N. 69 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 dicembre 2007
Ordinanza del 29 dicembre 2007 emessa dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia - Sezione Lecce sul ricorso proposto da Gianfreda Aurelio contro Ministero dell'interno ed altri Elezioni - Consigliere comunale - Decadenza dall'ufficio per mancata rimozione della causa di incompatibilita' derivante dalla pendenza di lite innanzi al giudice civile od amministrativo tra l'interessato ed il comune - Devoluzione della tutela giurisdizionale avverso la delibera di decadenza al tribunale ordinario anziche' al Tribunale amministrativo regionale - Irragionevolezza e contrasto con i tradizionali criteri di ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo - Violazione dei principi di pari dignita' della funzione giurisdizionale amministrativa e giudiziaria e di concentrazione ed effettivita' della tutela giurisdizionale. - Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, art. 69, comma 5. - Costituzione, artt. 3, 24, 101, 103, 111 e 113. Elezioni - Consigliere comunale - Decadenza dall'ufficio per mancata rimozione della causa di incompatibilita' derivante dalla pendenza di lite innanzi al giudice civile od amministrativo tra l'interessato ed il comune - Violazione del principio di uguaglianza per la sproporzione tra il fine ed il mezzo - Incidenza sul diritto di difesa - Violazione del diritto all'elettorato passivo. - Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, art. 63, comma 1, n. 4. - Costituzione, artt. 3, 24 e 51.(GU n.13 del 19-3-2008 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella pubblica udienza del 27 giugno 2007; Visto il ricorso n. 806/2007 proposto da Gianfreda Aurelio, rappresentato e difeso da Quinto Pietro, con domicilio eletto in Lecce, via Garibaldi, 43, presso Quinto Pietro; Contro Ministero dell'interno - Roma, Comune di Poggiardo, rappresentato e difeso da Carluccio Salvatore, Circolone Giovanni, Elia Cosimo, con domicilio eletto in Lecce, viale Leopardi,15 presso Palma Antonio e nei confronti di Bolognino Alfio, non costituito; per l'annullamento, previa sospensione dell'esecuzione, della deliberazione n. 18 del 22 maggio 2007 con la quale il Consiglio comunale della Citta' di Poggiardo ha ritenuto, in via definitiva, sussistenti in capo al ricorrente le condizioni di incompatibilita' per lite pendente ai sensi dell'art. 63 del T.U.E.L. e lo ha invitato a rimuoverle nel termine di gg. 10 dalla notifica con l'avviso che in difetto provvedera' a dichiararlo decaduto; nonche' di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale e specificatamente della delibera del Consiglio comunale di Poggiardo n. 13 del 24 aprile 2007; nonche', per l'annullamento, previa sospensione dell'esecuzione, dell'avviso di convocazione del Consiglio comunale a firma del Presidente del C.C. datato 7 giugno 2007; nonche', per l'annullamento, previa sospensione dell'esecuzione, delle deliberazioni nn. 25 e 26 dell'11 giugno 2007 con le quali il Consiglio comunale della Citta' di Poggiardo ha, rispettivamente, dichiarato la decadenza del ricorrente dalla carica di consigliere comunale e proceduto alla surroga con il sig. Bolognino Alfio; Visti gli atti e i documenti depositati con il ricorso; Visti i motivi aggiunti depositati l'8, 12 e 13 giugno 2007; Vista la domanda di sospensione della esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dal ricorrente; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Poggiardo; Udito il relatore ref. Massimiliano Balloriani e uditi altresi' per le parti l'avv. Quinto, l'avv. Carluccio e l'avv. Circolone, per se' e in sostituzione dell'avv. Elia. F a t t o e d i r i t t o Il ricorrente e' consigliere del Comune di Poggiardo. Con sentenza dei Tribunale di Lecce, n. 711 del 2004, divenuta definitiva il 1° marzo 2005, e' stato assolto dalla imputazione per i reati di cui agli articoli 319, 319-bis e 321 del codice penale, per non aver commesso il fatto. A seguito dell'assoluzione in sede penale, con citazione del 15 febbraio 2007, Gianfreda Aurelio, dopo aver ricevuto il diniego del Comune di Poggiardo in ordine al rimborso delle spese legali sostenute in quella sede processuale, lo ha convenuto dinnanzi al giudice civile per ottenere un provvedimento giurisdizionale di condanna al pagamento di tali spese. Il Comune di Poggiardo con deliberazione del c.c. n. 13 del 24 aprile 2007 ha quindi contestato al ricorrente il verificarsi delle condizioni di incompatibilita' per lite pendente, ai sensi degli articoli 63 e 68, comma 2 del d.lgs. n. 267 del 2000, assegnandogli il termine di dieci giorni per produrre osservazioni, secondo il procedimento delineato dall'art. 69 del medesimo d.lgs. Con successiva delibera n. 18 del 22 maggio 2007, il c.c. di Poggiardo ha rinvenuto in via definitiva, nella situazione del consigliere comunale Gianfreda Aurelio, la condizione di incompatibilita' per lite pendente ed lo ha pertanto invitato ad eliminarla entro dieci giorni, pena la decadenza. Con il ricorso introduttivo il ricorrente ha chiesto l'annullamento delle delibere n. 13 e n. 18 del 2007, rilevando che: i fatti relativi alla sentenza penale di assoluzione sarebbero connessi all'esercizio del mandato e pertanto esclusi espressamente, dall'ultimo comma dell'art. 63, d.lgs. n. 267 del 2000, dall'ambito di rilevanza dell'incompatibilita' per lite pendente; il Consiglio comunale non avrebbe tenuto in alcun conto le osservazioni presentate dall'interessato ne' la giurisprudenza della Cassazione che, in ipotesi simili, tenderebbe ad escludere l'esistenza di una causa di incompatibilita'. Con successivi motivi aggiunti, depositati l'8 giugno 2007, il ricorrente, chiedendo una tutela cautelare anche monocratica, ha impugnato poi l'avviso di convocazione straordinaria ed urgente del Consiglio comunale di Poggiardo, avente all'ordine del giorno la dichiarazione della sua decadenza dalla carica di consigliere comunale; chiedendo la sospensione di tale avviso di convocazione e cosi' dell'ulteriore prosecuzione dell'attivita' amministrativa funzionale alla sua decadenza, deducendo a tal fine i medesimi motivi esposti nel ricorso introduttivo. Nella stessa data dell'8 giugno 2007, il decreto monocratico e' stato respinto, non ravvisandosi la natura provvedimentale dell'atto di convocazione del consiglio comunale, ne' l'esistenza, allo stato, di un pregiudizio di estrema gravita' ed urgenza. L'11 giugno 2007, si e' costituito in giudizio il Comune di Poggiardo, deducendo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario, ai sensi degli articoli 69 e 70 del d.lgs. n. 267 del 2000; difetto di giurisdizione che secondo un consolidato indirizzo delle sezioni unite della Corte di cassazione permane anche nel caso in cui il giudizio venga introdotto mediante l'impugnazione del provvedimento amministrativo di decadenza, perche' anche in tali ipotesi la decisione verte non sull'annullamento dell'atto amministrativo, bensi' sul diritto soggettivo perfetto inerente al diritto all'elettorato attivo o passivo (Cass., sez. un., 4 maggio 2004, n. 8469; 24 marzo 1993, n. 3518). Secondo il comune resistente, poi, al giudice amministrativo sarebbe ontologicamente precluso un esame del rapporto controverso, necessario per valutare se la lite pendente sia o meno attinente a fatti connessi con l'esercizio del mandato; senza contare poi che, nel merito, sempre ad avviso del Comune di Poggiardo, tale nesso non sussisterebbe affatto, atteso che il recupero delle spese legali riguarderebbe la soddisfazione di un interesse economico squisitamente personale ed individuale. Con le deliberazioni del 25 e 26 giugno 2007, il Consiglio comunale di Poggiardo ha, rispettivamente, dichiarato la decadenza del ricorrente dalla carica di consigliere comunale ed ha proceduto alla surroga in favore di Bolognino Alfio. Con motivi aggiunti depositati il 13 giugno 2007, sono state impugnate anche queste ulteriori delibere ed e' stata riprodotta istanza cautelare e di decreto cautelare monocratico. Alla camera di consiglio del 13 giugno 2007, il ricorrente ha rinunciato all'istanza di decreto monocratico ed ha chiesto di riunire la trattazione dell'istanza cautelare insieme a quella di merito, fissata, su accordo delle parti, all'udienza pubblica del 27 giugno 2007. In tale udienza, la causa e' passata in decisione ed il tribunale ha ritenuto di dover sollevare questione di legittimita' costituzionale, per le ragioni che si vengono ad esporre nella presente ordinanza, e, nelle more della decisione della Corte costituzionale, ha ritenuto, con separata ordinanza collegiale, resa nella stessa data del 27 giugno 2007, di accordare la tutela cautelare, chiesta dal ricorrente ed abbinata al merito per ragioni di trattazione. 1) Sulla rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. 1.1.) Con riferimento all'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000. La questione preliminare che il Collegio si trova a dover superare per poter decidere sulla presente controversia e' quella della giurisdizione del giudice ordinario. Secondo l'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000 (dopo che l'art. 274 del medesimo d.lgs. ha abrogato l'art. 9-bis della legge n. 570 del 1960 che recava disposizione analoga in tema di riparto di giurisdizione), contro la delibera che - dopo aver ritenuto definitivamente sussistente la causa di ineleggibilita' o di incompatibilita' ed aver invitato l'amministratore a rimuoverla o ad esprimere, se del caso, la opzione per la carica che intende conservare - dichiara decaduto l'amministratore, e' ammesso ricorso giurisdizionale al tribunale ordinario competente per territorio. Appare allora evidente che la questione di legittimita' costituzionale di tale previsione normativa, che attribuice al giudice ordinario la giurisdizione sul procedimento di decadenza per incompatibilita', assume diretta rilevanza nel caso in esame, atteso che solo l'accoglimento di tale questione e la conseguente attribuzione al giudice amministrativo di queste controversie, consentirebbe al Collegio di decidere sul presente ricorso. 1.2) Con riferimento all'art. 63 del d.lgs. n. 267 del 2000. Nel caso di accoglimento della questione sulla giurisdizione, questo tribunale si troverebbe poi a dover applicare una disposizione della cui legittimita' costituzionale dubita fortemente. Ed ai fini del presente giudizio cio' assume diretto rilievo. Se la Corte costituzionale ritenesse costituzionalmente illegittimo l'art. 63 citato - nella parte in cui prevede, tra le cause di incompatibilita' per i consiglieri comunali, quella per lite pendente, nei limiti che qui rilevano - allora l'esito del giudizio ne resterebbe sicuramente influenzato non potendo il ricorrente che ottenere una decisione sicuramente conforme al proprio interesse. Difatti la lite pendente che egli ha con il Comune di Poggiano non avrebbe alcun rilievo come causa di incompatibilita', ai sensi e per gli effetti del successivo art. 68, comma 2 del d.lgs. n. 267 del 2000. 2) Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69 del d.lgs. n. 267/2000. Commentando il riparto di giurisdizione in materia di elettorato passivo, delineato ancora oggi, dagli artt. 82 e seguenti della legge n. 570 del 1960, secondo la dicotomia questioni di eleggibilita' e questioni di regolarita', parte della dottrina (cfr., ad es., Mignone) non ha mancato di rilevare come il suddetto criterio sia non conforme a quello costituzionale che invece fonda il riparto sulla dicotomia diritti soggettivi ed interessi legittimi. Cio' e' soprattutto evidente in casi come quello in esame, e cioe' nell'ipotesi espressamente contemplata dall'art. 69 del d.lgs. n 267 del 2000, in cui v'e' un atto soggettivamente ed oggettivamente amministrativo da impugnare, adottato a seguito di un procedimento amministrativo. A fronte di cio', la Cassazione, per giustificare la legittimita' costituzionale del riparto di giurisdizione cosi' delineato, tende a distinguere, forse in modo un po' troppo artificioso, nell'ambito delle questioni pur sempre afferenti l'elettorato passivo, tra interesse legittimo alla regolarita' delle operazioni elettorali e diritto soggettivo alla eleggibilita' e compatibilita' (cfr. Cassazione civile, sez. un., 27 aprile 1981, n. 2517). Se si guarda al passato, tuttavia, si trova anche nella giurisprudenza della Cassazione la consapevolezza della difficolta' ed apoditticita' di una simile distinzione, consapevolezza implicita in alcune decisioni in cui ha giustificato il riparto solo sul dato formale della volonta' legislativa, a prescindere dalla verifica della natura della posizione giuridica tutelata (cfr. Cassazione, sentenza n. 3900 del 1976). In altre decisioni, addirittura, la Corte di cassazione ha qualificato anche il contenzioso sulla regolarita' delle operazioni, come afferente pur sempre a posizioni di diritto soggettivo e quindi come ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (cfr. Cassazione, sentenza n. 1189 del 1968). L'esistenza di un atto impugnabile e di un procedimento amministrativo tipico, come si diceva, tuttavia, rendono ardua la giustificazione concettuale della giurisdizione ordinaria. La Corte di cassazione, a tal fine, afferma che le controversie in tema di eleggibilita' alla carica di consigliere comunale, come quelle in tema di decadenza dalla medesima, investono il diritto politico di elettorato passivo, espressamente riconosciuto dall'art. 51 della Costituzione, la cui consistenza non si modifica, in quanto manca qualsiasi norma che, conferendo alla pubblica amministrazione poteri discrezionali al riguardo, valga ad affievolirlo ad interesse legittimo. E proprio sulla base di tali considerazioni, ad avviso della Corte di cassazione, la devoluzione di simili controversie al giudice ordinario, manifestamente non sarebbe in contrasto con il principio costituzionale della tutela degli interessi legittimi dinanzi al giudice amministrativo (di cui all'art. 103 della Costituzione) (Cfr. Cassazione civile, sez. un., 11 novembre 1982, n. 593; 4 maggio 2004, n. 8469). Oltre alla evidenziata artificiosita' della distinzione - nell'ambito del medesimo procedimento elettorale, che coinvolge il medesimo interesse tutelato all'elettorato passivo - tra interesse legittimo e diritto soggettivo politico perfetto, ad avviso del Collegio, rievocare la categoria atipica dei diritti pubblici soggettivi, nella sub specie dei c.d. diritti funzionali o politici, vuol dire far continuare a vivere una categoria ormai superata e non piu' attuale, atteso che essa ha fondamento ontologico in sistemi monistici, di giurisdizione unica, come si desume anche dal disposto di cui all'art. 2 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 all. E, che aveva devoluto alla giurisdizione ordinaria «tutte le cause per contravvenzioni e tutte le cause nelle quali si faccia questione d'un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorche' siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell'autorita' amministrativa». Tale categoria e' stata mantenuta in vita dalla giurisprudenza della Cassazione, anche nell'attuale sistema dualistico, teorizzando l'esistenza di diritti assolutamente incomprimibili, indegradabili, anche a fronte del potere pubblico autoritativo. Si tratta, pero', di una teoria che puo' dirsi ormai superata, e con essa quella della c.d. doppia tutela (di annullamento davanti al giudice amministrativo e poi di risarcimento davanti al giudice ordinario), dalle seguenti considerazioni: l'interesse legittimo, anche se oppositivo, ha consistenza autonoma: non «nasce» dalla degradazione, dalle ceneri del diritto soggettivo; e cio' sia per la necessita' logica secondo cui la situazione giuridica tutelata deve preesistere e resistere alla sua lesione (quindi non nasce ne' scompare con essa) sia perche' la stessa Corte costituzionale ha qualificato la tutela risarcitoria del danno da attivita' provvedimentale autoritativa come una tutela ulteriore dell'interesse legittimo e non del diritto soggettivo (Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 2004); il giudice amministrativo e' idoneo, da solo (cioe' senza la necessita' di imporre al privato di adire prima il G.A. e poi il G.O.), ad offrire piena tutela anche agli interessi costituzionalmente garantiti, coinvolti nell'esercizio della funzione amministrativa (Corte costituzionale, sentenza n. 140 del 2007); non osta all'attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo la natura «fondamentale» dei diritti soggettivi coinvolti, non essendovi alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario - escludendone il giudice amministrativo - la tutela dei diritti costituzionalmente protetti. Peraltro, l'orientamento - espresso dalle sezioni unite della Corte di cassazione - circa la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in presenza di alcuni diritti assolutamente prioritari risulta valido solo m ipotesi in cui vengono in considerazione meri comportamenti della pubblica amministrazione, non, invece, ove si tratta di specifici provvedimenti o procedimenti «tipizzati» normativamente (Corte costituzionale, sentenza n. 140 del 2007); al giudice naturale della legittimita' dell'esercizio della funzione pubblica occorre affidare poteri idonei ad assicurare piena tutela, anche risarcitoria, per il danno sofferto anche in violazione di interessi fondamentali in dipendenza dell'illegittimo esercizio del potere pubblico da parte della pubblica amministrazione (Corte costituzionale, sentenza n. 140 del 2007). Non appare poi pienamente condivisibile, anche sotto altro profilo, ad avviso del Collegio, la soluzione ermeneutica della suprema Corte di cassazione, secondo la quale - mancando una norma che, conferendo alla pubblica amministrazione poteri discrezionali in ordine all'accertamento della decadenza, valga ad affievolire il diritto soggettivo ad interesse legittimo - la devoluzione delle controversie in materia al giudice ordinario manifestamente non si pone in contrasto con il principio costituzionale della tutela degli interessi legittimi dinanzi al giudice amministrativo ex art. 103 Costituzione (cfr. anche Cassazione civile, sez. un., 16 ottobre 1985, n. 5074). Oltre alla riferita inattualita' della teorica dell'affievolimento del diritto soggettivo ad interesse legittimo, non appare neanche piu' conforme al sistema escludere dal novero dei provvedimenti amministrativi autoritativi quelli che sono manifestazione di potere non discrezionale ma vincolato. A confutare tale assunto puo' essere sufficiente fare riferimento alla pressoche' totale giurisprudenza amministrativa, in cui era pur presente tale distinzione. Questa giurisprudenza oggi, prendendo atto del chiaro disposto dell'art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, afferma pacificamente che non e' annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; con cio' postulando evidentemente l'esistenza della giurisdizione amministrativa anche sugli atti amministrativi vincolati (come del resto si desume pure dalla sentenza n. 204 del 2004 della Consulta) (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1307 del 2007). Del resto, proprio il necessario rispetto delle norme sul procedimento amministrativo o sulla forma degli atti rappresenta l'essenza minima del provvedimento amministrativo adottato secondo le norme di azione di cui alla legge n. 241 del 1990 (Sentenza della Corte costituzionale n. 241 del 1990), ed al contempo cio' rappresenta anche il nucleo minimo di affinita' tra gli atti amministrativi vincolati e quelli discrezionali. Anche un atto amministrativo vincolato, nella specie la delibera di decadenza di cui all'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000, deve rispettare le norme sul procedimento (si pensi alla competenza degli organi, al procedimento di convocazione e di voto, alla correttezza e completezza dell'istruttoria, ecc...) e sulla forma degli atti amministrativi. E le norme di azione, come noto, sono il parametro naturale del giudice amministrativo. Si consideri, ad esempio, le questioni relative all'inerzia della pubblica amministrazione nell'esercizio del potere. Qui la giurisprudenza, premesso che il giudizio sul silenzio non vale ad estendere la giurisdizione a nuove materie (Consiglio di Stato, sentenza n. 6003 del 2006), afferma comunemente che il giudice amministrativo puo' decidere sulla fondatezza dell'istanza (come ora gli consente espressamente l'art. 2 della legge n. 241 del 1990), solo ove si tratti di attivita' amministrativa non discrezionale (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1332 del 2006), con cio' confermando evidentemente la propria giurisdizione anche in materia di atti vincolati. Tutto cio' premesso, dovrebbe essere emerso che nell'ambito della funzione amministrativa in materia elettorale, che include anche l'eventualita' della deliberazione di decadenza adottata secondo il procedimento delineato dall'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000, non vi sono ragioni dogmatiche che giustificano una distinzione tra diritto soggettivo perfetto all'elettorato passivo ed interesse legittimo alla regolarita' delle operazioni elettorali. Anzi, proprio la natura soggettiva dell'ente deliberante, la tipicita' e procedimentalizzazione degli atti adottati, la loro autoritativita' ed unilateralita', inducono a ritenere che si tratta dell'esercizio, procedimentalizzato, di una funzione amministrativa, a fronte della quale esistono posizioni giuridiche di interesse legittimo, le quali, come di recente evidenziato dalla Consulta (sentenza n. 140 del 2007), sono idonee ad apprestare tutela anche a beni interessi di rango costituzionale, qual e' appunto il diritto all'elettorato passivo (ex art. 51 della Costituzione). Cio' premesso, occorre valutare se, in presenza di interessi legittimi o, comunque, in presenza dell'esercizio di una funzione amministrativa unitaria, e' costituzionale sdoppiare la tutela, imponendo, tra l'altro, e per quanto di interesse in questa sede, di ricorrere al giudice ordinario avverso la delibera di decadenza di cui all'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000. L'art. 113 della Costituzione non riserva in via esclusiva al giudice amministrativo il giudizio avverso gli atti della pubblica amministrazione. Secondo il comma 3, difatti, la legge potrebbe attribuire anche al giudice ordinario il giudizio impugnatorio avverso atti amministrativi. Il medesimo art. 103 della Costituzione, al comma 1, pero', riserva solo al giudice amministrativo la tutela degli interessi legittimi. A ben vedere, inoltre, la Carta costituzionale non detta una definizione di interessi legittimi e diritti soggettivi ma, dopo averli posti sullo stesso piano all'art. 24, rimette anche qui alla legge la loro definizione e determinazione. Sia sotto il profilo del petitum (art. 113) che sotto quello della causa petendi (art. 24), quindi, il rinvio alla legge ordinaria rende il sistema elastico e libero di tendere - come sembra ormai avvenire sempre piu' velocemente, in risposta alle moderne esigenze - verso l'unificazione e l'omogeneizzazione delle tutele, nonostante l'opzione formale della pluralita' delle giurisdizioni. Cio' premesso, occorre altresi' rilevare che - dato che, a mente dell'art. 113, terzo comma, spetta alla legge la determinazione di quali organi giurisdizionali possono annullare gli atti della pubblica amministrazione, e che l'art. 103, comma 1 riserva solo al giudice amministrativo la tutela degli interessi legittimi - la legge, quando impone, a fronte di un atto della pubblica amministrazione, che la tutela debba essere affidata al giudice ordinari, implicitamente qualifica le posizioni giuridiche come diritti soggettivi (non potendo, per il menzionato art. 103, il giudice ordinario conoscere degli interessi legittimi). Cio' avviene, in via generale e salvo le varie eccezioni, ad esempio, in materia di sanzioni amministrative, in virtu' di quanto dispone l'art. 22 della legge n 689 del 1981. Ora, se e' vero che la Costituzione ha lasciato al legislatore la delimitazione e determinazione delle posizioni giuridiche di interesse legittimo e diritto soggettivo, e' vero altresi' che lo stesso legislatore ricava dalla Carta fondamentale anche precise direttive che lo devono guidare, tra le quali: il principio di ragionevolezza che impone di tenere conto che il giudice amministrativo esiste in quanto giudice naturale della legittimita' dell'esercizio della funzione pubblica (articoli 3 e 103 della Costituzione; Corte costituzionale, sentenze n. 204 del 2004; n. 191 del 2006; n. 140 del 2007); il principio di pari dignita' della funzione giurisdizionale amministrativa ed ordinaria (artt. 24 e 101 della Costituzione, Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 2004 e sentenza n. 140 del 2007); il principio di concentrazione ed effettivita' della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 della Costituzione; Corte costituzionale, sentenze n. 77 del 2007 e n. 140 del 2007). Proprio sulla base di tali principi, ad avviso del Collegio, puo' allora cogliersi la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' dell'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000, laddove attribuisce alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione dell'impugnazione della delibera di decadenza per incompatibilita' del consigliere eletto. Atteso che, come si e' cercato di evidenziare, la funzione amministrativa elettorale - sia per quanto riguarda le attivita' di accertamento dei voti, dell'ammissibilita' delle liste e di proclamazione degli eletti sia per quanto riguarda quelle relative all'accertamento delle cause di ineleggibilita' ed incompatibilita' ed alle statuizioni di decadenza - ha natura ontologicamente unitaria; occorre allora rilevare che, se il giudice amministrativo e' il giudice naturale della funzione pubblica amministrativa, vi devono essere delle ragioni per sottrarre a quest'ultimo la giurisdizione su alcuni segmenti di tale funzione procedimentalizzata. E se tali ragioni non si trovano (e non possono ovviamente risiedere solo nel carattere storico e sostanzialmente tralatizio, o traslatizio, della normativa in materia di riparto di giurisdizione sul contenzioso elettorale, cosi' come a noi pervenuta dal sistema preunitario), allora, per quanto fin ora si e' cercato di esporre, la legge di riparto appare in possibile contrasto con la Costituzione, e non solo con riferimento alla violazione del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3. Proprio il carattere unitario della funzione amministrativa che incide sulle elezioni locali, difatti, rende evidente come affidare parte della giurisdizione sul contenzioso elettorale al giudice ordinario, determini la violazione dei principi che impongono la necessita' di assicurare concentrazione ed effettivita' alla tutela giurisdizionale del bene-interesse all'elettorato passivo, in tale funzione resta unitariamente coinvolto (artt. 24 e 111 della Costituzine; Corte costituzionale, sentenze n. 77 del 2007 e n. 140 del 2007). D'altro canto, poi, il principio di pari dignita' della funzione giurisdizionale amministrativa ed ordinaria (artt. 24 e 101 della Costituzione; Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 2004 e sentenza n. 140 del 2007) appare violato qualora si ritenga dai giustificare la devoluzione delle controversie di cui all'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000 al giudice ordinario, con una presunta inidoneita' del giudice amministrativo ad apprestare adeguata tutela ai beni interessi tutelati dall'art. 51 della Costituzione. Giova poi rilevare, sebbene subordinatamente, che se anche non si condividesse la qualificazione dell'interesse oppositivo alla deliberazione di decadenza per incompatibilita' - avente, tra l'altro, natura omogenea all'interesse alla legittima e corretta proclamazione degli eletti - come interesse legittimo a tutela del bene-interesse all'elettorato passivo di cui all'art. 51 della Costituzione; i principi surrifeniti dovrebbero comunque imporre degli obblighi al Legislatore. E cio', per le seguenti considerazioni; L'art. 103 della Costituzione dispone che il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativi hanno, in particolari materie indicate dalla legge, anche la giurisdizione per la tutela dei diritti soggettivi. Una volta che si e' riconosciuta la natura particolare di alcune materie, riconoscibili come tali per il prevalente intreccio e interferenza di posizioni giuridiche di diritto soggettivo ed interesse legittimo (Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 2004), il Legislatore dovrebbe essere obbligato a devolvere la loro cognizione al giudice amministrativo, in attuazione sia dell'art. 103, comma 1 (che altrimenti potrebbe essere del tutto svuotato del suo contenuto) sia, soprattutto, del principio di effettivita' e concentrazione della tutela (articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, sentenze n. 77 e n. 140 del 2007 della Corte costituzionale). Da un lato, la Consulta ha evidenziato che la presenza di una pluralita' di giurisdizioni (retaggio storico del nostro passato) non puo' essere di ostacolo all'effettivita' della tutela, dall'altro questa effettivita', in ipotesi di stretta connessione tra diritti ed interessi (nei quali, in definitiva, si esprime, con forme diverse, un identico valore sostanziale coinvolto nella medesima funzione amministrativa), si puo', e si deve, perseguire proprio attraverso l'attribuzione all'unico giudice della cognizione di ambedue le posizioni giuridiche soggettive. Questo giudice non puo' che essere quello amministrativo, proprio in virtu' dell'art. 103, primo comma della Costituzione, che esprime una preferenza espressa per la concentrazione, di cui il Legislatore dovrebbe tenere conto. 3) Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 63 del d.lgs. n. 267/2000. In virtu' dell'art. 63 del d.lgs. n. 267 del 2000, non puo' ricoprire la carica di (...) consigliere comunale (...): 4) colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo (...) con il comune (...). L'ipotesi (...) non si applica agli amministratori per fatto connesso con l'esercizio del mandato. Nel sollevare la questione di costituzionalita' di tale norma, il Collegio, anche per evitare di riproporre aspetti gia' affrontati dalla copiosa giurisprudenza costituzionale in materia, ritiene di doversi far carico di una breve esposizione di alcuni principi fondamentali espressi in questioni analoghe gia' affrontate dalla Consulta. Come noto, la Corte costituzionale, si e' gia' occupata piu' volte della questione di costituzionalita' delle norme che gia' in passato prevedevano la incompatibilita' per lite pendente. Con la risalente sentenza n. 42 del 1961, in particolare, la Corte ha gia' esaminato l'eventuale contrasto dell'art. 15 del T.U. 16 maggio 1960, n. 570, che prevedeva i casi di ineleggibilta' alla carica di consigliere comunale, con riguardo all'ipotesi di lite pendente (n. 6) e di morosita' (n. 9), con gli artt. 3, 24, 51 e 113 della Costituzione. La Corte ha rilevato che i casi di ineleggibilita' indicati nell'art. 15 del T.U. del 1960 (che trovano riscontro nella legislazione precedente a partire dalla legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865, n 2248, all. A, art. 25, con le modificazioni successivamente apportate), non apparivano in contrasto con detti articoli della Costituzione. Ad avviso della Corte, l'esclusione dall'elettorato passivo delle categorie anzidette risponde ad imprescindibili esigenze di interesse generale, necessariamente inerenti alle consultazioni elettorali e particolarmente a quelle locali; esigenze che richiedono, da un lato, che l'espressione del voto rappresenti la libera e genuina manifestazione di volonta' dell'elettorato, donde l'ineleggibilita' delle persone e dei funzionari (nn. 1, 2 e 10 dell'art. 15 citato) che possono esercitare pressioni sugli elettori stessi, ed impongono, dall'altro, che, all'attivita' degli organi elettivi, non partecipino soggetti che, per i rapporti di dipendenza diretta o indiretta dal comune (nn. 3 e 4 dell'art. 15) o di affari col comune medesimo (n. 7) o per posizioni personali di conflitto con l'amministrazione (nn. 5, 6, 8 e 9), non danno garanzia di obiettivita' e di disinteresse nell'esercizio delle funzioni alle quali aspirano. Con riguardo alle lite pendente, si e' ritenuto che questa ipotesi di incompatibilita' risponderebbe ad esigenze di particolare rilievo proprio per quanto riguarda le amministrazioni degli enti autarchici territoriali, dato il carattere localizzato dell'attivita' amministrativa e normativa ad essi attribuita. Questa incompatibilita' metterebbe in rilievo il conflitto tra l'interesse personale del candidato e l'interesse pubblico che la legge ha inteso salvaguardare. Il che sarebbe confermato anche dalla disposizione che ancora oggi esclude l'applicabilita' della ricordata disposizione per fatti connessi con l'esercizio del mandato gia' affidato all'amministratore (che, tra l'altro, nella vecchia formulazione dell'ultimo comma dell'art. 15 del T.U. n. 570 del 1960 - che riproduceva una disposizione aggiunta all'art. 6 della legge 23 marzo 1956, n. 136 - postulava in tal caso comunque la sospensione dell'amministratore dalla carica di sindaco o di assessore, fino all'esito del giudizio, se l'esercizio della carica comportava evidente pericolo di pregiudizio per l'ente). Ne', sempre secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 42 del 1961), si potrebbe ritenere che l'esclusione dall'elettorato passivo per lite pendente, e in generale, per posizione di contrasto con gli interessi del comune, costituiscano cautele del tutto superflue, date le disposizioni, tuttora in vigore, che impongono ai componenti del consiglio comunale o della giunta di astenersi dal partecipare a deliberazioni riguardanti interessi propri o dei loro congiunti ed affini fino al quarto grado (oggi cfr. l'art. 78 del d.lgs. n. 267del 2000). L'astensione dalle deliberazioni non soddisferebbe compiutamente l'esigenza cui si ispira la legge, la quale considera non rispondente al buon andamento dell'amministrazione che ne facciano parte persone che, pur dovendosi astenere dal partecipare alle singole deliberazioni che e riguardano, per le cariche occupate, possano tuttavia spiegare attivita' a proprio vantaggio in contrasto con gli interessi dell'ente. La Corte costituzionale ha ritenuto che seppure la legge considera le situazioni di che trattasi con particolare rigore, cio' non potrebbe avere rilevanza ai fini della legittimita' costituzionale delle disposizioni impugnate cosi' come non potrebbero avere rilevanza i numerosi inconvenienti, ai quali le disposizioni in questione hanno dato luogo nella pratica, ove spesso si sono verificati casi di liti temerarie proprio per creare situazioni di incompatibilita'. Inconvenienti che si sono rimessi all'opportuno intervento del legislatore (ibidem, sentenza n. 42 del 1961), che tuttavia finora non appare avervi posto definitivi rimedi, nonostante si tratti di aspetti che spesso vengono a limitare e condizionare notevolmente il diritto all'elettorato passivo; tanto che a cio' ha cercato di ovviare con maggiore tempestivita' la giurisprudenza, negando rilevanza alla lite temeraria o artificiosamente promossa (Cassazione civile, sez. I, 19 luglio 1979, n. 4303). Nella medesima sentenza n. 42 del 1961, la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimita' delle norme in esame anche in riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione. Si trattava, tra l'altro, di una questione sollevata proprio con riguardo all'alternativa in cui la previsione dell'ipotesi della lite pendente viene e porre il cittadino candidato alle elezioni, che potrebbe solo rinunciare definitivamente all'esercizio di uno o dell'altro dei due diritti costituzionalmente garantiti: il diritto di partecipare alla formazione degli organi elettivi e quello di agire o difendersi in giudizio. Secondo la Consulta, la rinunzia ad uno dei diritti sopra indicati deriverebbe comunque dalla libera iniziativa del cittadino, che, nell'ambito della propria autonomia e in base alla valutazione del proprio interesse, indirizza la sua attivita' al conseguimento dell'una o dell'altra posizione di vantaggio, non diversamente da quanto avviene anche nei casi di incompatibilita' fra cariche pubbliche, o fra queste e pubblici uffici, come previsto anche in varie norme della Costituzione. E tali considerazioni, a ben vedere, potrebbero apparire oggi rafforzate, allorche' la lite pendente e' prevista come causa di incompatibilita' e non di ineleggibilita'. Successivamente, con sentenza n. 58 del 23 marzo 1972, si e' approfondito il rilievo che la limitazione dell'elettorato passivo nel caso di lite pendente mira ad assicurare il disinteresse nell'esercizio delle funzioni cui il candidato aspira, per evitare gli inconvenienti che potrebbero insorgere qualora lo stesso soggetto fosse nel contempo amministratore e litigante, e si e' chiarito che questa ratio differenzia tale ipotesi dalle altre dettate invece dal chiaro intento di evitare un'indebita influenza, prima del risultato elettorale, sulla libera manifestazione di volonta' dell'elettore, cioe' da parte di coloro che potrebbero esercitare sullo stesso una captatio benevolentiae. Una simile differenza ontologica, gia' posta in evidenza nella sentenza n. 42 del 1961, non poteva essere ignorata dal Legislatore che aveva invece accomunato con uniformita' di disciplina le vane ipotesi in evidente contrasto con la diversa ratio ispiratrice delle medesime e quindi con il principio costituzionale d'uguaglianza. La Corte, nella medesima sentenza, ha anche ravvisato il contrasto con l'art. 51 della Costituzione, ritenendo che le cause d'ineleggibilita' devono essere rigorosamente contenute entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate (cfr. sentenza Corte costituzionale n. 46 del 1969). Il Legislatore, in conformita' a tali principi (ribaditi anche nella sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 1977; ma soprattutto nella n. 129 del 1975, in cui e' affermato che gli effetti della causa della lite pendente non possono coincidere con le elezioni, perche' queste non determinano ancora l'investitura dell'eletto e non gli conferiscono una posizione di potere, suscettibile di porre in essere quel conflitto di interessi che la norma e' diretta ad evitare), da un lato ha eliminato dal novero delle liti rilevanti le liti tributarie (la cui previsione e' apparsa comprimere esageratamente il diritto all'elettorato passivo, in considerazione della normalita', e quindi eccessiva ricorrenza, del contenzioso in tale materia) e, dall'altro, ha configurato la lite pendente come causa di incompatibilita' e non di ineleggibilita' (rendendo cosi' la previsione piu' aderente alla sua ratio). Difatti, l'art. 15, n. 6, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, e' stato abrogato dalla legge 23 aprile 1981, n. 154, che ha inquadrato l'ipotesi di lite pendente fra le situazioni di incompatibilita' (e non piu' fra quelle di ineleggibilita) e, inoltre, l'ha circoscritta a «colui che ha lite pendente, in quanto parte in un procedimento civile o amministrativo, rispettivamente con la regione, la provincia o il comune» (cosi' la disposizione e' conservata oggi nel d.lgs. n. 267 del 2000). Nella sentenza n. 48 dell'11 febbraio 1987, la Corte costituzionale ha poi dovuto riaffrontare la questione, proposta sotto altro aspetto: benche' la rimuovibilita' della causa di incompatibilita' o ineleggibilita' era stato il principio cardine della legge n. 154 del 1981, che in tal modo, nella ricordata ottica volontaristica e dispositiva, si armonizzava con l'art. 51 della Costituzione; tale principio non trovava pero' effettiva applicazione proprio nel caso di lite pendente, in cui la rimozione dell'incompatibilita' non dipende sempre esclusivamente dalla volonta' dell'interessato, bensi' anche e soprattutto dalla volonta' della controparte nella lite. Cio', nonostante tale legge mirasse a favorire l'elettorato passivo, non solo riducendo le cause di ineleggibilta' e trasformando alcune di esse in cause di incompatibilita', ma anche dando modo all'interessato di rimuovere l'incompatibilita'. Ebbene, anche in tale circostanza, come noto, la Corte costituzionale ha dichiarato la questione inammissibile, ritenendo di non poter imporre al legislatore di dettare una disciplina tesa ad obbligare gli enti locali ad addivenire a transazione delle cause intraprese con candidati eletti. Come noto, poi, su altro fronte, la giurisprudenza ordinaria, di merito e di legittimita', ha introdotto dei criteri interpretativi tesi a valutare sommariamente la non pretestuosita' della lite pendente. Piu' in particolare, l'inconveniente della lite pretestuosa si manifestava maggiormente allorche' l'azione veniva proposta ex art. 9 del d.lgs. n. 267 del 2000 da un cittadino elettore e non si conosceva ancora la posizione che avrebbe assunto il comune, e quindi era arduo accertare la situazione di effettiva pendenza della lite. Per ovviare a cio', la legge 24 aprile 2002, n 75, di conversione del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 13 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalita' degli enti locali), ha modificato l'art 63, comma 1, numero 4, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (d.lgs. n. 267 del 2000). A seguito delle modifiche cosi' introdotte, il nuovo testo del citato art. 63, comma 1, numero 4, prevede ora, fra l'altro, che la pendenza non solo di una lite in materia tributaria ma anche di una lite promossa ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. n. 267 del 2000 (cioe' una lite promossa in via di azione popolare per far valere azioni o ricorsi spettanti al Comune), non determina incompatibilita'. Come si vede, quello dell'incompatibilita' per lite pendente, e' un istituto molto travagliato e controverso che ha dato luogo a notevole superfetazione di contenzioso, ed ha richiesto progressivi interventi ed aggiustamenti, oltre che da parte della giurisprudenza di merito e di legittimita', anche da parte del Legislatore e della stessa Corte costituzionale, in un opera di graduale restringimento della fattispecie, nel tentativo di renderla compatibile con la Costituzione. Nella sentenza n. 344 del 1993, la Corte costituzionale ha chiarito espressamente che in materia di elettorato passivo la regola e' costituita dalla piu' ampia apertura possibile a tutti i cittadini, essendo consentite le limitazioni a tale principio soltanto se basate su criteri di rigorosa razionalita': l'eleggibilita' e' la regola, mentre l'ineleggibilita' e l'incompatibilita' rappresentano l'eccezione. Piu' in particolare, ad avviso della Consulta, l'ineleggibilita' risulta giustificata soltanto se ragionevolmente collegata all'esigenza di evitare la captatio benevolentiae degli elettori; l'incompatibilita', invece, soltanto se strettamente connessa al fine di assicurare il corretto esercizio delle funzioni elettive. Tutto cio' premesso, e tenuto conto degli interventi del giudice costituzionale e del legislatore in materia, il Collegio ritiene di dover sollevare, per le nuove ragioni che seguono, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 63 del d.lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui prevede, in relazione all'art. 68, comma 2 del medesimo d.lgs. n. 267 del 2000, tra le cause di incompatibilita' per i consiglieri comunali, quella per lite pendente. I) La previsione appare irrazionale e sproporzionata, quantomeno con riferimento ai consiglieri comunali, rispetto al fine di assicurare il corretto esercizio delle funzioni elettive (contrasto con gli artt. 3, 24 e 51 della Costituzione). E' noto che rientra nella sfera di attribuzioni legali della giunta comunale (art. 48 del d.lgs. n. 267 del 2000) la competenza (di carattere generale e residuale rispetto a quella consiliare) a decidere la resistenza alle liti in giudizio (in difetto di che e' inammissibile la stessa costituzione in giudizio dell'ente) mentre spetta al sindaco la capacita' processuale, senza che occorra una specifica investitura e/o mandato da parte del comune. L'influenza che il singolo consigliere comunale puo' avere sulla causa che lo vede parte contro il comune, allora, non e' diretta ed immediata al punto tale da richiedere l'incisione significativa ed il pregiudizio di un bene interesse di rango costituzionale qual e' quello all'elettorato passivo. Le funzioni elettive del consigliere comunale (senza contare le ipotesi in cui non e' neanche componente della maggioranza) difficilmente potranno influire sulla lite pendente. Tale influenza non e', nei fatti, maggiore di quella che potrebbe avere un funzionario o un dirigente del comune stesso (nonche', ad esempio, un qualsiasi soggetto vicino al partito di maggioranza), per i quali non opera affatto una simile incompatibilita', ritenendosi sufficiente la previsione dell'obbligo di astensione. II) La sproporzione tra il fine (assicurare il corretto esercizio delle funzioni del consigliere) ed il mezzo (incompatibilita' della lite addirittura con la stessa conservazione della carica elettiva) emerge anche sotto altro profilo, ove si consideri che e' particolarmente ed assolutamente inciso non solo il bene-interesse all'elettorato passivo (senza, tra l'altro, ipotizzarsi soluzioni alternative e piu' proporzionali, come potrebbe essere, ad esempio, la mera sospensione dal mandato o la previsione di disposizioni analoghe a quella dettata dall'art. 2941 n. 7) del codice civile) ma anche quello alla difesa giurisdizionale dei propri interessi (art. 24 della Costituzione), atteso che non sono previste, nell'ipotesi che il consigliere opti per la conservazione della carica, cause di sospensione o interruzione dei termini di decadenza o prescrizione, dell'azione o del diritto. E cosi' si finisce, indirettamente, per incidere ancor piu' pesantemente sul diritto all'elettorato passivo, atteso che si pone, come conseguenza dell'opzione per la conservazione della carica elettiva, il rischio, non di un mero ritardo, ma da un definitivo ed irrimediabile pregiudizio della propria tutela giurisdizionale. III) Atteso poi che il fine perseguito dal legislatore e' quello di evitare il conflitto di interessi nell'esercizio della carica, non e' agevole comprendere le ragioni per cui debbano essere escluse solo le cause tributarie, le quali possono vertere su questioni ed interessi molto piu' rilevanti economicamente e politicamente, sia per il comune che per il singolo consigliere, rispetto a cause civili ed amministrative di scarso rilievo, come, appunto, una causa per il mero recupero delle spese di giudizio. La frequenza delle cause tributarie rispetto a quelle civili o amministrative non pare una buona ragione per escluderle, esse sole, dal novero delle incompatibilita', senza creare una situazione irragionevole. Se veramente esse sono piu' frequenti, allora, escludendole si e' tolta proprio la parte della norma che garantiva maggiormente il fine della disposizione, ossia evitare le situazioni di probabile conflitto di interesse e di scorretto esercizio della funzione elettiva. E si sono conservate invece le ipotesi che meno sono idonee, per minor frequenza (cui non si accompagna una ontologica maggiore importanza), al perseguimento della ratio della legge. Tutto cio' depone per la sproporzione ed irragionevolezza della previsione della incompatibilita' del consigliere comunale per lite civile (o amministrativa) pendente con conseguente violazione degli articoli 3, 24 e 51 della Costituzione. IV) Per tutte le ragioni che precedono, il Collegio ritiene non manifestamente infondate, ai fini che qui rilevano, la questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli articoli 3, 24, 101, 103, 111 e 113 della Costituzione, dell'art. 69, comma 5 del d.lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui devolve al tribunale ordinario la tutela giurisdizionale avverso la delibera di decadenza dalla carica di amministratore per incompatibilita'; nonche' la questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli articoli 3, 24 e 51 della Costituzione, dell'art. 63, comma 1 n. 4) del d.lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui prevede, anche agli effetti di cui al successivo art. 68, comma 2, che, colui il quale ha una lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile (od amministrativo), con il comune, e' incompatibile con la carica di consigliere comunale.
P. Q. M. Sospende il presente procedimento ed ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, per la definizione della questione della costituzionalita', per contrasto con gli articoli 3, 24, 101, 103, 111 e 113 della Costituzione, dell'art. 69, comma 5 del d.lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui devolve al tribunale ordinario la tutela giurisdizionale avverso la delibera di decadenza dalla carica di consigliere, per incompatibilita'; nonche' della questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli articoli 3, 24 e 51 della Costituzione, dell'art. 63, comma 1 n. 4) del d.lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui prevede, anche agli effetti di cui al successivo art. 68, comma 2, che, colui il quale ha una lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile (od amministrativo), con il comune, e' incompatibile con la carica di consigliere comunale. Dispone che la presente ordinanza sia notificata, a cura della segreteria, alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Lecce, nella Camera di consiglio del 27 giugno 2007. Il Presidente: Ravalli L'estensore: Balloriani