N. 607 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 febbraio 2007
Ordinanza emessa il 16 febbraio 2007 dalla Corte di appello di Torino nel procedimento penale a carico di Laaouina Nourredine Reati e pene - Circostanze del reato - Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti - Divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309/1990 (in materia di traffico e detenzione illeciti di stupefacenti) nel caso di imputato recidivo - Violazione dei principi della funzione rieducativa della pena e di offensivita' del reato - Contrasto con il principio di proporzionalita' e della ragionevolezza della pena. - Codice penale, art. 69, comma quarto, come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251. - Costituzione, artt. 3, 25, comma secondo, e 27, comma terzo.(GU n.36 del 19-9-2007 )
LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di Laaouina Nourredine, nato a Casablanca (Marocco) il 30 agosto 1974, alias Kamis Mohamed, nato a Casablanca (Marocco) il 30 luglio 1980, elettivamente domiciliato presso l'avv. Calogero La Verde del foro di Torino, difeso dallo stesso avv. Calogero La Verde del foro di Torino, imputato del delitto di cui all'art. 73, d.P.R. n. 309/1990, per avere illecitamente detenuto a fini di spaccio complessivi gr. 147 di hashish, contenenti gr. 2,61 di principio attivo; in Torino, il 7 marzo 2006; con recidiva specifica, reiterata, infraquinquennale; Premesso che l'imputato, essendo stato giudicato in primo grado dal g.u.p. del tribunale di Torino, con la sentenza emessa in data 13 ottobre 2006 e' stato dichiarato responsabile del reato ascrittogli e pertanto, riconosciuta l'attenuante di cui all'art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309/1990 e le attenuanti generiche equivalenti alla recidiva contestata, e' stato condannato, valutata la diminuente del rito, alla pena di anni quattro di reclusione ed euro 16.000,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e di mantenimento durante la custodia cautelare; Premesso che il difensore dell'imputato ha presentato tempestivo appello avverso la sentenza pronunciata in primo grado nei confronti del proprio assistito richiedendo, tra l'altro, che il giudice del gravame contenesse la pena a costui irrogata ed applicasse la pena edittalmente prevista dall'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990; Rilevato che e' stata pertanto fissata udienza camerale innanzi a questa sezione della Corte di appello di Torino per la trattazione dell'appello come sopra proposto; Sentite le parti che sono comparse nell'udienza odierna ed al termine della discussione hanno concluso testualmente nei seguenti termini: il p.g. ha chiesto che la Corte, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, comma 4 c.p. novellato, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti e, in particolare, di quella di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 sulla ritenuta circostanza aggravante della recidiva reiterata per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma e 27, terzo comma della Costituzione, ordini la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sospendendo il processo, in subordine, che la Corte confermi la sentenza appellata; La difesa in principalita' si e' associata alla richiesta formulata dal p.g.; in subordine ha richiamato i motivi di appello e ne ha chiesto l'accoglimento; Tutto cio' premesso, osserva quanto segue. 1. - La difesa dell'imputato, nel motivare il gravame proposto, lamenta l'eccessivita' della pena che la sentenza appellata ha inflitto al proprio assistito e chiede pertanto che essa sia congruamente ridotta. Ricorda che la decisione impugnata, dopo avere dichiarato l'imputato responsabile del reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309/1990, ha peraltro ritenuto di applicare alla fattispecie concreta l'ipotesi attenuata prevista dal quinto comma della citata disposizione di legge in considerazione della sue lieve entita'; che, inoltre, ha riconosciuto il prevenuto meritevole delle attenuanti generiche; che, da ultimo, ha ritenuto le due menzionate circostanze attenuanti equivalenti alla contestata recidiva specifica, reiterata, infraquinquennale, cosi' come prescrive l'art. 69, ultimo comma c.p. a seguito della riforma introdotta dalla legge n. 251/2005. Rileva che cio' significa, stando all'interpretazione alla quale mostra di avere aderito il giudice di prime cure, che il giudice ha modulato la pena entro i limiti previsti dall'art. 73, primo comma d.P.R. n. 309/1990: ovvero che e' partito a questo fine dall'assunto che la pena dovesse essere determinata tra un minimo di sei anni di reclusione ed un massimo di venti anni quanto alla reclusione, tra un minimo di euro 26.000 e un massimo di euro 260.000 quanto alla multa; e cio' nonostante avesse riconosciuto la lieve entita' del fatto commesso, oltre al buon comportamento serbato dal prevenuto nel corso del processo. Cio' premesso, dissente dall'interpretazione che risulta adottata nella sentenza. E precisamente obietta che, a suo avviso, l'ipotesi della lieve entita' del fatto considerata nel citato art. 73, quinto comma non puo' essere reputata una semplice circostanza attenuante ad effetto speciale, bensi' una fattispecie autonoma di reato. Dall'attribuzione di una diversa qualificazione giuridica all'ipotesi in esame (ritenuta ipotesi autonoma, non circostanza attenuante) ricava, pertanto, che il giudice di merito avrebbe dovuto contenere la sanzione entro i limiti previsti dall'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990: e cioe' avrebbe dovuto determinarla tra un minimo di un anno ed un massimo di sei anni di reclusione e tra un minimo di euro 3.000 ed un massimo di euro 26.000 di multa, appunto perche' avrebbe dovuto operare il calcolo della pena partendo dal presupposto che si tratta di un'autonoma fattispecie normativa. La difesa motiva la propria valutazione che pone in discussione la natura dell'ipotesi delineata nell'art. 73, quinto comma citato postulando che debba essere attribuita una particolare portata all'introduzione, attuata con la legge n. 251/2005, del successivo comma 5-bis. Questa disposizione infatti, nel prevedere che, nell'ipotesi di cui al quinto comma dello stessa articolo, il giudice possa applicare alla persona tossicodipendente o all'assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope che ne facciano richiesta la pena del lavoro di pubblica utilita', anziche' le pene detentive e pecuniarie in essa stabilite, a modo di vedere della parte appellante ha implicitamente presupposto che l'ipotesi prevista dall'art. 73, quinto comma citato costituisce un'autonoma figura di reato. Adduce a tale proposito che, se l'ipotesi in questione fosse qualificata come attenuante ad effetto speciale, allora non avrebbe senso l'espressa eccezione prospettata per il caso che si debba concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena. Pensa, in altre parole, che la mancata concessione del beneficio il piu' delle volte, nelle occorrenze che si possono frequentemente verificare, sia dettata dall'impedimento costituito dalla recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma c.p. Pertanto ritiene che l'esplicito richiamo all'ipotesi del quinto comma citato consenta di presumere che il legislatore consideri come ordinariamente molto. probabile, e comunque non implausibile, l'eventualita' che le pene irrogate siano, in linea di massima, contenute entro i limiti previsti in tale disposizione, poiche' solo l'irrogazione di pene comprese entro tali limiti e' compatibile con un'eventuale concessione della sospensione condizionale della pena a cui osti la recidiva. Questa Corte di appello tuttavia non condivide la tesi esposta nel motivo di gravame circa l'esatta qualificazione giuridica dell'ipotesi attenuata di cui si disputa. Non puo' evitare di obiettare che non e' corretto basare l'interpretazione intesa a ricostruire l'intendimento del legislatore sopra l'id quod plerumque accidit nelle vicende concrete che la norma e' chiamata a disciplinare: nel caso di specie, sul tacito presupposto che il legislatore riferisca la mancata concessione della sospensione condizionale della pena all'eventualita', ritenuta probabile, che alla concessione del beneficio si opponga la contestazione della recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma c.p. La natura generale ed astratta della legge penale e' incompatibile con un procedimento ermeneutico che faccia riferimento ad accadimenti che non esauriscono del tutto la sfera del particolare fenomeno esaminato perche' sono solo probabili, ma non certi. Quindi la mera eventualita' che il soggetto condannato non abbia diritto alla sospensione condizionale della pena perche' e' recidivo reiterato non puo' offrire un criterio vincolante per l'interpretazione della norma che intende disciplinare tutte le ipotesi in cui non gli si possa concedere il beneficio, non soltanto alcune tra esse. E' del resto evidente che sotto piu' di un profilo il legislatore ha inteso considerare l'ipotesi attenuata prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990 come una circostanza attenuante ad effetto speciale. Infatti e' innegabile che la stessa osservazione che l'ipotesi configurata nella disposizione dell'art. 73, quinto comma d.P.R. citato puo' essere riconosciuta soltanto in caso di minima offensivita' penale della condotta, - deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalita', circostanze dell'azione, qualita' e quantita' delle sostanze stupefacenti), - pone in risalto che la situazione presa in esame configura una fatti specie caratterizzata essenzialmente dal requisito di essere connotata da una minore lesivita' in rapporto a quella presa in considerazione dal primo comma, sicche' dunque e' coerente ritenere che, rispetto a questa, non puo' che costituire una circostanza attenuante dell'ipotesi che e' invece considerata quella ordinaria. Pertanto e' del tutto conseguente dedurre dalla premessa ora precisata che, in mancanza di una diversa determinazione normativa, l'ipotesi di cui si dibatte integra una circostanza attenuante, sia pure ad effetto speciale. Infatti, qualora il legislatore avesse voluto qualificarla come autonoma fattispecie di reato, avrebbe dovuto enunciarlo espressamente, ma non l'ha fatto. Il silenzio osservato al riguardo impone percio' di considerarla una circostanza attenuante. D'altronde occorre soggiungere che la tesi sostenuta dalla difesa nell'appello, secondo cui la previsione dell'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990 integrerebbe una fattispecie autonoma di reato e non un'attenuante ad effetto speciale, si pone in contraddizione con l'insegnamento di numerose pronunce della giurisprudenza di legittimita' che compongono un orientamento assolutamente consolidato, sia pure con riferimento alla precedente formulazione della norma (si vedano, tra altre, Cass. pen., sez. IV, 18 novembre 1995, n. 2611; Cass. pen., sez. IV, 1° giugno 1992, n. 8914; Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 1991, n. 356; Cass. pen., sez. VI, 20 settembre 1991, n. 10278; Cass. pen., sez. unite, 31 maggio 1991, n. 9148: tutte sono concordi nel ritenere che si tratti di una circostanza attenuante ad effetto speciale, anziche' di una distinta ipotesi di reato). Non puo' percio' essere accolta. Inoltre, non pare che, con interpretazione alternativa intesa a conseguire lo stesso risultato, si possa affermare che sarebbe sufficiente che il giudice di merito decidesse di non tenere nessun conto della recidiva nel calcolo della pena per vanificare il divieto stabilito dall'art. 69, comma quarto c.p., presupponendo che l'aumento di pena che dipende dall'applicazione della recidiva reiterata sia oggetto di una scelta discrezionale del giudice. Infatti, il divieto in questione e' stabilito con riguardo all'ipotesi che le circostanze aggravanti siano ritenute. La formulazione lessicale usata (ritenute) consente, percio', di presumere che e' sufficiente che il giudice accerti che sussistono le condizioni che sono previste dalla legge per ritenere corretta la contestazione della recidiva reiterata perche' il divieto stesso divenga vincolante, sebbene l'organo giudicante possa essere incline, nell'esercizio della sua discrezionalita' nel determinare la pena, a non applicare l'aumento di pena che e' connesso alla recidiva contestata. D'altro verso, non puo' nemmeno essere seguito il diverso indirizzo ermeneutico in forza del quale il giudice di merito, operando in analogia con l'interpretazione che e' stata adottata con riguardo alla circostanza aggravante di cui all'art. 1, terzo comma, legge 6 febbraio 1980, n. 15, non e' tenuto ad inserire nel giudizio di comparazione, in conformita' alla disposizione dell'art. 69 c.p., tutte le circostanze aggravanti ed attenuanti che ravvisa, ma puo' operare la comparazione soltanto tra le circostanze diverse da quella che gode di una particolare protezione, applicando prima la pena che consegue al giudizio di comparazione tra le altre circostanze e procedendo poi all'aumento di pena per quest'ultima aggravante. In senso contrario e' dato opporre che la norma dell'art. 1, legge 6 febbraio 1980, n. 15, ora richiamata, oltre a sancire il divieto di prevalenza e di equivalenza delle circostanze attenuanti (diverse da quelle di cui agli artt. 98 e 114 c.p.) rispetto all'aggravante della finalita' di terrorismo, prescrive espressamente che le diminuzioni di pena per le attenuanti si operano sulla quantita' di pena risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti e percio' fornisce l'indicazione di valutare l'incidenza delle attenuanti sul calcolo della pena dopo che sia stato applicato l'aumento che dipende dall'aggravante, mentre, nel caso che costituisce oggetto della presente discussione, la norma in esame non e' formulata in termini assimilabili a quelli usati per l'aggravante della finalita' di terrorismo. Pertanto nel caso di specie non ci si puo' discostare dalla regola generale dettata dall'art. 69, comma quarto c.p., come novellato, che, dunque, costituisce una deroga alla disposizione stabilita dall'art. 63, terzo comma c.p. E', in altre parole, chiara intenzione del legislatore di introdurre, per i casi come quello che e' oggetto di valutazione, il divieto per il giudice di merito di operare l'aumento per la recidiva sulla pena che sia stata preventivamente determinata in forza del riconoscimento dell'attenuante prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990, avendo operato il giudizio di comparazione tra le altre circostanze. Superata l'obiezione avanzata nel motivo di gravame, non resta quindi che concludere che la richiesta della parte appellante che sia applicata la pena prevista dal menzionato quinto comma dell'art. 73, d.P.R. n. 309/1990 si pone indubbiamente in contrasto con la previsione dell'art. 69, quarto comma c.p., come modificato dall'art. 3 della legge n. 251/2005, nel punto in cui questa stabilisce che vi e' divieto di prevalenza delle circostante attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti. Infatti, come la sentenza appellata ha puntualmente rilevato, stante l'espresso divieto di prevalenza delle attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti stabilito per i recidivi reiterati dall'art. 69, quarto comma c.p. (cosi' come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251), nel caso che ne occupa il giudizio di bilanciamento con la recidiva non puo' andare oltre la mera equivalenza. Poiche' la volonta' del legislatore e' certamente nel senso indicato nella motivazione ora richiamata, non e' consentito aderire alla tesi secondo cui si potrebbe formulare il giudizio di prevalenza dell'attenuante prevista dall'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990, - in unione con le pure riconosciute attenuanti generiche, - sulla recidiva che la sentenza emessa in primo grado ha ritenuto fosse correttamente contestata. Conseguentemente, dal menzionato divieto di ritenere la prevalenza dell'attenuante ad effetto speciale dell'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990 sulla recidiva discendono l'impossibilita' di riformare in senso favorevole all'imputato la valutazione di equivalenza della citata attenuante con la recidiva contestata e la sua seguente necessita' che sia irrogata la pena nella misura indicata dall'art. 73, primo comma d.P.R. citato, di gran lunga piu' elevata di quella prevista dal quinto comma della stessa disposizione (basti pensare che la pena detentiva prevista dal primo comma dell'art. 73 e', nel minimo, di sei anni di reclusione, mentre quella prevista dal quinto comma della stessa disposizione e' invece, sempre nel minimo, pari ad un anno di reclusione, per rendersi conto della sensibile differenza di trattamento che scaturisce dal divieto di prevalenza sancito dall'art. 69, quarto comma c.p., come novellato dall'art. 3 della legge n. 251/2005). 2. - Orbene, secondo questa Corte, non e' manifestamente infondato sostenere che il limite posto dal divieto di cui in premessa alla possibilita' di calcolare il trattamento sanzionatorio sulla base della prevalenza riconosciuta all'attenuante ad effetto speciale appare in contrasto con i principi che si ricavano dall'interpretazione combinata degli artt. 27, terzo comma 25, secondo comma e 3 della Carta costituzionale, vale a dire con i principi della finalita' rieducativa della pena, dell'offensivita' del reato e, in diretta correlazione con i principi prima indicati, della proporzionalita' e della ragionevolezza della pena. Deve infatti essere affrontato a questo riguardo il quesito che impone di verificare se la disposizione dell'art. 69, quarto comma c.p., interpretata nel senso ora chiarito, e' coerente con i principi dettati dalla Carta costituzionale in tema di pena. E discende dalle osservazioni prima esposte, in virtu' di un procedimento inferenziale caratterizzato da lineare coerenza, che si tratta di un'indagine rilevante al fini della decisione poiche' e' destinata a riflettersi direttamente sull'entita' del trattamento sanzionatorio. Questo giudice, come gia' anticipato, ritiene infatti che i principi che devono essere presi in esame nella presente analisi siano quello che assegna alla pena la funzione rieducativa stabilito dall'art. 27, terzo comma Cost. e quello della proporzionalita' della pena, ricavato dal principio della necessaria offensivita' del reato che si evince dall'art. 25, secondo comma Cost. e dal principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Soccorre al riguardo l'analisi che segue. 2.1. - Sotto il profilo che concerne la funzione rieducativa che viene attribuita dall'art. 27, terzo comma Cost. alla sanzione penale non si puo', infatti, evitare di rilevare che la norma ordinaria della cui legittimita' costituzionale si controverte pone alla discrezionalita' del giudice un limite nella determinazione della pena che deve essere inflitta al colpevole che in questo caso trae origine essenzialmente da una qualita' personale (quella cioe' di essere stato gia' condannato almeno due volte per delitto) che e' considerata indipendentemente dalla gravita' del fatto criminoso che l'imputato ha commesso e per cui egli viene condannato nel caso dedotto in giudizio. L'irrogazione di una sanzione che si caratterizza, come nel caso di specie, per una notevole severita', e soprattutto non e' in diretto rapporto con la gravita' del fatto illecito commesso, appare, pertanto, in contrasto con il criterio, al quale peraltro e' stato riconosciuto valore costituzionale, della finalita' rieducativa della pena: criterio che non dovrebbe soltanto guidare il giudice, ma dovrebbe anche orientare le scelte compiute dal legislatore. E', infatti, ovvio che una pena che l'imputato e' portato a ritenere sproporzionata per eccesso rispetto all'effettiva gravita' del fatto di cui egli si e' reso responsabile non adempie alla funzione di risocializzazione che e' chiamata a svolgere perche' viene da costui soggettivamente percepita come iniqua ed percio' suscettibile di generare dei sentimenti di ripulsa e di ribellione che possono ostacolare la rieducazione del condannato. L'osservazione ora svolta vale, a maggiore ragione, se, come accade appunto nella fattispecie in esame, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti si estende ad un'attenuante ad effetto speciale, quale e' quella prevista dall'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990, la cui applicazione presuppone che il fatto sia di lieve entita'. Infatti, in questo caso lo stesso legislatore ha ritenuto, sulla base di una previsione generale ed astratta, di valutare come accentuatamente lieve la lesivita' della condotta tenuta dall'agente, fino al punto di prevedere una pena base molto piu' mite di quella che invece e' prevista per il reato non attenuato. Cio' nondimeno, con la modifica del testo dell'art. 69, quarto comma c.p., ha escluso che detta attenuante, nel giudizio di comparazione con la recidiva reiterata, possa assolvere la funzione di diminuire la pena, pervenendo ad un risultato dissonante con la finalita' rieducativa che viene a questa assegnata dalla Costituzione. Non e' fuori luogo ribadire che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha chiarito, al riguardo, che l'attenuante speciale prevista dall'art. 73, comma quinto d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per i reati di produzione e traffico di stupefacenti, trova applicazione quando la fatti-specie concreta risulti di trascurabile offensivita', sia per l'oggetto materiale del reato, in relazione alle caratteristiche qualitative e quantitative della sostanza, sia per la condotta, riferibile al mezzi, alle modalita' e alle circostanze della stessa (cosi' inter plures Cass. pen., sez. IV, 24 febbraio 2005, n. 20556; Cass. pen., sez. IV, 21 dicembre 2004, n. 10211; Cass. pen., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17). La constatazione che, nonostante il riconoscimento della trascurabile offensivita' del fatto commesso, la pena che in definitiva viene irrogata al soggetto colpevole di un fatto giudicato di lieve entita' e' equivalente a quella, molto piu' elevata, prevista per il fatto dotato di ordinaria offensivita' di cui all'art. 73, primo comma d.P.R. n. 309/1990 appare con ogni evidenza suscettibile di generare delle conseguenze negative sulla stessa possibilita' che essa sia realmente idonea a tendere, nell'ipotesi in esame, alla rieducazione della persona condannata. Per questo motivo appare, dunque, in special modo importante e non altrimenti eludibile la necessita' che il giudice non venga limitato nell'esercizio del potere discrezionale di valutare l'incidenza dell'attenuante ad effetto speciale sulla misura della pena e possa tenere conto a questo fine di ogni peculiarita' della concreta fatti specie sottoposta al suo vaglio, attribuendo in particolare un rilievo non marginale, ove del caso, alla lieve entita' del fatto prevista dall'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990. La valutazione del legislatore che, sulla base della considerazione, elaborata una volta per tutte, dell'importanza preclusiva di un elemento di ordine eminentemente personologico qual e' la recidiva, invece intende vietare in modo categorico al giudice di ritenere la prevalenza dell'attenuante ad effetto speciale, appare percio' in palese contrasto con la finalita' rieducativa della pena, posto che contemporaneamente si riconosce che il fatto, considerato sia sotto l'aspetto oggettivo, sia sotto quello soggettivo, e' caratterizzato da tenue offensivita'. La disposizione in esame pare percio' integrare, per quanto si e' esposto in ordine al suo contrasto con la finalita' rieducativa della pena, una violazione del principio costituzionale sancito dall'art. 27, terzo comma Cost. 2.2. - Il divieto di ritenere la prevalenza delle attenuanti ad effetto speciale sulla recidiva reiterata implica anche, con particolare riferimento all'attenuante prevista dall'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990, una paventata violazione del principio della necessaria proporzionalita' tra la pena concretamente inflitta ed il fatto commesso, desunto come corollario del principio di offensivita' del reato e del principio di ragionevolezza della pena. E noto che la Corte costituzionale ha riconosciuto che, pur in assenza di una norma che lo configuri espressamente, il principio di offensivita' (nullum crimen sine iniuria) ha valenza costituzionale. Ha, infatti, ritenuto che il principio della necessaria offensivita' del reato costituisce un vincolo non soltanto per l'interprete, ma anche per il legislatore, avendo affermato, con sentenza n. 519/2000, che esso opera sia sul terreno della previsione normativa, sia su quello dell'applicazione giudiziale. La stessa Corte, con sentenza n. 360/1995, ha, inoltre, sottolineato che si tratta, in primo luogo, di un limite di rango costituzionale alla discrezionalita' del legislatore ordinario, a cui fa riscontro il compito del giudice di accertare in concreto, nel momento applicativo, se il comportamento posto in essere lede effettivamente l'interesse tutelato dalla norma. Coerentemente con tale impostazione ha parlato, nella pronuncia n. 263/2000, di un ininterrotto operare del principio di offensivita' dal momento dell'astratta previsione normativa a quello dell'applicazione concreta da parte del giudice. Sul punto la dottrina ha prevalentemente osservato che il principio trova radice nella formulazione dell'art. 25, secondo comma Cost., poiche' l'uso della locuzione fatto (nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso) e' incompatibile con il riferimento a meri atteggiamenti interiori ed a meri sintomi di pericolosita' individuale, poiche' intende che siano punite delle condotte materiali connotate dall'essere offensive. Altri referenti normativi sono stati, per la verita', variamente individuati da taluni esegeti: nel gia' citato art. 27, terzo comma Cost. che, assegnando alla condanna il fine di tendere alla rieducazione del condannato, presuppone che quest'ultimo percepisca nitidamente l'antigiuridicita' del proprio comportamento e comporta che la condanna per violazioni di doveri ai quali non corrisponde nessuna offesa sia destinata a vanificare la funzione rieducativa della pena; nell'art. 13 Cost. che tutela la liberta' personale, poiche' l'irrogazione di una pena limitativa del bene della liberta' puo' essere concepita solo come reazione ad una condotta che offende un bene di uguale rango; nell'art. 21 Cost. che tutela ogni agire umano come forma di libera espressione del pensiero, sicche' la punizione di meri comportamenti inoffensivi, per quanto corrispondenti al tipo normativo, concreterebbe un'arbitraria compressione della liberta' di pensiero. E', dunque, incontestabile che il principio invocato puo' trovare una molteplice matrice costituzionale. Tuttavia il riferimento al principio enunciato dall'art. 25 secondo comma indubbiamente svolge, in tale quadro, il ruolo piu' significativo. In perfetta coerenza con questa impostazione la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 263/2000, ha espressamente fatto rinvio, appunto, all'art. 25 Cost. nell'affermare che esso postula, come gia' esposto, l'ininterrotto operare del principio di offensivita' dal momento dell'astratta previsione normativa a quello dell'applicazione concreta da parte del giudice. Analogamente, nella sentenza n. 354/2002, ha ribadito che il limite alla discrezionalita' legislativa in materia penale costituito dal principio di offensivita' e' desumibile dall'art. 25, secondo comma Cost., nel suo legame sistematico con l'insieme dei valori connessi alla dignita' umana. In conclusione: e' certo che un ordinamento che si ispira a valori di laicita' e di tolleranza e riconosce ad ogni uomo un nucleo di diritti inviolabili, tributando, nell'art. 3, primo comma Cost., pari dignita' sociale ed eguaglianza davanti alla legge a tutti gli uomini, non puo' punire la mera disobbedienza, ed ancor meno la volonta' di disobbedire, intesa come sintomo di pura pericolosita' e di individuale antisocialita', svincolate dal collegamento ad un fatto offensivo di un bene giuridico. E' questa una garanzia irrinunciabile in un ordinamento ispirato a valori di liberta' e di uguaglianza che trova consacrazione nell'art. 25, secondo comma della Carta costituzionale. Cio' premesso, e' dato ricavare dall'elaborazione compiuta dalla giurisprudenza della Consulta che il principio di offensivita' non puo' non essere inteso in necessaria correlazione con il principio di proporzionalita' della pena all'offesa prodotta in danno del bene giuridico protetto, interpretato alla luce del fondamentale principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.). La Corte costituzionale ha, infatti, piu' volte chiarito che la pena edittale non puo' mancare di essere necessariamente proporzionata al grado di offesa realizzato dalla condotta del colpevole. In conformita' con questa impostazione, invocando il principio di ragionevolezza, ha ammesso il sindacato delle norme penali che prevedono sanzioni non proporzionate all'intensita' dell'offesa arrecata sotto il profilo che ha ricavato dall'art. 3 Cost. quando ha ribadito che la pena deve essere proporzionata al disvalore del fatto illecito. Sviluppando con chiarezza questa stessa linea interpretativa, nella sentenza n. 341/1994, ha invero, con significativa enunciazione, espressamente affermato che, pur non spettando alla Corte di rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, ne' di stabilire quantificazioni sanzionatorie, le rimane il compito di verificare che l'uso della discrezionalita' legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza e il principio di proporzionalita' tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra. Il punto di equilibrio tra il principio di legalita' e l'esigenza di individualizzazione della pena in cui, a ben riflettere, si colloca il principio di proporzionalita' deve indubbiamente essere ricercato nella predeterminazione, per ogni singola ipotesi normativa, di una cornice di pena, vale a dire di un minimo e di un massimo edittalmente previsti dal legislatore entro il quale il giudice deve scegliere la sanzione che ritiene adeguata al caso concreto. La Corte costituzionale, a tale riguardo, ha puntualmente precisato, con pronuncia n. 131/1970, che il principio di legalita' della pena non puo' prescindere dall'individualizzazione di questa, ossia non puo' prescindere dal suo adeguamento alle singole fattispecie. Inoltre, con sentenza n. 50/1980, ha posto in evidenza che l'individualizzazione della pena si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio di eguaglianza), quanto attinenti direttamente la materia penale. Con la stessa sentenza ha inteso, altresi', sottolineare che l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti - in termini di uguaglianza e/o di differenziazione di trattamento - contribuisce, da un lato, a rendere quanto piu' possibile personale la responsabilita' penale nella prospettiva segnata dall'art. 27, primo comma; e nello stesso tempo e' strumento per una determinazione della pena quanto piu' possibile finaliziata nella prospettiva dell'art. 27, terzo comma Cost. Ha, pertanto, concluso che l'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, proporzione della pena rispetto alle personali responsabilita' ed alle esigenze di risposta che ne conseguono. L'intento di assicurare la proporzionalita' della pena non esclude, per altro verso, che il dubbio di illegittimita' costituzionale suscitato da una sanzione troppo rigida possa essere, caso per caso, superato quando la previsione di una pena edittale fissa (o comunque, viene fatto di soggiungere, non modulata in relazione alla particolarita' del caso di specie) tuttavia appaia ragionevolmente proporzionata all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato. Ma, salva l'eccezione qui menzionata, in linea di massima, stando alle statuizioni della Corte, le previsioni sanzionatorie connotate da eccessiva rigidita' non appaiono in armonia con il volto costituzionale del sistema penale. Il profilo che nel caso di cui si discute appare, in particolare, di dubbia compatibilita' con il criterio guida assunto dal principio della proporzionalita' della pena, - che pure, si ripete, possiede un rango costituzionale, essendo correlato al principio di ragionevolezza ed a quello di offensivita', - e' rappresentato dal rilievo che il limite posto alla discrezionalita' del giudice nel determinare la sanzione che e' concretato dal divieto di prevalenza delle attenuanti in generale, e in particolare dell'attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990, sulla ritenuta recidiva reiterata non viene fatto derivare dal grado e dall'intensita' dell'offesa che il fatto arreca al bene protetto dall'ordinamento, bensi' dalle precedenti condanne dalle quali dipende la possibilita' che sia, appunto, ritenuta la recidiva reiterata. Si delinea, quindi, il pericolo che venga punita, ricorrendo al mezzo rappresentato dal divieto in questione, non gia' in primo e principale luogo l'offesa causata al bene tutelato, ma prevalentemente la colpevolezza per la condotta di vita tenuta dal colpevole nel tempo che ha preceduto il fatto costituente reato. Ritiene questa Corte, in altre parole, che la disposizione esaminata comporti lo spostamento dell'accento dagli elementi oggettivi agli elementi soggettivi e personalistici del reato e che la volonta' colpevole non sia piu' intesa solo come il criterio vincolante per l'attribuzione all'imputato della responsabilita' di avere causato offesa ad un bene giuridico protetto dall'ordinamento, ma come il fondamento principale della responsabilita' penale in funzione dell'intrinseca attitudine antisociale della persona e della sua pericolosita' presunta, ancorche' queste qualita' siano determinate mediante il rinvio agli elementi oggettivi costituiti dalle precedenti condanne. Non puo' non avvertire inoltre che affiora, sullo sfondo, la tentazione inquietante di riesumare la figura del tipo di autore. Nel caso qui analizzato e', in special modo, fonte di forte perplessita' che sia riconosciuto soltanto un risalto alquanto limitato alla lieve entita' del fatto di cui all'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990, cioe' alla sua trascurabile offensivita', rispetto al peso preponderante che invece viene attribuito alla recidiva reiterata, dando cosi' luogo ad ingiustificate ed importanti ripercussioni sulla misura della pena. E la perplessita' viene accresciuta dal rilievo che la recidiva e' assunta dal legislatore come l'indice sulla scorta del quale il giudice deve presumere obbligatoriamente la pericolosita' del soggetto senza che gli sia lasciata la possibilita' di sindacare l'attendibilita' in concreto della presunzione formulata, nonostante questa sia destinata a riflettere drasticamente i suoi effetti sul trattamento sanzionatorio applicato all'imputato. E', pertanto, dato individuare, nei tratti segnalati nelle osservazioni che precedono, un possibile contrasto tra la disposizione esaminata e le norme degli artt. 25 secondo comma e 3 della Costituzione, nella parte in cui la disposizione presa in considerazione prevede il divieto della prevalenza delle circostanze attenuanti ad effetto speciale e, in particolare, della circostanza attenuante prevista dall'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990, sulla ritenuta recidiva reiterata. La norma ordinaria oggetto di valutazione appare, infatti, in conflitto con il principio della proporzionalita' della pena che, come esposto, assurge a criterio di primario rango costituzionale perche', a sua volta, e' strettamente collegato con il principio della necessaria offensivita' del fatto costituente reato e con quello della ragionevolezza della pena. 3. - La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, quarto comma c.p. prospettata nelle precedenti osservazioni e' sicuramente rilevante, poiche' il presente giudizio non puo' essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione. Inoltre, per le ragioni prima illustrate, non si puo' ritenere manifestamente infondata sotto il duplice profilo del contrasto con il principio della finalita' rieducativa della pena e del contrasto con il principio di proporzionalita' della sanzione rispetto all'offesa, desunto a sua volta dai principi di offensivita' del reato di cui all'art. 25, secondo comma citato e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Deve, dunque, essere sottoposta al vaglio della Corte costituzionale.
P. Q. M. Visto l'art. 23 legge, 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, quarto comma c.p., come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 per contrasto con gli artt. 27, terzo comma 25, secondo comma e 3 della Costituzione, nella parte in cui in cui prevede il divieto della prevalenza della circostanza attenuante prevista dall'art. 73, quinto comma d.P.R. n. 309/1990 sulla ritenuta circostanza aggravante della recidiva reiterata; Pertanto dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il giudizio in corso ed i termini di prescrizione del reato; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e che essa sia comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Torino, addi' 1° febbraio 2007 Il Presidente: Ogge' 07C1095