N. 406 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 luglio 2008

Ordinanza  Ordinanza  emessa il 22 luglio 2008 dal Collegio arbitrale
di  Napoli  nell'arbitrato  in corso tra Consorzio CPR 2 contro Curia
Arcivescovile di Napoli

Arbitrato  -  Controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche
  comprese  in  programmi  di  ricostruzione  di territori colpiti da
  calamita'  naturali  - Divieto di devoluzione a collegi arbitrali -
  Denunciata   violazione   dei   principi   di   uguaglianza   e  di
  ragionevolezza,  sotto  i  profili  dell'ingiustificata distinzione
  normativa  dei  c.d.  «arbitrati da calamita'», della disparita' di
  trattamento  rispetto  ai  giudizi  arbitrali  introdotti  con atto
  notificato  anteriormente  alla  data  di  entrata  in  vigore  del
  suddetto  divieto,  e  della discriminazione in danno delle imprese
  operanti  nei  luoghi colpiti da calamita' naturali - Contrasto con
  il  principio  di  unita'  dell'ordinamento  giuridico  -  Asserita
  lesione  del diritto di difesa e del principio del giudice naturale
  precostituito  per  legge  -  Incidenza  sul  principio di liberta'
  dell'iniziativa economica privata - Denunciata lesione dei principi
  di buon andamento e di imparzialita' della pubblica amministrazione
  -  Denunciata  violazione  degli  obblighi internazionali derivanti
  dalla   CEDU,   sotto  i  profili  dell'ingiustificata  limitazione
  dell'autonomia  contrattuale  e  dell'indebita  interferenza  dello
  Stato sui rapporti contrattuali di cui e' parte - Riproposizione di
  questione  gia'  oggetto  dell'ordinanza n. 29/2008 di restituzione
  atti per jus superveniens.
- Decreto-legge    11    giugno   1998,   n. 180,   convertito,   con
  modificazioni,  nella legge 3 agosto 1998, n. 267, art. 3, comma 2;
  decreto  legislativo  20  settembre  1999, n. 354, art. 8, comma 1,
  lett.  d);  decreto-legge  7  febbraio 2003, n. 15, convertito, con
  modificazioni,  nella  legge  8  aprile  2003, n. 62, art. 1, comma
  2-quater.
- Costituzione,  artt.  3,  5,  24,  25,  41,  42,  97,  117  e  120;
  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle
  liberta' fondamentali, artt. 1 e 6.
(GU n.53 del 24-12-2008 )
                        IL COLLEGIO ARBITRALE
   Costituitosi   il   25  maggio  2006,  in  virtu'  della  clausola
compromissoria  di  cui  all'art. 28 della Convenzione di concessione
rep.  n. 4  del 31 luglio 1981, riunito in conferenza personale nella
sede  del  Collegio  arbitrale  in  Napoli ha pronunziato la seguente
ordinanza  per  la  risoluzione  della  controversia  insorta  tra il
Consorzio  CPR2,  con  sede  in  Pozzuoli  (Napoli)  alla via Campana
n. 268,   in   persona   del   legale   rappresentante  pro  tempore,
rappresentato  a  difeso  dagli  avvocati  prof.  Vincenzo  Spagnuolo
Vigorita,  prof. Bruno Capponi e Domenico Di Falco, e presso il primo
elettivamente  domiciliato  in  Napoli alla via Posillipo n. 394 e la
Curia   Arcivescovile   di  Napoli,  con  sede  in  Napoli  al  largo
Donnaregina  n. 22,  in persona del legale rappresentante pro tempore
rappresentata  e  difesa  dagli avvocati prof. Aristide Police e Ivan
Del  Giudice, e presso il secondo elettivamente domiciliata in Napoli
alla via Scarlatti n. 211/e.
                              F a t t o
   1.  -  Con  atto  introduttivo di arbitrato, notificato alla Curia
Arcivescovile  di  Napoli  in  data  9 marzo 2006, il Consorzio CPR2,
dichiarava  che  con  convenzione  del  31  luglio  1981,  rep.  4  e
successivi  atti  aggiuntivi del 7 febbraio 1985, rep. n. 46 e del 15
gennaio  1986,  rep.  n. 82,  il  Sindaco  di  Napoli  -  Commissario
straordinario   di   Governo  -  aveva  affidato  in  concessione  la
realizzazione  dei  lavori  di  costruzione  di  alloggi  ed opere di
urbanizzazione  primaria  e secondaria del comparto 7 in San Pietro a
Patierno.
   Precisava  che, nell'ambito del rapporto concessorio, rientrava la
realizzazione  di un intervento per la realizzazione di una Chiesa in
via  Caloria,  in  ordine al quale, nel corso dell'esecuzione, veniva
redatta  perizia di variante che prorogava il termine di consegna dei
lavori   di  150  giorni;  termine  ulteriormente  prorogato  per  la
necessita' di ottenere i nullaosta per l'agibilita' e le fognature.
   Dopo  l'ultimazione  dei  lavori,  al Consorzio veniva affidata la
realizzazione di ulteriori lavorazioni.
   Nelle more dell'esecuzione dei lavori, l'opera (nello stato in cui
si  trovava)  veniva  trasferita,  con  ordinanza  del  27 marzo 1996
n. 12827,  alla  Curia  Arcivescovile Napoli, secondo quanto disposto
dal decreto ministeriale 4 novembre 1994 adottato in virtu' dell'art.
2,   legge  23  dicembre  1993  n. 559,  con  il  quale  erano  stati
individuati   dal  Ministero  del  bilancio  e  della  programmazione
economica gli enti ai quali trasferire le opere realizzate nel quadro
del programma straordinario di edilizia residenziale a Napoli, di cui
al titolo VIII della legge n. 219/1981.
   I   lavori,  in  attesa  del  perfezionamento  del  trasferimento,
venivano  interrotti fino all'aprile 1997 e ultimati nel luglio dello
stesso  anno.  Nel  gennaio  del  1998 l'opera veniva definitivamente
consegnata alla Curia.
   Con  il  citato  atto  introduttivo  d'arbitrato il Consorzio CPR2
chiedeva  alla  Curia Arcivescovile di Napoli, in ragione del mancato
collaudo  dell'opera,  i  maggiori  oneri  derivanti  dal servizio di
guardiania   ed   i   maggiori  oneri  derivanti  dalla  manutenzione
dell'opera.
   Con  lo  stesso  atto  il  Consorzio CPR2 nominava proprio arbitro
l'avv. Raffaele Ferola ed invitava la Curia Arcivescovile di Napoli a
procedere alla nomina del proprio arbitro.
   2.  -  La  Curia  Arcivescovile  di Napoli, con atto del 16 maggio
2006, nominava proprio arbitro il prof. avv. Mario Rosario Spasiano e
designava altresi' i propri difensori.
   Gli  arbitri,  con  verbale  del 25 maggio 2006, designavano terzo
arbitro,  con  funzioni  di  Presidente del Collegio, l'avv. Gherardo
Marone che accettava.
   Nella stessa data si costituiva il Collegio arbitrale, fissando la
propria  sede  in  Napoli alla via Cesario Console n. 3, nello studio
dell'avv.  Gherardo  Marone  e  veniva designato quale segretario del
Collegio l'avv. Francesco Marone.
   3. - Il Co1legio fissava i termini per lo svolgimento del giudizio
e,  rilevata  ex  officio  la  necessita'  di valutare, ai fini della
procedibilita'  dell'arbitrato,  l'applicabilita'  nella  fattispecie
dell'art.  1,  comma  2-quater, decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15,
convertito  dalla  legge  8  aprile  2003, n. 62, invitava le parti a
dedurre sul punto in occasione della costituzione in giudizio.
   Con  memoria  depositata  in  data  26 giugno 2006 la difesa della
parte  attrice  ha  eccepito  la  illegittimita' costituzionale della
norma  di  cui  all'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998
n. 180 convertito dalla legge 3 agosto 1998 n. 267, la cui vigenza e'
ribadita dall'espresso richiamo contenuto nell'art. 1, comma 2-quater
del  decreto-legge  7  febbraio  2003 n. 15, convertito dalla legge 8
aprile 2003 n. 62.
   Si  tratta  della  norma alla stregua della quale «Le controversie
relative  all'esecuzione  di opere pubbliche comprese in programmi di
ricostruzione  di territori colpiti da calamita' naturali non possono
essere devolute a Collegi arbitrali».
   Con  memoria di costituzione depositata in data 26 giugno 2006, la
difesa  della Curia, nel controdedurre alle eccezioni di controparte,
si rimetteva al Collegio in ordine alla valutazione preliminare della
questione di costituzionalita'.
   Il  Collegio,  sentite  le  parti  all'udienza del 17 luglio 2006,
sospendeva  il  giudizio  e rimetteva alla Corte costituzionale - con
ordinanza  in  data 11 novembre 2006, iscritta al n. 280 del registro
ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 17,  1ª  Serie speciale dell'anno 2007 - questione di legittimita'
costituzionale  dell'art.  3,  comma  2, decreto-legge 11 giugno 1998
n. 180 convertito dalla legge 3 agosto 1998 n. 267, dell'art. 8 lett.
d)  del  decreto  legislativo 20 settembre 1999 n. 354 e dell'art. 1,
comma 2-quarter, decreto-legge 7 febbraio 2003 n. 15 convertito dalla
legge  8 aprile 2003 n. 62, per contrasto con gli articoli 3, 24, 25,
41, 42, 97 e 117 della Costituzione.
   La   questione  e'  stata  esaminata  dalla  Corte  costituzionale
all'udienza pubblica dell'11 dicembre 2007, con relazione del giudice
Amirante   e  con  l'intervento  degli  avvocati  Vincenzo  Spagnuolo
Vigorita  e  Massimo  Luciani  per  il Consorzio CPR2 e dell'avvocato
dello  Stato  Marco  Corsini  per  il  Presidente  del  Consiglio dei
ministri.
   La Corte costituzionale, con ordinanza n. 29 del 21 febbraio 2008,
ha   disposto  la  restituzione  degli  atti  al  Collegio  arbitrale
remittente poiche' «successivamente alla proposizione delle questioni
ed  alla  discussione di esse in pubblica udienza, e' stata approvata
la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008),
la  quale  all'art.  3,  commi da 19 a 22 - ancorche' soltanto dal 1°
agosto  2008,  per effetto dell'art. 15 del decreto-legge 31 dicembre
2007, n. 248 (proroga di termini previsti da disposizioni legislative
e  disposizioni  urgenti  in  materia finanziaria) - ha introdotto il
divieto  del  giudizio arbitrale per tutte le controversie scaturenti
da  appalti  pubblici».  Di conseguenza «rispetto alle questioni come
proposte  e  come  discusse e' mutato il quadro normativo, sicche' e'
necessario che il remittente ne riesamini i termini».
   Il  Collegio  ha  comunicato alle parti l'ordinanza della Corte e,
ricevutane istanza di prosecuzione del giudizio, ha fissato la Camera
di consiglio del 2 aprile 2008 per l'audizione dei difensori ai quali
ha assegnato termine per il deposito di eventuali note.
   La difesa del Consorzio ha depositato ampie note illustrative.
   La  questione  di  costituzionalita' proposta deve, quindi, essere
riesaminata  sia  sotto  il  profilo  della  rilevanza  che della non
manifesta infondatezza.
                            D i r i t t o
   1.   -   Sulla   rilevanza   della   questione   di   legittimita'
costituzionale.
   Lo  ius  superveniens  che  impone  di riesaminare i termini della
questione e' costituito dalle disposizioni di cui ai commi da 19 a 22
dell'art.   3  della  legge  24  dicembre  2007,  n. 244,  che  hanno
introdotto  nell'ordinamento un generale divieto di inserire clausole
compromissorie  nei  contratti  pubblici  aventi  ad  oggetto lavori,
servizi o forniture.
   In  ordine  alla  rilevanza della questione e' sufficiente, pero',
notare  che  il comma 21 del citato art. 3 individua quale momento di
passaggio  alla nuova disciplina legislativa la data del 30 settembre
2007 facendo salvi, cosi', tutti i Collegi arbitrali costituiti prima
di quella data.
   Cio'  e'  sufficiente ad escludere l'applicazione di tale norma al
presente  giudizio  perche',  come  indicato in epigrafe, il Collegio
arbitrale  si  e'  costituito  il  25  marzo 2006 (e, quindi, in data
anteriore a quella di applicazione della nuova disciplina).
   Con  la  ulteriore  precisazione che, come specificato anche dalla
Corte  costituzionale  nell'ordinanza  29 del 2008, l'efficacia della
disciplina  di  cui all'art. 3, commi da 19 a 22, legg e n. 244/2007,
e'  stata sospesa fino al 1° luglio 2008 per effetto dell'art. 15 del
decreto-legge  31  dicembre  2007  n. 248  convertito  dalla legge 28
febbraio  2008  n. 31  «al  fine  di  consentire la devoluzione delle
competenze  alle  sezioni specializzate di cui all'art. 1 del decreto
legislativo  27  giugno  2003 n. 168», ed oggi ulteriormente sospesa,
dall'art.  8 del decreto-legge 30 giugno 2008 n. 113, «fino alla data
di  entrata in vigore delle disposizioni di legge di attuazione della
devoluzione delle competenze ivi previste».
   Anzi  l'ultimo rinvio disposto con il decreto-legge n. 113/2008 fa
ritenere  che quel divieto (di inserire clausole compromissorie) piu'
non  sussiste essendo prevista la sospensione sine die dell'efficacia
della norma che impone il divieto.
   Ed   e',   comunque,   questione   diversa   perche'  quest'ultima
disposizione   prevede   un   divieto   di   sottoscrivere   clausole
compromissorie mentre la norma rilevante nel presente giudizio, e che
ha  dato  luogo  alla questione di legittimita', attiene alla diversa
questione  del  divieto  di  risoluzione  delle controversie mediante
giudizio arbitrale nonostante il contratto abbia previsto la relativa
clausola compromissoria quando l'ordinamento ne facultava le parti.
   In  ordine  alla rilevanza la normativa sopravvenuta non introduce
elementi  atti  a  modificare  le valutazioni svolte nella precedente
ordinanza di rimessione.
   Il  decreto-legge  6 novembre 1998 n. 180 convertito dalla legge 3
agosto  1998  n. 267,  al  secondo  comma dell'art. 3 prevede che «le
controversie  relative  all'esecuzione di opere pubbliche comprese in
programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali
non possono essere devolute a collegi arbitrali».
   Successivamente e' intervenuto il decreto legislativo 20 settembre
1999,  n. 354  recante  disposizioni  sulla  definitiva  chiusura del
programma  di  ricostruzione  di  cui  al  titolo  VIII  della  legge
n. 219/1981.
   In particolare l'art. 8 del citato decreto legislativo n. 354/1999
non  lascia  adito  a dubbi circa l'applicabilita' della norma di cui
all'art.  3,  comma  2,  decreto-legge  n. 180/1998  anche alle opere
pubbliche  di  cui  al  titolo  VIII della legge n. 219/1981, laddove
dispone  che  il  commissario straordinario liquidatore ai fini della
transazione  considera  «I giudizi ordinari o arbitrali in corso o le
istanze  di  accesso  ad  arbitrato  notificate  prima  della data di
entrata in vigore del decreto-legge 11 giugno 1998 n. 180».
   Il  combinato  disposto  dell'art.  3,  comma 2, del decreto-legge
n. 180/1998  e  della  lett.  d)  dell'art. 8 del decreto legislativo
n. 354/1999  non  lascia  spazio  interpretativo e cioe' non puo' che
essere  letto  nel  senso  che  anche  le  controversie relative alla
esecuzione  di  opere  pubbliche  inerenti  gli  interventi di cui al
titolo VIlI della legge n. 219/1981, pur non direttamente collegati a
calamita naturali, non possono essere devolute a Collegi arbitrali.
   In  seguito  l'art.  7,  comma  1, lett. v), della legge 1° agosto
2002,  n. 166,  ha aggiunto il comma 4-bis all'art. 32 della legge 11
febbraio 1994, n. 109, alla stregua del quale «Sono abrogate tutte le
disposizioni  che,  in  contrasto  con  i precedenti commi, prevedono
limitazioni  ai mezzi di risoluzione delle controversie nella materia
dei lavori pubblici come definita dall'art. 2».
   Da   questa   disposizione,   contenente   una  generale  clausola
abrogativa  di tutte le norme di limitazione dei mezzi di risoluzione
delle controversie nella materia delle opere pubbliche, discenderebbe
l'abrogazione  tacita  anche  dell'art.  3,  comma  2,  decreto-legge
n. 180/1998, poiche' non e' revocabile in dubbio che essa indichi una
espressa  limitazione  dei mezzi di risoluzione delle controversie in
materia  di  lavori pubblici, escludendo la possibilita' di devolvere
ad arbitri le liti eventualmente nascenti dall'esecuzione di opere di
ricostruzione successive a calamita' naturali.
   Tuttavia,  il  decreto-legge  7  febbraio  2003, n. 15, convertito
dalla  legge  8 aprile 2003, n. 62, ha stabilito, con l'art. 1, comma
2-quater,  che  «alle controversie derivanti dall'esecuzione di opere
pubbliche  inerenti  programmi di ricostruzione dei territori colpiti
da   calamita'   naturali,  ivi  compresi  gli  interventi  derivanti
dall'applicazione  della  legge  14 maggio 1981, n. 219, e successive
modificazioni,  continua ad applicarsi il disposto di cui all'art. 3,
comma  2,  del  decreto-legge  11  giugno 1998 n. 180 convertito, con
modificazioni, dalla legge 3 agosto 1998, n. 267».
   Di  conseguenza,  tralasciando i problemi inerenti la reviviscenza
degli  atti  normativi, che non assumono rilievo ai fini del presente
giudizio   in   quanto   introdotto  dopo  l'entrata  in  vigore  del
decreto-legge  n. 15/2003, deve concludersi che la norma che vieta di
devolvere  ad  arbitri  le  controversie  di cui al titolo VIII della
legge n. 219/1981 e ancora vigente nell'ordinamento.
   Vi  e', dunque, un insuperabile impedimento (anche interpretativo)
a  che il Collegio addivenga alla decisione della controversia di cui
all'atto  di  accesso  notificato il 9 marzo 2006 dal Consorzio CPR2;
questa, infatti, rientra tra quelle aventi titolo ex lege n. 219/1981
ed  e', pertanto, evidente che la normativa della cui legittimita' si
dubita  debba  trovare  applicazione  nel  giudizio devoluto a questo
Collegio  arbitrale,  risultando  impeditiva  della  pronuncia  sulle
richieste avanzate nell'atto di accesso.
   Ne'  la  norma  sopravvenuta  puo'  valere  a  superare i dubbi di
costituzionalita'  della  norma oggi all'esame del Collegio arbitrale
perche'  deve considerarsi irrilevante in questo giudizio sia ratione
temporis  sia  perche' riguarda questione diversa rispetto alla norma
della cui costituzionalita' in questa ordinanza si dubita.
   La norma sopravvenuta riguarda, infatti, il divieto di inserimento
di  clausola  compromissoria nei contratti con la p.a. e l'obbligo di
declinatoria  in relazione ai contratti stipulati contenenti clausola
compromissoria  declinabile.  La  norma  che qui si esamina riguarda,
invece,   la   diversa   questione  del  divieto  di  procedere  alla
costituzione   del   Collegio  arbitrale  nonostante  l'esistenza  in
contratto   di  una  clausola  compromissoria  non  declinabile  che,
all'epoca  della  sottoscrizione  del contratto stesso, poteva essere
pacificamente inserita.
   Cosicche'  anche  qualora  dovesse cessare 1a sospensione disposta
sine  die  dall'art.  8  del  decreto-legge  30  giugno  2008  n. 113
rimarrebbero   procedibili   in   arbitrato,   in  via  generale,  le
controversie  relative  a  contratti  di appalto di oo.pp. contenenti
clausole non declinabili, con la sola eccezione di quelle relative ad
appalti originati da calamita' naturali.
   Permane,  dunque,  anche alla luce della normativa sopravvenuta il
trattamento   differenziato   che   ha  dato  luogo  al  sospetto  di
incostituzionalita', che di seguito si ripropone.
   2.   -   Sulla  non  manifesta  infondatezza  della  questione  di
legittimita' costituzionale.
   Anche   nell'esaminare   la   sussistenza   della   condizione  di
ammissibilita'  della  non  manifesta infondatezza della questione e'
necessario   rivalutarne   i   termini   alla  luce  della  normativa
sopravvenuta, come indicato dalla Corte costituzionale nell'ordinanza
che restituisce gli atti.
   Il   generale   divieto   di  arbitrato,  introdotto  dalla  legge
n. 244/2007, vale a modificare in parte i termini della questione, ma
non  a negare i dubbi di legittimita' costituzionale della disciplina
normativa  che  impedisce  di  pronunciarsi  con lodo sulle richieste
avanzate nell'atto di accesso.
   E'  necessario,  quindi,  esplicitare  le  ragioni per le quali si
ritiene  ancora  sussistente  la  non  manifesta  infondatezza  della
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 2-quater,
del  decreto-legge  7  febbraio 2003, n. 15, convertito dalla legge 8
aprile 2003, n. 62, dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno
1998,  n. 180,  convertito  dalla  legge  3  agosto  1998,  n. 267  e
dell'art.  8,  lett.  d),  del decreto legislativo 20 settembre 1999,
n. 354, per violazione degli articoli 3, 5, 24, 25, 41, 42, 97, 117 e
120 della Costituzione.
   2.1.    -    Contrasto    con   l'art.   3   della   Costituzione.
Irragionevolezza.
   E' noto al Collegio che la Corte costituzionale ha gia' affrontato
la   questione,   risolvendola   nel  senso  della  infondatezza  dei
denunciati  vizi  di  legittimita' costituzionale, con la sentenza 28
novembre  2001  n. 376  e con le ordinanze 13 gennaio 2003 n. 11 e 26
marzo 2003 n. 122.
   Con  particolare  riferimento  alla assenta violazione dell'art. 3
della  Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, la Corte,
dopo  aver  ribadito che la discrezionalita' del legislatore incontra
il  solo  limite  della  manifesta irragionevolezza, ha precisato che
nella   fattispecie   quel   limite  non  poteva  ritenersi  superato
«considerato  il rilevante interesse pubblico di cui risulta permeata
la materia relativa alle opere di ricostruzione dei territori colpiti
da  calamita'  naturali,  anche  in ragione dell'elevato valore delle
relative  controversie  e  della conseguente entita' dei costi che il
ricorso  ad  arbitrato comporterebbe per le pubbliche amministrazioni
interessate» (Corte costituzionale, 28 novembre 2001, n. 376).
   Si  tratta  di  affermazioni  certamente condivisibili, ma che non
spiegano in che modo l'esclusione della compromettibilita' in arbitri
delle controversie eventualmente nascenti dai contratti stipulati per
la   ricostruzione  possa  connettersi  alla  presenza  di  interessi
pubblici  sottesi  alla  realizzazione  di  opere  successive  ad una
calamita' naturale.
   La  Corte  costituzionale non ha potuto affrontare con completezza
la  questione  perche',  naturalmente,  ha  dovuto  limitarsi  ad uno
scrutinio  interno  al  thema decidendum definito con le ordinanze di
rimessione,  che  invero non sembrano aver colto pienamente la misura
del vizio di ragionevolezza che affligge la norma denunciata.
   Il  punto  nodale  della questione appare essere l'esistenza di un
legame  tra  l'esigenza  posta  alla  base  della  determinazione  di
procedere   all'appalto   di   un'opera   pubblica  e  la  disciplina
dell'arbitrato,  ovvero, piu' chiaramente, se la ragione contingente,
sottesa  alla  decisione  di  realizzare un'opera, possa giustificare
un'eccezione  alla regola generale della possibilita' di devolvere ad
arbitri eventuali controversie derivanti da un contratto di appalto.
   Sembra, invero, che la liberta' delle parti di deferire ad arbitri
eventuali controversie non possa essere in alcun modo condizionata da
ragioni  congiunturali  (calamita' naturale) che abbiano portato alla
decisione  dell'amministrazione  di  realizzare  l'opera pubblica. La
compatibilita'   della   norma   denunciata   con   il  principio  di
ragionevolezza   va,   quindi,  verificata  in  termini  parzialmente
diversi.
   E  la  norma  impugnata,  esaminata  sotto diverso angolo visuale,
risulta viziata da irragionevolezza, poiche' individua una disciplina
speciale  per  una  determinata categoria di ipotesi che pero', a ben
vedere,  non  si  differenzia  dalle  altre  sotto  il  profilo della
compatibilita'   con   la  ratio  sottesa  alla  disciplina  generale
dell'arbitrato.
   Piu'  precisamente  si  individua una sottocategoria di arbitrati,
caratterizzati  dal  fatto di riguardare contratti pubblici aventi ad
oggetto   la  realizzazione  di  opere  pubbliche  originate  da  una
calamita' naturale.
   Dunque  l'elemento  di discrimine, all'interno della materia opere
pubbliche, tra le controversie che possono essere devolute ad arbitri
e   quelle  che,  invece,  vi  sono  sottratte  e'  costituito  dalla
circostanza che il contratto, all'interno del quale si e' inserita la
clausola  compromissoria,  sia  stato  originato  dalla necessita' di
appaltare  lavori  pubblici  a  seguito  di  un  evento calamitoso o,
viceversa,  da  qualsiasi  altra  esigenza  ritenuta meritevole dalla
p.a. in  quanto  comunque rispondente ad un pubblico interesse. Ma la
ragione per la quale un'amministrazione decide di realizzare un'opera
pubblica  e' assolutamente irrilevante, considerato che la disciplina
non  differisce in termini di modalita' di affidamento, di esecuzione
dei  lavori  e  di  determinazione  del  contenuto delle obbligazioni
contrattuali da cui possono sorgere controversie.
   Peraltro  la  circostanza  che  le  opere  siano  collegate ad una
calamita'  naturale  neanche  influisce  sulla  tutela  del  pubblico
interesse stante l'autonomia, persino l'indipendenza, di quest'ultimo
rispetto  alla  causa  che  ha  originato  la decisione di realizzare
l'opera stessa.
   Qualsiasi  eventuale  ritardo,  sospensione  dei  lavori, riserve,
penali  che  potranno dar luogo ad un contenzioso tra l'appaltatore e
l'amministrazione, nulla avra' a che vedere rispetto alla congiuntura
in  cui  si inquadra l'opera realizzanda, ne' alla finalita' con essa
perseguita.
   La distinzione e' manifestamente irragionevole, poiche' disciplina
in  modo  diseguale  fattispecie  del tutto analoghe, ne', ai fini in
questione,  sembrano  in  qualche  modo  rilevare il valore economico
delle   controversie  ed  il  costo  di  funzionamento  del  Collegio
arbitrale. E' evidente, da un lato, che il costo di un'opera pubblica
e'  assolutamente  slegato dalla ragione per la quale si e' deciso di
realizzare   quell'opera   (la  messa  in  sicurezza  di  una  strada
danneggiata   da  un'alluvione  costa  certamente  molto  meno  della
realizzazione  di  molte  altre rilevanti opere che nulla hanno a che
vedere  con  eventi calamitosi). Sussistono opere pubbliche di valore
economico   ingentissimo  che  prescindono  dal  prodursi  di  eventi
calamitosi  e  che  non  per  questo  sono  sottratte  all'accesso  a
procedure  arbitrali,  con  ricorso  all'applicazione  delle  tariffe
professionali,  anch'esse in nulla condizionate dalla circostanza che
la  controversia  da  risolvere  riguardi  opere connesse a calamita'
naturali  piuttosto  che  a  qualunque  altra  ragione  di  interesse
pubblico.
   Ma vi e' di piu': il Legislatore, nella sua opera di bilanciamento
dei   valori   che  venivano  in  rilievo,  sembra  non  aver  tenuto
assolutamente  conto  dei  vantaggi, anche economici, derivanti dalla
devoluzione  ad  arbitri  delle  controversie.  E'  vero che le parti
devono far fronte alle spese di funzionamento del Collegio arbitrale,
ma  e'  altrettanto vero che il codice di procedura civile assegna un
termine  perentorio  di  240  giorni  agli  arbitri  per  definire la
controversia,  il  che  vuol dire che una lite devoluta ad arbitri si
chiude  necessariamente  in  un  tempo  brevissimo,  restando comune,
quanto ai tempi, la fase della impugnativa in secondo grado.
   Di  contro  il  tempo  medio  di  risoluzione  di una controversia
civile,  mediante  la giustizia ordinaria, e' di circa dieci anni. Ed
il  fatto  che  vi  sia  una cosi' evidente sproporzione nei tempi di
definizione  della  controversia non puo' che avere anche riflessi di
natura economica per la pubblica amministrazione, non fosse altro per
gli  interessi  e la rivalutazione monetaria che maturano nel caso di
soccombenza  e  che  il  piu'  delle volte conducono ad un incremento
notevolissimo  della  spesa  rispetto  alla sorta capitale dovuta. Il
maggior  costo  delle  procedure  arbitrali  rispetto al ricorso alla
giustizia  ordinaria  va  valutato  dunque  non  in astratto, ma deve
costituire  il  frutto di una piu' ampia e complessiva valutazione di
ordine  economico,  considerando  peraltro, nella stessa prospettiva,
che  l'eccessiva  durata  del processo civile, come noto, costituisce
talora di per se' causa di fallimento per le imprese, impossibilitate
a  reggere  l'elevatissimo  costo derivante dall'esposizione bancaria
alla  quale  le  stesse  sono costrette a ricorrere anche a causa dei
lunghissimi   tempi   d'attesa   necessari   alle  definizione  delle
controversie.  Anche  questo  dato,  profondamente  negativo sotto il
profilo  socio-economico,  costituisce un elemento di valutazione che
oggettivamente induce a riconsiderare l'astratta pretesa di eccessiva
onerosita' delle procedure arbitrali.
   Ma  l'irragionevolezza  della norma che si assume viziata e' ancor
piu'  evidente  se organicamente letta nel quadro delle norme dettate
dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.
   La  lettera  d)  del  comma  34  dell'art.  253 del citato decreto
legislativo  stabilisce: «Sono abrogate tutte le disposizioni che, in
contrasto   con   la   disciplina   del  presente  codice,  prevedono
limitazioni  ai mezzi di risoluzione delle controversie nella materia
dei  contratti  pubblici  e  relativi a lavori, servizi e forniture o
contemplano  arbitrati obbligatori. E' salvo il disposto dell'art. 3,
comma  2,  del  decreto-legge 11 giugno 1998 n. 180, convertito dalla
legge 8 agosto 1998 n. 267 e dell'art. 1, comma 2-quater, del decreto
legge  7  febbraio  2003  n. 15, convertito dalla legge 8 aprile 2003
n. 62».
   E  il  comma  1 dell'art. 241 prevede: «Le controversie su diritti
soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi
a  lavori,  servizi,  forniture, concorsi di progettazione e di idee,
comprese  quelle  conseguenti  al mancato raggiungimento dell'accordo
bonario previsto dall'art. 240, possono essere deferite ad arbitri».
   Si  tratta di disposizioni irrilevanti in questo giudizio, poiche'
inapplicabili  ex art. 253, comma 1, decreto legislativo n. 163/2006,
come   sostituito   dall'art.   1-octies   decreto-legge  n. 173/2006
convertito  dalla  legge  n. 228/2006, ma che tuttavia sono utili per
comprendere appieno la irragionevolezza della distinzione operata dal
legislatore.
   E'  evidente  che  le  citate norme del nuovo codice dei contratti
pubblici  fanno  applicazione  di  un  principio  generale di massima
liberta'  di  scelta  dei  mezzi  di  risoluzione  delle controversie
inerenti  l'esecuzione  dei  contratti  pubblici. Ed in questo quadro
risulta  assolutamente  ingiustificata la sottrazione a questa regola
generale delle sole controversie inerenti le opere pubbliche connesse
a calamita' naturali.
   Va  rilevato  che,  pur non essendo le citate norme del codice dei
contratti  pubblici  rilevanti  in  questo  giudizio,  codesta  Corte
costituzionale,  qualora  accogliesse  la  questione  di legittimita'
costituzionale  sollevata  dovrebbe  dichiarare  incostituzionale  in
parte  qua,  in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953,
l'art.   253,   comma  34,  lett.  d),  seconda  parte,  del  decreto
legislativo n.163/2006.
   2.1.1. - Segue: contrasto con l'art. 3 della Costituzione sotto il
profilo  della  ragionevolezza.  Contrasto  con  gli articoli 5 e 120
della  Costituzione.  Violazione  del  principio  di unita' giuridica
dell'ordinamento.
   Sotto  ulteriore  profilo,  va  rilevato che le norme denunciate -
attribuendo    un   regime   normativo   differenziato   ad   appalti
oggettivamente   e   soggettivamente   identici   -   ne  individuano
l'illegittima   ratio   nella   genesi  remota  della  necessita'  di
provvedere (all'esecuzione dell'opera), facendo cosi' coincidere tale
causa remota con un criterio di localizzazione territoriale.
   In  tal modo si determina una discriminazione di tipo territoriale
non  solo  rispetto  al  piu'  ampio  ambito  comunitario  -  ove  e'
consentito  che  la  disciplina degli appalti si differenzi da quella
generale   solo   per  particolari  oggetti  o  determinati  soggetti
aggiudicatori,  senza  alcun  «privilegio»  di tipo territoriale - ma
anche  nel  piu'  ristretto  territorio nazionale, laddove le imprese
operanti  nei  luoghi colpiti da calamita' naturali, anche per lavori
connessi  a  finalita'  di  sviluppo e non certo di ricostruzione (si
pensi  all'ampliamento  dell'originario titolo VIII legge n. 219/1981
con  le  previsioni  di  cui  agli  articoli  5-bis  e  5-ter,  legge
n. 456/1981,  che  concernono  grandi  infrastrutture),  si trovano a
subire  un  trattamento  ingiustificatamente differenziato rispetto a
quelle  operanti  in  altri  distretti  del  Paese, per di piu' in un
sistema che considera giudice naturale della esecuzione degli appalti
il giudice onorario.
   Quest'ultima  affermazione  sembrerebbe  smentita  dall'entrata in
vigore  delle  norme  della  finanziaria 2008 che hanno introdotto il
generale  divieto  di arbitrato. Ma in realta' lo stesso legislatore,
evidentemente  consapevole  della  necessita'  di  mantenere  un alto
livello  di  specializzazione  del giudice chiamato a conoscere della
esecuzione degli appalti, ha sospeso l'efficacia di quelle norme (con
il  piu'  volte  citato art. 15 del decreto-legge n. 348/2007 e, poi,
con l'art. 8 del decreto-legge n. 113/2008) «al fine di consentire la
devoluzione  delle  competenze  alle  sezioni  specializzate  di  cui
all'art. 1  del  decreto  legislativo  27 giugno 2003 n. 168». Si e',
dunque,  in  presenza non gia' della semplice abrogazione delle norme
che  disciplinano  la  compromissione  in arbitri delle liti inerenti
l'esecuzione   dei  contratti  pubblici  e  del  conseguente,  pieno,
dispiegarsi  del  principio  del  giudice  naturale precostituito per
legge,  ovvero dell'applicazione dei normali criteri della competenza
per  territorio,  ma  del  passaggio  dal  giudice onorario a sezioni
specializzate del giudice ordinario.
   Tuttavia, non puo' negarsi che la normativa sopravvenuta modifichi
in parte i termini della questione, quantomeno sotto il profilo della
ragionevolezza delle scelte legislative.
   Si   affrontera'   in   prosieguo  la  questione  della  eventuale
illegittimita' del generale divieto di arbitrato ma, sotto il profilo
della ragionevolezza delle norme oggetto della presente questione, lo
ius  superveniens,  lungi  dal fugare i dubbi di legittimita' sembra,
invece,  confermarli,  poiche' altro e' escludere in termini generali
la  possibilita'  di introdurre clausole compromissorie nei contratti
pubblici altro e' sottrarre a quella possibilita' soltanto una classe
di  ipotesi  per  le  quali,  come  detto,  non  sembrano rinvenibili
differenze   tali   da   giustificare   un   trattamento  legislativo
differenziato.
   2.2. - Contrasto con gli art. 24, 41 e 42 della Costituzione.
   La  norma  oggetto  della questione di legittimita' costituzionale
che  si  solleva in questa sede risulta essere in contrasto anche con
il  principio della liberta' dell'iniziativa economica privata di cui
agli articoli 41 e 42 della Costituzione, limitando irragionevolmente
l'autonomia privata.
   E'  vero che la liberta' di iniziativa economica non e' un diritto
assoluto,   ma   puo'   e  deve  essere  condizionata  per  orientare
finalisticamente  l'intrapresa  economica all'utilita' sociale, ma le
limitazioni  debbono essere, oltre che ragionevoli, collegabili ad un
pubblico interesse prevalente.
   Piu'  chiaramente,  l'autonomia privata e' libera fintantoche' non
vi  sia  una  finalita'  sociale  il  cui  perseguimento  richieda di
limitarla.
   La  regola  generale  e'  dunque  quella  della  massima  ampiezza
dell'autonomia   privata,   e   le   limitazioni   ne   rappresentano
l'eccezione.
   Con  specifico  riferimento  alla  questione che qui interessa, la
regola  generale e' dunque quella della possibilita' di derogare alla
giurisdizione  comune  per  affidarsi  ad  arbitri privati. Non vi e'
dubbio che anche questa regola possa subire eccezioni, ma esse devono
essere  connesse  ad  un interesse pubblico che nella fattispecie non
appare  riscontrabile,  di  tal  che'  la  limitazione dell'autonomia
privata appare nella specie arbitraria.
   E  la  questione  non  sembra  doversi  leggere  nell'ottica della
legittima  distinzione  di  situazioni identiche ratione temporis. Il
problema  non  e' se il legislatore possa o meno disciplinare in modo
diverso  una  situazione  in  diversi  momenti  storici, individuando
quindi,  inevitabilmente,  una  differenziazione  di  disciplina  per
rapporti  giuridici identici a seconda del momento in cui questi sono
sorti;  si  tratta  evidentemente delle normali regole di successione
delle norme nel tempo, informate al principio del tempus regit actum.
   Nella  fattispecie  non si tratta del semplice avvicendarsi di due
discipline  legislative,  ma  della  sottrazione alla regola generale
secondo cui e' possibile deferire ad arbitri le controversie nascenti
dai  contratti  pubblici  relativi a lavori, di una classe di ipotesi
che  nulla  hanno di diverso rispetto alle altre e che rappresentano,
quindi,  una  arbitraria ed irragionevole compressione dell'autonomia
privata.
   E  cio'  sia  detto  non  senza considerare che l'utilita' sociale
idonea a costituire limite all'autonomia privata deve necessariamente
consistere  (non in un interesse contingente dello Stato-apparato ma)
in  un beneficio di ordine generale della collettivita': vi e' dunque
un'antinomia  di  fondo  nel  considerare  utilita'  sociale cio' che
determina sperequazioni di tipo soggettivo e territoriale.
   Osservate  dal  punto  di  vista  della limitazione dell'autonomia
privata   sembrano   parimenti   censurabili  le  norme  della  legge
finanziaria 2008 che hanno previsto in termini generali il divieto di
compromissione in arbitri per i contratti pubblici.
   All'art.  24  della  Costituzione  vanno  ricondotte  le  facolta'
inerenti l'esercizio del diritto di difesa, tra le quali la scelta di
agire  in  giudizio;  all'art.  41 e' legata la tutela dell'autonomia
contrattuale.    E    l'arbitrato   e'   giudizio   privato,   frutto
dell'esercizio dell'autonomia contrattuale.
   Dal  combinato  disposto degli articoli 24 e 41 Cost. si ricava la
tutela  della giustizia arbitrale, frutto dell'autonomia contrattuale
delle  parti,  dall'incontro  delle  cui volonta' deriva la scelta di
attivare  il reciproco diritto di agire in giudizio, anziche' dinanzi
al giudice ordinario, dinanzi a quello onorario.
   Codesta  Corte costituzionale, con la sentenza n. 127 del 1977, ha
dichiarato   la   illegittimita'   costituzionale   delle  norme  che
prevedevano  la  obbligatorieta' dell'arbitrato, proprio perche' l'ha
considerata  una impropria limitazione dell'autonomia privata, ovvero
perche'  la  scelta  di sottoscrivere la clausola compromissoria deve
essere  frutto  dell'autonomia  contrattuale  delle  parti e non puo'
essere un obbligo legislativo.
   Ragionando  a  contrario  le  medesime  considerazioni  valgono  a
fondare  la  illegittimita'  delle  disposizioni dei commi da 19 a 22
dell'art.  3  della legge n. 244/2007, poiche' se l'istituto non puo'
essere obbligatorio perche' espressione dell'autonomia privata (Corte
costituzionale  sentenza  n. 127/1977),  esso  per  specularita'  non
potra' essere escluso nella sua interezza dal nostro ordinamento.
   Piu'  precisamente,  se si afferma (giustamente) che nella materia
dei  lavori  pubblici  l'arbitrato  e' esplicazione piena e manifesta
dell'autonomia  privata  dei  contraenti  -  cioe'  sia  del soggetto
privato   come   della   pubblica  amministrazione  che  agisce  iure
privaiorum  -  si deve convenire logicamente che esso non puo' essere
espulso da tale sfera con il divieto assoluto.
   Non   si  puo'  sfuggire  all'equazione:  l'arbitrato  per  lavori
pubblici  imposto  con decisione autoritativa e' incostituzionale; ma
se  negato  in  assoluto  incorre  ovviamente nella stessa censura di
illegittimita' costituzionale.
   2.2.1.  -  Segue.  Violazione  dell'art.  117,  primo comma, della
Costituzione  per  contrasto  con  gli  articoli 1e 6 della C.E.D.U.,
cosi'  come interpretati dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell'uomo.
   La   Convenzione  europea  dei  diritti  dell'uomo  non  contempla
disposizioni   specificamente  dedicate  alla  tutela  dell'autonomia
privata,  ma  la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha ancorato
quella  tutela  agli  articoli  1  e  6 della C.E.D.U., disciplinanti
rispettivamente  il  diritto  di  proprieta'  ed  il  diritto  ad  un
tribunale.  E  codesta Corte costituzionale ha recentemente chiarito,
con  le  sentenze  nn.  348 e 349 del 2007, che le disposizioni della
C.E.D.U.,   nell'interpretazione   che   di  esse  e'  fornita  dalla
giurisprudenza    della   Corte   europea   dei   diritti   dell'uomo
costituiscono  parametro  di legittimita' costituzionale, in rapporto
all'art. 117, primo comma della Costituzione.
   Dunque  se  il  divieto  di  improprie  limitazioni dell'autonomia
privata   e'  rinvenibile  tra  i  principi  della  C.E.D.U.,  questo
costituisce   norma   interposta   che   comporta  la  illegittimita'
costituzionale  delle  leggi  con  esso  contrastanti  per  indiretta
violazione del primo comma dell'art. 117 della Costituzione.
   E la giurisprudenza di Strasburgo seppure non rinvenendo nel testo
della  C.E.D.U.  una  tutela  diretta  della  liberta'  di iniziativa
economica  privata  e, quindi, dell'autonomia contrattuale, ha fatto,
comunque,  discendere  l'obbligo  per  gli  Stati  contraenti  di non
introdurre  limitazioni  all'autonomia  contrattuale  se  non laddove
queste  siano  strettamente  connesse  alla  tutela  di  un interesse
generale  (si  vedano,  in  particolare,  le  decisioni Tre Traktorer
Aktiebolag c/Svezia e Buffalo S.r.l. c/ Italia).
   E,  nella  specie, non pare potersi negare che il generico divieto
di  sottoscrivere  clausole  compromissorie  nei  contratti  inerenti
lavori, servizi e forniture non risponde a nessun interesse generale,
ma  sembra  soltanto  un  improprio rimedio ad un aspetto patologico,
peraltro tutto da dimostrare, degli arbitrati.
   Non  e',  invece, comprensibile quale sia nella specie l'interesse
pubblico  per il cui perseguimento e' necessario limitare l'autonomia
contrattuale  impedendo  di devolvere le controversie sull'esecuzione
di  un contratto pubblico al giudice onorario. D'altra parte, come si
e' gia' detto, lo stesso legislatore, evidentemente consapevole della
necessita' di un giudice specializzato per l'esecuzione dei contratti
pubblici,  da  un lato ha introdotto il generale divieto di arbitrato
(legge  n. 244/2007)  e, dall'altro, ha sospeso l'efficacia di quelle
norme    limitative    dell'autonomia   contrattuale   (decreto-legge
n. 348/2007  e  decreto-legge n. 113/08) in attesa della creazione di
sezioni specializzate del giudice ordinario, cosi' smentendo la ratio
della  norma  di  divieto che sembrava quella di devolvere ai normali
criteri  di  individuazione  del  giudice  naturale  le  controversie
inerenti l'esecuzione dei contratti pubblici.
   Con  riferimento  ai  vizi  denunciati  ai punti 2.2. e 2.2.1. sia
consentito   osservare   che   parrebbe   ricorrere  una  ipotesi  di
illegittimita'  costituzionale  consequenziale, ai sensi dell'art. 27
della  legge  n. 87  del 1953, dei commi da 19 a 22 dell'art. 3 della
legge n. 244/2007.
   2.3.  -  Ulteriore  contrasto  con  gli articoli 41 e 42 e con gli
articoli 3, 24, 25 e 97 della Costituzione.
   Il   Collegio   rileva   un  ulteriore  motivo  di  illegittimita'
costituzionale  dell'art.  3,  comma 2, decreto-legge 11 giugno 1998,
n. 180,  nella  parte in cui esclude dall'applicazione della norma di
cui al primo periodo soltanto «Le controversie per le quali sia stata
gia'  notificata  la  domanda  di  arbitrato  alla data di entrata in
vigore  del presente decreto» e non tutte quelle relative a contratti
gia' stipulati, contenenti clausola compromissoria.
   Una tale previsione, determinando la nullita' retroattiva di tutte
le clausole compromissorie precedentemente stipulate, viola l'art. 41
della Costituzione in combinato disposto con gli articoli 24 e 25.
   Una tale conclusione discende dalle seguenti considerazioni.
   Per   consolidato   orientamento   della   Corte   costituzionale,
sopratutto   in   ordine  al  divieto  di  istituzione  di  arbitrati
obbligatori,  il  fenomeno  arbitrale trova il proprio riconoscimento
costituzionale  nell'art.  41,  trattandosi di una delle modalita' di
manifestazione  dell'autonomia  privata.  Allo  stesso  tempo  non e'
dubbio  che, attraverso il giudizio arbitrale, le parti esercitano il
loro diritto di azione, costituzionalmente tutelato ex art. 24, tanto
che - come chiarito dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza
n. 376/2001  -  il giudizio degli arbitri e' potenzialmente fungibile
con  quello  degli  organi  della giurisdizione. L'affermazione della
Corte  costituzionale  risulta  oggi confermata dalla recente novella
del  codice  di  procedura civile che ha rivisto le norme riguardanti
l'arbitrato (decreto legislativo 2 febbraio 2006 n. 40).
   Da  un  lato  e' stato introdotto l'art. 824-bis che ha stabilito,
con riferimento all'efficacia del lodo arbitrale, che esso dalla data
della  sua  ultima  sottoscrizione  ha  «gli  effetti  della sentenza
pronunciata  dall'autorita'  giudiziaria»;  dall'altro il nuovo testo
dell'art. 829 del codice di procedura civile sembra avere ampliato le
ipotesi di impugnazione del lodo.
   Ne  risulta  che  alla fattispecie arbitrale non e' meccanicamente
applicabile   la   giurisprudenza   costituzionale   in  ordine  alla
possibilita',   riconosciuta  al  legislatore,  di  disciplinare  con
effetti  retroattivi  i  rapporti  contrattuali  pendenti, risultando
coinvolte,  nel  caso dell'arbitrato, le forme attraverso le quali e'
possibile  ottenere  la tutela della propria situazione soggettiva ed
il  «giudice»  chiamato  a  riconoscere  una  tale  tutela.  In altri
termini,  al  momento  della sottoscrizione del compromesso, le parti
(salvi  i  casi di incompromettibilita') hanno acquisito un diritto a
che  la  definizione  della  lite  avvenga  nelle  forme del giudizio
arbitrale,  precostituendosi cosi' l'organo destinato a definire ogni
controversia  che  eventualmente  dovesse  insorgere tra le parti. La
clausola  compromissoria,  infatti,  assume  una  rilevanza specifica
nell'economia  dei  rapporti  tra  le parti non potendosi in astratto
escludere  che  in  sua  assenza  le stesse sarebbero addivenute alle
medesime pattuizioni contrattuali.
   Risulta   cosi'   chiaro   come  del  tutto  irragionevolmente  il
legislatore   abbia  ritenuto  di  fare  salvi  solo  i  procedimenti
arbitrali   nei  quali  era  gia'  stata  notificata  la  domanda  di
arbitrato,  e non quelli per i quali vi fosse stata la sottoscrizione
della  clausola  compromissoria, attraverso la quale le parti avevano
gia'  concordato  di  devolvere  ad  un  collegio arbitrale (sia pure
concretamente  da  identificare) - e non ad un organo giurisdizionale
statale  - la decisione di future controversie eventualmente nascenti
tra loro.
   La  scelta  di  considerare  la  notificazione  della  domanda  di
arbitrato come elemento di riferimento in base al quale individuare i
procedimenti  arbitrali  destinati  a  proseguire non tiene conto, in
particolare,  del  fatto  che  nell'ambito  del giudizio arbitrale la
volonta'  delle  parti di attribuire la cognizione sulla lite in atto
(o  potenzialmente  in  atto)  ad  un  organo privato si manifesta al
momento  del  compromesso,  dovendosi  riconoscere alla notificazione
della   domanda  arbitrale  il  diverso  e  piu'  limitato  ruolo  di
rappresentare   il  momento  di  produzione  dei  principali  effetti
sostanziali e processuali della domanda giudiziale.
   Ne'  e'  possibile  giustificare  l'operato  del  legislatore, che
incide  irragionevolmente  sulla volonta' delle parti di scegliere le
forme   di  tutela  del  proprio  diritto  con  effetti  retroattivi,
richiamando  l'istituto  della  perpetuatio iurisdictionis, nel senso
che  puntualmente sarebbe stato rispettato dalla legge nella parte in
cui   esclude   dal   divieto  di  devoluzione  in  arbitri  le  sole
controversie  per  le  quali  sia gia' stata notificata la domanda di
arbitrato.
   Ed  infatti,  l'istituto della perpetuatio costituisce espressione
di  un  principio  di  diritto  intertemporale, in forza del quale la
validita'   ed   efficacia   degli  atti  del  processo  deve  essere
considerata alla stregua della legge vigente al momento in cui l'atto
e'  stato compiuto. Ne consegue che, una volta che sia legittimamente
espressa  la  volonta'  delle  parti  di  affidare la decisione ad un
giudice  privato,  sulla  base  della  legge vigente al momento della
formazione   dell'atto,   non   appare   consentita   una  successiva
sottrazione  di  «competenza» all'organo arbitrale, e cio' proprio in
applicazione dello stesso canone della perpetuatio.
   A  cio'  si  aggiunga  come  al  momento  della proposizione della
domanda  arbitrale  «il  giudice» chiamato a decidere la controversia
non  si  sia  ancora  costituito, potendosi concretamente riconoscere
investito  della  questione  solo  al momento della sua accettazione.
Questa  non irrilevante differenza tra giustizia statale (nella quale
vi  e'  un  giudice  che  e' costituito preventivamente all'insorgere
della   lite,  e  al  quale  le  parti  si  rivolgono  attraverso  la
proposizione  della  domanda) e giustizia privata (caratterizzata dal
fatto  che  solo  dopo  la  notificazione  della  domanda  si compone
concretamente   l'organo   decidente),   lungi  dall'attribuire  alla
notificazione  della  domanda il significato di momento a partire dal
quale  si  consolida  la  giurisdizione  arbitrale,  deve  condurre a
riconoscere  come  all'atto  della  stipula  del  compromesso o della
clausola  compromissoria  si  sia  realizzata  la precostituzione del
giudice.
   In  questo  momento, infatti, nasce il diritto delle parti a veder
decisa la lite dagli arbitri, si precostituisce il loro affidamento a
che  la  tutela  processuale  delle  loro  situazioni  soggettive sia
legittimamente  sottratta  all'imperio  statale,  si  esprime la loro
autonomia  privata,  costituzionalmente  garantita,  e  che  non puo'
essere irragionevolmente soppressa con effetti retroattivi.
   Peraltro, la denunciata irragionevolezza della norma che individua
come momento di passaggio tra la vecchia e la nuova disciplina quello
della  proposizione  della  domanda  arbitrale,  diviene  ancor  piu'
manifesta  se  si  assume  quale  tertium  comparationis  il  decreto
legislativo  2  febbraio  2006, n. 40, che ha modificato il codice di
procedura civile.
   Esso,  infatti,  ha  differenziato l'entrata in vigore delle nuove
disposizioni  sulla  base  della  natura,  sostanziale o procedurale,
delle  stesse. Piu' specificamente le modifiche introdotte nel Capo I
del  Titolo  VIII  del  codice di procedura civile, che disciplina la
convenzione  d'arbitrato,  producono effetti soltanto per le clausole
compromissorie  sottoscritte  dopo  l'entrata  in vigore del decreto,
mentre  le  norme  riguardanti  lo  svolgimento  della  procedura  si
applicano  a  tutti  gli  arbitrati  per i quali la domanda sia stata
proposta successivamente all'entrata in vigore della riforma.
   E'  evidente  che  queste disposizioni sono rispettose della ratio
complessiva  dell'istituto  arbitrale, riconoscendo la sottoscrizione
della  clausola  compromissoria  come momento iniziale del rapporto e
dunque  come  momento  in  cui  sorge  il  diritto  delle parti a far
decidere la controversia da arbitri.
   In  quest'ottica,  la  norma censurata, se paragonata a quelle del
decreto  legislativo  n. 40/2006,  integra una evidente disparita' di
trattamento   nei   confronti   di   tutti  coloro  i  quali  avevano
sottoscritto una clausola compromissoria prima dell'entrata in vigore
del decreto-legge n. 180/1998, che irragionevolmente, a differenza di
quanto  correttamente  deciso  in  sede  di  riforma  organica  della
disciplina dell'arbitrato, ha individuato come momento di separazione
tra  la  vecchia  e  la  nuova  norma quello della proposizione della
domanda.
   Con  riferimento  a  questo  vizio  di  legittimita'  la normativa
sopravvenuta   aggiunge   un  ulteriore  elemento  a  conferma  della
sussistenza del vizio di legittimita' pronunciato.
   Il  comma  21  dell'art.  3  della  legge  n. 244/2007 stabilisce,
infatti,  che  «relativamente  ai contratti aventi ad oggetto lavori,
forniture e servizi gia' sottoscritti dalle amministrazioni alla data
di entrata in vigore della presente legge […] e' fatto obbligo
ai  soggetti  di  cui  ai  commi  19  e 20 di declinare la competenza
arbitrale,  ove  tale  facolta' sia prevista nelle clausole arbitrali
inserite nei predetti contratti».
   Questa  disposizione  non  puo'  che  interpretarsi  nel senso che
intanto  le  amministrazioni  possono  declinare,  con riferimento ai
contratti  gia'  sottoscritti,  la competenza arbitrale, in quanto la
clausola  compromissoria  preveda questa facolta'. Cio' vuol dire che
per  tutti  i  contratti  contenenti  clausole compromissorie che non
prevedano  la  facolta'  di declinare la competenza arbitrale, questa
non puo' essere esclusa unilateralmente dall'amministrazione (cfr. in
termini  Autorita' di vigilanza sui contratti pubblici, nota 19 marzo
2008 prot. 14598).
   E'  evidente  che  il legislatore ha ritenuto di non poter rendere
nulle  retroattivamente le clausole compromissorie gia' sottoscritte,
conformemente  ai  principi  costituzionali  sopra  illustrati, con i
quali  contrasta  invece la disciplina, qui denunciata, relativa agli
arbitrati per «calamita' naturali».
   2.3.1.  -  Segue.  Violazione  dell'art.  117,  primo comma, della
Costituzione  per  contrasto  con  gli articoli 1 e 6 della C.E.D.U.,
cosi'  come interpretati dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell'uomo.
   Anche  sotto  questo  profilo  la  norma  denunciata  si  pone  in
contrasto  con  i  principi  che  la  giurisprudenza di Strasburgo fa
discendere dagli articoli 1 e 6 della C.E.D.U.
   Con   la   sentenza   Scordino  c/Italia  la  Corte  europea,  con
riferimento   al   quadro  normativo  che  disciplina  i  criteri  di
determinazione   dell'indennita'   di   esproprio,  ha  chiarito  che
«l'applicazione  con  effetto retroattivo, anche ai giudizi pendenti,
dei nuovi criteri di determinazione dell'indennita' di espropriazione
introdotti con l'art. 5-bis della legge n. 359 dell'8 agosto 1992, ne
ha ridotto in modo sostanziale l'entita' che gli espropriati potevano
pretendere  sulla  base  della  legislazione vigente al momento della
presentazione  della domanda giudiziale [...]. Tutto cio' costituisce
una  ingerenza  del  potere  legislativo sul funzionamento del potere
giudiziario  mirato  ad influenzare la risoluzione di una lite di cui
lo  Stato  convenuto  e'  parte  processuale e costituisce violazione
dell'equo  processo  garantito  dall'art. 6 della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo».
   Si  tratta  di  una decisione che sviluppa un'interpretazione gia'
precedentemente  tracciata  dalla  Corte  (Stran Greek Refineries and
Stratis Andreadis c/Grecia) e che, seppur inerente ad una fattispecie
diversa  da  quella  che  ci  occupa, individua un principio utile ai
nostri fini.
   Ed infatti, se dall'art. 6 della C.E.D.U. discende il principio in
base  al  quale  lo Stato, nell'esercizio della funzione legislativa,
non  puo'  intervenire  ad influenzare un rapporto processuale di cui
esso  e'  parte,  il  medesimo principio, letto alla luce dell'art. 1
C.E.D.U.  che  tutela  il  diritto  di  proprieta', puo' e deve senza
dubbio  adattarsi  anche al rapporto contrattuale di cui sia parte lo
Stato.
   Vuole  dirsi,  cioe',  che  pare ancorabile alla giurisprudenza di
Strasburgo  il principio secondo cui lo Stato non puo' intervenire ex
post  modificare  le  condizioni  di  un contratto che esso stesso ha
precedentemente sottoscritto.
   D'altra  parte,  si tratta di una previsione lesiva dell'autonomia
privata, poiche' modifica ex post le condizioni contrattuali.
   La  tutela della liberta' di iniziativa economica privata comporta
anche  il  rispetto  dei  principi  di parita' di trattamento tra gli
operatori,   di   non   discriminazione   e  di  trasparenza  che  ne
costituiscono   corollario.   Questi  principi  impongono  di  tenere
immutate   le  condizioni  contrattuali  rappresentate  alle  imprese
concorrenti   all'appalto  ai  fini  dell'offerta,  che  deve  essere
necessariamente  calibrata  tenendo  conto  di tutti gli elementi che
possono  influire  sul corrispettivo offerto o negoziato ovvero sulla
valutazione dell'offerta nel suo complesso.
   Le  informazioni  contenute  nei  bandi devono, quindi, permettere
agli imprenditori di valutare se gli appalti proposti presentino, per
loro,  interesse ed occorre dar loro una sufficiente conoscenza delle
prestazioni da fornire e delle relative condizioni.
   Tra  tali  condizioni  assume rilievo significativo, ai fini della
predisposizione  o  negoziazione dell'offerta, la possibilita' o meno
di  deferimento  agli  arbitri  delle  controversie, in ragione della
enorme  divaricazione  tra  i tempi della giustizia onoraria e quelli
della   giustizia  togata  civile,  gia'  illustrata  in  precedenza;
cosicche'   l'invalidazione  postuma  della  clausola  compromissoria
liberamente  sottoscritta  dalle  parti determina un rilevante vulnus
dei  principi  che  devono  governare la conclusione del contratto di
appalto  (o  dell'equiparata  concessione  di  sola costruzione, come
nella specie).
   Le  norme  nazionali  oggi  all'esame  del  Collegio  contrastano,
quindi,  con  la  normativa  pattizia  richiamata  e  con  i principi
generali   che   da  quella  normativa  fa  discendere  la  Corte  di
Strasburgo,  nella  misura in cui modificano le condizioni conosciute
al  tempo  dello  stipulato  contratto, poiche', travolgendo anche le
clausole compromissorie gia' sottoscritte, modificano unilateralmente
il  contratto  per  via legislativa e si pongono irrimediabilmente in
contrasto con gli articoli 1 e 6 della C.E.D.U.
   Sotto ulteriore profilo, sembra al Collegio che le norme nazionali
denunciate,  nella parte in cui fanno salve solo le domande arbitrali
anteatte  e  non tutti i contratti gia' stipulati contenenti clausola
compromissoria,  determinino una situazione cd. di «discriminazione a
rovescio»  (Corte  cost.,  30  dicembre  1997  n. 443)  a danno degli
operatori  colpiti  da  tale  divieto, che il rispetto dell'autonomia
privata   e  dei  principi  che  da  essa  discendono  non  consente;
discriminazione,  questa,  di  ordine  soggettivo,  da cui non appare
disgiunta la discriminazione di tipo territoriale.
                              P. Q. M.
   Il  Collegio  arbitrale  dichiara  rilevante  e non manifestamente
infondata  la  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 3,
comma 2, decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180, convertito dalla legge
3  agosto 1998, n. 267, dell'art. 8, lett. d) del decreto legislativo
20 settembre 1999, n. 354 e dell'art. 1, comma 2-quater decreto-legge
7  febbraio 2003, n. 15, convertito dalla legge 8 aprile 2003, n. 62,
per  contrasto  con  gli articoli 3, 5, 24, 25, 41, 42, 97, 117 e 120
della Costituzione.
   Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
   Ordina  che  la  presente ordinanza sia notificata alle parti e al
Presidente  del Consiglio dei ministri e sia comunicata al Presidente
del Senato e al Presidente della Camera dei deputati.
   Cosi'   deciso,  all'unanimita',  in  conferenza  personale  degli
Arbitri  nella riunione del 21 luglio 2008 nella sede del Collegio in
Napoli  ove  l'ordinanza  viene  di  seguito  sottoscritta in data 22
luglio 2008.
                        Il Presidente: Marone