N. 782 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 giugno 2007

Ordinanza del 29 giugno 2007 emessa dalla Corte d'appello di Bari nel
procedimento penale a carico di Barnaba Vincenzo ed altri

Reati e pene - Prescrizione - Modifiche normative comportanti termini
  di   prescrizione   piu'   brevi   -   Disciplina   transitoria   -
  Inapplicabilita'  delle  nuove  norme  ai processi gia' pendenti in
  appello  alla  data di entrata in vigore della novella - Violazione
  del  principio  di ragionevolezza - Richiamo alla sent. n. 393/2006
  della Corte costituzionale.
- Legge 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3.
- Costituzione, art. 3.
(GU n.47 del 5-12-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO
Nel  procedimento  penale  n. 929/2007  r.g.  appello  (stralcio  dal
n. 453/2006)  a  carico  di:  Barnaba  Vincenzo, Buttiglione Antonio,
Donzella   Giuseppe,   Fanelli  Antonio,  L'Abbate  Francesco,  Modeo
Antonio,  Ninivaggi  Giovanni,  Pellegrino  Vito, Tarquinio Giovanni,
imputati,  1) il Barnaba Vincenzo: A) artt. 110-317 c.p.; B) artt. 81
cpv.  -110-317-61 n. 7 c.p.; T) artt. 81 cpv.-110-317 c.p.; O1) artt.
81 cpv.-110-317-61 n. 7 c.p.; 2) il Buttiglione Antonio: S1) artt. 81
cpv.-317-61 n. 7 c.p.; 3) il Donzella Giuseppe, il Fanelli Antonio, e
il  L'Abbate Francesco: D) artt. 81 cpv.-110-314 c.p.; 4) il Donzella
Giuseppe e il Fanelli Antonio: F) artt. 81 cpv.-110-356-61 n. 9 c.p.;
G)   artt.  81  cpv.-1l0-640  cpv.  n. 1-61  n. 7c.p.;  H)  artt.  81
cpv.-110-356-61 n. 9 c.p.; I) artt. 81 cpv.-110-640 cpv. n. 1-61 n. 7
c.p.;  J)  artt.  81  cpv.-110-479-61  n. 2  c.p.;  5)  il  Tarquinio
Giovanni:  L) art. 110-314-61 n. 7 c.p.; 6) il Ninivaggi Giovanni, il
Tarquinio Giovanni, e il Fanelli Antonio: M) artt. 81 cpv.-110-356-61
n. 7  c.p.;  N) artt. 81 cpv.-640 cpv.-61 n. 7 c.p. (assorbito in M e
qualificato  il  fatto ai sensi degli artt. 81 cpv.-110-314-61 n. 7);
7)  il  Ninivaggi  Giovanni  e  il  Tarquimo  Giovanni:  O)  artt. 81
cpv.-110-479-61  n. 2  c.p.;  8)  il Tarquinio Giovanni: G1) artt. 81
cpv.-110-479 c.p.; 9) il Pellegrino Vito: T1) artt. 110-648 c.p.
Sentite  le  parti, all'odierna udienza del 29 giugno 2007, all'esito
della  Camera  di  consiglio,  ha  pronunciato, e pubblicato mediante
lettura in udienza, la seguente ordinanza.
                          Rilevato in fatto
Vista   l'eccezione   sollevata   dai   difensori   degli  appellanti
all'udienza  dell'8  giugno  2007  con  la quale e' stata eccepita la
incostituzionalita'  dell'art. 10, terzo comma della legge 5 dicembre
2005  n. 251  (recante  «modifiche  al  codice penale e alla legge 26
luglio  1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche di recidiva,
di  giudizio  di  comparazione  delle  circostanze  di  reato  per  i
recidivi,  di  usura  e di prescrizione»), nella parte in cui esclude
l'applicabilita'  della  nuova  disciplina, introdotta in materia dei
termini  massimi d1 prescrizione del reato ad opera dell'art. 6 della
medesima  legge,  «ai  processi  gia' pendenti in grado di appello...
alla  data di entrata in vigore della presente legge», per l'asserito
contrasto con l'art. 3 della Costituzione;
Rilevato  che  con  la sentenza pronunciata all'udienza del 16 maggio
2007  da  questa Corte e' stata dichiarata la nullita' della sentenza
del  Tribunale  di  Bari pronunciata in data nei confronti di Bellomo
Michele e Bellomo Giuseppe Concezio, e disposta la restituzione degli
atti  al  giudice di primo grado per la rinnovazione del giudizio dal
momento  in  cui  si e' verificata la nullita' assoluta lamentata dai
predetti  appellanti  e  ritenuta  sussistente da questa Corte, ed e'
stato  disposto  lo  stralcio degli atti relativamente alle posizioni
degli  altri  appellanti  per  i quali il giudizio prosegue in questo
grado;
Rilevato  che la questione di illegittimita' costituzionale dell'art.
10, terzo comma, della legge n. 251/2005, sollevata concordemente, in
via  diretta  o  per  successiva  adesione, da tutti i difensori, non
appare  egualmente  rilevante  per  tutti  gli appellanti per i quali
prosegue il presente giudizio, essendo per alcuni, stante la vetusta'
del processo, gia' maturati sulla base della disciplina precedente la
novella  impugnata  i  termini massimi di prescrizione, e non potendo
altri  aspirare  ad  una  decisione  di  merito, per inammissibilita'
congenita  dell'appello  derivante da tardivita' del deposito (per il
Donzella)  ovvero  per  sopravvenuta  estinzione  del reato per morte
dell'imputato per il Fanelli;
Rilevato  che la proposta eccezione di costituzionalita' appare pero'
certamente  rilevante  per gli imputati Barnaba Vincenzo, Bottiglione
Antonio,  e  Pellegrino  Vito, i quali hanno proposto rispettivamente
appello:
     1)
il  Barnaba Vincenzo: avverso la condanna per i reati di concussione,
p.  e p. dagli artt. 110, 317, 81 cpv. e 61 n. 7, commessi, nella sua
qualita'  di  pubblico  dipendente,  in  concorso  con altri pubblici
funzionari, in danno di Salamina Giovanni, amministratore unico della
Cemir S.r.l., nel periodo tra il 1988 e il 1989 e sino al 25 dicembre
1990  (capi A e B dell'imputazione); per il reato di concussione p. e
p.  dagli  artt.  81  cpv.,  110  e 317 c.p., commesso nella suddetta
qualita'  e  in  concorso  con  altri,  in  danno  di  Leone Filippo,
presidente  della  cooperativa  Giovanni  XXIII di Gravina di Puglia,
sino al 27 novembre 1984 (capo T dell'imputazione); e per il reato di
concussione  p.  e  p.  dagli artt. 81 cpv., 110, 317 e 61 n. 7 c.p.,
commesso  in danno degli esponenti societari della Edilmec S.r.l. dal
marzo 1985 all'aprile 1988 e dall'ottobre 1991 sino al febbraio 1992;
     2)
il   Buttiglione  Antonio:  avverso  la  condanna  per  il  reato  di
concussione, p. e p. dagli artt. 81 cpv., 317 e 61 n. 7 c.p. (capo S1
dell'imputazione),  commesso  abusando  della  qualita' di presidente
dell'E.R.S.A.P.  in  danno  di  Monteleone  Michele, amministratore e
consigliere  delegato  della  S.p.A. A.I.A., dall'agosto 1990 sino al
settembre 1991;
     3)
il  Pellegrino Vito: avverso la condanna per il reato di ricettazione
di somme di danaro di illecita provenienza, p. e p. dagli artt. 110 e
648  c.p.  (capo T1 dell'imputazione), commesso in concorso con altri
nel periodo immediatamente antecedente la data del 27 gennaio 1993;
Rilevato infatti che i reati ascritti al Barnaba e al Buttiglione, in
ragione   dell'epoca  della  loro  commissione,  risulterebbero  gia'
prescritti  alla dta odierna, con conseguente obbligo di questa Corte
di pronunciare il loro proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p.,
per estinzione del reato, qualora fossero applicabili i nuovi termini
di  prescrizione,  fissati nel massimo in quindici anni dall'art. 157
c.p.  nel  testo  sostituito  dall'art. 6 della legge n. 251/2005, in
luogo  del termine massimo di anni ventidue e mesi sei previsto dalla
disciplina  precedente,  se  non vi ostasse il disposto dell'art. 10,
terzo  comma, della stessa legge, per il quale spiegherebbe ulteriore
efficacia  la normativa abrogata, in ragione dello stato del presente
processo all'atto dell'entrata in vigore della modifica dell'art. 157
c.p.;
Rilevato  altresi'  che  il  reato ascritto al Pellegrino, in ragione
dell'epoca della sua commissione (27 gennaio 1993), risulterebbe gia'
prescritto alla data odierna, con conseguente obbligo di questa Corte
di  pronunciare  anche  per lui il proscioglimento ai sensi dell'art.
129   c.p.p.,   qualora   fosse   applicabile  il  nuovo  termine  di
prescrizione,  fissato  nel  massimo in dieci anni dall'art. 157 c.p.
nel  testo  sostituito dall'art. 6 della legge del 251/2005, in luogo
del precedente termine massimo di anni quindici, se non vi ostasse il
disposto  del  gia'  menzionato  art.  10,  terzo comma, della stessa
legge;
Rilevato    che   ad   avviso   degli   appellanti   la   limitazione
dell'applicazione della nuova disciplina della prescrizione, statuita
dal legislatore del 2005, sulla base della fase processuale in cui si
trovava  il  giudizio  penale  all'epoca  di  entrata in vigore della
legge,  crea  una  irragionevole  discriminazione,  in  loro  danno e
rispetto  ad  altri  coimputati,  ovvero  altri  imputati di analoghi
fatti,  pur se risalenti alla stessa epoca, che per scelta del rito o
per  altri eventi processuali si trovino in una fase ancora anteriore
rispetto  a  quella  raggiunta  dall'odierno  processo,  e  che  tale
discriminazione  si  traduce  in  una  violazione  del  principio  di
eguaglianza dell'applicazione della legge penale, sancito dall'art. 3
Cost.;
Rilevato  che  su  tali  presupposti gli appellanti hanno chiesto che
questa   Corte,   apprezzata  la  non  manifesta  infondatezza  della
questione,  sollevi  l'eccezione di incostituzionalita' dell'art. 10,
terzo comma, della legge n. 5 dicembre 2005 n. 251 e rimetta gli atti
alla Corte costituzionale;
Ritenuto  che  l'acclarata  rilevanza  della  questione  nel presente
giudizio per i predetti imputati, la cui soluzione condiziona l'esito
del  presente giudizio; autorizza questa Corte a compiere l'ulteriore
valutazione  se  la  questione  possa  ritenersi  non  manifestamente
infondata;
                         Ritenuto in diritto
Osserva  la  corte  in  diritto  che  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  proposta  non  appare  manifestamente infondata per i
seguenti motivi.
La  legge  n. 251/2005,  nel  modificare  la  durata  dei  termini di
prescrizione,  sostituendo il testo dell'art. 157 c.p., ha introdotto
nuovi  termini  che  per  molte  ipotesi  di  reato,  incluse  quelle
contestate  agli  odierni  imputati  risultano  piu'  brevi di quelli
precedentemente previsti dal codice penale, e la modifica legislativa
e'  stata  operata  allo  scopo,  voluto  e  dichiarato  dagli organi
legislativi,  di  ridurre  in  linea  generale  (e  salvo  specifiche
eccezioni  per  reati  di  particolare  gravita)  il periodo di tempo
durante  il quale l'imputato puo' restare assoggettato alle possibili
conseguenze  dell'intervento  penale, con l'intento di incidere anche
per tal via sulla durata complessiva dei processi.
Dunque  la  modifica  normativa  del regime della prescrizione non e'
stata   motivata  da  finalita'  contingenti,  ne'  appare  mirata  a
correggere  il  regime giuridico di singole ipotesi di reato (come e'
avvenuto per il reato di usura con l'art. 11 della legge 7 marzo 1996
n. 108,  che ha introdotto, proprio in tema di prescrizione, il nuovo
art.  644-ter  c.p.),  ma  rappresenta  il  frutto  di  una  generale
revisione,  per  tutti  i  reati,  dei  termini di prescrizione degli
stessi,  ridisegnati  sulla  base  di  parametri  di calcolo in parte
diversi,  ed  in  larga  parte  piu'  brevi di quelli precedentemente
vigenti nel nostro ordinamento penale.
L'art.  10  della  stessa  legge  ha  introdotto pero', nel suo terzo
comma,  un  discrimine  in  ordine  alla  operativita' della modifica
legislativa,  stabilendo  originariamente  che «se, per effetto delle
nuove  disposizioni,  i termini di prescrizione risultano piu' brevi,
le  stesse  si  applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla
data  di  entrata  in  vigore della presente legge [e cioe' alla data
dell'8  dicembre  2005],  ad esclusione dei processi gia' pendenti in
primo  grado  ove  vi  sia  stata  la  dichiarazione  di apertura del
dibattimento,  nonche' dei processi gia' pendenti in grado di appello
o avanti alla Corte di cassazione»: discrimine che implica una deroga
al  principio,  affermato  sotto piu' profili dall'art. 2 c.p., della
costante   prevalenza,   in   caso   di  modifiche  normative,  delle
disposizioni piu' favorevoli al reo.
La  suddetta  norma  e'  stata  assoggettata  ad  un  primo vaglio di
legittimita'  costituzionale,  seppur limitato alla sua differenziata
operativita'  nel  giudizio  di  primo  grado, all'esito del quale la
Corte  costituzionale,  con  la  sentenza  n. 393  del  2006,  ne  ha
dichiarato  la  illegittimita', per contrasto con l'art. 3 Cost., con
riferimento  alla disparita' di disciplina tra i reati per i quali il
giudizio  di primo grado non fosse ancora o fosse appena iniziato, ed
i  reati  il  cui  giudizio  avesse  invece  superato la soglia della
declaratoria     di    apertura    del    dibattimento,    espungendo
conseguentemente  dal  testo dell'art. 10, terzo comma, l'inciso «dei
processi   gia'   pendenti  in  primo  grado  ove  vi  sia  stata  la
dichiarazione di apertura del dibattimento, nonche».
Attualmente  dunque il testo vigente dell'art. 10, terzo comma, della
legge  n. 251/2005 risulta essere il seguente: «se, per effetto delle
nuove  disposizioni,  i termini di prescrizione risultano piu' brevi,
le  stesse  si  applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla
data  di  entrata  in  vigore della presente legge [e cioe' alla data
dell'8  dicembre  2005],  ad esclusione dei processi gia' pendenti in
grado di appello o avanti alla Corte di cassazione».
Permane  ancora,  quindi,  nel  testo  vigente  della norma citata un
discrimine  di  natura temporale, seppur piu' ristretto a seguito del
menzionato  intervento  della  Corte  costituzionale,  in ordine alla
applicabilita'  della  nuova  disciplina sostanziale della estinzione
del  reato  per  prescrizione,  restando  i  nuovi termini piu' brevi
inapplicabili  a  quei  reati per i quali il relativo giudizio penale
fosse,  alla  data  dell'8 dicembre 2005, gia' entrato in una fase di
impugnazione,  di  merito o di legittimita'. Tale discrimine comporta
l'ultrattivita'   della   normativa   precedente   sui   termini   di
prescrizione,   in   aperta  deroga  al  principio  generale  fissato
dall'art. 2, quarto comma, c.p. secondo cui «se la legge del tempo in
cui  fu  commesso  il  reato e le posteriori sono diverse, si applica
quella le cui disposizioni sono piu' favorevoli al reo, salvo che sia
stata pronunciata sentenza irrevocabile».
Ad  avviso  di  questa  Corte anche tale discrimine, concernente, per
quanto  e'  rilevante  nel  presente  processo, l'avvenuto inizio del
giudizio  d'appello  alla data dell'8 dicembre 2005, appare di dubbia
ragionevolezza,   e   conseguentemente   non  risulta  manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' costituzionale per contrasto
con l'art. 3 della Costituzione.
Va  ricordato  che  la Corte costituzionale nella sentenza n. 393 del
2006 ha sottolineato:
     che  il  principio  della retroattivita' della legge penale piu'
favorevole  risulta  affermato non solo dall'art. 2 del codice penale
italiano,  ma  anche  sancito  da  fonti  normative  internazionali e
comunitarie  (in  particolare,  dall'art.  15,  primo comma del Patto
internazionale  relativo  ai diritti civili e politici adottato a New
York  il  16  dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25
ottobre   1977  n. 881;  dall'art.  6,  secondo  comma  del  Trattato
sull'Unione  europea,  nel testo risultante dal Trattato sottoscritto
ad  Amsterdam il 2 ottobre 1997 e ratificato con legge 16 giugno 1998
n. 209);
     che   la   natura   anche   sovranazionale   del   principio  di
retroattivita'  della  norma  piu'  favorevole  non puo' non rilevare
nella  valutazione  di costituzionalita' di una legge ordinaria che a
tale  principio  deroghi,  anche  perche'  l'ordinamento  italiano e'
vincolato,   in   virtu'  delle  menzionate  ratifiche,  ai  principi
affermati a livello internazionale;
     che  per  il  rango  che il suddetto principio di retroattivita'
della norma piu' favorevole ha acquisito nell'ordinamento nazionale e
sopranazionale,  un suo sacrificio ad opera del legislatore nazionale
puo'  avvenire  solo  in  favore  di  interessi di analogo rilievo, e
dunque  una  «deroga  sia  non  solo  coerente  con  la  funzione che
l'ordinamento oggettivamente assegna all'istituto, ma anche diretta a
tutelare interessi di non minore rilevanza»;
     che quindi lo scrutinio di costituzionalita' ex
art.  3  Cost.  sulla  scelta  di derogare alla retroattivita' di una
norma  penale piu' favorevole al reo deve superare un vaglio positivo
di  ragionevolezza,  non  essendo a tal fine sufficiente che la norma
derogatoria non sia manifestamente irragionevole».
Soprattutto   la  citata  decisione  della  Corte  costituzionale  ha
riaffermato  esplicitamente la natura sostanziale dell'istituto della
prescrizione  penale,  come  gia'  ritenuto  ormai costantemente, sia
sulla base dell'evidenza del dettato normativo dell'art. 157 c.p. che
dall'analisi  della  sua  disciplina generale, dalla dottrina e dalla
giurisprudenza costituzionale (cfr. la sentenza n. 275 del 1990 della
Corte  cost.,  richiamata  nella sent. n. 393/2006) e di legittimita'
(cfr.  Cass.,  sez. I, 8 maggio 1998 n. 7442; Cass. 12 dicembre 1977,
in  Giust.  Pen.,  1981,  II,  461;  Cass.  sez.  IV,  16 luglio 1984
n. 6636).
Con  l'istituto  della  prescrizione  il decorso del tempo non incide
sull'azione   penale  (com'era  invece  previsto  dal  codice  penale
italiano del 1889, che includeva appunto la prescrizione tra le cause
di  estinzione dell'azione penale, mostrando di considerarla istituto
afferente  al  piano  processuale,  probabilmente  sulla  base  della
supposizione  che la sua applicazione prescindesse da un accertamento
sostanziale della responsabilita), bensi' estingue il reato (art. 157
c.p.):  cioe',  prima  ancora  di  eliminare  la punizione del reato,
estingue  la  violazione  stessa  della  legge penale, togliendo ogni
rilevanza  penale  al fatto storico, che permane nella sua storicita'
eventualmente ad altri fini e per altri effetti giuridici non penali.
Con  la  prescrizione  lo  Stato  rinuncia  ad esercitare la potesta'
punitiva   (come   sottolinea   anche   la  cit.  sent.  Corte  cost.
n. 393/2006) cancellando la rilevanza penale del fatto penale.
Le  ragioni profonde della estinzione del reato ratione temporis sono
generalmente  e  concordemente  indicate nel mutamento che il decorso
del tempo comporta nella vita e nella personalita' degli individui, e
dunque  nella  inattualita'  di  una sanzione penale che intervenga a
distanza  di  un  notevole  lasso  di  tempo (variabile ovviamente in
funzione  della  natura del reato) dal fatto, incidendo su situazioni
soggettive  personali  e  patrimoniali  che  non sono piu' quelle del
momento  del  commesso  reato.  L'eccessivo  iato temporale tra fatto
punibile e inflizione della punizione priva la sanzione penale, cosi'
tardivamente  applicata,  sia  della  sua funzione special-preventiva
(nei  limiti  entro cui e' ravvisabile tale finalita) e sia della sua
funzione rieducativa e recuperativa.
Dunque   l'istituto   della  prescrizione  costituisce  un  legittimo
strumento  di  adeguamento  del  diritto  al  fatto,  di  adattamento
dell'intervento  normativo  alla  situazione  di  fatto nel frattempo
evolutasi:  si  puo'  essere  in disaccordo con la durata dei termini
fissata dal legislatore (che peraltro non sono stati tutti diminuiti,
ma  per  diversi  reati di elevata gravita' sono stati aumentati), ma
cio'  non  toglie che tali termini costituiscono l'espressione di una
valutazione  sostanziale del perdurare di una illiceita' sociale e di
una   meritevolezza   della   pena,   che   il   legislatore   compie
nell'esercizio    del    suo   potere   sovrano   delegatogli   dalla
collettivita', e trasfonde in legge, e in quanto tali vanno osservati
finche' non siano modificati dallo stesso potere legislativo.
Da  quanto esposto sembra potersi evincere con sufficiente chiarezza:
che   il  significato  giuridico  della  prescrizione  e'  saldamente
ancorato  alla  valenza  penale  del  fatto  ed  alla  funzione della
sanzione  penale;  che  la  astratta  fissazione  dei suoi termini di
durata  e'  collegata  alla natura e gravita' del reato, e cioe' alla
rilevanza  sociale  del  bene  giuridico  protetto dalla norma penale
violata  (rilevanza  di cui rappresenta un indice rivelatore anche il
c.d.  allarme  sociale cui sovente ci si richiama per giustificare la
durata piu' o meno lunga dei termini); e che dunque anche nella ratio
oltreche'  nella  lettera  normativa  dell'art.  157  c.p. l'istituto
appartiene al diritto penale sostanziale.
Se   cosi'   e',   (e,   come  si  e'  accennato,  proprio  la  Corte
costituzionale   lo   ha   riaffermato),   allora   l'istituto  della
prescrizione  non  puo'  non  essere  sottoposto al medesimi principi
generali  che  regolano  tutti  gli altri istituti del diritto penale
sostanziale  in  occasione delle modifiche normative, ivi compreso il
principio dell'applicazione della disciplina piu' favorevole, sancito
dall'art.   2   c.p.  (come  peraltro  pacificamente  ritenuto  dalla
giurispidenza penale: cfr. ad es. Cass. sez. IV, sent. n. 6636 del 16
luglio 1984, cc. 19 dicembre 1984, rv 165324).
Conseguentemente  non puo' non apparire incongruo a questo giudice di
appello  che  il  mutamento  generalizzato della rilevanza penale nel
tempo  dei  fatti  di  reato,  voluto  dal legislatore con un disegno
unitario  di  rivisitazione  generale  dei termini prescrizionali per
tutti  i  reati,  sia poi in concreto differenziatamente applicato in
funzione  della  particolare  fase  processuale  in  cui  trovasi  il
processo  penale  al  momento  della introduzione nell'ordinamento di
tali  nuove  valutazioni  sostanziali;  e  finisca  in  tal  modo per
condurre  a  differenti  discipline dell'estinzione del reato pur per
reati identici e commessi nella stessa epoca.
La scelta del legislatore del 2005 appare a maggior ragione incongrua
ove si pensi:
     che  il  grado di avanzamento del processo penale non esprime di
per se' alcun valore di natura sostanziale, ma rappresenta unicamente
un  mero  dato temporale, legato a fattori molteplici ed estremamente
diversificati,  derivanti  da  attivita'  e/o  inattivita'  di  molti
soggetti, e spesso anche scaturente da pura casualita';
     che  per  nessun  altro  istituto  di diritto penale sostanziale
comportante   l'estinzione   del   reato   l'applicazione   e'  stata
condizionata  alla  fase processuale (fatti salvi ovviamente i limiti
del  giudicato  penale;  peraltro  oggi  largamente  attenuati  dalle
molteplici  modificazioni  del trattamento penale anche sanzionatorio
possibili nella sede esecutiva);
     che  il mero dato cronologico di avanzamento del processo penale
e' condizione per l'esercizio, l'insorgenza o la perdita di diritti e
facolta'  di natura processuale (caratteristica questa rinvenibile in
tutte  le fasi procedimentali, in ogni settore dell'ordinarnento, per
intuibili  esigenze  di  celerita'  delle decisioni e di salvaguardia
della certezza delle situazioni soggettive), ma non appare costituire
di   per  se'  titolo  per  la  esclusione  di  istituti  di  diritto
sostanziale;
     che  peraltro  la  differenziazione  applicativa  introdotta dal
menzionato  art.  10,  terzo  comma,  alla  luce della funzione della
prescrizione,   mantiene   in   vita,  deroga  all'art.  2  c.p.,  la
punibilita'  del  reato  proprio  per quei fatti che quantomeno sulla
base  del momento processuale considerato sono piu' remoti nel tempo,
e dunque piu' affievolite le esigenze di tutela penale.
Infine,   non  sembra  poter  giustificare  il  discrimine  temporale
introdotto   dalla   legge   del  2005,  al  punto  da  ritenerne  la
ragionevolezza,  il  rilievo  che  il  passaggio formale di grado del
processo  incide  interruttivamente  sul corso della prescrizione (in
tal  senso  si  e' espressa Cass. sez. VI, 27 novembre 2006 n. 42189,
ritenendo infondata la questione di legittimita' dell' art. 10, terzo
comma  cit.  per  la  fase  del  giudizio  di  cassazione). L'effetto
interruttivo,  che  e'  proprio  di  diverse attivita' processuali in
tutti  i  gradi  di  giudizio  comunque  non  incide sulla durata del
termine  massimo  di  prescrizione,  che  non  muta  nel  suo  limite
assoluto,  e  che,  rappresentando  l'espressione  di una valutazione
astratta di gravita' del reato e della correlata scelta di mantenerne
gli  effetti,  non  puo'  che  operare  egualmente  per tutti i fatti
oggetto  di  accertamento  penale, e non puo' essere differenziata in
base al concreto avanzamento del singolo processo.
Il  limite  generale  di  punibilita'  dei reati nel tempo e' fissato
astrattamente  per  tutti  e  va  applicato uniformemente a tutti gli
individui  cui si rivolge la legge penale italiana, quali che siano i
tempi  tecnici  concreti  di  ciascun processo. L'unica indiscutibile
diversita'  risiede  nella  diversificazione della durata del termine
massimo  di  prescrizione non in base all'andamento del processo (che
non  sembra  poter  rivestire un senso in presenza di un principio di
eguaglianza   del   trattamento  penale)  bensi',  come  si  e'  gia'
accennato,  in ragione della natura del reato, e dunque in ragione di
esigenze  e valutazioni sostanziali (di politica criminale, di tutela
sociale,  di  rilevanza  del bene protetto, di allarme sociale che il
legislatore attribuisce a determinati fatti piu' che ad altri).
Se  dunque  appare indiscutibile che l'istituto della prescrizione e'
di diritto sostanziale, e afferisce alla disciplina del reato ed alla
voluntas  puniendi  dello  Stato,  e  non  ha  natura processuale non
incidendo  sull'andamento  processuale, appare decisamente incoerente
rispetto  al  principi generali dell'illecito penale che la novellata
disciplina  trovi  applicazioni  differenziate  unicamente in ragione
della  fase  processuale in atto al momento della sua introduzione, e
sembra  fondato  l'assunto  degli  odierni appellanti secondo i quali
tale  discrimine  leda  il  principio  di eguaglianza del trattamento
penale, desumibile dall'art. 3 Cost.
Sulla  base  delle considerazioni esposte, ritenuta la rilevanza e la
non  manifesta  infondatezza  della questione, va sospeso il presente
giudizio  e  vanno  trasmessi  gli  atti  alla  Corte  costituzionale
affinche'   voglia,   ove   ne   ravvisi  i  presupposti,  dichiarare
l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 10, terzo comma, nel testo
attualmente  vigente,  della  legge  5 dicembre 2005, n. 251 (recante
«modifiche  al  codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in
materia   di  attenuanti  generiche,  di  recidiva,  di  giudizio  di
comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di
prescrizione»),   nella  parte  in  cui  dispone  che  i  termini  di
prescrizione   piu'   brevi   risultanti   dalle  nuove  disposizioni
introdotte   dall'art.  6  della  stessa  legge  n. 25l/2005  non  si
applicano  ai  reati  i  cui processi erano gia' pendenti in grado di
appello alla data di entrata in vigore della suddetta legge, e quindi
con  espunsione dal suo testo dell'inciso «ad esclusione dei processi
gia' pendenti in grado di appello».
                              P. Q. M.
   Letti gli artt. 134 Cost. e 23 della legge n. 87/1953;
   Ritenuta  la  rilevanza  nel  presente giudizio e la non manifesta
infondatezza  della  questione  di  legittimita'  costituzionale, per
contrasto  con  l'art.  3  Cost. dell'art. 10, terzo comma, nel testo
attualmente vigente, della legge 5 dicembre 2005, n. 251;
   Sospende  il  presente giudizio n. 929/2007 R. G. App. a carico di
Barnaba Vincenzo ed altri;
   Dispone  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte costituzionale
affinche'   voglia,   ove   ne   ravvisi  i  presupposti,  dichiarare
l'illegittimita'   costituzionale   dell'inciso  «ad  esclusione  dei
processi  gia'  pendenti  in  grado  di  appello» dell'art. 10, terzo
comma,  della  legge   5  dicembre 2005 n. 251 (recante «modifiche al
codice  penale  e  alla  legge  26 luglio 1975, n. 354, in materia di
attenuanti  generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione»);
   Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del
Consiglio  dei  ministri  e  sia  comunicata  ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
    Bari, addi' 29 giugno 2007
                        Il Presidente: Rizzi
                                       Il consigliere estensore: Pica