N. 856 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 agosto 2007
Ordinanza del 23 agosto 2006 emessa dal Commissione tributaria regionale per il Lazio sull'appello proposto da Gestione Servizi Pubblici s.r.I. contro A.P. Italia s.r.l. ed altro Imposte e tasse - Imposta comunale sulla pubblicita' - Rideterminazione della tariffa dell'imposta comunale sulla pubblicita' ordinaria - Prevista competenza del Presidente del Consiglio dei ministri - Omessa determinazione legislativa di principi e di criteri direttivi idonei a delimitare la discrezionalita' dell'amministrazione finanziaria e a garantire le ragioni dei contribuenti - Denunciata violazione del principio di riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte. - Decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, art. 37. - Costituzione, art. 23.(GU n.5 del 30-1-2008 )
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE Ha emesso la seguente ordinanza sull'appello n. 835/06, spedito il 14 febbraio 2006, avverso la sentenza n. 328/58/2004, emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Roma, proposto dall'ufficio: Gestione Servizi Pubblici s.r.l., difeso dagli avv. Foderaro Italo Antonio e Giuseppe Mazzuti, via del Risaro n. 126 - 00127 Roma. Controparte A.P. Italia s.r.l., via Cerchiara n. 45 - 00131 Roma; altre parti coinvolte: Labico - 00030 Labico (Roma). Atti impugnati: Ingiunzione di pagamento pubblicita' 2001. F a t t o Con atto di accertamento n. 30 notificato l'8 gennaio 2003, la Gestione Servizi Pubblici s.r.l., quale concessionario per l'anno 2001 del servizio riscossione per conto del Comune di Labico, ingiungeva alla A.P. Italia il pagamento della somma di euro 340,86 quale imposta di pubblicita' e accessori in dipendenza di cartelli istallati nel territorio del comune nell'anno 2001. Avverso l'atto ricorreva la societa' lamentando: 1) Difetto di motivazione. 2) Inesistenza di fattispecie imponibili. L'avviso di accertamento non riguarderebbe l'imposta base, denunciata e regolarmente pagata dalla ricorrente, ma l'integrazione recata dal d.P.C.m. del 16 febbraio 2001. Secondo l'ordinanza del Consiglio di Stato n. 5206/2001 del 18 settembre 2001, l'aumento della tariffa base contenuta nel decreto legislativo n. 57 del 1993 puo' essere applicato solo dai comuni che l'abbiano recepito con deliberazione ed a partire solo dal 2002, non potendo essere l'atto impositivo amministrativo retroattivo. Si costitutiva in giudizio la societa' concessionaria eccependo che la decorrenza degli effetti di aumento dell'imposta tramite il d.P.C.m. previsto dall'articolo 37 del decreto legislativo n. 508 del 1993, e' determinata dallo stesso d.P.C.m. al 1° marzo 2001. Poiche' l'approvazione dei bilanci comunali per l'anno 2001 e' stata prorogata con decreto del Ministro delle finanze del 16 febbraio 2001 al 31 marzo 2001 e quindi anche il termine di pagamento e' stato prorogato a tale data, al momento della scadenza le tariffe erano quelle previste dal decreto legislativo n. 507 del 1993 modificate ai sensi dell'articolo 37 del decreto legislativo stesso con il d.P.C.m. citato e non si e' verificata retroattivita'. Con sentenza n. 328/58/04 del 9 giugno - 8 ottobre 2004 la Commissione adita accoglieva il ricorso ritenendo che, non potendo avere una norma tributaria effetto retroattivo, la tariffa recata dal d.P.C.m. del 16 febbraio 2001 non poteva avere vigore che dall'anno 2002. Avverso la detta sentenza propone appello la societa' Gestione Servizi Pubblici s.r.l. con atto notificato il 1° febbraio 2006 depositato il 18 febbraio 2006, lamentando: 1) L'aumento previsto dall'articolo 37 del decreto legislativo n. 507 del 1993 a seguito di emanazione di d.P.C.m. riguarda la sola tariffa base e non la parte variabile dell'imposta. La tariffa base e' imposta legislativamente e dunque la sua modificazione mediante il citato d.P.C.m. non abbisogna di recepimento da parte del comune. 2) L'aumento disposto dal d.P.C.m. in questione non ha effetto retroattivo, poiche' e' stabilito con decorrenza dal 1° gennaio 2001, mentre la scadenza del pagamento dell'imposta e' al 31 marzo 2001, cosi' prorogata indirettamente dalla proroga a detta data dell'approvazione del bilancio preventivo degli enti locali stabilita con decreto del Ministri delle finanze del 16 febbraio 2001. 3) Difetto di motivazione della sentenza. La contribuente non si e' costituita. Il d.P.C.m. in questione e' stato impugnato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, il quale con sentenza n. 13305 del 19 marzo 2003 ha respinto il ricorso, osservando che ai sensi dell'articolo 3, comma 5 del decreto legislativo n. 507 del 1993 le tariffe sull'imposta di pubblicita' entra in vigore il 1° gennaio dell'anno successivo a quello in cui la deliberazione comunale divenuta esecutiva, e che, nella specie, tale delibera da parte del Comune di Roma (amministrazione intimata in detto giudizio) non era stata adottata. Ha altresi' osservato non sussistere una violazione degli articoli 23 e 77 della Costituzione poiche' al d.P.C.m. sarebbe stata demandata solo una funzione di rideterminazione tecnica delle tariffe. La sentenza non risulta appellata. D i r i t t o Ritiene il Collegio che sia rilevante e non manifestamente infondato il dubbio di costituzionalita' riguardante l'articolo 37 del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507. Sulla rilevanza. Com'e' emerso in narrativa, l'atto impositivo avverso il quale il ricorrente propone le sue doglianze costituisce l'adeguamento della tariffa base dell'imposta sulla pubblicita', operato dal Comune di Labico sulla scorta del d.P.C.m. del 16 febbraio 2001, che tale base ha rideterminato. Il provvedimento amministrativo generale e' stato ritualmente impugnato presso il giudice amministrativo, anche dall'odierno ricorrente, in occasione di un diverso atto di accertamento emanato dal Comune di Roma, e la decisione del giudice amministrativo, riguardando un atto normativo a valenza generale, dispiega la sua efficacia oltre i limiti soggettivi del ricorso. II Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con la sentenza di cui in narrativa, ha respinto il ricorso sul presupposto, obiter dictum, che fosse necessaria la deliberazione comunale di recepimento e che questa, nella fattispecie, fosse intervenuta solo successivamente e quindi con effetti a decorrere dall'anno successivo a quello dell'emanazione e, conseguentemente, dell'atto impugnato. In tal guisa il Tribunale amministrativo regionale da' mostra di ritenere, in via di principio, che sia illegittima la decorrenza dell'adeguamento dal 1° marzo 2001, ma che nella specie tale retroattivita' non si sarebbe verificata, poiche', sul presupposto della necessita' di una deliberazione comunale di recepimento, l'assenza di questa, avrebbe comunque determinato l'efficacia dell'adeguamento solo dal primo gennaio dell'anno successivo. Occorre a questo punto osservare che l'oggetto del giudizio dinanzi al Tribunale amministrativo regionale era costituito non gia' da un atto impositivo del Comune di Roma, ma dal d.P.C.m. in questione, dalla deliberazione del Consiglio dei ministri e dalla previa proposta del Ministro delle finanze. A ben vedere, la questione circa l'illegittimita' dell'atto nella parte in cui determina i suoi effetti dal 1° marzo 2001, ovvero un mese prima della sua adozione, non e' stata ne' affrontata ne' risolta dal Tribunale amministrativo regionale, il quale l'ha considerata, sostanzialmente, venuta meno sul presupposto che il Comune di Roma aveva dichiarato in giudizio di non avere adottato la deliberazione, e sulla presupposizione (solo incidentalmente affermata dallo stesso Tribunale amministrativo regionale e dal Consig1io di Stato in sede di appello avverso del Tribunale amministrativo regionale che respingeva l'istanza cautelare di sospensione degli effetti dell'atto) della necessita' della deliberazione comunale di recepimento. Su tale ultimo punto, tuttavia, non si e' formato un giudicato, atteso che il Tribunale amministrativo regionale, vuoi per la mancanza dello specifico motivo di ricorso, vuoi perche' mancava il provvedimento di cui il d.P.C.m. fosse atto presupposto non ha potuto pronunciare l'illegittimita' degli atti conseguenti, anche se, indirettamente, ha ritenuto che questi non potessero che avere effetto futuro poiche' legati necessariamente ad una deliberazione comunale di recepimento. Resta pertanto appurato che il d.P.C.m. in questione, quale atto presupposto sia delle deliberazioni comunali sia degli atti impositivi, e' indenne da illegittimita', essendo ormai decorsi i termini d'impugnazione e non essendovi piu' pendente alcun ricorso in sede di giurisdizione amministrativa, ma e' altrettanto chiaro che l'impostazione del giudice amministrativo e' quella della necessita' della deliberazione comunale di recepimento. Nel giudizio odierno l'atto impositivo impugnato si fonda sul ridetto d.P.C.m. e, dunque, sulla norma primaria che ha autorizzato tale atto amministrativo ad adeguare la base di calcolo dell'imposta sulla pubblicita'. Ritiene il Collegio che tale norma primaria, ovvero l'articolo 37 del decreto legislativo n. 507 del 1993, sia affetta da incostituzionalita', come si vedra' avanti, e che tale incostituzionalita', pertanto, travolga il potere regolamentare attribuito al Presidente del Consiglio e quindi, conseguenzialmente, anche gli atti impositivi emanati sulla base di questo. Come insegna la Corte costituzionale, tuttavia, la rilevanza deve essere giudicata anche in funzione dell'inesistenza di una possibile diversa interpretazione, conforme a Costituzione, della norma denunciata ed in funzione di una diversa soluzione della controversia che prescinda dall'applicazione della norma sospetta d'incostituzionalita'. Nel caso di specie ne' l'una, ne' l'altra soluzione sono possibili. In primo luogo nessun'altra interpretazione e' possibile del citato articolo 37 se non quella che vede una delegificazione della determinazione della tariffa base dell'imposta sulla pubblicita', e su tale delegificazione si appuntano, come si vedra', i dubbi del collegio. In secondo luogo non e' possibile risolvere la questione odierna senza la diretta applicazione del citato articolo 37. Due sono, sostanzialmente, le tesi che si contrappongono. La prima ritiene che l'effetto impositivo non derivi direttamente dal d.P.C.m. e dalla modifica apportata all'ordinamento giuridico, ma solo dalla deliberazione di recepimento da parte del Comune, in mancanza della quale si deve applicare la tariffa base in vigore prima della modificazione stessa. E' questa la tesi sostenuta, incidentalmente, dal giudice amministrativo, la cui fondatezza deve essere verificata da questo giudice, poiche' l'atto impositivo impugnato e' basato su un'atto presupposto che, in tesi, non sarebbe stato completato nella sua efficacia. La seconda ritiene che l'effetto modificativo della tariffa base sia avvenuto ex lege a seguito dell'emanazione di un atto avente forza di legge (ma non valore essendo pur sempre un atto amministrativo regolamentare). La deliberazione comunale sarebbe stata necessaria solo ove il Comune avesse voluto imporre anche gli aumenti previsti dal decreto legislativo nella cosi' detta parte variabile dell'imposta, ma non in relazione alla tariffa base, che e' fissa ed uguale per tutti i comuni d'Italia. Entrambe le tesi, come si vede, si basano su un giudizio circa la valenza del d.P.C.m., e dunque diviene rilevante accertare che esso sia stato emanato in base ad una norma primaria non incostituzionale. Come corollario delle due tesi citate si pone un ulteriore problema, riguardante la legittimita' dell'eventuale retroattivita' della disposizione contenuta nel d.P.C.m. Anche in questo caso si contrappongono due tesi: La prima ritiene che la determinazione della tariffa base con decorrenza 1° marzo 2001, anteriore all'adozione dell'atto (ed in verita' di molto anteriore alla sua efficacia, essendo stato esso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17 aprile 2001, n. 89 ed entrato in vigore dopo la vacatio) violi il principio di irretroattivita' delle norme fiscali stabilito, con valenza generale, dall'articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212. La seconda tesi ritiene che l'efficacia non sia retroattiva, poiche' il d.P.C.m. e' intervenuto primi della scadenza dell'obbligo di pagamento dell'imposta e che, comunque, l'atto amministrativo avrebbe determinato solo un adeguamento all'aumento del costo della vita secondo gli indici dell'ISTAT. Anche per dirimere questo punto della controversia, occorre in ogni caso ritenere legittima l'adozione dell'atto amministrativo generale. Sembra, infatti, preferibile la tesi per cui, avendo l'articolo 37 in questione effetto delegificante, il d.P.C.m. abbia introdotto un'inserzione automatica di norma primaria derogando all'articolo 3, comma 1 della legge n. 212 del 2000, il quale, pur avendo una valenza generale, e' esso stesso norma primaria modificabile o derogabile da una norma successiva avente pari rango. Considerata la rilevanza della questione, occorre ora affrontare l'ulteriore profilo. Sulla non manifesta infondatezza. Il meccanismo giuridico di cui all'articolo 37 del decreto legislativo n. 507 del 1993 costituisce chiaramente una delegificazione dell'articolo 12 del medesimo testo, il quale, nel suo test originario, determinava, con valore e forza di legge ordinaria, la tariffa base. Cio' sembra collidere con l'articolo 23 della Costituzione, il quale dispone una riserva di legge per la determinazione delle prestazioni patrimoniali imposte. A questa Commissione non sfugge la giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha chiarito che la riserva di cui al citato articolo 23 e' relativa e quindi che esso non esige che l'istituzione dei tributi avvenga «per legge», ma «in base alla legge». Cio' consente che sia rinviata a provvedimenti amministrativi la determinazione di elementi o di presupposti della prestazione che siano espressione di discrezionalita' tecnica, purche' risultino assicurate le garanzie atte ad escludere che la discrezionalita' si trasformi in arbitrio. (Sentenza n. 48 del 4 luglio 1961) ovvero che sia assicurata, nella procedura relativa, una congrua garanzia agli interessati. (Sentenza n. 122 del 4 luglio 1957). Cio' implica, per altro verso, che la legge predetermini i parametri della discrezionalita' tecnica, in altri termini che indichi, sia pure in linea di massima, quali siano i profili da accertare per esercitare su di essi una valutazione e quindi un calcolo puramente ancorato a profili tecnici. In effetti, e' ben noto che quella che comunemente e' definita «discrezionalita' tecnica» non e' vera e propria discrezionalita' amministrativa, cioe' capacita' di scelta dei modi, dei mezzi e dei fini concreti, in ogni caso funzionalizzati alla cura dell'interesse pubblico affidato alla Pubblica Amministrazione. Ci si deve piuttosto riferire alla potesta' di scelta quando occorra applicare, invece che una scienza esatta, una lex artis, cioe' una norma tecnica che non conduce ad un risultato univoco, ma comporta l'opinabilita' di esso. Nell'affidamento da parte della legge ad un provvedimento amministrativo del compito di determinare l'ammontare dell'imposta, piu' che ad una discrezionalita' tecnica occorre riferirsi ad un potere di accertamento tecnico (come espressamente ritiene la Corte costituzionale, vedi infra), vale a dire la valutazione, compiuta con strumenti tecnici, di una situazione di fatto dalla quale far scaturire conseguenze giuridiche predeterminate. In mancanza di criteri direttivi e principi alla base dell'azione di accertamento, essa si risolve necessariamente in arbitrio, poiche' la latitudine del potere affidato alla p.a. diviene potenzialmente senza limiti, e la p.a. puo' porre a fondamento del suo accertamento un fatto o una circostanza qualsiasi tra le molteplici ipotizzabili. Ad avviso del Collegio e' cio' che accade con l'articolo 37 qui denunciato, il quale affida al Governo un potere regolamentare di rideterminazione della base dell'imposta senza indicare per nulla in relazione a quale evenienza di fatto tale rideterminazione debba essere calcolata. Viceversa, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha, sin da epoca risalente chiarito «la necessita' che la legge, nella quale trova fondamento il potere di imposizione, stabilisca criteri e limiti, che, pur potendo essere variabili da caso a caso per la particolarita' della materia, siano, nel loro complesso, idonei a delimitare la discrezionalita' dell'ente impositore, fissando i presupposti soggettivi ed oggettivi della prestazione nonche' i controlli, si' da non lasciare adito all'arbitrio».(Sentenza n. 122 del 4 luglio 1957). Del resto la stessa Corte aveva gia' affermato che requisito peri il rispetto della Costituzione e' che le norme «impegnano, non una discrezionalita' mera dell'ente impositore, ma un suo apprezzamento tecnico». (Sentenza n. 48 del 4 luglio 1961) e che «in tema di applicazione dell'art. 23 della Costituzione (e' necessario che) la legge, nella quale trova fondamento il potere di imposizione, stabilisca criteri e limiti, che, pur potendo eessere variabili da caso a caso per la particolarita' della materia, siano, nel loro complesso, idonei a delimitare la discrezionalita' dell'ente impositore, fissando i presupposti soggettivi ed oggettivi della prestazione nonche' i controlli, si' da non lasciare adito all'arbitrio». (Sentenza n. 122 del 1957) ed ancora che: «L'art. 23 della Costituzione non esige soltanto che l'imposizione di una prestazione abbia base nella legge, ma richiede altresi' che la legge, che conferisce il potere di imporre la prestazione, indichi i criteri idonei a delimitare la discrezionalita' dell'ente impositore nell'esercizio del potere attribuitogli'.». (Sentenze n. 30 del 23 gennaio 1957 e n. 4 del 16 gennaio 1957). Nei fatti, la dimostrazione dell'eccessiva latitudine concessa, e quindi dell'inevitabile arbitrio che essa comporta, e' data proprio dalla motivazione che sorregge il piu' volte citato d.P.C.m.. Dopo :avere dato giustificazione del potere richiamando l'articolo 37 del decreto legislativo n. 507 del 1993, ed avere indicato l'oggetto dell'intervento, vale a dire l'articolo 12 dello stesso testo, il d.P.C.m. richiama il decreto legislativo 29 settembre 1973, n. 602, recante disposizioni, sulla riscossione delle imposte sul reddito; osserva che l'art. 12-bis di tale testo prevede che non si proceda ad iscrizione a ruolo per somme inferiori a lire ventimila; osserva che l'importo minimo delle attuali tariffe (comuni di classe V) e' fissato in lire sedicimila e che pertanto tale importo risulta inferiore a quello per il quale e' possibile procedere all'iscrizione a ruolo; ritiene di conseguenza esistente la necessita' di adeguare il predetto importo minimo al fine di assicurarne l'accertamento e la riscossione anche in caso di omesso adempimento spontaneo, nonche' di rideterminare gli altri importi (comuni di classe IV, III, II e I) nella proporzione attualmente prevista ed infine procede alla parte dispositiva. Risulta quindi evidente che l'unico motivo che ha sorretto il potere di rideterminazione e' quello di elevare l'importo minimo per potere applicare, anche ad esso, la procedura di iscrizione a ruolo. Si tratta, chiaramente, di una decisione non scaturente da un accertamento tecnico (come richiesto dall'interpretazione della Corte costituzionale), ne' dall'uso di una discrezionalita' tecnica ma derivante da una decisione politica, che, in astratto, puo' anche essere corretta e condivisibile, ma che sicuramente esula dai limitati poteri di cui, anche secondo l'insegnamento della Corte costituzionale, dovrebbe essere munito un provvedimento amministrativo che determina la prestazione patrimoniale imposta «in base alla legge», per essere riservata alla discrezionalita' politica del Legislatore primario. Per quanto l'oggetto del giudizio di costituzionalita' non possa essere il regolamento in questione l'analisi della sua motivazione rende palese la deficienza costituzionale della norma base. Questa, per altro, risulta contraria all'articolo 23 della Costituzione anche sotto un altro profilo. Infatti, la giurisprudenza della Corte gia' citata ha chiarito, in sede di interpretazione di rigetto, che uno degli elementi perche' si abbia un rinvio costituzionalmente legittimo all'atto amministrativo e' l'esistenza di una procedura nell'emanazione dell'atto che assicuri le dovute garanzie agli interessati. L'articolo 37 nulla prevede in tal senso, ed, infatti, il d.P.C.m. e' stato adottato su iniziativa del Ministro delle finanze, solo sentito il parere della Conferenza Stato-citta' ed autonomie locali, che e' esponenziale degli interessi del prenditore, ma non certo dei contribuenti. In conclusione, ritenendo che la questione di legittimita' costituzionale per violazione dell'articolo 23 della Costituzione da parte dell'articolo 37 del decreto legislativo n. 507 del 1993, sia rilevante e non manifestamente infondata, la Commissione sospende il giudizio, ai sensi dell'articolo 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1949, n. 1, e dell'articolo 23 della legge costituzionale il marzo 1953, n. 87 e, riservata ogni altra decisione in rito e nel merito, invia gli atti alla Corte costituzionale.
P. Q. M. Ogni altra decisione in rito e nel merito riservata, sospende il giudizio. Manda la segreteria di inviare gli atti alla Corte costituzionale ai sensi dell'articolo 23, comma secondo della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87, nonche' di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicarla ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, ai sensi del medesimo articolo 23, comma quarto. Roma, addi' 23 agosto 2006 Il Presidente: D'Ayala Valva Il relatore estensore: Zucchelli