N. 15 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 28 giugno 2006- 10 ottobre 2008

di  attribuzione  tra  poteri  dello  Stato  (merito)  depositato  in
cancelleria il 10 ottobre 2008 (del Tribunale di Milano)

Parlamento  -  Immunita'  parlamentari - Procedimento penale a carico
  del  senatore  Raffaele  Iannuzzi  per  il  reato  di  diffamazione
  aggravata  a  mezzo  stampa  nei confronti dei magistrati Giancarlo
  Caselli e Gioacchino Natoli - Deliberazione di insindacabilita' del
  Senato  della  Repubblica  -  Conflitto  di attribuzione tra poteri
  dello  Stato  sollevato dal giudice per le indagini preliminari del
  Tribunale  di  Milano - Denunciata mancanza di nesso funzionale tra
  opinioni espresse ed attivita' parlamentari.
- Deliberazione del Senato della Repubblica 15 febbraio 2006.
- Costituzione, art. 68, primo comma.
(GU n.45 del 29-10-2008 )
   Letti  gli  atti  del  procedimento  penale  a carico del senatore
Raffaele  Iannuzzi,  nato a Grottella (Avellino) il 20 febbraio 1928,
imputato per i seguenti reati:
     A)  del  reato  p. e p. dagli artt. 81 c.p.v., 595 commi 1, 2, 3
c.p.,  art.  13, legge 8 febbraio 1948, n. 47, 61 n. 10 c.p. perche',
in  tempi  diversi,  con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno
criminoso,  nella sua qualita' di autore dell'articolo pubblicato sul
quotidiano «Il Giornale» del 17 novembre 2004 dal titolo «Ecco come i
pentiti  dovevano uccidere Canale» nonche' quale autore dell'articolo
pubblicato  sul  settimanale  «Panorama» in data 25 novembre 2004 dal
titolo   «A   Palermo   giustizia  e'  (quasi)  fatta»  offendeva  la
reputazione  di Caselli Giancarlo e Natoli Gioacchino con riferimento
all'intero   contenuto   degli   articoli  -  che  qui  si  intendono
integralmente  riportati - che per le affermazioni riportate e per le
modalita'  espositive  sono  da  ritenere gravemente diffamatori, con
l'attribuzione  inoltre  difatti  determinati  quali,  tra gli altri,
quelli relativi all'istigazione al suicidio del Maresciallo Lombardo,
al  processo  Andreotti  e  a  presunti  ostacoli  che  le parti lese
avrebbero  frapposto  alla venuta in Italia di Badalamenti nel timore
che  egli  incrinasse  il  castello  delle  accuse  contro Andreotti,
all'ingiusta  ed abusiva persecuzione del tenente Canale, cognato del
Lombardo,  non appena egli si mise in azione per difendere la memoria
del  cognato,  ai misteri del processo Andreotti tra i quali anche il
primo interrogatorio di Buscetta, alle imprese delittuose del pentito
Di Maggio non impedite dalle parti lese.
   Fatto   aggravato  dall'essere  stato  commesso  ai  danni  di  un
Sostituto  Procuratore  della  Repubblica  di  Palermo (Natoli) e del
Procuratore Generale della Repubblica di Torino (Caselli).
   In  Paderno  Dugnano (Milano) il 17 novembre 2004 e in Melzo il 25
novembre 2004, in cui sono parti offese parti i signori:
     Natoli  Gioacchino  nato  il  20  maggio  1947  a  Patti (ME) ed
elettivamente domiciliato a Milano in via Santa Sofia n. 27 presso lo
studio  dei  difensori;  assistito  dagli  avv. Enrica Domeneghetti e
Carlo  Smuraglia  entrambi  con  studio  a  Milano in via Santa Sofia
n. 27;
     Caselli  Gian  Carlo  nato  il 9 maggio 1939 ad ed elettivamente
domiciliato  a  Milano  in via Santa Sofia n. 27 presso lo studio dei
difensori; assistito dagli avv. Enrica Domeneghetti e Carlo Smuraglia
entrambi con studio a Milano in via Santa Sofia n. 27.
   Rilevato  che  i  magistrati Giancarlo Caselli e Gioacchino Natoli
hanno  proposto  querela nei confronti del senatore Raffaele Iannuzzi
nonche'  dei  direttori  pro tempore del settimanale «Panorama» e del
quotidiano  «Il  Giornale»,  ritenendo  diffamatorie  le affermazioni
sopra  meglio  riportate  poche  nell'articolo  sopra indicato si era
propalata  la  tesi  secondo  cui,  sostanzialmente,  il  processo al
senatore   Giulio   Andreotti  era  stato  instaurato  per  finalita'
politiche;  che  i  querelanti avrebbero posto in essere una serie di
atti  che avrebbero determinato il suicidio del Maresciallo Lombardo;
che  i  querelanti  avrebbero  in  sostanza  abusato delle rispettive
posizioni  per  impedire  che  fossero  scoperte  le  tracce del loro
operato   nei  due  episodi  appena  citati  tanto  da  nascondere  o
dolosamente  ritardare  atti  del proprio ufficio e finanche porre in
atto  vere  e  proprie  persecuzioni  nei  confronti  di soggetti che
potessero «scoprirli»;
   Rilevato  che  -  su  istanza del sen. Iannuzzi a mezzo dei propri
difensori  -  con  ordinanza in data 10 gennaio 2006 ha sottoposto al
Senato  della  Repubblica  la questione dell'applicabilita' dell'art.
68,  primo  comma,  della  Costituzione, in relazione al procedimento
penale  n. 9135/05  R.G.N.  R., pendente nei suoi confronti a seguito
della presentazione delle querele sopra richiamate;
     che  il  Senato  della Repubblica, nel corso della seduta del 15
febbraio 2006 in accoglimento di conforme proposta della Giunta delle
elezioni  e  delle  immunita'  parlamentari, ha riconosciuto ai sensi
dell'art.  68,  primo  comma  della  Costituzione, l'insindacabilita'
delle  opinioni  espresse  dal senatore Raffaele Iannuzzi nell'ambito
degli  articoli di stampa oggetto del presente procedimento in quanto
espresse nell'esercizio della funzione parlamentare;
     che all'udienza odierna questo stesso giudice ha provveduto alla
separazione  della posizione del senatore Raffaele Iannuzzi da quella
del  direttore  del  settimanale  «Panorama»,  Rossella  Carlo  e del
direttore del quotidiano «Il Giornale»;
   Considerato  che  la  vicenda  che  occupa  attiene a due articoli
aventi  ad  oggetto  la  medesima  vicenda relativa ai retroscena che
hanno  accompagnato  il  suicidio  di  un  componente  dell'arma  dei
Carabinieri  e  a  adombrati  abusi  di magistrati per indirizzare un
processo;
     che  -  allo  stato  degli atti - non risulta provata la verita'
oggettiva  dei  fatti  riferiti  ne'  appare  potersi  registrare  un
effettivo  rigore  nel  modo  di  riportare i fatti per come appaiono
emergere dalle fonti;
     che  in ragione di tali aspetti e dell'ulteriore contenuto degli
atti  di  causa  appare sussistere una fattispecie a soluzioni aperte
meritevole  di approfondimento dibattimentale e cio' anche al fine di
accertare l'effettiva verita' dei fatti esposti;
     che   -  dopo  aver  evidenziato  alcuni  giudizi  espressi  dai
querelanti   nei   confronti  del  senatore  Iannuzzi,  la  giunta  e
l'Assemblea hanno ritenuto che «La battaglia politica che il senatore
Iannuzzi   conduce,   sin   dall'inizio   del   suo  attuale  mandato
parlamentare,  contro  l'utilizzo dei "'pentiti'' nei processi penali
permea   tutta  la  sua  attivita'  parlamentare,  oltre  che  quella
pubblicistica  da  lui  esercitata  da tempo a livello professionale.
Assai  significativamente egli sollecito' in atti formali l'interesse
del  Parlamento  -  sia  nella  veste  della  proposta di Commissione
bicamerale  di  inchiesta  (Disegno di legge n. 2292: "Istituzione di
una Commissione parlamentare d'inchiesta sulla gestione di coloro che
collaborano  con  la  giustizia'', depositato sin dal 25 giugno 2003)
sia  nella  veste  della  proposta  di  Commissione  monocamerale  di
inchiesta (Documento XXIL, n. 25: "Proposta di inchiesta parlamentare
del   Senato   sulla  gestione  di  coloro  che  collaborano  con  la
giustizia'', depositato il 19 febbraio 2004), in ambedue i casi assai
anteriormente  rispetto  agli  articoli  oggetti  del procedimento in
questione   -   sulla  gestione  dei  collaboratori  di  giustizia  e
sull'effetto  pernicioso  che  da cio' ricade sulla correttezza della
dialettica  processuale  e  dei  rapporti  tra soggetti istituzionali
(che, ovviamente, possono registrare divergenze in riferimento a tale
utilizzo, come parrebbe essere stato il caso a Palermo)».
   In  ambedue  le relazioni (al disegno di legge ed al Documento, di
cui  il  senatore Iannuzzi e' primo firmatario) si legge tra l'altro:
«Troppo  spesso,  infatti, su semplici dichiarazioni di collaboratori
di  giustizia  non  suffragate  da  adeguate  fonti  di prova si sono
costruite  delle  ipotesi  accusatorie,  che  si  sono  dimostrate in
seguito  del  tutto  infondate,  per  quanto, anche a causa di alcune
norme   procedurali   lesive   del   principio   costituzionale   del
contraddittorio, non sia sempre agevole far prevalere nel processo la
verita' sulle falsita'. Si ricorda, infatti, che in base alla vigente
normativa  sulla  valutazione  delle  prove, ad esempio, e' possibile
condannare   l'imputato   sulla   base   di   dichiarazioni  di  piu'
collaboratori   non   supportate   da   altro  riscontro:  cosiddetta
convergenza del molteplice. E' un dato di fatto incontestabile che la
gestione dei pentiti nelle inchieste di mafia - e, in particolare, in
quelle   che   avrebbero   dovuto   accertare   i  rapporti  di  tale
organizzazione  criminale  con la politica - ben piu' di una volta ha
assunto  profili poco chiari. (...) La gestione dei pentiti, infatti,
rappresenta  forse il punto piu' delicato della strategia della lotta
contro  la  mafia,  in  quanto  la  strumentalizzazione giudiziaria o
politica  (poco  importa  stabilire  quale  dei due profili prevalga,
considerato  che  essi  sono  tra  loro  spesso  intrecciati) di tale
fenomeno finisce proprio per favorire la mafia, che alla legislazione
dell'emergenza  ha  reagito  proponendo  dei  "finti pentiti'' con lo
scopo  di  depistare  le  indagini.  In  altri casi, invece, le false
accuse  dei pentiti non sono dettate da una strategia della mafia, ma
provengono  da  soggetti  accusati  di efferati delitti, che hanno un
proprio  interesse  personale ad accusare altri soggetti (non importa
se  innocenti) al solo fine di ottenere per se stessi l'immunita' per
i'   delitti   commessi   e   ingenti   benefici  economici.  A  tali
strumentalizzazioni  della  mafia  o  dei  singoli  associati si deve
aggiungere  quella  di  alcuni magistrati che piu' di una volta hanno
piegato  indagini  e procedimenti all'unico scopo di' tenere in piedi
un   teorema   accusatorio   basato   su   dichiarazioni  di  pentiti
compiacenti.  In  un'ottica  realmente orientata verso l'obiettivo di
sconfiggere  la  mafia  appare  del  tutto evidente l'esigenza che la
posizione  di  ogni singolo collaboratore sia vagliata e valutata con
estrema  cautela.  Ma la realta' e' ben diversa. La lotta alla mafia,
infatti,  e'  stata  sinora  caratterizzata  da  sterili proclami, in
alcuni  casi  anche  di  natura legislativa, spesso enfatizzati dalla
stampa,  che da un lato hanno tranquillizzato l'opinione pubblica, ma
che  dall'altro  hanno  finito proprio per favorire la mafia. Piu' di
una volta l'attivita' investigativa si e' limitata ad una unica fonte
costituita  dalle  accuse  di  pericolosi  criminali  che  sono stati
presentati  all'opinione  pubblica  come gli unici soggetti grazie ai
quali  sarebbe stato possibile sconfiggere la mafia. Accuse che hanno
determinato una lunga serie di arresti indiscriminati, che solo in un
secondo  momento  si  sono  dimostrati  del  tutto  iniqui e privi di
qualsiasi  fondamento.  A  tale  proposito, non si puo' non segnalare
come  all'appiattimento  di  non  pochi pubblici ministeri sulle mere
affermazioni  dei pentiti si accompagni nella societa' un inquietante
clima  di  sospetto nei confronti di coloro che cercano di ricondurre
ai'  principi costituzionali una legislazione, come quella antimafia,
che  in  piu'  punti  appare essere in palese violazione non solo dei
principi  costituzionali,  ma  anche  di principi sanciti in trattati
internazionali,  come, ad esempio, la Convenzione per la salvaguardia
dei  diritti  dell'uomo e delle liberta' fondamentali, che dovrebbero
essere,  per  ciascun Paese che si Ritiene democratico e liberale, il
presupposto di ogni normativa inerente alla liberta' personale».
   Il  senatore  Iannuzzi, nel sottoscrivere tali relazioni a disegno
di  legge  e  Documento,  e  nel  farlo  anteriormente  agli articoli
incriminati,  ha  sicuramente  espresso  la cifra della sua attivita'
parlamentare,  che  non  puo'  essere  disattesa o misconosciuta solo
perche'   rappresenta   la   prosecuzione  della  sua  pluridecennale
attivita'  giornalistica.  La  presentazione  di  un disegno di legge
depositato   dinanzi  alla  Presidenza  del  Senato  rientra  appieno
nell'esercizio  delle  funzioni  parlamentari  nazionali e, pertanto,
legittimata  a  pronunciarsi sull'insindacabilita' di opinioni che ne
costituiscono la proiezione e' la Camera di appartenenza del senatore
Iannuzzi.   Il   collegamento   necessario   tra   le  sue  battaglie
giornalistiche  (sull'effetto pernicioso di un'accezione del processo
penale  che  divenga  servente  rispetto  all'utilizzo dei «pentiti»,
frustrando  le  professionalita'  investigative piu' genuine espresse
dai tutori dell'ordine pubblico) e le sue «funzioni» di parlamentare,
cioe'  l'ambito funzionale entro cui l'atto si iscrive, prescinde dal
suo  contenuto  comunicativo,  che  puo'  essere  il piu' vario, come
ribadito dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 120 del
2004:  l'esercizio  delle  funzioni del parlamentare non puo' infatti
essere  ristretto  esclusivamente  alle  discussioni  che  si tengono
all'interno  delle  Aule, poiche' il mandato elettorale si esplica in
tutte  quelle occasioni in cui il parlamentare raggiunge il cittadino
ed  illustra  la  propria posizione anche, e forse tanto piu', quando
questo   avvenga  al  di  fuori  dei  luoghi  deputati  all'attivita'
legislativa  in  senso  stretto  e  si  espliciti invece nei mezzi di
informazione,  negli  organi di stampa ed in televisione. L'esercizio
in  concreto  delle  funzioni  proprie  dei  membri delle Camere puo'
esservi  anche  quando  e'  attuato  in  forma «innominata» sul piano
regolamentare,  e tale interpretazione e' stata accolta nell'articolo
3,  comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140, resistendo al vaglio
di  costituzionalita' della Corte nella citata sentenza: l'importante
e'  che  l'agire  del  parlamentare - nel dedicarsi alle attivita' di
cronaca  e  critica  politica  in  cui si estrinseca la posizione del
senatore  in  relazione  a  rilevanti  fatti  della  vita  pubblica -
rappresenti  una prosecuzione ed una proiezione dell'attivita' per la
quale  svolge  il  suo  mandato, e non un paludamento di controversie
private.  E'  compito  della  Giunta  svolgere  un  ruolo  di garante
affinche'  tale  diritto,  spettante a ciascun membro del Parlamento,
non  si  traduca  in  abuso  ovvero in eccesso. Abuso od eccesso che,
peraltro,  la Giunta non ritiene possano essere rintracciati nel caso
delle   opinioni   espresse   dal   senatore   Iannuzzi  oggetto  del
procedimento  in questione, per le quali essa rinviene l'esercizio di
funzioni   parlamentari.   «ed   ha,   quindi,   concluso,   che  "le
dichiarazioni  rese dal senatore Iannuzzi negli articoli in questione
costituiscono   opinioni   espresse   da  un  membro  del  Parlamento
nell'esercizio delle sue funzioni e ricadono pertanto nell'ipotesi di
cui all'articolo 68, primo comma, della Costituzione''.».
     che - a fronte di tali affermazioni - non e' agevole comprendere
il  nesso  fra  le  gravi e non dimostrate accuse di abusi mosse alle
odierne parti lese e le «dichiarazioni di pentiti compiacenti»;
     che  - inoltre - la conclusione adottata appare in contrasto con
la  costante  giurisprudenza costituzionale: a titolo esemplificativo
puo'  essere  evidenziato quanto affermato nelle sentenze numeri 10 e
11 dell'11 gennaio 2000 (alle quali si sono richiamate, tra le altre,
le  successive  sentenze  n. 52  del  27 febbraio 2002; n. 207 del 20
maggio 2002; n. 294 del 19 giugno 2002).
   «...E' pacifico che costituiscono opinioni espresse nell'esercizio
della funzione quelle manifestate nel corso dei lavori della Camera e
dei suoi vari organi, in occasione dello svolgimento di una qualsiasi
fra  le  funzioni svolte dalla Camera medesima, ovvero manifestate in
atti,  anche  individuali, costituenti estrinsecazione delle facolta'
proprie del parlamentare in quanto membro dell'assemblea;
     che  l'attivita' politica svolta dal parlamentare al di fuori di
questo  ambito  non puo' dirsi di per se' esplicazione della funzione
parlamentare  nel  senso  preciso  cui  si riferisce l'art. 68, primo
comma, della Costituzione;
     che  nel  normale  svolgimento  della  vita  democratica  e  del
dibattito politico, le opinioni che il parlamentare esprima fuori dai
compiti  e  dalle  attivita'  propri  delle  assemblee  rappresentano
piuttosto  esercizio  della  liberta' di espressione comune a tutti i
consociati: ad esse dunque non puo' estendersi, senza snaturarla, una
immunita'  che  la  Costituzione  ha  voluto,  in  deroga al generale
principio  di  legalita' e di giustiziabilita' dei diritti, riservare
alle opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni;
     che  la  linea  di  confine fra la tutela dell'autonomia e della
liberta'  delle  Camere, e, a tal fine, della liberta' di espressione
dei  loro  membri,  da  un  lato,  e  la  tutela  dei diritti e degli
interessi,  costituzionalmente  protetti, suscettibili di essere lesi
dall'espressione  di  opinioni,  dall'altro  lato,  e'  fissata dalla
Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell'ambito della
prerogativa.
   Senza  questa  delimitazione,  l'applicazione della prerogativa la
trasformerebbe  in  un privilegio personale (cfr. sentenza n. 375 del
1997),  finendo  per  conferire  ai parlamentari una sorta di statuto
personale di favore quanto all'ambito e ai limiti della loro liberta'
di  manifestazione  del pensiero: con possibili distorsioni anche del
principio  di  eguaglianza e di parita' di opportunita' fra cittadini
nella dialettica politica;
     che  discende  da  quanto osservato che la semplice comunanza di
argomento  fra  la dichiarazione che si pretende lesiva e le opinioni
espresse  dal  deputato  o dal senatore in sede parlamentare non puo'
bastare a fondare l'estensione alla prima dell'immunita' che copre le
seconde;
     che  tanto  meno  puo'  bastare  a  tal fine la ricorrenza di un
contesto genericamente politico in cui la dichiarazione si inserisca.
Siffatto  tipo di collegamenti non puo' valere di per se' a conferire
carattere  di attivita' parlamentare a manifestazioni di opinioni che
siano   oggettivamente   ad  essa  estranee.  Sarebbe,  oltre  tutto,
contraddittorio  da un lato negare - come e' inevitabile negare - che
di  per  se'  l'espressione  di  opinioni  nelle  piu'  diverse  sedi
pubbliche   costituisca   esercizio   di   funzione  parlamentare,  e
dall'altro  lato  ammettere che essa invece acquisti tale carattere e
valore in forza di generici collegamenti contenutistici con attivita'
parlamentari svolte dallo stesso membro delle Camere.
     che  in  questo  senso  va  precisato  il significato del «nesso
funzionale»    che    deve    riscontrarsi,    per   poter   ritenere
l'insindacabilita',  tra la dichiarazione e l'attivita' parlamentare;
non  come  semplice  collegamento  di  argomento  o  di  contesto fra
attivita'  parlamentare  e  dichiarazione,  ma  come identificabilta'
della   dichiarazione   stessa   quale   espressione   di   attivita'
parlamentare;
     che   nel   caso  di  riproduzione  all'esterno  della  sede  di
riproduzione  all'estero  della sede parlemantare, e' necessario, per
ritenere   che   sussista  l'insindacabilta',  che  si  riscontri  la
identita'  sostanziale  di  contenuto fra l'opinione espressa in sede
parlamentare e quella manifestata nella sede esterna;
     che  cio'  che  si  richiede,  ovviamente,  non  e' una puntuale
coincidenza testuale, ma una sostanziale corrispondenza di contenuti;
     che  nei  casi in cui non e' riscontrabile esercizio di funzioni
parlamentari,  il  valore  della  legalita-giurisdizione  non collide
certo con quello dell'autonomia delle Camere e cosi' si spiega che la
giurisprudenza costituzionale abbia appunto stabilito che l'immunita'
non vale per tutte quelle opinioni che «il parlamentare manifesta nel
piu' esteso ambito della politica»;
     che  alla  luce  di  tale  interpretazione  si  debbono pertanto
ritenere,   in   linea   di   principio,   sindacabili  tutte  quelle
dichiarazioni,  che  fuoriescono  dal  campo applicativo del «diritto
parlamentare»   e   che  non  siano  immediatamente  collegabili  con
specifiche  forme  di  esercizio  di  funzioni parlamentari, anche se
siano  caratterizzate  da un asserito «contesto politico» o ritenute,
per il contenuto delle espressioni o per il destinatario o la sede in
cui sono state rese, manifestazione di sindacato ispettivo;
     che  questa  forma  di  controllo  politico  rimessa  al singolo
parlamentare  puo'  infatti  aver  rilievo,  nei  giudizi in oggetto,
soltanto  se si esplica come funzione parlamentare, attraverso atti e
procedure  specificamente  previsti  dai regolamenti parlamentari; se
dunque  l'immunita'  copre  il membro del Parlamento per il contenuto
delle   proprie   dichiarazioni  soltanto  se  concorre  il  contesto
funzionale,  il  problema  specifico,  che  non appare irrilevante in
questo   conflitto,   della  riproduzione  all'esterno  degli  organi
parlamentari  di  dichiarazioni  gia  rese nell'esercizio di funzioni
parlamentari  si  puo' risolvere nel senso dell'insindacabilita' solo
ove  sia  riscontrabile  corrispondenza  sostanziale di contenuti con
l'atto  parlamentare,  non  essendo sufficiente a questo riguardo una
mera comunanza di tematiche».
     che il conforme orientamento della Corte costituzionale e' stato
recentemente  ribadito con la sentenza n. 120 del 16 aprile 2004; nel
dichiarare  infondate  le  questioni  di  legittimita' costituzionale
sollevate  con riferimento all'art. 3, comma 1, della legge 20 giugno
2003, n. 140, si e' affermato che:
      «...   Nonostante   le  evoluzioni  subite,  nel  tempo,  nella
giurisprudenza  di  questa Corte, e' enucleabile un principio, che e'
possibile  oggi  individuare  come  limite  estremo della prerogativa
dell'insindacabilita',   e   con   cio'   stesso   delle  virtualita'
interpretative astrattamente ascrivibili all'art. 68: questa non puo'
mai  trasformarsi  in  un  privilegio  personale,  quale  sarebbe una
immunita'  dalla  giurisdizione  conseguente alla mera "qualita''' di
parlamentare».  Per  tale  ragione  l'itinerario della giurisprudenza
della  Corte  si  e'  sviluppato  attorno alla nozione del cd. «nesso
funzionale»,   che  solo  consente  di  discernere  le  opinioni  del
parlamentare  riconducibili  alla libera manifestazione del pensiero,
garantita  ad  ogni  cittadino  nei limiti generali della liberta' di
espressione,  da  quelle  che  riguardano  l'esercizio della funzione
parlamentare.  Certamente rientrano nella sfera dell'insindacabilita'
tutte  le opinioni manifestate con atti tipici nell'ambito dei lavori
parlamentari,  mentre per quanto attiene alle attivita' non tipizzate
esse  si debbono tuttavia considerare «coperte» dalla garanzia di cui
all'art.  68, nei casi in cui si esplicano mediante strumenti, atti e
procedure,  anche  «innominati»,  ma comunque rientranti nel campo di
applicazione  del  diritto parlamentare, che il membro del Parlamento
e'  in  grado  di  porre  in essere e di utilizzare proprio solo e in
quanto  riveste tale carica (cfr. sentenze n. 56 del 2000, n. 509 del
2002 e n. 219 del 2003).
   Cio'  che  rileva,  ai  fini  dell'insindacabilita',  e' dunque il
collegamento  necessario  con  le  «funzioni»  del  Parlamento, cioe'
l'ambito  funzionale  entro  cui l'atto si iscrive, a prescindere dal
suo  contenuto comunicativo, che puo' essere il piu' vario, ma che in
ogni  caso  deve  essere  tale da rappresentare esercizio in concreto
delle  funzioni  proprie dei membri delle Camere, anche se attuato in
forma  «innominata» sul piano regolamentare. Sotto questo profilo non
c'e'  percio'  una  sorta  di  automatica  equivalenza tra l'atto non
previsto dai regolamenti parlamentari e l'atto estraneo alla funzione
parlamentare,  giacche',  come  gia'  detto, deve essere accertato in
concreto  se  esista  un nesso che permetta di identificare l'atto in
questione come «espressione di attivita' parlamentare» (cfr. sentenze
n. 10  e  n. 11  del  2000,  n. 379  e n. 219 del 2003). E' in questa
prospettiva   che  va  effettuato  lo  scrutinio  della  disposizione
denunciata.  Le attivita' di «ispezione di divulgazione, di critica e
di  denuncia  politica»  che  appunto  il  censurato art. 3, comma 1,
riferisce  all'ambito  di applicazione dell'art. 68, primo comma, non
rappresentano,  di per se', un'ipotesi di indebito allargamento della
garanzia dell'insindacabilita' apprestata dalla norma costituzionale,
proprio  perche' esse, anche se non manifestate in atti «tipizzarti»,
debbono  comunque, secondo la previsione legislativa e in conformita'
con   il   dettato   costituzionale,  risultare  in  connessione  con
l'esercizio di funzioni parlamentari.
   E'   appunto   questo   «nesso»   il  presidio  delle  prerogative
parlamentari  e,  insieme, del principio di eguaglianza e dei diritti
fondamentali  dei terzi lesi.». Occorre, altresi', evidenziare che la
legge  n. 140/2003 non ha natura di legge costituzionale e, pertanto,
non  e'  idonea  a  stravolgere  i  limiti  delineati  dalla Corte in
relazione   all'applicabilita'   dell'art.   68,  comma  primo  della
Costituzione.  Pertanto,  si  ritiene  che  anche il riferimento alle
attivita'  di  «ispezione divulgazione, critica e denuncia politica»,
espletate  fuori  dal  Parlamento  che  devono  essere  connesse alla
«funzione  di  parlamentare»  non possa prescindere dall'applicazione
dei criteri delineati dalla Corte costituzionale sopra richiamati. La
diversa   interpretazione,   diretta   a  ricomprendere  nella  sfera
dell'insindacabilita' qualsiasi attivita' politica posta in essere da
parlamentare al di fuori dal Parlamento, oltre che porsi in contrasto
con  lo  stesso art. 68 della Costituzione, determinerebbe, di fatto,
la   compromissione   dei  diritti  all'onore  ed  alla  reputazione,
anch'essi costituzionalmente tutelati.
     che  la deliberazione adottata dal Senato della Repubblica nella
seduta  del  15  febbraio  2006  appare in contrasto con i richiamati
canoni interpretativi atteso che non contiene alcun elemento concreto
da   cui   poter   desumere  la  sussistenza  di  una  corrispondenza
sostanziale tra i contenuti degli articoli oggetto delle querele e le
opinioni  gia'  espresse dal senatore in specifici atti parlamentari,
non essendo sufficiente una mera comunanza di tematiche e un generico
riferimento alla rilevanza dei fatti pubblici;
     che   l'interpretazione   prospettata  dalla  decisione  di  cui
trattasi  comporta,  di  fatto,  che  l'istituto previsto dalla norma
costituzionale  si  trasformi da «esenzione di responsabilita' legata
alla  funzione  in  privilegio  personale»  (cfr.  sent.  11/00, gia'
citata)  con  la  conseguenza  che  le  opinioni  e  le dichiarazioni
manifestate  da un parlamentare sarebbero sempre e comunque sottratte
alla verifica giurisdizionale;
     che  deve,  pertanto,  ritenersi che la condotta addebitabile al
senatore  Iannuzzi,  astrattamente  idonea,  nella sua specificita' e
gravita'   ad  integrare  un  illecito,  esula  dall'esercizio  delle
funzioni  parlamentari e non presenta oggettivamente alcun legame con
atti  parlamentari  neppure  nell'accezione  piu'  ampia  e come tale
dovrebbe   rientrare   nella   cognizione   riservata   al  sindacato
giurisdizionale.
     che  le  opinioni manifestate dal senatore Iannuzzi non possono,
per carenza del nesso funzionale, ritenersi rese nell'esercizio delle
funzioni   parlamentari   e   quindi   per  esse  non  e'  invocabile
l'immunita', ai sensi dell'art. 68, primo comma della Costituzione.
     che,  nel  caso  di  specie,  appare  di  conseguenza necessario
sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, conflitto
ammissibile  sia  sotto  il  profilo  soggettivo  (questo  giudice e'
l'organo   competente   a   decidere,   nell'ambito   delle  funzioni
giurisdizionali  attribuite, sulla asserita illiceita' della condotta
ascritta  all'indagato  e quindi «a dichiarare la volonta' del potere
cui  appartiene,  in  posizione di piena indipendenza garantita dalla
Costituzione»:  cfr.  fra  le  altre, ordinanze Corte cost. n. 60 del
1999;  nn.  469, 407, 261, 254 del 1998), sia sotto quello oggettivo,
trattandosi  della  sussistenza  dei  presupposti  per l'applicazione
dell'art.  68  primo  comma  della Costituzione e della lesione della
propria  sfera  di  attribuzioni  giurisdizionali, costituzionalmente
garantita,   giacche'   illegittimamente  menomata  dalla  suindicata
deliberazione del Senato della Repubblica;
                              P. Q. M.
   Visti gli artt. 134 cost. e 37, legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Dispone  la sospensione del giudizio in corso a carico di Iannuzzi
Raffaele   e   l'immediata   trasmissione   degli   atti  alla  Corte
costituzionale, sollevando conflitto di attribuzioni tra poteri dello
Stato e chiede che la Corte:
     dichiari  ammissibile  il  presente  conflitto,  adottando  ogni
conseguente  provvedimento  ai  sensi  degli  artt.  37  e ss., legge
n. 87/1953 ed ogni altra norma applicabile;
     dichiari   che  non  spettava  al  Senato  della  Repubblica  la
valutazione   della   condotta   addebitabile  al  senatore  Iannuzzi
Raffaele,  in  quanto  estranea  alla  previsione di cui all'art. 68,
primo comma, Cost.;
     annulli la relativa delibera del Senato della Repubblica in data
15 febbraio 2006 (delibera IV-ter n. 17/A).
   Manda alla cancelleria per quanto di competenza.
      Cosi' deciso in Milano, il mercoledi' 28 giugno 2006
                        Il giudice: Tutinelli

   L'ammissibilita'  del  presente  conflitto  e'  stata  decisa  con
ordinanza  n. 420/2006  e  pubblicata  nella  Gazzetta Ufficiale - 1ª
serie speciale, n. 50 del 20 dicembre 2006.