N. 336 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 novembre 2006

del  24  novembre  2006  emessa  dal  Corte  d'appello di Perugia nel
procedimento penale a carico di Iuliano Sabina Giuseppina

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento   -   Preclusione,   salvo  nelle  ipotesi  di  cui
  all'articolo  603,  comma  2, cod. proc. pen., se la nuova prova e'
  decisiva    -    Inammissibilita'   dell'appello   proposto   prima
  dell'entrata  in  vigore della novella - Contrasto con il principio
  di  ragionevolezza - Lesione del principio di parita' delle parti -
  Violazione   del   principio   di  buon  andamento  della  pubblica
  amministrazione  e  del  principio  della  ragionevole  durata  del
  processo  - Lesione del principio di obbligatorieta' dell'esercizio
  dell'azione penale.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio 2006, n. 46,
  art. 10.
- Costituzione, artt. 3, 97, 111 e 112.
(GU n.45 del 29-10-2008 )
                         LA CORTE DI APPELLO
   Letta  l'eccezione  di illegittimita' costituzionale del combinato
disposto  degli  artt. 593 c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge
n. 46/2006,  e  10, legge cit., nonche' degli artt. 6, comma 1, legge
n. 46/2006  e  576  c.p.p.  come novellato, rispettivamente sollevate
dalla procura generale e dalle parti civili nel procedimento a carico
di  Iuliano  Sabina Giuseppina, assolta dal Tribunale di Orvieto, con
sentenza  emessa in data 2 luglio 2004, dal reato di cui all'art. 640
codice penale perche' il fatto non sussiste;
                            O s s e r v a
   Nel presente processo la questione di illegittimita' del combinato
disposto  normativo  di cui sopra si presenta certamente rilevante in
quanto la Corte, investita dall'appello proposto dal p.m. avverso una
sentenza  di  proscioglimento, in applicazione delle norme impugnate,
dovrebbe dichiarare l'inammissibilita' dell'appello medesimo;
   Venendo  dunque all'esame del merito della questione sollevata dal
p.g.  ritiene  la  Corte  che  l'eccezione di incostituzionalita' del
combinato disposto degli artt. 593 c.p.p. - come modificato dall'art.
1,  legge n. 46/2006 - e 10 legge cit., nella parte in cui inibiscono
al p.m. di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento ed
impongono  la  declaratoria  di  inammissibilita'  degli appelli gia'
proposti, sia non manifestamente infondata, anche per profili diversi
da quelli posti in rilievo dall'eccipiente.
   La  nuova  normativa  infatti,  per  quanto si dira', realizza una
drastica compromissione dei poteri processuali del p.m., determinando
una  evidente  asimmetria,  quanto  ai  poteri  di impugnazione delle
sentenze,  la  quale  non  puo'  dirsi  assolutamente giustificata da
ragionevoli   considerazioni   di   principio   ovvero   di  politica
legislativa  processuale,  con  conseguente  violazione, sotto questo
profilo degli artt. 111, secondo comma, e 3 Cost.
   Inoltre  la  stessa,  in  sede  applicativa,  e'  foriera  di tali
incongruenze, da consegnare nelle mani degli operatori del diritto un
meccanismo  praticamente ingestibile, nell'ambito del quale qualsiasi
opzione  ermeneutica  si  prediliga  e'  ineluttabilmente destinata a
cozzare  con  un  diverso  profilo  di illegittimita' costituzionale,
determinando, soprattutto nel regime transitorio, notevoli disparita'
di   trattamento   ovvero   la  necessita',  onde  evitare  soluzioni
pasticciate, del ricorso ad una sorta di giurisprudenza «creativa», o
«suppletiva»  delle  sviste  del legislatore. Tutto cio' in contrasto
con  il  principio  di  buon andamento della pubblica amministrazione
(art.  97 Cost.) ed a conferma della irragionevolezza complessiva del
sistema delineato dalla normativa in argomento.
   Quest'ultima  inoltre,  in particolar modo nel regime transitorio,
e'   destinata  ad  incidere  negativamente  sui  tempi  processuali,
determinando  la necessita' dello svolgimento di un maggior numero di
gradi  di  giudizio, a fronte di sentenze gravemente erronee, laddove
l'errore  ridondi  in  vizio di motivazione, in violazione del citato
comma 2 dell'art. 111 Cost., ultimo periodo.
   Risulta pertanto necessario, al fine di porre in luce i profili di
incostituzionalita' delineati in termini generalissimi, rivolgere uno
sguardo  di  insieme  alla  nuova  legge, ai lavori preparatori, alla
interlocuzione  del  Presidente  della  Repubblica,  che ha ravvisato
profili  di  manifesta illegittimita', rinviando la legge alle Camere
per  una  nuova  deliberazione, nonche' alle modifiche apportate onde
correggere le suddette censure di incostituzionalita'.
   Un  tale discorso di insieme, lungi dal coinvolgere in un generico
giudizio  negativo  l'impianto  generale  della  legge, in violazione
della regola della obbligatoria . rilevanza della questione, e' utile
e  necessario al fine di evidenziare la profonda irrazionalita' della
norma da applicare nel caso di specie.
   Al  riguardo  va  in  primo  luogo  sgombrato il campo da un falso
presupposto teorico che riecheggia nei lavori preparatori della legge
n. 46/2006,  secondo  cui  la  eliminazione  del  potere  del p.m. di
appellare  le  sentenze  di  proscioglimento  sarebbe  conforme ad un
principio   generale,   sancito  dalla  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo. In base a tale tesi l'imputato
potrebbe essere riconosciuto colpevole solo a seguito di due pronunce
di  merito  conformi  nella affermazione di colpevolezza. Diritto del
quale  sarebbe privato in caso di condanna in secondo grado a seguito
dell'accoglimento   dell'appello   avverso  il  proscioglimento,  non
essendovi  in  questo  caso  spazio  per  un riesame nel merito della
affermazione della colpevolezza.
   Tale  tesi  dimentica  tuttavia  che  l'art.  2 del VII Protocollo
addizionale  alla Convenzione europea per la salvaguardia dell'uomo e
delle liberta' fondamentali, sottoscritto a Strasburgo il 22 novembre
1984 e ratificato in Italia con legge 9 aprile 1990 n. 98, prevede la
possibilita' che un soggetto venga «dichiarato colpevole e condannato
a  seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento», e in questo
caso  anzi  si  esclude  che  il soggetto medesimo abbia diritto a un
ulteriore gravame di merito.
   Se  dunque  e'  erroneo  il  presupposto  teorico  di  fondo della
novella,  ne  discendono  «per  li  rami»  le conseguenze in punto di
irrazionalita' di una disciplina che, nel differenziare drasticamente
i  poteri  di impugnazione delle parti, e nel sacrificare pressocche'
totalmente  quelli del p.m. (e di riflesso della persona offesa), non
risponde ad alcuna logica giustificazione.
   Se a cio' si aggiunge che, nel concreto della disciplina, le nuove
norme  risultano  mal  coordinate e tali da rendere obbligatori degli
sbocchi  processuali  del tutto incongrui, la incostituzionalita' per
irragionevolezza si manifesta in tuffa la sua evidenza.
   Ed  infatti,  calandoci  dai  supremi  principi  alla applicazione
pratica,  si rilevano plurime anomalie ed irragionevoli disparita' di
trattamento  tra  p.m.  e  persona offesa da un lato, parte civile ed
imputato  dall'altro,  con la «stranezza» che la parte civile viene a
condividere  con  l'imputato, suo contraddittore naturale, un destino
di maggior favore rispetto a quello riservato al p.m..
   A)  Nella previgente disciplina il piu' vistoso caso di asimmetria
in  relazione  ai  poteri  di  impugnazione delle parti riguardava le
sentenze  emesse  all'esito  del  giudizio abbreviato, non potendo il
p.m.,  salvo  il  caso  del  mutamento del titolo del reato, proporre
appello avverso la sentenza di condanna.
   Tale  disciplina  era  stata  pacificamente  ritenuta  conforme al
dettato Costituzionale, in quanto la limitazione al potere di appello
del  p.m.  riguardava una sentenza che, pur eventualmente deludendolo
in  punto  di  trattamento sanzionatorio, comunque accoglieva la tesi
della  penale  responsabilita'  dell'imputato.  E tale sacrificio era
giustificato   dalla   circostanza  che  il  p.m.  beneficiava  della
possibilita'  di  far  valere  come prove tutti gli atti raccolti nel
corso delle indagini preliminari.
   Invece,  nella  disciplina  introdotta  dalla legge n. 46/2006, il
p.m. e' in primo luogo privato del potere di proporre appello (id est
di  ottenere  un riesame nel merito) addirittura avverso una sentenza
di   proscioglimento,   che   cioe'   sconfessa  totalmente  la  tesi
accusatoria,  ma tale radicale sacrificio non e' compensato da alcuna
previsione   di   favore   per   la  parte  pubblica  ne'  altrimenti
giustificato.
   E  come si e' detto tale giustificazione non puo' rinvenirsi nelle
fonti    sopranazionali    (che,    nell'interpretazione    costante,
consentirebbero  addirittura l'abolizione dell'appello dell'imputato,
essendo il suo diritto alla impugnazione della condanna salvaguardato
dalla  obbligatoria  previsione  della  ricorribilita' per cassazione
delle  sentenze),  e  tantomeno  trova  albergo  al  riparo  di altri
principi   quali   la   ragionevole   durata   del   processo  ovvero
l'immediatezza ed oralita' del processo.
   Sotto il primo profilo, come si vedra', le nuove disposizioni sono
destinate ineluttabilmente ad allungare i tempi processuali.
   Il  richiamo  invece alla oralita' ed immediatezza, secondo cui il
giudice  d'appello,  che  decide  sulle carte, non puo' sovvertire la
decisione  del  giudice  di  primo  grado  che ascolta direttamente i
testimoni,  prova  troppo,  dovendo  tale  argomento  necessariamente
valere,  dal  punto  di  vista logico, anche in relazione all'appello
proposto dall'imputato.
   Ne  consegue  che la sostanziale esclusione del potere di proporre
appello   da   parte   del   p.m.  sacrifica  in  maniera  del  tutto
ingiustificata  ed  irrazionale la parita' delle parti nel processo e
la  stessa  sua  funzione  di  pervenire  comunque  (o di avvicinarsi
tendenzialmente)   alla   verita'   storica,  inibendo  un  controllo
giurisdizionale su eventuali errori di merito.
   B) Del tutto teorica e marginale e' la residua facolta' di appello
conservata  al  p.m. (dopo il rinvio della legge alle Camere) in caso
di  sopravvenienza  o scoperta di una nuova prova dopo il giudizio di
primo grado.
   Anche  questa  previsione si apprezza per la sua palese inutilita'
ed irrazionalita'.
   Sotto  il  primo  profilo essa relega in un ambito statisticamente
irrilevante il potere del p.m. di proporre appello, in considerazione
del  fatto che la nuova prova deve sopravvenire, in sostanza, durante
il  breve  termine per appellare (di 15, 30 o 45 giorni a seconda dei
casi),  la  cui  durata,  tra  l'altro,  dipende da fattori del tutto
casuali,  quali  la  indicazione o meno di un termine per il deposito
della  motivazione, il rispetto di tale termine da parte del giudice,
la  rapidita'  della  cancelleria  e  degli organi a cio' addetti nel
notificare   l'estratto   della  sentenza  alla  parte  eventualmente
contumace.
   Con  la ulteriore conseguenza che lo stesso rischio per l'imputato
di  dover  subire  il  processo  di  appello  dipende  da circostanze
assolutamente imponderabili e non da egli controllabili.
   A  cio'  si  aggiunga che con i limitati poteri di indagine di cui
dispone  il  p.m.  dopo  il  rinvio a giudizio ex art. 430 c.p.p., la
emersione   di   una  nuova  prova  nel  ristretto  termine  suddetto
costituira' evenienza talmente rara da sfiorare il miracolistico.
   Sotto  il  profilo  della razionalita' poi davvero non si riesce a
comprendere  perche'  il  potere di conservare alla parte pubblica un
ulteriore  grado di giudizio di merito debba essere riconosciuto solo
ad una prova scoperta in quel limitato termine e non anche nelle more
della  celebrazione  del  giudizio di cassazione instaurato a seguito
del  ricorso proposto dal p.m. (verificandosi altrimenti il passaggio
in  giudicato  della sentenza che preclude ab imis la possibilita' di
far  valere una nuova prova di colpevolezza, non conoscendo il nostro
ordinamento la revisione in malam partem).
   Insomma,  non  potendo esser fatta valere l'emersione di una nuova
prova  davanti  alla Corte di cassazione, il p.m. dovra' sperare solo
nell'annullamento  della  sentenza  con  rinvio  al  Giudice di primo
grado,  davanti al quale far valere la suddetta prova, verificandosi,
in caso contrario, il definitivo scollamento, a causa della scelta di
inibire  la  celebrazione  di un secondo grado di merito, tra verita'
processuale  e  verita'  storica.  Ancora va considerato che, in base
alla nuova formulazione dell'art. 593 c.p.p., in caso di emersione di
una prova nuova, anche l'imputato potra' proporre appello avverso una
sentenza  di  proscioglimento  pronunciata  con una formula che possa
eventualmente  arrecargli  pregiudizio  (ad es. per difetto di dolo -
con   conseguente   possibilita'  di  esperimento  di  azione  civile
risarcitoria  nei suoi confronti per illecito civile colposo - ovvero
per difetto di imputabilita).
   Orbene,   in   quest'ultimo   caso,  avverso  la  stessa  sentenza
potrebbero  essere proposti mezzi di impugnazione diversi - l'appello
da parte dell'imputato ed il ricorso per cassazione da parte del p.m.
-  senza  che  sia previsto alcuno strumento onde evitare la anomalia
della  contemporanea pendenza dello stesso processo in gradi diversi,
non  potendo  operare,  in  una  simile  ipotesi, il meccanismo della
conversione ex art. 580 c.p.p., ristretto ai soli casi di connessione
ex art. 12 c.p.p.
   Infine,  sempre  con  riferimento al tema della prova nuova, e con
specifico  riguardo alla normativa transitoria, il legislatore non ha
previsto la salvezza dell'appello, gia' validamente proposto dal p.m.
nel  vigore  della previdente disciplina, qualora negli stessi motivi
di  appello  ovvero  direttamente in dibattimento, l'appellante abbia
chiesto  la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale deducendo una
prova sopravvenuta.
   Con   la   irragionevole   conseguenza,   non  superabile  in  via
interpretativa,   salvo   a   ricorrere   a  soluzioni  «creative»  o
«integrative»,  che  un  appello  che sarebbe valido anche secondo la
nuova  normativa  -  e  che  e' stato validamente proposto secondo la
legge  vigente  al  momento  della  sua  proporzione  -  debba essere
tuttavia  dichiarato  inammissibile,  prevedendo  l'art. 10, comma 2,
legge  n. 46/2006,  la  declaratoria di inammissibilita' dell'appello
tout  court,  senza  alcuna  deroga  o  possibilita'  di valutare gli
appelli  pendenti secondo il nuovo parametro introdotto dal novellato
art. 593 c.p.p.
   C)  La  irragionevole  disparita' di trattamento introdotta con la
limitazione  (rectius  esclusione)  della  possibilita'  del  p.m. di
appellare  avverso  le sentenze di proscioglimento, si apprezza anche
con riguardo alla posizione della parte civile.
   In   proposito,   limitandoci   ad  una  mera  ricognizione  della
questione, non direttamente rilevante nel caso di specie se non per i
profili   di   irragionevolezza   che  introduce,  va  rilevato  che,
paradossalmente,  all'interno  del processo penale, dalla normativa a
regime,  viene tolta al p.m. una facolta' che invece viene confermata
in  capo  alla parte civile (per lo meno secondo la tesi che si fonda
sulla  voluntas legislatoris, malamente espressa nel testo normativo,
emendato a seguito del messaggio presidenziale), e cio' nonostante il
diverso  rango  degli  interessi  perseguiti, la sedes materiae, e la
permanente possibilita' del danneggiato dal reato di percorrere i tre
gradi di giudizio trasferendo l'azione in sede civile.
   Ancor  piu'  evidente  tale disparita' di trattamento emerge nella
normativa  transitoria ove e' pressocche' certo - a prescindere dalla
tesi  prescelta  in relazione alla normativa a regime - che l'appello
illo  tempore  proposto dalla parte civile conservi efficacia, con la
conseguenza  di  mantenere la cognizione della Corte d'appello penale
esclusivamente  su  questioni civilistiche, che coinvolgono il merito
della vicenda, privandola della corrispondente cognizione penale.
   Senza considerare l'ulteriore distonia, ridondante in un ulteriore
profilo  di  irrazionalita',  in  caso del ricorso per cassazione del
p.m., della contemporanea pendenza della medesima vicenda processuaie
in  due  gradi diversi, di merito e di legittimita', con possibilita'
di  soluzioni  contrastanti,  e  senza  che possa operare - in virtu'
della  disposizione  dell'art.  580  c.p.p.  -  il  meccanismo  della
conversione.
   D)  L'ultimo  profilo  di  incostituzionalita'  della soppressione
dell'appello  del  p.m., realizzato con le imperfette modalita' della
legge  n. 46/2006,  riguarda  l'incidenza  del  sistema delineato sui
tempi processuali.
   Ed  infatti  e'  altamente  plausibile  che,  in  caso di pronunce
gravemente  erronee,  eliminandosi  il  potere emendativo della Corte
d'appello,  a  seguito  dell'accoglimento  del ricorso per cassazione
proposto  dal  p.m., si celebreranno i normali tre gradi di giudizio,
con  rischio  elevatissimo  di  prescrizione del reato, vieppiu' alla
luce della nuova disciplina dell'art. 157 c.p.p.
   Cio'  accadra' a causa della sostituzione della sequenza: I grado,
Il grado e Cassazione, con la sequenza: I grado, Cassazione, I grado,
II grado, Cassazione.
   E  tale  situazione  e'  ancora  piu'  drammatica nella disciplina
transitoria che sconta la dilatazione dei tempi dovuta al decorso del
termine   per   proporre   appello   ed  all'intervallo  tra  la  sua
presentazione e la fissazione dell'udienza.
   Tutto  cio',  ragguagliato  ai  nuovi  termini di prescrizione, si
risolve in una sostanziale vanificazione della pretesa punitiva dello
Stato in aperto contrasto con l'insegnamento di Corte cost. n. 98 del
24   marzo   1994  secondo  cui  «la  configurazione  dei  poteri  di
impugnazione  del  pubblico  ministero  rimane  affidata  alla  legge
ordinaria  che potrebbe essere censurata per irragionevolezza solo se
i  poteri  stessi  nel  loro  complesso, dovessero risultare inidonei
all'assolvimento  dei  compiti  previsti  dall'art.  112  Cost.»  che
risulta, conseguentemente, indirettamente violato.
   Quanto  alla parte civile, va rilevato che, secondo l'orientamento
seguito  da  questa  Corte,  deve  ritenersi che, a prescindere dalla
soluzione  della  questione  relativa  al  mantenimento del potere di
appello  a  fini civili nella normativa a regime, di certo conservano
efficacia  gli  appelli gia' proposti dalla parte civile in quanto la
diversa    e    contraria    interpretazione,    sarebbe   certamente
incostituzionale posto che non solo priva il danneggiato del reato di
un  grado  di  merito,  ma  lo  espone alla pregiudizievole efficacia
extrapenale della sentenza di proscioglimento ex art. 652 c.p.p., non
gli consente la tutela dei suoi diritti nel processo civile stante la
necessaria  sospensione  dello  stesso ex art. 75, comma 3, c.p.p., e
non  prevede  neppure  la  remissione  in termini, concessa a p.m. ed
imputato, per la proposizione del ricorso per cassazione.
   La  Corte  e'  consapevole che anche questa tesi si scontra con il
rischio  di  una  situazione processuale paradossale costituita dalla
contemporanea  pendenza dell'appello della parte civile e del ricorso
per  cassazione  proposto  dal  p.m.,  ma  la lettera della legge non
consente  altra  soluzione  interpretativa, determinando, anche sotto
questo  aspetto,  un  gia'  rilevato  profilo  di  illegittimita' per
irragionevolezza.
   Ed  a  maggior  ragione,  ribadendo  quanto gia' detto, non appare
possibile  la trattazione e decisione dell'appello della parte civile
in  pendenza  della  eccezione  di  incostituzionalita'  proposta  in
relazione  all'appello  del  p.m.  in  considerazione  del  carattere
pregiudiziale  della  questione, assolutamente assorbente, tanto che,
in  caso  di  accoglimento  della  prima  eccezione,  la parte civile
troverebbe  tutela,  per  il principio della immanenza, anche ove non
avesse a sua volta proposto appello.
   Pertanto,  tornando  alla  questione  principale,  in  conclusione
l'eliminazione  del  potere  del  p.m. di proporre appello avverso le
sentenze di proscioglimento:
     viola   l'art.   111,  secondo  comma,  Cost.  introducendo  una
ingiustificata  disparita'  di trattamento tra le parti del processo,
da  intendersi  in  tutti  i  gradi  in  cui  si esso e' destinato ad
articolarsi   attraverso  la  possibilita'  concessa  alle  parti  di
accedervi;
     viola  l'art.  3  Cost.  per la manifesta irragionevolezza delle
soluzioni  normative adottate, tanto nella disciplina a regime quanto
in quella transitoria;
     viola il principio della durata ragionevole del processo di' cui
all'art. 111 Cost.;
     viola  l'art.  97  Cost.  per  la  concreta  ingestibilita'  del
processo  in caso di applicazione della nuova normativa che determina
situazioni di necessaria stasi dello stesso;
     viola  l'art.  112  cost.  avviando  ad  un  sicuro  destino  di
prescrizione numerosissimi reati.
                              P. Q. M.
   Visti gli artt. 134 Cost. e 23, legge n. 87/1953;
   Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  degli artt. 593 c.p.p., come modificato
dall'art.  1,  legge n. 46/2006 e dell'art. 10, legge n. 46/2006, per
violazione  degli artt. 3, 97, 111 e 112 Costituzione, secondo quanto
esposto nella parte motiva;
   Sospende  il presente procedimento ed ordina la trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale.
   Ordina  che la presente sia notificata al Presidente del Consiglio
dei  ministri  e  comunicata  ai  presidenti  delle  due  Camere  del
Parlamento.
   Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.
     Perugia, udienza del 24 novembre 2006.
                       Il Presidente: Muscato