N. 225 SENTENZA 11 - 20 giugno 2008

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Reato  in  genere  -  Configurazione  delle  fattispecie  criminose -
  Incriminazione    della   semplice   esposizione   a   pericolo   -
  Discrezionalita' del legislatore - Limiti.
Reati   e  pene  -  Possesso  ingiustificato  di  chiavi  alterate  o
  grimaldelli  -  Asserita  configurazione di un reato di pericolo in
  rapporto  alle  sole condizioni personali dell'agente ed in assenza
  di  un'offesa  per  il bene protetto - Denunciata irragionevolezza,
  nonche' violazione dei principi di eguaglianza, di offensivita', di
  tassativita'  delle  fattispecie  incriminatrici  e di personalita'
  della  responsabilita'  penale; lamentato contrasto con la funzione
  rieducativa  della  pena,  con  il  diritto  di  difesa  e  con  la
  presunzione di non colpevolezza - Esclusione - Non fondatezza della
  questione.
- Cod. pen., art. 707.
- Costituzione, artt. 3, 13, 24, 25 e 27, commi primo e terzo.
(GU n.27 del 25-6-2008 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Franco BILE;
Giudici:  Giovanni  Maria  FLICK,  Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
   Paolo  MADDALENA,  Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso  QUARANTA,  Franco
   GALLO,  Luigi  MAZZELLA,  Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria
   Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente
                              Sentenza
   nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 707 del
codice  penale, promosso con ordinanza del 7 gennaio 2004 dalla Corte
d'appello  di  Genova,  nel  procedimento  penale  a carico di A. M.,
iscritta  al  n. 277  del  registro ordinanze 2007 e pubblicata nella
Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n. 17,  prima serie speciale,
dell'anno 2007;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
ministri;
   Udito  nella  Camera  di  consiglio  del 21 maggio 2008 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
                          Ritenuto in fatto
   1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, pervenuta alla Corte il
28  marzo  2007,  la  Corte  d'appello  di  Genova  ha  sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della
Costituzione,  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 707
del  codice  penale,  che  contempla  la  contravvenzione di possesso
ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli.
   La  Corte  rimettente  premette  di  essere investita del processo
penale nei confronti di una persona imputata del reato previsto dalla
norma  denunciata,  in  quanto - essendo stata condannata per delitti
determinati  da  motivi  di  lucro  -  veniva colta in possesso di un
cacciavite  con  punta  piatta  della  lunghezza  di  14  centimetri,
costituente  strumento  atto  ad aprire e a sforzare serrature, senza
giustificarne l'attuale destinazione.
   Facendo  propri  gli  argomenti  svolti  dalla  difesa  a sostegno
dell'eccezione   di   illegittimita'   costituzionale   della   norma
incriminatrice, il giudice a quo muove dalla premessa che il reato in
esame  - definito come «di sospetto» - incrimini «fatti in se' stessi
non  lesivi del bene protetto ma tali da far presumere la commissione
di  reati».  Il rimettente ricorda, altresi', come questa Corte abbia
dichiarato  costituzionalmente  illegittimi  gli artt. 707 e 708 cod.
pen.,   nella  parte  in  cui  rendevano  rilevanti,  ai  fini  della
configurabilita'  delle  contravvenzioni da essi previste, condizioni
personali   quali  la  condanna  per  mendicita',  l'ammonizione,  la
sottoposizione  a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona
condotta.  Il  giudice a quo rimarca, ancora, come la sentenza n. 370
del 1996 abbia dichiarato successivamente incostituzionale l'art. 708
cod.  pen.,  per  violazione  dei  principi  di  ragionevolezza  e di
tassativita',    anche    nel   residuo   riferimento   ai   soggetti
precedentemente  condannati  per  determinati reati; ritenendo invece
conforme  al  principio  di  tassativita' l'art. 707 cod. pen.: cio',
peraltro  -  ad  avviso  della  Corte  rimettente - senza considerare
adeguatamente  il principio di offensivita'. In ogni caso - soggiunge
il  giudice  a  quo - la sentenza n. 354 del 2002 avrebbe escluso, in
relazione  alla fattispecie contemplata dall'art. 688, secondo comma,
cod. pen., che «lo status personale di condannato» possa «legittimare
la sanzione penale».
   Tanto  premesso,  la  Corte d'appello di Genova ritiene che l'art.
707  cod.  pen. si ponga in contrasto con i principi di eguaglianza e
di ragionevolezza (art. 3 Cost.), incriminando «non [...] il fatto in
se',  ma  [...]  elementi  ad  esso estranei attinenti alla persona»,
sulla  base  di  una  «presunzione  di  pericolosita» riguardante «il
passato» e, al tempo stesso, «troppo generica».
   La norma censurata farebbe discendere, per giunta, da una condanna
«effetti  da  essa  non  previsti»,  individuando nel pregiudicato un
potenziale  autore di nuovi reati: e cio' in contrasto con la valenza
rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della
quale  il  condannato  andrebbe  considerato,  viceversa, socialmente
recuperato   e  insuscettibile  di  «soffrire  condizioni  di  iniquo
sfavore».
   La  disposizione  de qua delineerebbe, quindi, una responsabilita'
«per  il  modo  di essere dell'autore», lesiva anche degli artt. 25 e
27,  primo  comma, Cost., che sanciscono i principi di offensivita' e
della responsabilita' per fatto proprio colpevole.
   Un   ulteriore   profilo   di  violazione  dell'art.  3  Cost.  si
connetterebbe alla disparita' di trattamento riscontrabile tra coloro
che  hanno  riportato  una  condanna  definitiva per i reati indicati
dalla  norma  incriminatrice  e  coloro  che  -  pur  avendo commesso
identici   fatti  -  non  siano  stati  invece  condannati,  a  causa
dell'estinzione  del reato per «amnistia, prescrizione, remissione di
querela,  oblazione,  risarcimento  del  danno»;  ovvero  in  ragione
dell'improcedibilita' dell'azione penale per mancanza di querela.
   Risulterebbe  violato anche il principio di tassativita' (art. 25,
secondo   comma,  Cost.),  giacche'  i  comportamenti  incriminati  -
diversamente  che  per  i  reati  in  materia di armi - non sarebbero
descritti  in  termini  che  delineino «un disvalore sottostante alla
fattispecie legale».
   La norma impugnata comprometterebbe, inoltre, il diritto di difesa
(art.  24  Cost.),  giacche'  -  invertendo  l'onere  della  prova  -
imporrebbe  all'imputato  di giustificare la destinazione o l'origine
dei  beni  detenuti  e,  dunque,  di dimostrare la propria innocenza:
precludendo,  cosi',  anche l'esercizio della facolta' di «tacere nel
processo».
   Rimarrebbe  lesa,  di  conseguenza,  la «presunzione di innocenza»
(recte,  di  non  colpevolezza:  art.  27,  secondo comma, Cost.), in
quanto  la  prova della destinazione criminosa degli oggetti verrebbe
desunta,   in   via  meramente  presuntiva,  da  altri  elementi  (la
condizione  soggettiva  e il possesso delle cose): ottica nella quale
il   fatto  punito  «non  verrebbe  piu'  accertato  in  un  regolare
processo», con correlato vulnus anche del «principio di legalita».
   Alla  luce  di  tale complesso di rilievi - addotti dalla difesa e
che  la  Corte  rimettente  condivide - sarebbe dunque necessario, ad
avviso  della  Corte stessa, che il confine tra le ipotesi di reato e
le  misure volte ad affrontare la pericolosita' sociale venga «meglio
definito».  In  particolare,  mentre misure di polizia e di sicurezza
potrebbero   risultare   «compatibili  con  il  sistema»;  di  dubbia
costituzionalita' apparirebbe la previsione - rispetto a chi si trovi
in  determinate  condizioni  soggettive,  sia  pure  derivanti  da un
precedente  accertamento  giudiziale  -  di un reato di pericolo come
quello  in  esame,  che  punisce  atti  leciti per la generalita' dei
cittadini,   senza   neppure   richiedere   una  esclusiva  o  almeno
«strutturale»  attitudine  degli  oggetti  posseduti  ad  aprire  o a
sforzare serrature.
   2.   -   Nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto  il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o infondata.
   La  difesa  erariale  rileva  come  i  dubbi  di costituzionalita'
prospettati  dal giudice a quo siano gia' stati dichiarati infondati,
o  manifestamente infondati, tanto da questa Corte che dalla Corte di
cassazione.
   Alla luce delle affermazioni di questa Corte, andrebbe esclusa, in
particolare,  ogni  violazione dell'art. 3 Cost., essendo ben diversa
la  situazione  di  chi  -  definitivamente  condannato  per  delitti
determinati  da  motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la
prevenzione  dei  delitti  contro  il  patrimonio - abbia il possesso
ingiustificato  di  arnesi  atti  ad  aprire  o a sforzare serrature,
rispetto  a  quella  di chi abbia quel possesso, ma non sia stato mai
condannato per gli anzidetti reati.
   Ne'   potrebbe   ipotizzarsi   una  violazione  del  principio  di
colpevolezza.  Quest'ultimo  esclude  che  un  soggetto  possa essere
chiamato  a rispondere di fatti che non puo' impedire, o in relazione
ai  quali  non  e'  in  grado, senza la minima colpa, di ravvisare il
dovere  di evitarli; mentre, nella specie, il soggetto - che versa in
una  situazione  di  peculiare  rilievo  -  potrebbe  bene evitare la
commissione  del  fatto  incriminato  (il  possesso ingiustificato di
grimaldelli od oggetti similari).
   Ancor  piu'  evidente  risulterebbe,  poi,  l'insussistenza  della
violazione  del  principio di tassativita', in quanto l'art. 707 cod.
pen. punisce una condotta chiaramente delineata.
   Non sarebbe violato nemmeno il principio di offensivita', giacche'
il  possesso  ingiustificato  degli  arnesi  di cui all'art. 707 cod.
pen.,  da  parte  di  chi versi nelle condizioni indicate nella norma
incriminatrice,   e'   comunemente   avvertito  come  una  situazione
pericolosa  per  la societa', meritevole di pena criminale: tanto che
analogo  reato  non  solo e' stato sempre previsto dalle legislazioni
unitarie  e  preunitarie,  ma  e'  stato ed e' tuttora previsto anche
dalle legislazioni penali degli altri Paesi europei.
   Come puntualizzato dalla sentenza n. 265 del 2005 di questa Corte,
la  norma  deve  ritenersi  volta  a  tutelare,  di fronte a forme di
esposizione  a  pericolo,  un  interesse  penalmente  rilevante,  nel
rispetto   del   principio   dell'offensivita'   in  astratto:  salva
l'esigenza  di una verifica particolarmente attenta dell'attualita' e
della  concretezza  di detto pericolo da parte del giudice chiamato a
fare   applicazione   della   norma,   avuto   riguardo,  in  specie,
all'attitudine  funzionale  degli  strumenti  ad  aprire o a sforzare
serrature e alle modalita' di tempo e di luogo della condotta.
   Egualmente   insussistente  risulterebbe  -  secondo  l'Avvocatura
generale  dello  Stato - la denunciata violazione del principio della
finalita'  rieducativa della pena. A prescindere dal rilievo che tale
finalita'  non potrebbe essere invocata per escludere la legittimita'
costituzionale di fattispecie contravvenzionali, l'art. 707 cod. pen.
non  punisce  comunque i fatti per i quali vi e' gia' stata condanna,
ma  uno  specifico  fatto nuovo, commesso da soggetto che - in base a
particolari  precedenti - apparirebbe potenzialmente pericoloso e che
non  potrebbe  essere  ritenuto  recuperato  solo  per  effetto della
condanna o dell'espiazione della pena.
   L'art. 707 cod. pen., d'altro canto, non richiederebbe affatto che
l'imputato provi la liceita' della destinazione della cosa posseduta,
invertendo  l'onere  della  prova:  ma  si  limiterebbe  a pretendere
un'attendibile  e  circostanziata  giustificazione,  da  valutare  in
concreto,  secondo i principi della liberta' delle prove e del libero
convincimento. Non sarebbe ravvisabile, dunque, alcuna violazione ne'
della  presunzione  di  non  colpevolezza, ne' del diritto di difesa,
riguardato  anche  nel  particolare  aspetto  della  facolta'  di non
rispondere:  giacche'  -  come gia' affermato da questa Corte - se e'
pur  vero  che  la  giustificazione delle cose indicate nell'art. 707
cod.  pen. implica che una risposta sia data, e' altrettanto vero che
la  giustificazione  e'  essa  stessa  un mezzo di difesa, alla quale
l'interessato  puo' liberamente rinunciare qualora ritenga che a fini
difensivi sia preferibile il silenzio.
                       Considerato in diritto
   1.  -  La  Corte  d'appello  di  Genova  dubita della legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e
terzo comma, della Costituzione, dell'art. 707 del codice penale, che
delinea  la  contravvenzione  di  possesso  ingiustificato  di chiavi
alterate o di grimaldelli.
   Ad  avviso  del  giudice  a  quo, la norma denunciata risulterebbe
lesiva,  anzitutto,  dei  principi di eguaglianza e di ragionevolezza
(art.  3  Cost.), in quanto sottoporrebbe a pena non il fatto in se',
ma  una  condizione  personale  -  quella  di  condannato per delitti
determinati  da  motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la
prevenzione  di  delitti  contro  il  patrimonio  - sulla base di una
presunzione  di  pericolosita'  riguardante  il  passato  e, al tempo
stesso, «troppo generica».
   Individuando  nel  condannato un potenziale autore di nuovi reati,
l'art.  707  cod. pen. si porrebbe in contrasto anche con la funzione
rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della
quale  il  condannato  andrebbe  considerato socialmente recuperato e
insuscettibile  di  «soffrire condizioni di iniquo sfavore». Verrebbe
cosi'   delineata   una   responsabilita'  «per  il  modo  di  essere
dell'autore»,   lesiva   dei   principi   di   offensivita'  e  della
responsabilita'  penale  per  fatto  proprio colpevole, sanciti dagli
artt. 25 e 27, primo comma, Cost.
   L'art.   3  Cost.  sarebbe  compromesso  anche  in  rapporto  alla
disparita'  di  trattamento  riscontrabile tra chi, per il precedente
reato,  ha  riportato  condanna  definitiva  e  chi,  a  fronte della
commissione  di  un  identico fatto, non e' stato invece condannato a
causa  dell'estinzione  del reato o dell'improcedibilita' dell'azione
penale per mancanza di querela.
   Risulterebbe  violato,  ancora, il principio di tassativita' (art.
25,  secondo  comma, Cost.), giacche' i comportamenti incriminati non
verrebbero   descritti   in   termini  che  delineino  «un  disvalore
sottostante alla fattispecie legale».
   La  norma  impugnata  vulnererebbe,  infine,  il diritto di difesa
(art.  24  Cost.)  e  la  presunzione  di  non colpevolezza (art. 27,
secondo  comma,  Cost.),  giacche' - invertendo l'onere della prova -
imporrebbe  all'imputato  di  giustificare  la  destinazione dei beni
detenuti,  precludendogli,  cosi',  anche  l'esercizio del diritto al
silenzio.
   2. - La questione non e' fondata.
   3. - L'ampia discrezionalita' che - per costante giurisprudenza di
questa  Corte  -  va riconosciuta al legislatore nella configurazione
delle  fattispecie  criminose,  si  estende  anche  alla scelta delle
modalita' di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra,
segnatamente,  in detta sfera di discrezionalita' l'opzione per forme
di  tutela  avanzata, che colpiscano l'aggressione ai valori protetti
nello   stadio   della  semplice  esposizione  a  pericolo;  nonche',
correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosita' alla
quale riconnettere la risposta punitiva.
   Tali  soluzioni  debbono  misurarsi,  nondimeno, con l'esigenza di
rispetto   del   principio  di  necessaria  offensivita'  del  reato:
principio  desumibile, in specie, dall'art. 25, secondo comma, Cost.,
in  una  lettura  sistematica  cui fa da sfondo «l'insieme dei valori
connessi alla dignita' umana» (sentenza n. 263 del 2000).
   La  giurisprudenza  di  questa  Corte ha da tempo chiarito in qual
modo  si  atteggi, a tale riguardo, la ripartizione di competenze tra
giudice costituzionale e giudice ordinario (sentenze n. 265 del 2005,
n. 263  e  n. 519 del 2000, n. 360 del 1995). Spetta, in specie, alla
Corte  -  tramite  lo  strumento del sindacato di costituzionalita' -
procedere  alla  verifica dell'offensivita' «in astratto», acclarando
se   la  fattispecie  delineata  dal  legislatore  esprima  un  reale
contenuto  offensivo;  esigenza  che,  nell'ipotesi  del  ricorso  al
modello   del  reato  di  pericolo,  presuppone  che  la  valutazione
legislativa  di  pericolosita'  del  fatto  incriminato  non  risulti
irrazionale  e  arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit
(tra le altre, sentenza n. 333 del 1991).
   Ove  tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare
la  figura  criminosa  al principio di offensivita' nella concretezza
applicativa  resta  affidato al giudice ordinario, nell'esercizio del
proprio  potere  ermeneutico  (offensivita'  «in  concreto»).  Esso -
rimanendo impegnato ad una lettura «teleologicamente orientata» degli
elementi  di  fattispecie,  tanto piu' attenta quanto piu' le formule
verbali  impiegate  dal  legislatore  appaiano,  in  se',  anodine  o
polisense  -  dovra'  segnatamente evitare che l'area di operativita'
dell'incriminazione  si  espanda  a condotte prive di un'apprezzabile
potenzialita' lesiva.
   4.  -  Cio'  premesso, questa Corte ha gia' avuto modo di chiarire
come la previsione punitiva di cui all'art. 707 cod. pen. - nel testo
risultante   dopo   la   parziale   declaratoria   di  illegittimita'
costituzionale  operata  dalla  sentenza  n. 14  del 1971 - non possa
ritenersi contrastante con il principio di offensivita' «in astratto»
(sentenza n. 265 del 2005).
   Contrariamente  a quanto assume il rimettente, la disposizione non
prefigura una responsabilita' «per il modo di essere dell'autore», in
assenza  di  offesa  per il bene protetto; ma mira a salvaguardare il
patrimonio   rispetto   a   situazioni   di  pericolo  normativamente
tipizzate:  richiedendo,  a  tal  fine,  il  concorso di tre distinti
elementi.  In  primo  luogo,  una  particolare  qualita' del soggetto
attivo,  che  deve  identificarsi in persona gia' condannata - in via
definitiva  -  per  delitti  determinati  da  motivi  di  lucro o per
contravvenzioni  concernenti  la  prevenzione  di  delitti  contro il
patrimonio.  In secondo luogo, il possesso - nel quale detto soggetto
deve  essere  «colto»  - di oggetti idonei a vincere congegni posti a
difesa  della  proprieta'  (chiavi  alterate  o  contraffatte, chiavi
genuine,  strumenti  atti ad aprire o a sforzare serrature): possesso
che  -  come reiteratamente rilevato da questa Corte - e' esso stesso
una  condotta, o fa comunque seguito ad una condotta, con conseguente
insussistenza  di  un  vulnus  al principio di materialita' del reato
(sentenze  n. 265  del  2005,  n. 236  del 1975 e n. 14 del 1971). In
terzo luogo e da ultimo, l'incapacita' del soggetto di giustificare -
e, amplius, per quanto si dira', l'impossibilita' di desumere aliunde
- l'attuale destinazione (lecita) dei predetti strumenti. In presenza
di   tali   elementi,   non  puo'  reputarsi,  in  termini  generali,
irrazionale  e  arbitraria la previsione - nella quale la fattispecie
in  esame  rinviene  pacificamente la propria ratio - che l'agente si
accinga  a  commettere  reati  contro il patrimonio mediante violenza
sulle cose (quali furti in abitazione o su autovetture).
   Sara', per il resto, compito del giudice ordinario evitare che - a
fronte  della  descrizione,  per  certi  versi,  non  particolarmente
perspicua  del  fatto  represso  -  la  norma  incriminatrice venga a
colpire   anche  fatti  concretamente  privi  di  ogni  connotato  di
pericolosita'.  A  tal fine, il giudice dovra' procedere ad un vaglio
accurato sia dell'attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a
sforzare  serrature; sia delle modalita' e delle circostanze di tempo
e  di  luogo con cui gli stessi sono detenuti. In particolare, quanto
meno  univoca  ed  esclusiva  risulti la destinazione dello strumento
allo  scasso  -  come  nel  caso  in cui si discuta di oggetti di uso
comune,  suscettibili  di  impieghi  diversi  e  leciti  - tanto piu'
significative  dovranno  risultare  le  modalita'  e  le  circostanze
spazio-temporali  della detenzione, nella direzione dell'esistenza di
un  attuale  e  concreto pericolo di commissione di delitti contro il
patrimonio (sentenza n. 265 del 2005).
   Al   riguardo,   non   va  del  resto  dimenticato  che  la  norma
incriminatrice  non  punisce  chi  «possiede»,  ma  chi  «e' colto in
possesso»    degli   strumenti   in   questione:   formula,   questa,
opportunamente valorizzabile al fine di escludere la rilevanza penale
di  situazioni  di  generica  disponibilita', a fronte delle quali la
possibilita'  di  un  impiego  dell'oggetto  per  finalita' criminose
appaia remota e meramente congetturale.
   5.  -  In  simile  prospettiva,  non  e'  quindi  riscontrabile la
violazione  dei  principi  di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3
Cost.),  denunciata  dal  giudice a quo sotto il profilo che la norma
incriminatrice    risulterebbe   basata   su   una   presunzione   di
pericolosita' riguardante «il passato» e «troppo generica».
   A  fronte  di  una  condotta che deve gia' presentare, nei termini
dianzi  evidenziati,  una  potenziale  proiezione  verso  l'offesa al
patrimonio,  non  puo'  considerarsi irragionevole che il legislatore
tenga  conto  delle precedenti condanne riportate dal soggetto attivo
per  reati  aggressivi  del  medesimo  bene,  o comunque connotati da
finalita'  di  lucro,  elevandole  ad elemento di selezione dei fatti
punibili,  in  quanto  idonee  a  rendere maggiormente concreta detta
proiezione offensiva (sentenza n. 236 del 1975 e ordinanza n. 146 del
1977; nonche' sentenza n. 370 del 1996).
   6.  -  Ne',  d'altra  parte, tale soluzione legislativa si pone in
contrasto  con  la  finalita'  rieducativa della pena (art. 27, terzo
comma,  Cost.): finalita' che imporrebbe - secondo il giudice a quo -
di considerare il condannato «socialmente recuperato».
   Al  legislatore  non  e'  inibito,  infatti,  prevedere  che  alla
condanna,  anche  se  seguita  dall'espiazione  della pena, residuino
«effetti  penali»,  al cui novero va ascritto quello in esame. Ne' si
puo'  ritenere che, in tale ottica, la condanna per determinati reati
si  trasformi  in  un «marchio indelebile», che pone il condannato in
una  posizione  di  perenne  sfavore  rispetto  alla  generalita' dei
cittadini,  senza alcuna possibilita' di emenda. Per communis opinio,
difatti,  il  condannato  cessa  di  rientrare tra i possibili autori
della  contravvenzione  di  cui  all'art.  707  cod.  pen.  ove abbia
ottenuto  la  riabilitazione,  che  estingue gli effetti penali della
condanna (art. 178 cod. pen.).
   7. - Priva di consistenza appare l'ulteriore censura di violazione
del  principio  di  eguaglianza,  formulata dal giudice rimettente in
rapporto  alla  disparita'  di  trattamento che si verificherebbe tra
coloro  i  quali  hanno riportato una condanna definitiva per i reati
indicati  dalla  norma  incriminatrice  censurata, e coloro che - pur
avendo commesso un identico fatto - non sono stati invece condannati,
a   causa   dell'estinzione   del   reato  o  della  improcedibilita'
dell'azione penale per mancanza di querela.
   Le  situazioni  poste  a  confronto  risultano,  all'evidenza, non
comparabili:  giacche'  nel  caso  del  prosciolto  (anche se non nel
merito)   e'   comunque  mancato  un  accertamento  definitivo  della
responsabilita' per il fatto anteriore.
   8.   -   Quanto   alla   lamentata  violazione  del  principio  di
determinatezza  dell'illecito penale (art. 25, secondo comma, Cost.),
questa  Corte  ha  gia'  escluso  che detto principio resti vulnerato
dalla  locuzione  descrittiva  dell'oggetto  materiale  del reato, la
quale  fa  perno sull'attitudine funzionale degli strumenti posseduti
ad  aprire  o  a  sforzare  serrature: attitudine la cui verifica non
eccede  il normale compito ermeneutico istituzionalmente demandato al
giudice (ordinanza n. 36 del 1990).
   Ma analoga conclusione si impone anche con riguardo alle modalita'
e  alle circostanze spazio-temporali della detenzione, la cui analisi
-  alla  luce  di  quanto dianzi evidenziato - si rende necessaria ai
fini  della verifica della concretezza e dell'attualita' del pericolo
per il patrimonio, specie quando si tratti di oggetti di uso comune e
a  destinazione  «aspecifica»  (si  veda,  in  rapporto alla similare
problematica postasi con riferimento alla contravvenzione di possesso
ingiustificato  di  strumenti  atti  ad offendere, di cui all'art. 4,
secondo  comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, la sentenza n. 79
del 1982).
   9.  -  Tanto  meno,  poi,  puo' ritenersi compromesso il principio
della  responsabilita'  per  fatto  proprio colpevole (art. 27, primo
comma, Cost.), il quale esige che tutti e ciascuno degli elementi che
concorrono  a  contrassegnare  il  disvalore  della fattispecie siano
soggettivamente  collegati  all'agente,  nella forma del dolo o della
colpa,  e  al  medesimo  «rimproverabili» (sentenze n. 322 del 2007 e
n. 1085 del 1988).
   Nella   specie,   il   presupposto   soggettivo   da  cui  dipende
l'applicazione  della  norma  incriminatrice e' costituito da un dato
certo  e  pienamente  conoscibile  dal soggetto attivo (la precedente
condanna  irrevocabile). Detto soggetto e' posto quindi in condizione
di  evitare  la  realizzazione  dell'elemento oggettivo del reato, in
quanto  l'acquisizione  del possesso degli strumenti atti allo scasso
avviene  in  un  momento  in cui la legge - a fronte della precedente
condanna  irrevocabile  -  impone  all'agente di adottare particolari
cautele  (al  riguardo,  si veda la sentenza n. 48 del 1994). Mentre,
per  il  resto,  e'  pacifico  che,  ai  fini  dell'insorgenza  della
responsabilita' penale, l'acquisto della disponibilita' materiale del
bene   debba  essere  cosciente  e  volontario:  se  il  possesso  e'
inconsapevole, la contravvenzione non si configura.
   10. - Questa Corte ha in piu' occasioni escluso, ancora, i dedotti
vulnera alla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma,
Cost.)  e  al  diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nel
particolare  aspetto del diritto al silenzio, legati alla circostanza
che  la  norma impugnata stabilirebbe una inversione dell'onere della
prova  in  danno  dell'imputato  (sentenza n. 236 del 1975; ordinanze
n. 36 del 1990 e n. 146 del 1977).
   In   effetti,   al  di  la'  della  formulazione  letterale  della
previsione   punitiva   («dei   quali   non   giustifichi   l'attuale
destinazione»),  cio'  che  la medesima prefigura e' solo un onere di
allegazione,  da  parte dell'imputato, delle circostanze da cui possa
desumersi  la  destinazione  lecita  degli oggetti, che non risultino
conosciute  o conoscibili dal giudicante. Quest'ultimo - alla stregua
di  una  interpretazione  ormai generalmente recepita - potra' trarre
comunque  aliunde  il  convincimento  in  ordine  alla liceita' degli
obiettivi  di impiego degli strumenti, ove l'imputato abbia scelto la
via del silenzio.
   Si  tratta  di  una  situazione  non dissimile, nella sostanza, da
quella   originata  dalle  numerose  norme  incriminatrici,  presenti
nell'ordinamento,  che  puniscono il compimento di determinate azioni
od  omissioni «senza giustificato motivo» (quale, ad esempio, la gia'
ricordata  disposizione  incriminatrice del porto di strumenti atti a
recare  offesa alla persona: disposizione che prefigura una tutela in
forma  preventiva  della vita e dell'incolumita' fisica delle persone
strutturalmente   analoga,  mutatis  mutandis,  a  quella  apprestata
dall'art.  707  cod.  pen.  in  rapporto  al  patrimonio; salvo a non
richiedere  -  in  correlazione  al piu' elevato rango dell'interesse
protetto  -  una  specifica  caratterizzazione  del soggetto attivo).
Nell'anzidetta  clausola - quella dell'assenza di giustificato motivo
-  non  puo' infatti scorgersi una inversione dell'onere della prova,
lesiva dei parametri costituzionali evocati (sentenza n. 5 del 2004).
   11.   -   Priva  di  specifica  motivazione  risulta,  da  ultimo,
l'allegata violazione dell'art. 13 Cost.
              per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 707 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt.
3,  13,  24,  25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dalla
Corte d'appello di Genova con l'ordinanza indicata in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008.
                         Il Presidente: Bile
                         Il redattore: Flick
                      Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 20 giugno 2008.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola