N. 15 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 28 giugno 2006- 10 ottobre 2008
di attribuzione tra poteri dello Stato (merito) depositato in cancelleria il 10 ottobre 2008 (del Tribunale di Milano) Parlamento - Immunita' parlamentari - Procedimento penale a carico del senatore Raffaele Iannuzzi per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa nei confronti dei magistrati Giancarlo Caselli e Gioacchino Natoli - Deliberazione di insindacabilita' del Senato della Repubblica - Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano - Denunciata mancanza di nesso funzionale tra opinioni espresse ed attivita' parlamentari. - Deliberazione del Senato della Repubblica 15 febbraio 2006. - Costituzione, art. 68, primo comma.(GU n.45 del 29-10-2008 )
Letti gli atti del procedimento penale a carico del senatore Raffaele Iannuzzi, nato a Grottella (Avellino) il 20 febbraio 1928, imputato per i seguenti reati: A) del reato p. e p. dagli artt. 81 c.p.v., 595 commi 1, 2, 3 c.p., art. 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47, 61 n. 10 c.p. perche', in tempi diversi, con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nella sua qualita' di autore dell'articolo pubblicato sul quotidiano «Il Giornale» del 17 novembre 2004 dal titolo «Ecco come i pentiti dovevano uccidere Canale» nonche' quale autore dell'articolo pubblicato sul settimanale «Panorama» in data 25 novembre 2004 dal titolo «A Palermo giustizia e' (quasi) fatta» offendeva la reputazione di Caselli Giancarlo e Natoli Gioacchino con riferimento all'intero contenuto degli articoli - che qui si intendono integralmente riportati - che per le affermazioni riportate e per le modalita' espositive sono da ritenere gravemente diffamatori, con l'attribuzione inoltre difatti determinati quali, tra gli altri, quelli relativi all'istigazione al suicidio del Maresciallo Lombardo, al processo Andreotti e a presunti ostacoli che le parti lese avrebbero frapposto alla venuta in Italia di Badalamenti nel timore che egli incrinasse il castello delle accuse contro Andreotti, all'ingiusta ed abusiva persecuzione del tenente Canale, cognato del Lombardo, non appena egli si mise in azione per difendere la memoria del cognato, ai misteri del processo Andreotti tra i quali anche il primo interrogatorio di Buscetta, alle imprese delittuose del pentito Di Maggio non impedite dalle parti lese. Fatto aggravato dall'essere stato commesso ai danni di un Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo (Natoli) e del Procuratore Generale della Repubblica di Torino (Caselli). In Paderno Dugnano (Milano) il 17 novembre 2004 e in Melzo il 25 novembre 2004, in cui sono parti offese parti i signori: Natoli Gioacchino nato il 20 maggio 1947 a Patti (ME) ed elettivamente domiciliato a Milano in via Santa Sofia n. 27 presso lo studio dei difensori; assistito dagli avv. Enrica Domeneghetti e Carlo Smuraglia entrambi con studio a Milano in via Santa Sofia n. 27; Caselli Gian Carlo nato il 9 maggio 1939 ad ed elettivamente domiciliato a Milano in via Santa Sofia n. 27 presso lo studio dei difensori; assistito dagli avv. Enrica Domeneghetti e Carlo Smuraglia entrambi con studio a Milano in via Santa Sofia n. 27. Rilevato che i magistrati Giancarlo Caselli e Gioacchino Natoli hanno proposto querela nei confronti del senatore Raffaele Iannuzzi nonche' dei direttori pro tempore del settimanale «Panorama» e del quotidiano «Il Giornale», ritenendo diffamatorie le affermazioni sopra meglio riportate poche nell'articolo sopra indicato si era propalata la tesi secondo cui, sostanzialmente, il processo al senatore Giulio Andreotti era stato instaurato per finalita' politiche; che i querelanti avrebbero posto in essere una serie di atti che avrebbero determinato il suicidio del Maresciallo Lombardo; che i querelanti avrebbero in sostanza abusato delle rispettive posizioni per impedire che fossero scoperte le tracce del loro operato nei due episodi appena citati tanto da nascondere o dolosamente ritardare atti del proprio ufficio e finanche porre in atto vere e proprie persecuzioni nei confronti di soggetti che potessero «scoprirli»; Rilevato che - su istanza del sen. Iannuzzi a mezzo dei propri difensori - con ordinanza in data 10 gennaio 2006 ha sottoposto al Senato della Repubblica la questione dell'applicabilita' dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, in relazione al procedimento penale n. 9135/05 R.G.N. R., pendente nei suoi confronti a seguito della presentazione delle querele sopra richiamate; che il Senato della Repubblica, nel corso della seduta del 15 febbraio 2006 in accoglimento di conforme proposta della Giunta delle elezioni e delle immunita' parlamentari, ha riconosciuto ai sensi dell'art. 68, primo comma della Costituzione, l'insindacabilita' delle opinioni espresse dal senatore Raffaele Iannuzzi nell'ambito degli articoli di stampa oggetto del presente procedimento in quanto espresse nell'esercizio della funzione parlamentare; che all'udienza odierna questo stesso giudice ha provveduto alla separazione della posizione del senatore Raffaele Iannuzzi da quella del direttore del settimanale «Panorama», Rossella Carlo e del direttore del quotidiano «Il Giornale»; Considerato che la vicenda che occupa attiene a due articoli aventi ad oggetto la medesima vicenda relativa ai retroscena che hanno accompagnato il suicidio di un componente dell'arma dei Carabinieri e a adombrati abusi di magistrati per indirizzare un processo; che - allo stato degli atti - non risulta provata la verita' oggettiva dei fatti riferiti ne' appare potersi registrare un effettivo rigore nel modo di riportare i fatti per come appaiono emergere dalle fonti; che in ragione di tali aspetti e dell'ulteriore contenuto degli atti di causa appare sussistere una fattispecie a soluzioni aperte meritevole di approfondimento dibattimentale e cio' anche al fine di accertare l'effettiva verita' dei fatti esposti; che - dopo aver evidenziato alcuni giudizi espressi dai querelanti nei confronti del senatore Iannuzzi, la giunta e l'Assemblea hanno ritenuto che «La battaglia politica che il senatore Iannuzzi conduce, sin dall'inizio del suo attuale mandato parlamentare, contro l'utilizzo dei "'pentiti'' nei processi penali permea tutta la sua attivita' parlamentare, oltre che quella pubblicistica da lui esercitata da tempo a livello professionale. Assai significativamente egli sollecito' in atti formali l'interesse del Parlamento - sia nella veste della proposta di Commissione bicamerale di inchiesta (Disegno di legge n. 2292: "Istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta sulla gestione di coloro che collaborano con la giustizia'', depositato sin dal 25 giugno 2003) sia nella veste della proposta di Commissione monocamerale di inchiesta (Documento XXIL, n. 25: "Proposta di inchiesta parlamentare del Senato sulla gestione di coloro che collaborano con la giustizia'', depositato il 19 febbraio 2004), in ambedue i casi assai anteriormente rispetto agli articoli oggetti del procedimento in questione - sulla gestione dei collaboratori di giustizia e sull'effetto pernicioso che da cio' ricade sulla correttezza della dialettica processuale e dei rapporti tra soggetti istituzionali (che, ovviamente, possono registrare divergenze in riferimento a tale utilizzo, come parrebbe essere stato il caso a Palermo)». In ambedue le relazioni (al disegno di legge ed al Documento, di cui il senatore Iannuzzi e' primo firmatario) si legge tra l'altro: «Troppo spesso, infatti, su semplici dichiarazioni di collaboratori di giustizia non suffragate da adeguate fonti di prova si sono costruite delle ipotesi accusatorie, che si sono dimostrate in seguito del tutto infondate, per quanto, anche a causa di alcune norme procedurali lesive del principio costituzionale del contraddittorio, non sia sempre agevole far prevalere nel processo la verita' sulle falsita'. Si ricorda, infatti, che in base alla vigente normativa sulla valutazione delle prove, ad esempio, e' possibile condannare l'imputato sulla base di dichiarazioni di piu' collaboratori non supportate da altro riscontro: cosiddetta convergenza del molteplice. E' un dato di fatto incontestabile che la gestione dei pentiti nelle inchieste di mafia - e, in particolare, in quelle che avrebbero dovuto accertare i rapporti di tale organizzazione criminale con la politica - ben piu' di una volta ha assunto profili poco chiari. (...) La gestione dei pentiti, infatti, rappresenta forse il punto piu' delicato della strategia della lotta contro la mafia, in quanto la strumentalizzazione giudiziaria o politica (poco importa stabilire quale dei due profili prevalga, considerato che essi sono tra loro spesso intrecciati) di tale fenomeno finisce proprio per favorire la mafia, che alla legislazione dell'emergenza ha reagito proponendo dei "finti pentiti'' con lo scopo di depistare le indagini. In altri casi, invece, le false accuse dei pentiti non sono dettate da una strategia della mafia, ma provengono da soggetti accusati di efferati delitti, che hanno un proprio interesse personale ad accusare altri soggetti (non importa se innocenti) al solo fine di ottenere per se stessi l'immunita' per i' delitti commessi e ingenti benefici economici. A tali strumentalizzazioni della mafia o dei singoli associati si deve aggiungere quella di alcuni magistrati che piu' di una volta hanno piegato indagini e procedimenti all'unico scopo di' tenere in piedi un teorema accusatorio basato su dichiarazioni di pentiti compiacenti. In un'ottica realmente orientata verso l'obiettivo di sconfiggere la mafia appare del tutto evidente l'esigenza che la posizione di ogni singolo collaboratore sia vagliata e valutata con estrema cautela. Ma la realta' e' ben diversa. La lotta alla mafia, infatti, e' stata sinora caratterizzata da sterili proclami, in alcuni casi anche di natura legislativa, spesso enfatizzati dalla stampa, che da un lato hanno tranquillizzato l'opinione pubblica, ma che dall'altro hanno finito proprio per favorire la mafia. Piu' di una volta l'attivita' investigativa si e' limitata ad una unica fonte costituita dalle accuse di pericolosi criminali che sono stati presentati all'opinione pubblica come gli unici soggetti grazie ai quali sarebbe stato possibile sconfiggere la mafia. Accuse che hanno determinato una lunga serie di arresti indiscriminati, che solo in un secondo momento si sono dimostrati del tutto iniqui e privi di qualsiasi fondamento. A tale proposito, non si puo' non segnalare come all'appiattimento di non pochi pubblici ministeri sulle mere affermazioni dei pentiti si accompagni nella societa' un inquietante clima di sospetto nei confronti di coloro che cercano di ricondurre ai' principi costituzionali una legislazione, come quella antimafia, che in piu' punti appare essere in palese violazione non solo dei principi costituzionali, ma anche di principi sanciti in trattati internazionali, come, ad esempio, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, che dovrebbero essere, per ciascun Paese che si Ritiene democratico e liberale, il presupposto di ogni normativa inerente alla liberta' personale». Il senatore Iannuzzi, nel sottoscrivere tali relazioni a disegno di legge e Documento, e nel farlo anteriormente agli articoli incriminati, ha sicuramente espresso la cifra della sua attivita' parlamentare, che non puo' essere disattesa o misconosciuta solo perche' rappresenta la prosecuzione della sua pluridecennale attivita' giornalistica. La presentazione di un disegno di legge depositato dinanzi alla Presidenza del Senato rientra appieno nell'esercizio delle funzioni parlamentari nazionali e, pertanto, legittimata a pronunciarsi sull'insindacabilita' di opinioni che ne costituiscono la proiezione e' la Camera di appartenenza del senatore Iannuzzi. Il collegamento necessario tra le sue battaglie giornalistiche (sull'effetto pernicioso di un'accezione del processo penale che divenga servente rispetto all'utilizzo dei «pentiti», frustrando le professionalita' investigative piu' genuine espresse dai tutori dell'ordine pubblico) e le sue «funzioni» di parlamentare, cioe' l'ambito funzionale entro cui l'atto si iscrive, prescinde dal suo contenuto comunicativo, che puo' essere il piu' vario, come ribadito dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2004: l'esercizio delle funzioni del parlamentare non puo' infatti essere ristretto esclusivamente alle discussioni che si tengono all'interno delle Aule, poiche' il mandato elettorale si esplica in tutte quelle occasioni in cui il parlamentare raggiunge il cittadino ed illustra la propria posizione anche, e forse tanto piu', quando questo avvenga al di fuori dei luoghi deputati all'attivita' legislativa in senso stretto e si espliciti invece nei mezzi di informazione, negli organi di stampa ed in televisione. L'esercizio in concreto delle funzioni proprie dei membri delle Camere puo' esservi anche quando e' attuato in forma «innominata» sul piano regolamentare, e tale interpretazione e' stata accolta nell'articolo 3, comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140, resistendo al vaglio di costituzionalita' della Corte nella citata sentenza: l'importante e' che l'agire del parlamentare - nel dedicarsi alle attivita' di cronaca e critica politica in cui si estrinseca la posizione del senatore in relazione a rilevanti fatti della vita pubblica - rappresenti una prosecuzione ed una proiezione dell'attivita' per la quale svolge il suo mandato, e non un paludamento di controversie private. E' compito della Giunta svolgere un ruolo di garante affinche' tale diritto, spettante a ciascun membro del Parlamento, non si traduca in abuso ovvero in eccesso. Abuso od eccesso che, peraltro, la Giunta non ritiene possano essere rintracciati nel caso delle opinioni espresse dal senatore Iannuzzi oggetto del procedimento in questione, per le quali essa rinviene l'esercizio di funzioni parlamentari. «ed ha, quindi, concluso, che "le dichiarazioni rese dal senatore Iannuzzi negli articoli in questione costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e ricadono pertanto nell'ipotesi di cui all'articolo 68, primo comma, della Costituzione''.». che - a fronte di tali affermazioni - non e' agevole comprendere il nesso fra le gravi e non dimostrate accuse di abusi mosse alle odierne parti lese e le «dichiarazioni di pentiti compiacenti»; che - inoltre - la conclusione adottata appare in contrasto con la costante giurisprudenza costituzionale: a titolo esemplificativo puo' essere evidenziato quanto affermato nelle sentenze numeri 10 e 11 dell'11 gennaio 2000 (alle quali si sono richiamate, tra le altre, le successive sentenze n. 52 del 27 febbraio 2002; n. 207 del 20 maggio 2002; n. 294 del 19 giugno 2002). «...E' pacifico che costituiscono opinioni espresse nell'esercizio della funzione quelle manifestate nel corso dei lavori della Camera e dei suoi vari organi, in occasione dello svolgimento di una qualsiasi fra le funzioni svolte dalla Camera medesima, ovvero manifestate in atti, anche individuali, costituenti estrinsecazione delle facolta' proprie del parlamentare in quanto membro dell'assemblea; che l'attivita' politica svolta dal parlamentare al di fuori di questo ambito non puo' dirsi di per se' esplicazione della funzione parlamentare nel senso preciso cui si riferisce l'art. 68, primo comma, della Costituzione; che nel normale svolgimento della vita democratica e del dibattito politico, le opinioni che il parlamentare esprima fuori dai compiti e dalle attivita' propri delle assemblee rappresentano piuttosto esercizio della liberta' di espressione comune a tutti i consociati: ad esse dunque non puo' estendersi, senza snaturarla, una immunita' che la Costituzione ha voluto, in deroga al generale principio di legalita' e di giustiziabilita' dei diritti, riservare alle opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni; che la linea di confine fra la tutela dell'autonomia e della liberta' delle Camere, e, a tal fine, della liberta' di espressione dei loro membri, da un lato, e la tutela dei diritti e degli interessi, costituzionalmente protetti, suscettibili di essere lesi dall'espressione di opinioni, dall'altro lato, e' fissata dalla Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell'ambito della prerogativa. Senza questa delimitazione, l'applicazione della prerogativa la trasformerebbe in un privilegio personale (cfr. sentenza n. 375 del 1997), finendo per conferire ai parlamentari una sorta di statuto personale di favore quanto all'ambito e ai limiti della loro liberta' di manifestazione del pensiero: con possibili distorsioni anche del principio di eguaglianza e di parita' di opportunita' fra cittadini nella dialettica politica; che discende da quanto osservato che la semplice comunanza di argomento fra la dichiarazione che si pretende lesiva e le opinioni espresse dal deputato o dal senatore in sede parlamentare non puo' bastare a fondare l'estensione alla prima dell'immunita' che copre le seconde; che tanto meno puo' bastare a tal fine la ricorrenza di un contesto genericamente politico in cui la dichiarazione si inserisca. Siffatto tipo di collegamenti non puo' valere di per se' a conferire carattere di attivita' parlamentare a manifestazioni di opinioni che siano oggettivamente ad essa estranee. Sarebbe, oltre tutto, contraddittorio da un lato negare - come e' inevitabile negare - che di per se' l'espressione di opinioni nelle piu' diverse sedi pubbliche costituisca esercizio di funzione parlamentare, e dall'altro lato ammettere che essa invece acquisti tale carattere e valore in forza di generici collegamenti contenutistici con attivita' parlamentari svolte dallo stesso membro delle Camere. che in questo senso va precisato il significato del «nesso funzionale» che deve riscontrarsi, per poter ritenere l'insindacabilita', tra la dichiarazione e l'attivita' parlamentare; non come semplice collegamento di argomento o di contesto fra attivita' parlamentare e dichiarazione, ma come identificabilta' della dichiarazione stessa quale espressione di attivita' parlamentare; che nel caso di riproduzione all'esterno della sede di riproduzione all'estero della sede parlemantare, e' necessario, per ritenere che sussista l'insindacabilta', che si riscontri la identita' sostanziale di contenuto fra l'opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede esterna; che cio' che si richiede, ovviamente, non e' una puntuale coincidenza testuale, ma una sostanziale corrispondenza di contenuti; che nei casi in cui non e' riscontrabile esercizio di funzioni parlamentari, il valore della legalita-giurisdizione non collide certo con quello dell'autonomia delle Camere e cosi' si spiega che la giurisprudenza costituzionale abbia appunto stabilito che l'immunita' non vale per tutte quelle opinioni che «il parlamentare manifesta nel piu' esteso ambito della politica»; che alla luce di tale interpretazione si debbono pertanto ritenere, in linea di principio, sindacabili tutte quelle dichiarazioni, che fuoriescono dal campo applicativo del «diritto parlamentare» e che non siano immediatamente collegabili con specifiche forme di esercizio di funzioni parlamentari, anche se siano caratterizzate da un asserito «contesto politico» o ritenute, per il contenuto delle espressioni o per il destinatario o la sede in cui sono state rese, manifestazione di sindacato ispettivo; che questa forma di controllo politico rimessa al singolo parlamentare puo' infatti aver rilievo, nei giudizi in oggetto, soltanto se si esplica come funzione parlamentare, attraverso atti e procedure specificamente previsti dai regolamenti parlamentari; se dunque l'immunita' copre il membro del Parlamento per il contenuto delle proprie dichiarazioni soltanto se concorre il contesto funzionale, il problema specifico, che non appare irrilevante in questo conflitto, della riproduzione all'esterno degli organi parlamentari di dichiarazioni gia rese nell'esercizio di funzioni parlamentari si puo' risolvere nel senso dell'insindacabilita' solo ove sia riscontrabile corrispondenza sostanziale di contenuti con l'atto parlamentare, non essendo sufficiente a questo riguardo una mera comunanza di tematiche». che il conforme orientamento della Corte costituzionale e' stato recentemente ribadito con la sentenza n. 120 del 16 aprile 2004; nel dichiarare infondate le questioni di legittimita' costituzionale sollevate con riferimento all'art. 3, comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140, si e' affermato che: «... Nonostante le evoluzioni subite, nel tempo, nella giurisprudenza di questa Corte, e' enucleabile un principio, che e' possibile oggi individuare come limite estremo della prerogativa dell'insindacabilita', e con cio' stesso delle virtualita' interpretative astrattamente ascrivibili all'art. 68: questa non puo' mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe una immunita' dalla giurisdizione conseguente alla mera "qualita''' di parlamentare». Per tale ragione l'itinerario della giurisprudenza della Corte si e' sviluppato attorno alla nozione del cd. «nesso funzionale», che solo consente di discernere le opinioni del parlamentare riconducibili alla libera manifestazione del pensiero, garantita ad ogni cittadino nei limiti generali della liberta' di espressione, da quelle che riguardano l'esercizio della funzione parlamentare. Certamente rientrano nella sfera dell'insindacabilita' tutte le opinioni manifestate con atti tipici nell'ambito dei lavori parlamentari, mentre per quanto attiene alle attivita' non tipizzate esse si debbono tuttavia considerare «coperte» dalla garanzia di cui all'art. 68, nei casi in cui si esplicano mediante strumenti, atti e procedure, anche «innominati», ma comunque rientranti nel campo di applicazione del diritto parlamentare, che il membro del Parlamento e' in grado di porre in essere e di utilizzare proprio solo e in quanto riveste tale carica (cfr. sentenze n. 56 del 2000, n. 509 del 2002 e n. 219 del 2003). Cio' che rileva, ai fini dell'insindacabilita', e' dunque il collegamento necessario con le «funzioni» del Parlamento, cioe' l'ambito funzionale entro cui l'atto si iscrive, a prescindere dal suo contenuto comunicativo, che puo' essere il piu' vario, ma che in ogni caso deve essere tale da rappresentare esercizio in concreto delle funzioni proprie dei membri delle Camere, anche se attuato in forma «innominata» sul piano regolamentare. Sotto questo profilo non c'e' percio' una sorta di automatica equivalenza tra l'atto non previsto dai regolamenti parlamentari e l'atto estraneo alla funzione parlamentare, giacche', come gia' detto, deve essere accertato in concreto se esista un nesso che permetta di identificare l'atto in questione come «espressione di attivita' parlamentare» (cfr. sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, n. 379 e n. 219 del 2003). E' in questa prospettiva che va effettuato lo scrutinio della disposizione denunciata. Le attivita' di «ispezione di divulgazione, di critica e di denuncia politica» che appunto il censurato art. 3, comma 1, riferisce all'ambito di applicazione dell'art. 68, primo comma, non rappresentano, di per se', un'ipotesi di indebito allargamento della garanzia dell'insindacabilita' apprestata dalla norma costituzionale, proprio perche' esse, anche se non manifestate in atti «tipizzarti», debbono comunque, secondo la previsione legislativa e in conformita' con il dettato costituzionale, risultare in connessione con l'esercizio di funzioni parlamentari. E' appunto questo «nesso» il presidio delle prerogative parlamentari e, insieme, del principio di eguaglianza e dei diritti fondamentali dei terzi lesi.». Occorre, altresi', evidenziare che la legge n. 140/2003 non ha natura di legge costituzionale e, pertanto, non e' idonea a stravolgere i limiti delineati dalla Corte in relazione all'applicabilita' dell'art. 68, comma primo della Costituzione. Pertanto, si ritiene che anche il riferimento alle attivita' di «ispezione divulgazione, critica e denuncia politica», espletate fuori dal Parlamento che devono essere connesse alla «funzione di parlamentare» non possa prescindere dall'applicazione dei criteri delineati dalla Corte costituzionale sopra richiamati. La diversa interpretazione, diretta a ricomprendere nella sfera dell'insindacabilita' qualsiasi attivita' politica posta in essere da parlamentare al di fuori dal Parlamento, oltre che porsi in contrasto con lo stesso art. 68 della Costituzione, determinerebbe, di fatto, la compromissione dei diritti all'onore ed alla reputazione, anch'essi costituzionalmente tutelati. che la deliberazione adottata dal Senato della Repubblica nella seduta del 15 febbraio 2006 appare in contrasto con i richiamati canoni interpretativi atteso che non contiene alcun elemento concreto da cui poter desumere la sussistenza di una corrispondenza sostanziale tra i contenuti degli articoli oggetto delle querele e le opinioni gia' espresse dal senatore in specifici atti parlamentari, non essendo sufficiente una mera comunanza di tematiche e un generico riferimento alla rilevanza dei fatti pubblici; che l'interpretazione prospettata dalla decisione di cui trattasi comporta, di fatto, che l'istituto previsto dalla norma costituzionale si trasformi da «esenzione di responsabilita' legata alla funzione in privilegio personale» (cfr. sent. 11/00, gia' citata) con la conseguenza che le opinioni e le dichiarazioni manifestate da un parlamentare sarebbero sempre e comunque sottratte alla verifica giurisdizionale; che deve, pertanto, ritenersi che la condotta addebitabile al senatore Iannuzzi, astrattamente idonea, nella sua specificita' e gravita' ad integrare un illecito, esula dall'esercizio delle funzioni parlamentari e non presenta oggettivamente alcun legame con atti parlamentari neppure nell'accezione piu' ampia e come tale dovrebbe rientrare nella cognizione riservata al sindacato giurisdizionale. che le opinioni manifestate dal senatore Iannuzzi non possono, per carenza del nesso funzionale, ritenersi rese nell'esercizio delle funzioni parlamentari e quindi per esse non e' invocabile l'immunita', ai sensi dell'art. 68, primo comma della Costituzione. che, nel caso di specie, appare di conseguenza necessario sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, conflitto ammissibile sia sotto il profilo soggettivo (questo giudice e' l'organo competente a decidere, nell'ambito delle funzioni giurisdizionali attribuite, sulla asserita illiceita' della condotta ascritta all'indagato e quindi «a dichiarare la volonta' del potere cui appartiene, in posizione di piena indipendenza garantita dalla Costituzione»: cfr. fra le altre, ordinanze Corte cost. n. 60 del 1999; nn. 469, 407, 261, 254 del 1998), sia sotto quello oggettivo, trattandosi della sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 68 primo comma della Costituzione e della lesione della propria sfera di attribuzioni giurisdizionali, costituzionalmente garantita, giacche' illegittimamente menomata dalla suindicata deliberazione del Senato della Repubblica;
P. Q. M. Visti gli artt. 134 cost. e 37, legge 11 marzo 1953, n. 87; Dispone la sospensione del giudizio in corso a carico di Iannuzzi Raffaele e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, sollevando conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato e chiede che la Corte: dichiari ammissibile il presente conflitto, adottando ogni conseguente provvedimento ai sensi degli artt. 37 e ss., legge n. 87/1953 ed ogni altra norma applicabile; dichiari che non spettava al Senato della Repubblica la valutazione della condotta addebitabile al senatore Iannuzzi Raffaele, in quanto estranea alla previsione di cui all'art. 68, primo comma, Cost.; annulli la relativa delibera del Senato della Repubblica in data 15 febbraio 2006 (delibera IV-ter n. 17/A). Manda alla cancelleria per quanto di competenza. Cosi' deciso in Milano, il mercoledi' 28 giugno 2006 Il giudice: Tutinelli L'ammissibilita' del presente conflitto e' stata decisa con ordinanza n. 420/2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale - 1ª serie speciale, n. 50 del 20 dicembre 2006.