sempre nel minimo, pari ad un anno di
reclusione,   per   rendersi  conto  della  sensibile  differenza  di
trattamento   che   scaturisce  dal  divieto  di  prevalenza  sancito
dall'art. 69,  quarto  comma  c.p.,  come novellato dall'art. 3 della
legge n. 251/2005).
    2.   -  Orbene,  secondo  questa  Corte,  non  e'  manifestamente
infondato  sostenere  che  il  limite  posto  dal  divieto  di cui in
premessa  alla possibilita' di calcolare il trattamento sanzionatorio
sulla  base  della  prevalenza riconosciuta all'attenuante ad effetto
speciale   appare  in  contrasto  con  i  principi  che  si  ricavano
dall'interpretazione   combinata  degli  artt. 27,  terzo  comma  25,
secondo  comma  e  3  della  Carta  costituzionale, vale a dire con i
principi  della  finalita'  rieducativa della pena, dell'offensivita'
del  reato  e, in diretta correlazione con i principi prima indicati,
della proporzionalita' e della ragionevolezza della pena.
    Deve  infatti  essere affrontato a questo riguardo il quesito che
impone  di  verificare  se la disposizione dell'art. 69, quarto comma
c.p., interpretata nel senso ora chiarito, e' coerente con i principi
dettati  dalla Carta costituzionale in tema di pena. E discende dalle
osservazioni prima esposte, in virtu' di un procedimento inferenziale
caratterizzato  da  lineare  coerenza,  che  si tratta di un'indagine
rilevante  al fini della decisione poiche' e' destinata a riflettersi
direttamente sull'entita' del trattamento sanzionatorio.
    Questo  giudice,  come  gia'  anticipato,  ritiene  infatti che i
principi  che  devono  essere  presi  in esame nella presente analisi
siano  quello che assegna alla pena la funzione rieducativa stabilito
dall'art. 27, terzo comma Cost. e quello della proporzionalita' della
pena,  ricavato dal principio della necessaria offensivita' del reato
che  si  evince  dall'art. 25, secondo comma Cost. e dal principio di
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Soccorre al riguardo l'analisi
che segue.
    2.1.  - Sotto il profilo che concerne la funzione rieducativa che
viene attribuita dall'art. 27, terzo comma Cost. alla sanzione penale
non  si  puo',  infatti,  evitare  di rilevare che la norma ordinaria
della  cui  legittimita'  costituzionale  si  controverte  pone  alla
discrezionalita'  del  giudice  un  limite nella determinazione della
pena  che  deve  essere inflitta al colpevole che in questo caso trae
origine  essenzialmente  da  una  qualita' personale (quella cioe' di
essere  stato  gia'  condannato  almeno due volte per delitto) che e'
considerata  indipendentemente dalla gravita' del fatto criminoso che
l'imputato  ha  commesso  e  per  cui  egli viene condannato nel caso
dedotto   in   giudizio.   L'irrogazione   di  una  sanzione  che  si
caratterizza,  come nel caso di specie, per una notevole severita', e
soprattutto  non  e'  in  diretto  rapporto con la gravita' del fatto
illecito commesso, appare, pertanto, in contrasto con il criterio, al
quale  peraltro  e'  stato  riconosciuto valore costituzionale, della
finalita'  rieducativa della pena: criterio che non dovrebbe soltanto
guidare  il  giudice,  ma dovrebbe anche orientare le scelte compiute
dal legislatore.
    E',  infatti,  ovvio  che  una  pena  che l'imputato e' portato a
ritenere  sproporzionata  per eccesso rispetto all'effettiva gravita'
del  fatto  di  cui  egli  si  e'  reso responsabile non adempie alla
funzione  di  risocializzazione  che  e'  chiamata a svolgere perche'
viene  da  costui  soggettivamente  percepita  come iniqua ed percio'
suscettibile  di  generare  dei sentimenti di ripulsa e di ribellione
che possono ostacolare la rieducazione del condannato.
    L'osservazione  ora  svolta  vale,  a  maggiore ragione, se, come
accade  appunto  nella fattispecie in esame, il divieto di prevalenza
delle  circostanze  attenuanti si estende ad un'attenuante ad effetto
speciale,  quale e' quella prevista dall'art. 73, quinto comma d.P.R.
n. 309/1990, la cui applicazione presuppone che il fatto sia di lieve
entita'.  Infatti,  in questo caso lo stesso legislatore ha ritenuto,
sulla  base  di una previsione generale ed astratta, di valutare come
accentuatamente lieve la lesivita' della condotta tenuta dall'agente,
fino  al  punto  di prevedere una pena base molto piu' mite di quella
che  invece  e'  prevista per il reato non attenuato. Cio' nondimeno,
con la modifica del testo dell'art. 69, quarto comma c.p., ha escluso
che  detta  attenuante,  nel giudizio di comparazione con la recidiva
reiterata,   possa  assolvere  la  funzione  di  diminuire  la  pena,
pervenendo  ad  un  risultato dissonante con la finalita' rieducativa
che viene a questa assegnata dalla Costituzione.
    Non  e' fuori luogo ribadire che la giurisprudenza della Corte di
cassazione  ha  chiarito,  al  riguardo,  che  l'attenuante  speciale
prevista  dall'art. 73,  comma  quinto d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309,
per   i  reati  di  produzione  e  traffico  di  stupefacenti,  trova
applicazione  quando la fatti-specie concreta risulti di trascurabile
offensivita',  sia  per  l'oggetto  materiale del reato, in relazione
alle  caratteristiche  qualitative e quantitative della sostanza, sia
per   la  condotta,  riferibile  al  mezzi,  alle  modalita'  e  alle
circostanze  della  stessa  (cosi'  inter plures Cass. pen., sez. IV,
24 febbraio  2005,  n. 20556;  Cass. pen., sez. IV, 21 dicembre 2004,
n. 10211; Cass. pen., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17).
    La   constatazione   che,   nonostante  il  riconoscimento  della
trascurabile   offensivita'  del  fatto  commesso,  la  pena  che  in
definitiva viene irrogata al soggetto colpevole di un fatto giudicato
di  lieve  entita'  e'  equivalente  a  quella,  molto  piu' elevata,
prevista  per  il  fatto  dotato  di  ordinaria  offensivita'  di cui
all'art. 73,  primo comma d.P.R. n. 309/1990 appare con ogni evidenza
suscettibile  di  generare  delle  conseguenze  negative sulla stessa
possibilita' che essa sia realmente idonea a tendere, nell'ipotesi in
esame, alla rieducazione della persona condannata.
    Per  questo  motivo  appare, dunque, in special modo importante e
non  altrimenti  eludibile  la  necessita'  che  il giudice non venga
limitato   nell'esercizio   del   potere  discrezionale  di  valutare
l'incidenza  dell'attenuante  ad  effetto speciale sulla misura della
pena  e  possa  tenere conto a questo fine di ogni peculiarita' della
concreta  fatti  specie  sottoposta  al  suo  vaglio,  attribuendo in
particolare  un  rilievo  non  marginale,  ove  del  caso, alla lieve
entita'   del   fatto  prevista  dall'art. 73,  quinto  comma  d.P.R.
n. 309/1990.  La  valutazione  del  legislatore che, sulla base della
considerazione,   elaborata  una  volta  per  tutte,  dell'importanza
preclusiva  di un elemento di ordine eminentemente personologico qual
e'  la recidiva, invece intende vietare in modo categorico al giudice
di ritenere la prevalenza dell'attenuante ad effetto speciale, appare
percio'  in palese contrasto con la finalita' rieducativa della pena,
posto  che  contemporaneamente si riconosce che il fatto, considerato
sia  sotto  l'aspetto  oggettivo,  sia  sotto  quello  soggettivo, e'
caratterizzato da tenue offensivita'.
    La disposizione in esame pare percio' integrare, per quanto si e'
esposto in ordine al suo contrasto con la finalita' rieducativa della
pena,   una   violazione   del   principio   costituzionale   sancito
dall'art. 27, terzo comma Cost.
    2.2.  -  Il divieto di ritenere la prevalenza delle attenuanti ad
effetto   speciale   sulla  recidiva  reiterata  implica  anche,  con
particolare  riferimento all'attenuante prevista dall'art. 73, quinto
comma  d.P.R.  n. 309/1990,  una  paventata  violazione del principio
della  necessaria proporzionalita' tra la pena concretamente inflitta
ed  il  fatto  commesso,  desunto  come  corollario  del principio di
offensivita' del reato e del principio di ragionevolezza della pena.
    E  noto  che  la Corte costituzionale ha riconosciuto che, pur in
assenza  di una norma che lo configuri espressamente, il principio di
offensivita'  (nullum crimen sine iniuria) ha valenza costituzionale.
Ha,  infatti, ritenuto che il principio della necessaria offensivita'
del  reato  costituisce  un vincolo non soltanto per l'interprete, ma
anche per il legislatore, avendo affermato, con sentenza n. 519/2000,
che  esso  opera  sia  sul terreno della previsione normativa, sia su
quello  dell'applicazione  giudiziale.  La stessa Corte, con sentenza
n. 360/1995, ha, inoltre, sottolineato che si tratta, in primo luogo,
di  un  limite  di  rango  costituzionale  alla  discrezionalita' del
legislatore  ordinario,  a cui fa riscontro il compito del giudice di
accertare  in  concreto, nel momento applicativo, se il comportamento
posto in essere lede effettivamente l'interesse tutelato dalla norma.
Coerentemente  con  tale  impostazione  ha  parlato,  nella pronuncia
n. 263/2000, di un ininterrotto operare del principio di offensivita'
dal    momento    dell'astratta   previsione   normativa   a   quello
dell'applicazione concreta da parte del giudice.
    Sul  punto  la  dottrina  ha  prevalentemente  osservato  che  il
principio trova radice nella formulazione dell'art. 25, secondo comma
Cost.,  poiche'  l'uso  della  locuzione  fatto  (nessuno puo' essere
punito  se  non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima
del  fatto  commesso)  e'  incompatibile  con  il  riferimento a meri
atteggiamenti   interiori   ed   a   meri  sintomi  di  pericolosita'
individuale,   poiche'   intende  che  siano  punite  delle  condotte
materiali connotate dall'essere offensive.
    Altri  referenti normativi sono stati, per la verita', variamente
individuati  da  taluni esegeti: nel gia' citato art. 27, terzo comma
Cost.   che,  assegnando  alla  condanna  il  fine  di  tendere  alla
rieducazione  del  condannato, presuppone che quest'ultimo percepisca
nitidamente  l'antigiuridicita'  del proprio comportamento e comporta
che  la  condanna  per  violazioni di doveri ai quali non corrisponde
nessuna  offesa  sia  destinata  a vanificare la funzione rieducativa
della  pena;  nell'art. 13  Cost.  che  tutela la liberta' personale,
poiche'  l'irrogazione di una pena limitativa del bene della liberta'
puo'  essere concepita solo come reazione ad una condotta che offende
un  bene  di  uguale  rango; nell'art. 21 Cost. che tutela ogni agire
umano  come  forma  di  libera  espressione  del pensiero, sicche' la
punizione    di    meri   comportamenti   inoffensivi,   per   quanto
corrispondenti   al   tipo   normativo,  concreterebbe  un'arbitraria
compressione  della  liberta' di pensiero. E', dunque, incontestabile
che  il  principio  invocato  puo'  trovare  una  molteplice  matrice
costituzionale.
    Tuttavia  il  riferimento  al  principio  enunciato  dall'art. 25
secondo  comma  indubbiamente  svolge,  in tale quadro, il ruolo piu'
significativo.  In perfetta coerenza con questa impostazione la Corte
costituzionale,  nella  citata sentenza n. 263/2000, ha espressamente
fatto  rinvio,  appunto,  all'art. 25  Cost.  nell'affermare che esso
postula,  come  gia' esposto, l'ininterrotto operare del principio di
offensivita'  dal momento dell'astratta previsione normativa a quello
dell'applicazione  concreta da parte del giudice. Analogamente, nella
sentenza n. 354/2002, ha ribadito che il limite alla discrezionalita'
legislativa   in   materia   penale   costituito   dal  principio  di
offensivita' e' desumibile dall'art. 25, secondo comma Cost., nel suo
legame  sistematico  con  l'insieme dei valori connessi alla dignita'
umana.
    In  conclusione:  e'  certo  che  un  ordinamento che si ispira a
valori di laicita' e di tolleranza e riconosce ad ogni uomo un nucleo
di  diritti  inviolabili, tributando, nell'art. 3, primo comma Cost.,
pari  dignita'  sociale ed eguaglianza davanti alla legge a tutti gli
uomini,  non  puo'  punire  la  mera  disobbedienza, ed ancor meno la
volonta'  di disobbedire, intesa come sintomo di pura pericolosita' e
di  individuale  antisocialita',  svincolate  dal  collegamento ad un
fatto  offensivo  di  un  bene  giuridico.  E'  questa  una  garanzia
irrinunciabile  in  un ordinamento ispirato a valori di liberta' e di
uguaglianza che trova consacrazione nell'art. 25, secondo comma della
Carta costituzionale.
    Cio'  premesso, e' dato ricavare dall'elaborazione compiuta dalla
giurisprudenza  della  Consulta  che il principio di offensivita' non
puo' non essere inteso in necessaria correlazione con il principio di
proporzionalita'  della  pena  all'offesa  prodotta in danno del bene
giuridico protetto, interpretato alla luce del fondamentale principio
di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
    La  Corte  costituzionale ha, infatti, piu' volte chiarito che la
pena   edittale   non   puo'   mancare   di   essere  necessariamente
proporzionata  al  grado  di  offesa  realizzato  dalla  condotta del
colpevole.  In  conformita'  con  questa  impostazione,  invocando il
principio  di  ragionevolezza,  ha  ammesso  il sindacato delle norme
penali   che  prevedono  sanzioni  non  proporzionate  all'intensita'
dell'offesa  arrecata  sotto  il  profilo che ha ricavato dall'art. 3
Cost.  quando  ha  ribadito  che la pena deve essere proporzionata al
disvalore del fatto illecito. Sviluppando con chiarezza questa stessa
linea  interpretativa,  nella  sentenza  n. 341/1994,  ha invero, con
significativa  enunciazione,  espressamente  affermato  che,  pur non
spettando  alla Corte di rimodulare le scelte punitive effettuate dal
legislatore,  ne'  di  stabilire  quantificazioni  sanzionatorie,  le
rimane  il  compito  di  verificare  che l'uso della discrezionalita'
legislativa  in  materia rispetti il limite della ragionevolezza e il
principio   di   proporzionalita'  tra  qualita'  e  quantita'  della
sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra.
    Il punto di equilibrio tra il principio di legalita' e l'esigenza
di  individualizzazione  della  pena  in  cui,  a  ben riflettere, si
colloca  il  principio  di proporzionalita' deve indubbiamente essere
ricercato   nella   predeterminazione,   per   ogni  singola  ipotesi
normativa,  di  una cornice di pena, vale a dire di un minimo e di un
massimo  edittalmente  previsti  dal  legislatore  entro  il quale il
giudice  deve  scegliere  la  sanzione  che  ritiene adeguata al caso
concreto.
    La   Corte  costituzionale,  a  tale  riguardo,  ha  puntualmente
precisato,  con  pronuncia n. 131/1970, che il principio di legalita'
della  pena  non puo' prescindere dall'individualizzazione di questa,
ossia   non   puo'  prescindere  dal  suo  adeguamento  alle  singole
fattispecie.  Inoltre,  con sentenza n. 50/1980, ha posto in evidenza
che l'individualizzazione della pena si pone come naturale attuazione
e  sviluppo  di  principi  costituzionali,  tanto  di ordine generale
(principio  di eguaglianza), quanto attinenti direttamente la materia
penale.  Con la stessa sentenza ha inteso, altresi', sottolineare che
l'adeguamento  delle  risposte punitive ai casi concreti - in termini
di uguaglianza e/o di differenziazione di trattamento - contribuisce,
da   un   lato,   a   rendere  quanto  piu'  possibile  personale  la
responsabilita'  penale nella prospettiva segnata dall'art. 27, primo
comma; e nello stesso tempo e' strumento per una determinazione della
pena    quanto   piu'   possibile   finaliziata   nella   prospettiva
dell'art. 27,   terzo   comma   Cost.   Ha,  pertanto,  concluso  che
l'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva,
proporzione  della  pena  rispetto  alle personali responsabilita' ed
alle esigenze di risposta che ne conseguono.
    L'intento  di  assicurare  la  proporzionalita'  della  pena  non
esclude,   per   altro   verso,   che  il  dubbio  di  illegittimita'
costituzionale  suscitato da una sanzione troppo rigida possa essere,
caso  per  caso,  superato  quando la previsione di una pena edittale
fissa  (o  comunque,  viene  fatto  di  soggiungere,  non modulata in
relazione  alla  particolarita'  del  caso di specie) tuttavia appaia
ragionevolmente   proporzionata  all'intera  gamma  di  comportamenti
riconducibili allo specifico tipo di reato. Ma, salva l'eccezione qui
menzionata, in linea di massima, stando alle statuizioni della Corte,
le  previsioni  sanzionatorie  connotate  da  eccessiva rigidita' non
appaiono in armonia con il volto costituzionale del sistema penale.
    Il profilo che nel caso di cui si discute appare, in particolare,
di  dubbia compatibilita' con il criterio guida assunto dal principio
della proporzionalita' della pena, - che pure, si ripete, possiede un
rango    costituzionale,    essendo   correlato   al   principio   di
ragionevolezza  ed  a  quello di offensivita', - e' rappresentato dal
rilievo  che  il  limite  posto alla discrezionalita' del giudice nel
determinare  la  sanzione che e' concretato dal divieto di prevalenza
delle  attenuanti  in  generale,  e in particolare dell'attenuante ad
effetto speciale di cui all'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990,
sulla  ritenuta recidiva reiterata non viene fatto derivare dal grado
e  dall'intensita'  dell'offesa  che il fatto arreca al bene protetto
dall'ordinamento,   bensi'  dalle  precedenti  condanne  dalle  quali
dipende  la  possibilita'  che  sia,  appunto,  ritenuta  la recidiva
reiterata.   Si  delinea,  quindi,  il  pericolo  che  venga  punita,
ricorrendo  al mezzo rappresentato dal divieto in questione, non gia'
in  primo  e  principale  luogo l'offesa causata al bene tutelato, ma
prevalentemente  la  colpevolezza  per la condotta di vita tenuta dal
colpevole nel tempo che ha preceduto il fatto costituente reato.
    Ritiene  questa  Corte,  in  altre  parole,  che  la disposizione
esaminata   comporti   lo  spostamento  dell'accento  dagli  elementi
oggettivi  agli  elementi soggettivi e personalistici del reato e che
la  volonta'  colpevole  non  sia  piu'  intesa solo come il criterio
vincolante  per  l'attribuzione all'imputato della responsabilita' di
avere  causato offesa ad un bene giuridico protetto dall'ordinamento,
ma  come  il  fondamento  principale  della responsabilita' penale in
funzione dell'intrinseca attitudine antisociale della persona e della
sua   pericolosita'   presunta,   ancorche'   queste  qualita'  siano
determinate  mediante  il  rinvio  agli elementi oggettivi costituiti
dalle  precedenti  condanne.  Non  puo'  non  avvertire  inoltre  che
affiora,  sullo  sfondo,  la  tentazione  inquietante di riesumare la
figura del tipo di autore.
    Nel  caso  qui  analizzato  e',  in  special modo, fonte di forte
perplessita'  che  sia  riconosciuto  soltanto  un  risalto  alquanto
limitato  alla  lieve  entita'  del  fatto di cui all'art. 73, quinto
comma  d.P.R.  n. 309/1990, cioe' alla sua trascurabile offensivita',
rispetto  al  peso  preponderante  che  invece  viene attribuito alla
recidiva reiterata, dando cosi' luogo ad ingiustificate ed importanti
ripercussioni  sulla  misura  della  pena.  E  la  perplessita' viene
accresciuta  dal  rilievo  che la recidiva e' assunta dal legislatore
come  l'indice  sulla  scorta  del  quale  il  giudice deve presumere
obbligatoriamente  la  pericolosita'  del  soggetto senza che gli sia
lasciata  la  possibilita'  di sindacare l'attendibilita' in concreto
della  presunzione  formulata,  nonostante  questa  sia  destinata  a
riflettere drasticamente i suoi effetti sul trattamento sanzionatorio
applicato all'imputato.
    E',  pertanto,  dato  individuare,  nei  tratti  segnalati  nelle
osservazioni   che   precedono,   un   possibile   contrasto  tra  la
disposizione  esaminata  e  le norme degli artt. 25 secondo comma e 3
della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  la disposizione presa in
considerazione  prevede il divieto della prevalenza delle circostanze
attenuanti  ad  effetto speciale e, in particolare, della circostanza
attenuante  prevista  dall'art. 73,  quinto comma d.P.R. n. 309/1990,
sulla  ritenuta  recidiva  reiterata.  La  norma ordinaria oggetto di
valutazione  appare,  infatti,  in  conflitto  con il principio della
proporzionalita'  della pena che, come esposto, assurge a criterio di
primario  rango  costituzionale perche', a sua volta, e' strettamente
collegato  con  il  principio della necessaria offensivita' del fatto
costituente reato e con quello della ragionevolezza della pena.
    3.  -  La  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69,
quarto  comma  c.p.  prospettata  nelle  precedenti  osservazioni  e'
sicuramente  rilevante,  poiche' il presente giudizio non puo' essere
definito  indipendentemente  dalla  sua  risoluzione. Inoltre, per le
ragioni   prima  illustrate,  non  si  puo'  ritenere  manifestamente
infondata  sotto  il  duplice  profilo del contrasto con il principio
della  finalita'  rieducativa  della  pena  e  del  contrasto  con il
principio  di  proporzionalita'  della  sanzione rispetto all'offesa,
desunto  a  sua  volta  dai principi di offensivita' del reato di cui
all'art. 25,   secondo  comma  citato  e  di  ragionevolezza  di  cui
all'art. 3 Cost.
    Deve,   dunque,   essere   sottoposta   al   vaglio  della  Corte
costituzionale.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 legge, 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 69,  quarto  comma c.p., come
modificato  dall'art. 3  della  legge  5 dicembre  2005,  n. 251  per
contrasto  con  gli artt. 27, terzo comma 25, secondo comma e 3 della
Costituzione,  nella  parte  in  cui  in cui prevede il divieto della
prevalenza della circostanza attenuante prevista dall'art. 73, quinto
comma  d.P.R. n. 309/1990 sulla ritenuta circostanza aggravante della
recidiva reiterata;
    Pertanto  dispone  l'immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale;
    Sospende  il  giudizio  in corso ed i termini di prescrizione del
reato;
    Ordina  che,  a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata  al  Presidente  del Consiglio dei ministri e che essa sia
comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della
Repubblica.
        Torino, addi' 1° febbraio 2007
                        Il Presidente: Ogge'
07C1095