N. 258 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 aprile - 16 maggio 2008

Ordinanza del 16 maggio 2008 emessa dal Tribunale di Napoli - Sezione
fallimentare  nel procedimento civile promosso da Kodak S.p.A. contro
Professional Printing New Play Color S.r.l. in liquidazione.

Fallimento  e procedure concorsuali - Ricorso per la dichiarazione di
  fallimento  di  societa'  gia'  in  stato di liquidazione - Mancata
  costituzione  in  giudizio  della  detta  societa'  - Esonero dalle
  disposizioni  sul  fallimento  e  sul concordato preventivo per gli
  imprenditori  commerciali  che dimostrino il possesso congiunto dei
  requisiti  dimensionali  di  cui  all'art.  1, comma secondo, della
  legge  fallimentare - Previsione introdotta dall'art. 1 del decreto
  legislativo  12  settembre  2007, n. 169 - Attribuzione al debitore
  dell'onere   di   provare   la  propria  non  assoggettabilita'  al
  fallimento  -  Ritenuta  possibilita'  di pronunciare il fallimento
  dell'imprenditore  commerciale  insolvente  esclusivamente  per  il
  mancato    assolvimento    del    suddetto   onere   probatorio   -
  Irragionevolezza  -  Omessa  individuazione di un criterio sicuro e
  idoneo  a  discriminare  tra  soggetti  fallibili  e non fallibili,
  nonche'  ad evitare procedure fallimentari inutili o dannose per la
  tutela  dei  creditori  e  per  l'erario  -  Eccesso  di  delega  -
  Violazione  del  criterio  direttivo  concernente  l'estensione dei
  soggetti esonerati dall'applicabilita' del fallimento - Riferimento
  alla sentenza della Corte costituzionale n. 570 del 1989.
- Regio  decreto  16  marzo 1942, n. 267, art. 1, comma secondo, come
  modificato  dall'art.  1 del decreto legislativo 12 settembre 2007,
  n. 169.
- Costituzione, artt. 3 e 76, in relazione all'art. 1, comma 6, lett.
  a), n. 1 della legge delega 14 maggio 2005, n. 80.
(GU n.37 del 3-9-2008 )
                            IL TRIBUNALE
   Riunito  in  Camera di consiglio, sciogliendo la riserva di cui al
verbale  di  udienza  del  23 aprile 2008, ha pronunciato la seguente
ordinanza  nel  procedimento,  iscritto  al n. 125/2008 reg. ricorsi,
pendente  trea  Kodak  S.p.A., con sede in Cinisello Balsamo (MI), al
viale  Matteotti  n. 62,  in  persona  del  legale rappresentante pro
tempore  ing.  Manlio  Orioli, rappresentata e difesa, giusta procura
generale  alle liti per notar R. Giocosa di Milano del 4 luglio 2001,
n. 34.240  rep.,  dagli avv. Gabriele Chiesa ed Elisabetta Chiesa del
Foro  di  Milano,  unitamente  ai  quali  elettivamente  domicilia in
Napoli,  alla  via Posillipo n. 69/7 presso lo studio dell'avv. Guido
De  Luca  per  effetto  di «dichiarazione di nomina di sostituto e di
elezione  di  domicilio» apposta in calce al ricorso introduttivo del
giudizio,  ricorrente;  e Professional Printing New Play Color S.r.l.
in liquidazione, in persona del liquidatore Renato Laurenza, con sede
in Napoli, alla via A. Genovesi n. 45, resistente.
                          Premesso in fatto
   Con   ricorso   depositato  il  15  febbraio  2008  e  ritualmente
notificato  alla  controparte  unitamente  al  pedissequo  decreto di
fissazione  di udienza, la Kodak S.p.A. ha chiesto a questo tribunale
di  pronunciare  la  dichiarazione  di  fallimento della Professional
Printing  New  Play Color S.r.l. in liquidazione essendo quest'ultima
sua  debitrice  per  il complessivo importo di € 79.852,73 ed in
stato  di  insolvenza  e  deducendo  tra  l'altro  che  «... i limiti
quantitativi  previsti dall'art. 1, lettere a) e b) del r.d. 16 marzo
1942,  n. 267,  nel testo riformato dal decreto legislativo 9 gennaio
2006, n. 5, individuano non la nozione fallimentare dell'imprenditore
piccolo,  ma,  al  contrario,  determinano  una presunzione legale di
impresa   media  o  comunque  non  piccola  ai  fini  fallimentari  o
addirittura  di piccolo imprenditore soggetto al fallimento in via di
eccezione, poiche' diversamente, e paradossalmente, potrebbe accadere
che  una societa' in liquidazione, indipendentemente dalla sua natura
giuridica, si trasformerebbe in un piccolo imprenditore non fallibile
in  considerazione del fatto che essa, non potendo compiere attivita'
imprenditoriale non sarebbe in grado di superare i limiti posti dalla
norma fallimentare ...».
   All'udienza  tenutasi in camera di consiglio il 23 aprile 2008 non
essendosi  costituita, ne' essendo comparsa, la Professional Printing
New Play Color S.r.l. in liquidazione il tribunale si e' riservato la
decisione.
                         Osserva in diritto
   Preliminarmente,   va   precisato   che   l'odierno  procedimento,
instaurato da un ricorso depositato il 15 febbraio 2008 va trattato e
definito secondo la innovativa disciplina, sostanziale e processuale,
della  legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) introdotta dal
d.lgs,  (c.d.  correttivo)  12  settembre  2007, n. 169 ed entrata in
vigore il 1 gennaio 2008.
   Va   poi  pregiudizialmente  ritenuta  sussistente  la  competenza
territoriale  di questo tribunale avendo la Professional Printing New
Play Color S.r.l. la propria sede legale, fin dalla sua costituzione,
in  Napoli,  alla  via  A.  Genovesi  n. 45  (cfr.  l'allegata visura
storica),  e  non  essendovi  in  atti  elementi  per  dubitare della
coincidenza   di  tale  sede  con  quella  effettiva  della  medesima
societa'.
   Deve  infine  evidenziarsi che detta societa' non si e' costituita
in giudizio, ne' e' comparsa all'udienza del 23 aprile 2008, malgrado
la  ritualita'  (giusta  quanto previsto dal combinato disposto degli
artt.  145,  primo  comma,  c.p.c.  e 7 della legge n. 890/1982, come
modificato  dall'art. 36, comma 2-quater e 2-quinquies della legge 28
febbraio 2008, n. 31, in vigore dal 1 marzo 2008) della notificazione
nei   suoi   confronti  del  ricorso  e  del  pedissequo  decreto  di
convocazione.
   Fermo   quanto   precede,   va   rilevato  che  la  ricorrente  ha
compiutamente  dimostrato  di  essere  creditrice  della Professional
Printing  New  Play  Color S.r.l. in liquidazione, per il complessivo
importo  di  €  79.852,73:  tanto emerge agevolmente dal decreto
ingiuntivo   n. 2565  pronunciato,  in  danno  di  quest'ultima,  dal
Tribunale  di Monza, in composizione monocratica, il 27 giugno 2005 e
munito  di  esecutorieta',  ex  art.  647 c.p.c., il 10 novembre 2005
(cfr.  in  atti)  dal successivo precetto del 21 febbraio 2006, oltre
che  dalla  copiosa  documentazione  gia'  allegata  a sostegno della
predetta  istanza  monitoria  e depositata anche in questa sede (cfr.
fatture  della  Kodak  S.p.A. ed estratti autentici dei suoi registri
I.V.A. vendite).
   Inoltre,  dalla  documentazione acquisita di ufficio dal tribunale
in   virtu'   dei   poteri  conferitigli  dall'art.  15  della  legge
fallimentare  (cfr.,  in  particolare  quanto recapitato dall'Agenzia
della  riscossione  competente per territorio), si evince agevolmente
l'esistenza   di   ulteriori  debiti  scaduti  della  resistente  per
complessivi  €  95.232,76 per le specifiche causali riportate in
ciascuna delle cartelle indicate.
   L'entita'  dei  descritti  debiti  consente,  allora,  di ritenere
superato  il  limite  di  cui  all'art.  15 del r.d. n. 267/1942 come
modificato dal d.lgs. n. 169/2007 (non si fa luogo a dichiarazione di
fallimento  se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti
dall'istruttoria   prefallimentare   e'   complessivamente  inferiore
ad €  30.000,00)  al di sotto del quale, anche in presenza di un
accertato  stato  di insolvenza, non potrebbe comunque dichiararsi il
fallimento dell'imprenditore che stando al tenore dell'attuale art. 1
del  r.d.  n. 267/1942  (come risultante dalle modifiche apportategli
dal  gia'  richiamato  d.lgs.  n. 169/2007), non dimostri il possesso
congiunto  dei  tre  requisiti  dimensionali  previsti dalla medesima
disposizione.
   Per  poter giungere alla pronuncia della invocata dichiarazione di
fallimento   occorre,  pertanto,  verificare  la  sussistenza,  nella
specie, dei presupposti, oggettivo (stato di insolvenza) e soggettivo
(impresa  soggetta  al  fallimento),  rispettivamente  previsti dagli
odierni testi degli artt. 5 ed 1 della citata legge fallimentare.
   Giova  premettere,  quanto  al  primo,  che la S.r.l. Professional
Printing  New  Play Color S.r.l. si trova attualmente in liquidazione
giusta  atto  per  notar R. Chiari del 17 novembre 2005, iscritto nel
registro  delle  imprese  il  2 dicembre 2005 (cfr. l'allegata visura
storica)  e  che,  secondo  la costante giurisprudenza della Corte di
cassazione,  «quando  la  societa' e' in liquidazione, la valutazione
del  giudice,  ai  fini dell'applicazione della l.fall., art. 5, deve
essere  diretta  unicamente  ad  accertare se gli elementi attivi del
patrimonio  sociale  consentano  di  assicurare l'eguale ed integrale
soddisfacimento  dei  creditori  sociali,  e  cio'  in  quanto  - non
proponendosi  l'impresa  in  liquidazione  di restare sul mercato, ma
avendo   come   esclusivo   obiettivo   quello   di   provvedere   al
soddisfacimento  dei  creditori  sociali,  previa realizzazione delle
attivita' sociali, ed alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i
soci  -  non  e'  piu'  richiesto  che  essa disponga, come invece la
societa'  in  piena  attivita',  di credito e di risorse, e quindi di
liquidita', necessari per soddisfare le obbligazioni contratte» (cfr.
Cass.,  6  settembre  2006,  n. 19141; Cass. 17 aprile 2003, n. 6170,
Cass. 11 maggio 2001, n. 6550).
   Infatti «il principio secondo il quale l'insolvenza della societa'
non puo' necessariamente desumersi da uno squilibrio patrimoniale, il
quale  puo'  essere eliminato dal favorevole andamento degli affari o
da eventuali ricapitalizzazioni, non e' invocabile quando la societa'
e'  in liquidazione, ossia quando l'impresa non si propone di restare
sul  mercato,  ma ha come unico suo obiettivo quello di provvedere al
soddisfacimento  dei  creditori  sociali,  previa realizzazione delle
attivita' sociali ed alla distribuzione dell'eventuale residuo attivo
tra i soci. In tale ipotesi, pertanto, la valutazione del giudice, ai
fini  dell'accertamento delle condizioni richieste per l'applicazione
della  l.fall.  art.  5,  non  puo'  essere rivolta a stimare, in una
prospettiva  di  continuazione  dell'attivita'  sociale, l'attitudine
dell'impresa  a  disporre  economicamente della liquidita' necessaria
per  far fronte ai costi determinati dallo svolgimento della gestione
aziendale,  ma  deve  essere  diretta,  invece,  ad  accertare se gli
elementi  attivi  del  patrimonio  sociale  consentano  di assicurare
l'eguale  ed  integrale  soddisfacimento dei creditori sociali» (cfr.
Cass.  10 aprile 1996, n. 3321, richiamata, in motivazione dalla piu'
recente Cass. 6 settembre 2006, n. 19141).
   In  applicazione  dei riportati principi, quindi, nella specie non
puo'   seriamente   dubitarsi,   sulla   base  della  seppure  scarsa
documentazione  prodotta  dalla  ricorrente e di quella acquisita, ex
officio,  dal  tribunale,  dello  stato  di insolvenza della societa'
resistente  atteso  che  dall'ultimo bilancio dalla stessa depositato
presso  il  registro delle imprese, risalente all'esercizio chiuso il
31  dicembre  2003,  emerge un attivo complessivamente pari ad €
172.176,00:  importo,  quest'ultimo, gia' da solo inferiore al totale
dei  debiti  attualmente  scaduti  della  medesima  societa'  come in
precedenza accertati (€ 79.852 73 + 95.232,76 = 175.085,49).
   A  tale  significativa  circostanza  va  aggiunto  il riscontro di
ulteriori  sintomi,  da  valutarsi unitariamente ed individuabili: a)
nei  dati  ricavabili  dalla  documentazione acquisita ex officio dal
tribunale   presso   l'Anagrafe  tributaria  (in  particolare,  dalla
sensibile  diminuzione  del  volume  di affari della societa' passato
dagli  € 399.695,00 del 2004 agli € 88.337,00 del 2005); b)
nell'abbandono  della  sede  (cfr.  relata  di  notifica  del ricorso
introduttivo  di  questo procedimento); c); nel rilevante importo del
debito  verso  la  odierna  ricorrente,  e  nel suo protratto mancato
soddisfacimento  malgrado  le  reiterate  sollecitazioni giudiziali e
stragiudiziali;  d)  nell'omesso  deposito  dei  bilanci successivi a
quello concernente l'esercizio chiuso il 31 dicembre 2003.
   Quanto, invece, alla ricorrenza o meno del presupposto soggettivo,
l'essere cioe', oggi, la Professional Printing New Play Color S.r.l.,
attualmente  in  liquidazione,  un  imprenditore  fallibile o non, il
corrispondente  accertamento non puo' che avvenire allo stato in base
a  quanto  previsto  dall'art.  1,  primo  e  secondo comma, del r.d.
n. 267/1942, come modificato dal d.lgs. n. 169/2007.
   Secondo  la  citata  norma «1) Sono soggetti alle disposizioni sul
fallimento   e   sul   concordato  preventivo  gli  imprenditori  che
esercitano  una  attivita' commerciale, esclusi gli enti pubblici. 2)
Non  sono  soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato
preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino
il  possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre
esercizi  antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento
o  dall'inizio  dell'attivita'  se  di  durata  inferiore,  un attivo
patrimoniale  di  ammontare  complessivo  annuo non superiore ad euro
trecentomila;  b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre
esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o
dall'inizio  dell'attivita'  se di durata inferiore, ricavi lordi per
un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c)
avere  un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro
cinquecentomila».
   Ad  avviso  di  questo Collegio, pero', il riportato secondo comma
della  citata  disposizione  e' in contrasto, in primis, con l'art. 3
della  Costituzione,  per violazione del principio di ragionevolezza,
essendo  foriero  di  irragionevoli  disparita' di trattamento, nella
parte  in  cui  addossa al debitore l'onere di provare la propria non
assoggettabilita'  a  fallimento  o, se si preferisce, nella parte in
cui  prevede  il  fallimento dell'imprenditore commerciale insolvente
che  non  abbia dimostrato di non essere compreso nell'area della non
fallibilita'  definita dalle lett. a), b) e c) del medesimo comma (si
tratta,  infatti, al contrario di quanto sembra ritenere la relazione
di  accompagnamento  dello  schema del d.lgs. n. 169 del 2007, di una
falsa  alternativa,  giacche'  le  regole di distribuzione dell'onere
della prova sono in definitiva, sempre regole di giudizio).
   In  proposito, infatti, va innanzitutto osservato che, prima della
riforma  della  legge  fallimentare recata dal d.lgs. 9 gennaio 2006,
n. 5,  nessuno aveva mai dubitato che l'accoglimento della domanda di
fallimento  richiedesse  la dimostrazione, oltre che dell'insolvenza,
della  qualita' di imprenditore commerciale del debitore, e che quasi
altrettanto  unanime  era l'idea che analoga soluzione dovesse valere
anche  per  la  qualita' di non piccolo imprenditore del debitore, il
quale,  dunque,  si  riteneva  comunemente  che  non  potesse  essere
dichiarato  fallito qualora il giudice non fosse stato in possesso di
elementi    (da   qualsiasi   fonte   legittimamente   acquisiti   al
procedimento)  sufficienti  a  negare  la  sua  qualita'  di  piccolo
imprenditore:  basti  pensare,  da  un lato, a quanto precisato dalla
Corte  di  cassazione con la sentenza del 3 febbraio 1990, n. 744, in
cui si affermava, sostanzialmente che la qualita' di imprenditore non
piccolo  del  fallito  (secondo  i  criteri  di  cui al secondo comma
dell'allora  vigente  art.  1  del  r.d.  16  marzo 1942, n. 267 e in
particolare, dopo l'abolizione della imposta di ricchezza mobile e la
conseguente impossibilita' di far riferimento al relativo imponibile,
in  base  al  parametro  del capitale investito), al pari degli altri
presupposti   della   dichiarazione   del  fallimento  doveva  essere
dimostrato dal creditore istante; dall'altro, all'autorevole opinione
dottrinaria   concernente  l'impossibilita'  di  concepire  un  onere
probatorio  principale  del  debitore,  quando lo stesso non fosse il
richiedente,  giacche' la domanda o la iniziativa era contro di lui e
quindi   ogni   onere   spettava   al  ricorrente  ed  al  tribunale,
aggiungendosi  che  neppure  la  qualifica  di  piccolo  imprenditore
commerciale   poteva  essere  oggetto  di  un  suo  onere  probatorio
principale.
   Proprio  la Corte costituzionale, poi, gia' con la sentenza n. 570
del    22   dicembre   1989   (con   cui   ebbe   a   dichiarare   la
incostituzionalita' dell'art. 1, secondo comma, del r.d. n. 267/1942,
come  modificato dalla legge 20 ottobre 1952, n. 1375, nella parte in
cui   prevedeva   che  «quando  e'  mancato  l'accertamento  ai  fini
dell'imposta   di   ricchezza   mobile   sono   considerati   piccoli
imprenditori  gli  imprenditori  esercenti  un'attivita'  commerciale
nella  cui azienda risulta investito un capitale non superiore a lire
novecentomila»),  preciso'  che «... le categorie di piccolo, medio e
grande  imprenditore, ed insolvente civile nell'ordinamento economico
e giuridico hanno posizioni nettamente differenziate.
   A  fondare la distinzione, specie ai fini dell'assoggettabilita' o
meno  alla  procedura fallimentare, occorre un criterio assolutamente
idoneo  e  sicuro.  I  limiti  devono  essere  stabiliti in relazione
all'attivita'  svolta,  all'organizzazione  dei mezzi impiegati, alla
entita'  dell'impresa  ed  alle ripercussioni che il dissesto produce
nell'economia generale. La insussistenza di validi presupposti per la
diversificazione   delle   situazioni   soggettive  che  si  volevano
diversamente  e  distintamente disciplinate, crea anche disparita' di
trattamento,  tanto  piu'  che,  altre  norme  (artt. 2083 e 2221 del
codice  civile)  pongono  piu' validi criteri di distinzione. Imprese
molto  modeste  incorrono nelle procedure fallimentari e vengono meno
le  finalita'  del fallimento. L'esiguo patrimonio attivo del fallito
puo'  rimanere  assorbito  interamente  dalle  spese  della complessa
procedura  e a volte risulta persino insufficiente a coprire le spese
anticipate dall'erario. Il fallimento finisce con l'essere un rimedio
processuale  impeditivo  della  tutela  dei  creditori  e un mezzo di
difesa insufficiente ...».
   Secondo  la riportata statuizione della Consulta, quindi, la linea
di  discrimine  tra  chi e' e chi non e' assoggettabile a fallimento,
deve  fondarsi  su «un criterio assolutamente idoneo e sicuro», cioe'
su  un  criterio  che non puo' non essere oggettivo, e che deve tener
conto   dell'«attivita'  svolta»  e  dell'«organizzazione  dei  mezzi
impiegati»  dall'imprenditore,  dell'«entita' dell'impresa» da questi
esercitata  e  delle  «ripercussioni  che  il  (suo) dissesto produce
nell'economia  generale»  e  mirare  ad  evitare  che  «imprese molto
modeste  incorr(a)no nelle procedure fallimentari» e che vengano meno
le  finalita'  del fallimento o, peggio, che questo si trasformi, nei
fatti, addirittura in «un rimedio processuale impeditivo della tutela
dei creditori».
   Considerazioni,  queste  della  Consulta,  da cui gia' si ricavava
chiaramente  l'obbligo  del  legislatore  ordinario  e dei giudici di
legiferare, e, rispettivamente, di interpretare ed applicare la legge
in  modo  da ridurre al minimo i fallimenti nei quali non si realizza
un  attivo nemmeno sufficiente a soddisfare, almeno in parte, qualche
creditore  concorsuale  e  da  liberare  risorse  umane  e  materiali
preziose  per l'organizzazione giudiziaria, evitando, al contempo, di
criminalizzare  (stante l'ambito di applicabilita' delle disposizioni
penali  contenute  nella  legge  fallimentare) comportamenti privi di
concreto disvalore sociale.
   Ed evidentemente in questa prospettiva si era posto l'art. 1 della
legge  14 maggio 2005, n. 80, che, al comma quinto, aveva delegato al
Governo  l'adozione,  con  l'osservanza  dei  principi  e dei criteri
direttivi  di  cui  al sesto comma, di uno o piu' decreti legislativi
recanti   la   riforma  organica  della  disciplina  delle  procedure
concorsuali  di  cui  al  r.d.  16  marzo  1942,  n. 267: infatti, il
menzionato  sesto  comma,  prevedeva che, nell'esercizio della citata
delega,  il Governo si sarebbe dovuto attenere, tra i vari principi e
criteri   direttivi   ivi  dettati,  a  quello  di  «semplificare  la
disciplina    attraverso    l'estensione   dei   soggetti   esonerati
dall'applicabilita'  dell'istituto  e l'accelerazione delle procedure
applicabili alle controversie in materia».
   Appare  di  tutta  evidenza,  quindi,  che  scopo  del legislatore
delegante era quello di eliminare quelli che, all'epoca, costituivano
la  grande maggioranza dei fallimenti dichiarati e che concretamente,
si   chiudevano   con  la  realizzazione  di  un  attivo  spesso  non
sufficiente  a  coprire  nemmeno le spese della procedura, e, dunque,
con  un  bilancio  negativo  che  ricadeva integralmente sulle spalle
dello  Stato (anche per le risorse umane ed economiche destinate allo
svolgimento  della procedura), senza alcun apprezzabile beneficio ne'
per  i  creditori  concorsuali,  ne'  per  il  fallito,  ne'  per  la
collettivita'.
   Si  comprende,  allora, il perche' il d.lgs. n. 5 del 2006 emanato
in attuazione della predetta delega ed entrato in vigore il 16 luglio
2006,   pur   mantenendo  il  richiamo  alla  categoria  dei  piccoli
imprenditori come una di quelle (con gli enti pubblici) escluse dalla
assoggettabilita' al fallimento, si fosse sul tema limitato a dettare
alcuni  parametri  finalizzati  a  consentire  la  individuazione dei
soggetti  da  qualificare agli effetti delle disposizioni della legge
fallimentare,    piccoli    imprenditori,   senza   nulla   prevedere
specificamente  quanto  alla  ripartizione  del  corrispondente onere
probatorio  (tenuto  altresi'  conto della conservazione al tribunale
del  potere di disporre d'ufficio mezzi istruttori), ed ad introdurre
la  disposizione  di  cui  all'ultimo  comma  dell'art.  15 l.f., che
escludeva    che    potesse    essere    dichiarato   il   fallimento
dell'imprenditore  i  cui  debiti  scaduti  e  non  pagati fossero di
importo inferiore a 25.000,00 euro e che, con d.lgs. n. 169 del 2007,
e' stata modificata aumentando tale limite a 30.000,00 euro.
   A   seguito   dell'entrata   in  vigore  del  decreto  legislativo
n. 5/2006,  si  e'  pero'  verificata  in  Italia  una sensibilissima
riduzione  delle dichiarazioni di fallimento; ed una delle principali
cause  di  tale fenomeno e' stata da taluni individuata proprio nella
perdurante adesione a quell'orientamento per il quale il dubbio sulla
qualita'  di  non  piccolo  imprenditore del debitore, cioe', mutatis
mutandis,   sul  superamento  da  parte  del  debitore  delle  soglie
quantitative  dell'area  della  non  fallibilita'  allora fissate dal
secondo  comma  dell'art.  1,  l.fall.,  doveva  importare il rigetto
dell'istanza di fallimento.
   Il fenomeno - benche', ad avviso di questo Collegio, certamente in
linea  con  la citata direttiva di cui all'art. 1, sesto comma, lett.
a),  n. 1),  della  legge  14  maggio  2005,  n. 80  -  ha indotto il
legislatore  delegato  a tentare, con il d.lgs. correttivo n. 169 del
2007,  di  attenuarne  la  rilevanza  soprattutto mediante l'espressa
attribuzione  al debitore dell'onere di dimostrare la sua qualita' di
imprenditore  non  fallibile  poiche'  rientrante  nell'area  di  non
fallibilita' come ora delimitata dal nuovo secondo comma dell'art. 1,
l.fall.
   Questo  comma  ora  stabilisce infatti che «Non sono soggetti alle
disposizioni   sul   fallimento   e  sul  concordato  preventivo  gli
imprenditori  di  cui  al  comma  1,  i  quali dimostrino il possesso
congiunto dei ... requisiti» di cui alle seguenti lett. a), b) e c).
   La soluzione sembrerebbe essere espressione del principio generale
di cui all'art. 2697 c.c. e del correlato c.d. principio di vicinanza
(o  prossimita'  o  riferibilita) della prova, alla stregua del quale
l'onere  di  provare  i  fatti  rilevanti  ai  fini  della  decisione
giudiziale  va addossato alla parte nella cui sfera giuridica essi si
sono  verificati  e  che  quindi  deve  presumersi  in possesso degli
elementi utili per fornirne la dimostrazione.
   Tanto, invero, emerge chiaramente dalla relazione illustrativa del
decreto  legislativo  n. 169/2007,  in  cui  si  legge,  tra  l'altro
relativamente all'intervenuta nuova formulazione dell'art. 1 del r.d.
n. 267/1942  che  «...  Le  modifiche  tengono  conto  del  fatto che
l'eccessiva   riduzione   dell'area  della  fallibilita'  venutasi  a
determinare  a  seguito  della novella del 2006 spesso ha impedito di
assoggettare  al  fallimento  ed  alle  conseguenti  sanzioni  penali
imprenditori   di   rilevanti   dimensioni  con  elevati  livelli  di
indebitamento,  danneggiando,  in  tal modo, sia i numerosi creditori
insoddisfatti,   che  il  sistema  economico  in  generale.  Piu'  in
dettaglio,  va  evidenziato  il  fatto che, per delimitare l'area dei
soggetti  esonerati  dal  fallimento  non  viene  piu'  utilizzata la
nozione  di  piccolo  imprenditore  commerciale  ma  vengono indicati
direttamente  una  serie  di  requisiti  dimensionali massimi che gli
imprenditori   commerciali   (resta   quindi  fermo  l'esonero  dalle
procedure  concorsuali  di tutti gli imprenditori agricoli, piccoli e
medio   grandi)   devono  possedere  congiuntamente  per  non  essere
assoggettati  alle  disposizioni  sul  fallimento  e  sul  concordato
preventivo.  In  questo  modo, si superano i contrasti interpretativi
sorti  in  ordine  all'individuazione  dei  criteri di qualificazione
delle  nozioni  di piccolo imprenditore (art. 2083 del cod. civ.), da
una  parte, e di imprenditore non piccolo (art. 1, l.f.), dall'altra:
concetti   entrambi   contemplati   dall'articolo   1   della   legge
fallimentare,  come modificato dal decreto legislativo n. 5 del 2006.
...   Di   notevole  importanza,  poiche'  supera  i  gravi  problemi
interpretativi  emersi  in  materia di distribuzione dell'onere della
prova  del  presupposto soggettivo del fallimento, e' la disposizione
volta  a precisare che grava sul debitore l'onere di fornire la prova
dei requisiti di non fallibilita', intesi come fatti impeditivi della
dichiarazione   di   fallimento.  E  quindi  onere  dell'imprenditore
fallendo dimostrare di non aver superato (nel periodo di riferimento)
alcuno  dei tre parametri dimensionali previsti dalla norma in esame.
Si  evita,  cosi',  di  «premiare»  con  la  non  fallibilita' quegli
imprenditori  che  scelgono  di non difendersi in sede di istruttoria
prefallimentare  o  che  non  depositino  la documentazione contabile
dalla   quale   sarebbe  possibile  rilevare  i  dati  necessari  per
verificare  la  sussistenza dei parametri dimensionali. In tale modo,
qualora   elementi   probatori,   dedotti  dalle  parti  o  acquisiti
d'ufficio, non siano sufficienti a fornire la prova della sussistenza
dei   requisiti   di  non  fallibilita',  l'imprenditore,  permanendo
l'incertezza  sulla  sussistenza  o  meno dei requisiti soggettivi di
esenzione   dal   fallimento,   resta   assoggettato  alla  procedura
fallimentare ...».
   Senonche',  la correzione di tiro operata dal legislatore delegato
con  il  d.lgs.  n. 169  del  2007  - vale a dire l'aver addossato al
debitore  l'onere  di  provare  la  propria  non  assoggettabilita' a
fallimento   o,   se   si   vuole,   l'aver  previsto  il  fallimento
dell'imprenditore  commerciale  insolvente  che  non  dimostri di non
essere compreso nell'area della non fallibilita' definita dalle lett.
a),  b)  e  c)  del  secondo  comma  dell'art.  1, l.fall. - non puo'
ritenersi, ad avviso di questo Collegio, rispettosa dell'art. 3 della
Costituzione, per violazione del principio di ragionevolezza.
   Essa,  infatti,  ha  sostanzialmente disatteso le indicazioni date
dalla  Corte  costituzionale  con  la menzionata sentenza n. 570/1989
che,  come si e' visto in precedenza, aveva evidenziato la necessita'
che  la  linea  di  discrimine tra soggetto assoggettabile, o meno, a
fallimento  fosse  fondata  su  «un  criterio  assolutamente idoneo e
sicuro»,   cioe'   su   un  criterio  oggettivo,  che  tenesse  conto
dell'«attivita'  svolta»  e dell'«organizzazione dei mezzi impiegati»
dall'imprenditore, dell'«entita' dell'impresa» da questi esercitata e
delle  «ripercussioni  che  il  (suo)  dissesto produce nell'economia
generale»  e cio' al fine di evitare - come sapientemente si disse in
quell'occasione  -  che  «imprese  molto  modeste  incorr(a)no  nelle
procedure   fallimentari»   e  che  vengano  meno  le  finalita'  del
fallimento  o,  peggio, che questo si trasformi nei fatti addirittura
in «un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori».
   L'addossare   al   debitore   l'onere   di   provare  la  sua  non
assoggettabilita'   a   fallimento   puo'   invece   finire  per  far
concretamente  dipendere  il  fallimento  - come nel caso di specie -
anche   da   un   comportamento,   peraltro  nemmeno  necessariamente
colpevole,  del  medesimo  debitore  che  potrebbe  non  dipendere, e
normalmente    non    dipende,   dalla   natura   e   dall'importanza
dell'attivita' economica e dei mezzi impiegati nell'impresa da costui
esercitata  e non ha alcun rapporto con le ripercussioni del dissesto
dell'imprenditore  sul  sistema  economico  e,  dunque,  non solo non
impedisce  ma  addirittura  favorisce dichiarazioni di fallimenti del
tutto inutili (tanto piu' se si considera che nulla sembra precludere
al   debitore  che  non  si  sia  costituito  o  che,  pur  essendosi
costituito,  non  si  sia  difeso  sullo  specifico  punto  della sua
estraneita'   all'area   degli  imprenditori  commerciali  insolventi
fallibili  delineata  dal  secondo  comma  dell'art.  1,  l.fall. nel
procedimento  di  primo grado di proporre reclamo, ai sensi dell'art.
18, l.fall., avverso la sentenza dichiarativa del suo fallimento e di
dimostrare  in quella sede di essere in possesso di tutti i requisiti
di  cui  alle lettere a), b) e c) del secondo comma del predetto art.
1),  ridando  spazio  alle disparita' di trattamento gia' dalla Corte
costituzionale,  alla stregua delle cui indicazioni va interpretata -
come  si  e'  gia',  chiarito  -  anche  la direttiva dell'estensione
dell'area  di non fallibilita' impartita dal legislatore delegante al
Governo.
   Il principio generale di cui all'art. 2697 c.c. e quello, al primo
correlato,   di  vicinanza  della  prova,  oltre  a  non  aver  rango
costituzionale, devono, peraltro, ritenersi impropriamente richiamati
allorche'  come  nel  caso  del  procedimento per la dichiarazione di
fallimento,  non  siano  in  gioco  diritti  di  cui le parti possano
disporre.
   Benche'  la  riforma  della legge fallimentare del 2005-2007 abbia
sensibilmente  ampliato  i  poteri  delle parti a discapito di quelli
dell'autorita'  giudiziaria,  rimane infatti che l'evitare fallimenti
inutili,  se  non addirittura dannosi per i creditori e per lo Stato,
e',  per  le  considerazioni  svolte  dalla  Consulta con la sentenza
n. 570/1989,  questione  di interesse pubblico e che, dunque, come il
creditore  non  ha  il  diritto di ottenere il fallimento del proprio
debitore, cosi' quest'ultimo non ha il diritto di ottenere il proprio
fallimento;  che il fallimento non e' un bene di cui le parti possano
liberamente disporre.
   Difficile, poi, sarebbe comprendere perche' mai, stando alla nuova
formulazione  del secondo comma dell'art. 1, l.fall., il debitore che
chieda  il  proprio fallimento dovrebbe preoccuparsi di dimostrare di
non  essere  fallibile,  non  avendo  evidentemente alcun interesse a
fornire  una  siffatta  prova, salvo che, in contrasto con la lettera
della norma, ma in coerenza con la sua assunta ratio e con l'art. 14,
l.fall.,  si  ritenga  che,  in  questo  caso sul debitore ricorrente
incomba  l'onere di dimostrare non gia' la sua non assoggettabilita',
ma la sua assoggettabilita' a fallimento.
   Il che conferma, ove ve ne fosse bisogno, l'irragionevolezza della
soluzione in tema di distribuzione dell'onere probatorio in ordine al
superamento delle soglie dell'area della fallibilita' individuate dal
secondo   comma  dell'art.  1,  l.fall.  escogitata  dal  legislatore
delegato  con il d.lgs. n. 169 del 2007 per contrastare la riduzione,
evidentemente giudicata eccessiva, del numero dei nuovi fallimenti.
   La  distribuzione  dell'onere probatorio disegnata dal legislatore
delegato   con   il   d.lgs.   n. 169/2007   suscita   poi  dubbi  di
costituzionalita'  anche  per  violazione  dell'art. 76, primo comma,
Cost.,   sotto   il   profilo   dell'eccesso   di  delega  in  quanto
potenzialmente  idonea  a  contraddire,  di fatto, nella sua concreta
applicazione,   la   direttiva   della   legge   delega   concernente
l'estensione  del  novero  dei  soggetti  esclusi  dal fallimento: vi
saranno,  infatti,  imprenditori  che  pur  non raggiungendo - magari
anche  di  gran  lunga - le soglie di fallibilita' poste dalla norma,
non  saranno  in grado di darne la prova, oppure trascureranno (anche
incolpevolmente) di darla, oppure avranno addirittura interesse a non
darla  (anche  se  piccoli imprenditori ex art. 2083 c.c.) al fine di
accedere all'istituto dell'esdebitazione.
   Il  chiaro disposto dell'art. 1, secondo comma, della l.fall. come
modificato  dal  d.lgs.  n. 169/2007  - laddove, nell'escludere ormai
qualsivoglia  rilevanza  alla  distinzione tra imprenditore piccolo e
non    (invece   mantenuta   dal   d.lgs.   n. 5/2006),   stabilisce,
semplicemente, che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento
...  gli  imprenditori  di  cui al primo comma, i quali dimostrino il
possesso  congiunto  dei requisiti di cui alle successive lettere a),
b)  e c) - induce il tribunale a ritenere preclusa (in claris non fit
interpretatio)  la  possibilita'  di  interpretazioni  della predetta
normativa  che  prescindano  dalla  concreta  ripartizione dell'onere
probatorio,  quanto  ai  presupposti  soggettivi  del  fallimento, in
termini diversi da quelli fin qui prospettati e considerati di dubbia
costituzionalita'.
   La  prospettata  questione di costituzionalita' oltre a non essere
manifestamente  infondata  per  le  ragioni  fin  qui evidenziate, ad
avviso  del Collegio e' anche rilevante in questo giudizio in quanto:
a)   la   Professional   Printing  New  Play  Color  S.r.l.,  ora  in
liquidazione,  di  cui  e'  stato  chiesto  il  fallimento, non si e'
costituita  in  giudizio;  b)  relativamente al triennio 2005 - 2007)
anteriore  alla  data  (15 febbraio 2008) di deposito dell'istanza di
fallimento,  vi  e'  in  atti  (per  effetto dei poteri istruttori ex
officio  utilizzati  dal  tribunale  mediante l'acquisizione dei dati
della   predetta   societa'   ricavabili   dall'anagrafe  tributaria)
esclusivamente  la  prova  (mod.  U760)  che, nel 2005, la resistente
aveva  realizzato  un  volume  di affari di soli € 88.337,00; c)
nessun'altra  indagine  istruttoria appare concretamente ed utilmente
ipotizzabile  sulla  base  della  documentazione in atti, risultando,
peraltro,  per  tabulas (cfr. l'allegata visura storica) che l'ultimo
bilancio  redatto  dalla stessa e' quello (ininfluente ai fini che ci
occupano  atteso  il  tenore  letterale  della citata norma) relativo
all'esercizio chiuso il 31 dicembre 2003.
   In  buona  sostanza, quindi, l'invocata declaratoria di fallimento
avverrebbe  esclusivamente  perche' la Professional Printing New Play
Color  S.r.l.,  in liquidazione, non costituendosi, non ha dimostrato
come    invece    impostole    dalla    norma   qui   sospettata   di
incostituzionalita',  il  possesso  congiunto di tutti i requisiti di
cui  alle lettere a), b) e c) del secondo comma dell'art. 1, del r.d.
n. 267/1942  come  modificato dal d.lgs. n. 169/2007, prescindendosi,
invece,  del  tutto da quel «criterio assolutamente idoneo e sicuro»,
oltre   che  oggettivo,  che  tenga  conto  dell'«attivita'  svolta»,
dell'«organizzazione     dei    mezzi    impiegati»,    dell'«entita'
dell'impresa»  e  delle  «ripercussioni che il (suo) dissesto produce
nell'economia  generale»  gia'  ritenuto necessario dalla Consulta al
fine   di  evitare  che  «imprese  molto  modeste  incorr(a)no  nelle
procedure   fallimentari»   e  che  vengano  meno  le  finalita'  del
fallimento  o,  peggio, che questo si trasformi nei fatti addirittura
in «un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori».
   Tanto  premesso in fatto ed in diritto, va disposta la sospensione
del  presente  giudizio  e  la  trasmissione  degli  atti  alla Corte
costituzionale  per  la  decisione  sulla  questione pregiudiziale di
legittimita'  costituzionale,  siccome rilevante e non manifestamente
infondata.
   Alla  cancelleria vanno affidati gli adempimenti di competenza, ai
sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
                              P. Q. M.
   Dichiara  rilevante per il giudizio e non manifestamente infondata
in  relazione  agli  artt. 3 e 76 della Costituzione, la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 1, secondo comma, del r.d. 16
marzo 1942, n. 267, come modificato dal d.lgs. n. 169/2007 sulla base
della previsione di cui all'art. 1, comma sesto lett. a), n. 1, della
legge  14  maggio 2005, n. 80, nella parte in cui addossa al debitore
l'onere  di  provare la propria non assoggettabilita' a fallimento o,
se  si preferisce, nella parte in cui il fallimento dell'imprenditore
commerciale  insolvente  che  non  dimostri  di  non  essere compreso
nell'area della non fallibilita' definita dalle lett. a), b) e c) del
medesimo comma;
   Ordina  alla  cancelleria  di  notificare la presente ordinanza al
Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' di darne comunicazione
al Presidente del Senato della Repubblica, al Presidente della Camera
dei deputati, ed alle parti costituite;
   Dispone  l'immediata  trasmissione  degli  atti, comprensivi della
documentazione   attestante   il   perfezionamento  delle  prescritte
notificazioni   e   comunicazioni,   anche  alle  parti,  alla  Corte
costituzionale;
   Sospende il giudizio in corso.
   Cosi'  deciso  in  Napoli, nella Camera di consiglio del 23 aprile
2008.
                      Il Presidente: Celentano
                                        Il giudice estensore: Campese