N. 430 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 dicembre 2006
Ordinanza del 6 dicembre 2006 emessa dalla Corte d'appello di Trieste nel procedimento penale a carico di Sardelli Gianluca. Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione (salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova e' decisiva) - Inammissibilita' dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella - Lesione del principio di parita' tra le parti - Irragionevole disparita' di trattamento - Violazione del principio della ragionevole durata del processo. - Codice di procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10. - Costituzione, artt. 3 e 111.(GU n.1 del 7-1-2009 )
LA CORTE D'APPELLO Nel procedimento penale in grado di appello n. 20/03 R.G. App. nei confronti di Sardelli Gianluca, giudicato con sentenza dd. 21 marzo 2002 del Tribunale di Gorizia con la quale il medesimo imputato e' stato assolto dal reato di cui agli artt. 61 n. 2 e 483 c.p. perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato, sentenza gravata da rituale appello da parte del procuratore generale depositato in data 30 settembre 2002, con richiesta di condanna dell'imputato in ordine al delitto di cui agli artt. 48 e 479 c.p., cosi' qualificato il fatto ascrittogli, ha pronunciato la seguente ordinanza. Nel corso dell'udienza dibattimentale del 6 dicembre 2006 il p.g. ha formulato eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 10, legge 20 febbraio 2006, n. 46, in riferimento all'art. 593, c.p.p., come modificato dall'art. 1 della medesima legge, per violazione del principio della parita' delle parti nel processo e della ragionevole durata del processo sanciti dall'art. 111 Cost. nonche' per violazione del principio dell'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale sancito dall'art. 112 Cost. chiedendo che la Corte, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione dedotta, sollevasse questione di legittimita' costituzionale delle norme summenzionate con conseguente sospensione del giudizio in corso e trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ritiene la Corte che la dedotta questione di legittimita' costituzionale e' rilevante e non manifestamente infondata, nei termini appresso indicati. Sotto il profilo della rilevanza e', infatti, evidente che la Corte, in applicazione della sopravvenuta normativa di cui all'art. 10 cit. legge n. 46 del 2006 in rif. all'art. 593 c.p.p., dovrebbe definire il grado di giudizio mediante pronuncia di ordinanza non impugnabile di inammissibilita', di talche' verrebbe ad essere precluso l'esame delle questioni di merito proposte con l'interposto gravame, siccome non deducibili nell'eventuale ricorso per cassazione che il procuratore generale intendesse proporre, ai sensi del comma 3 del cit. art. 10, legge n. 46 del 2006, contro la sentenza di primo grado. Sotto il diverso profilo della non manifesta infondatezza, non par dubbio alla Corte che la menzionata normativa si ponga in contrasto con i parametri degli artt. 3 e 111 Cost. A tale riguardo conviene ricordare che nella giurisprudenza della Corte costituzionale e' stato piu' volte «ribadito che il principio della parita' tra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato e del suo difensore» ed e' stato, altresi', «sottolineato come una diversita' di trattamento rispetto a tali poteri possa risultare giustificata sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia: ma, in ogni caso, il diverso trattamento riservato al pubblico ministero, per essere conforme a Costituzione, dovra' trovare una ragionevole motivazione proprio in quella peculiare posizione o in quella funzione o in quelle esigenze appena richiamate» (Corte cost. sent. n. 363 del 1991). In base a tale orientamento, la Corte ha, in particolare, costantemente ritenuto che l'art. 443, comma 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede la possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di giudizio abbreviato, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato, non contrasta con l'art. 111, secondo comma, Cost., come inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che ha conferito veste autonoma ad un principio, quale quello di parita' delle parti, pacificamente gia' insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali, trovando tale preclusione giustificazione «nell'obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta: rito che - sia pure, oggi, per scelta esclusiva dell'imputato - implica una decisione fondata, in primis, sul materiale raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata, fuori delle garanzie del contraddittorio» (ord. n. 21 del 2001; nello stesso senso, ord. n. 363 del 1991, n. 373 del 1991, n. 305 del 1992 e n. 165 del 2003). Orbene, l'esame della relazione di accompagnamento alla proposta di legge d'iniziativa del deputato Pecorella (Camera dei deputati n. 4604) rende evidente che la limitazione dei poteri processuali del pubblico ministero, lungi dal venire giustificata in ragione della sua peculiare posizione istItuzionale, o della funzione ad esso affidata ovvero delle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia, e' stata ricondotta esclusivamente alla necessita' di adeguamento dell'ordinamento interno al principio sancito dal Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, reso esecutivo dalla legge 9 aprile 1990, n. 98, che «all'art. 2 statuisce il diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale per chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale», e cio' sul rilievo che tale principio «allo stato e' reso vano dal vigente codice di procedura penale nella parte in cui, prevedendo che possa essere impugnata la sentenza di primo grado di proscioglimento dell'imputato da parte del pubblico ministero, in caso di sentenza di condanna in sede di gravame, non concede la possibilita' di ottenere un secondo grado di giudizio nel merito in favore del condannato, che ne avrcbbe diritto in forza del principio esposto». Le ragioni addotte a fondamento della disciplina normativa in esame appaiono alla Corte non solo estranee a quelle che legittimano una limitazione dei poteri processuali del pubblico ministero ma anche del tutto prive di fondamento. Ed, infatti, la Corte costituzionale, mentre ha ripetutamente affermato che «il doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale» (sent. n. 117 del 1973; sent. n. 62 del 1981; sent. n. 301 del 1986; n. 543 del 1989; n. 438 del 1994; ord. n. 421 del 2001) ha ritenuto che «il tenore dell'art. 2, comma 1, del Protocollo addizionale n. 7, anche attraverso il confronto con quanto gia' disposto in tema di impugnazioni dall'art. 14, comma 1, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, ratificato dall'Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881, non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito. La formulazione dell'art. 2, nel demandare al legislatore interno ampi spazi per la disciplina dell'esercizio del diritto all'impugnazione, non esclude, infatti, che il principio si sostanzi nella previsione del ricorso in Cassazione, gia' previsto dalla Costituzione italiana». Ne', secondo la Corte, varrebbe sostenere che, essendo la ricorribilita' in Cassazione gia' prevista dalla Costituzione, l'art. 2, comma 1, della Convenzione avrebbe introdotto il diritto ad un secondo giudizio di merito, poiche' in tal modo si incorrerebbe in un palese vizio logico «in quanto la norma convenzionale verrebbe interpretata alla luce del diritto interno, come se la disposizione pattizia avesse il ruolo di riempire i vuoti dell'ordinamento nazionale. Vuoto che, tra l'altro, non si porrebbe in contraddizione con l'ordinamento costituzionale italiano, alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di non rilevanza costituzionale della garanzia del doppio grado di giurisdizione» (sent. n. 288 del 1997). Cio' posto, appare evidente che la nuova disciplina crea un'irragionevole disparita' di trattamento, rilevante ai sensi degli artt. 3 e 111 Cost., a sfavore del pubblico ministero, disparita' che non puo' trovare giustificazione nel fatto che la proposizione dell'appello sia formalmente preclusa ad entrambe le parti, ben diverso essendo il rispettivo interesse sostanziale a proporre impugnazione avverso sentenza di proscioglimento, ne' appare legittimata da alcun'altra apprezzabile esigenza. La questione di legittimita' costituzionale del cit. art. 10 legge n. 46 del 2006 in riferimento al novellato art. 593 cod. proc. pen. appare, inoltre, non manifestamente infondata anche sotto il diverso profilo della violazione del parametro della ragionevole durata del processo sancito dall'art. 111, secondo comma, seconda ipotesi, Cost. Va, invero, rilevato che, nell'ipotesi di ingiusta sentenza di proscioglimento e di conseguente impugnazione accolta, il percorso processuale ordinario imposto dalla nuova normativa si snoda attraverso non meno di cinque gradi di giudizio (assoluzione in primo grado, annullamento della Cassazione, condanna in primo grado, conferma in appello, rigetto del ricorso in Cassazione), laddove nel precedente sistema esso si completava in soli tre gradi (assoluzione in primo grado, riforma in appello, rigetto del ricorso in Cassazione). L'allungamento dei tempi processuali che ne deriva - e dunque la compressione del principio, a rilevanza costituzionale, di efficienza del processo - risulta ancora piu' sensibile e privo di giustificazione se si considera che con la recente legge n. 251/2005 sono stati ridotti i termini di prescrizione per numerosi reati, in ordine ai quali dunque l'iter processuale innescato da un'ingiusta sentenza di proscioglimento pare destinato a concludersi con una sentenza dichiarativa della prescrizione, piuttosto che con una sentenza definitiva che accerti nel merito la penale responsabilita'. La violazione del principio di ragionevole durata del processo appare ancora piu' evidente qualora, come appunto nella fattispecie, debba farsi applicazione della disciplina transitoria contenuta nel cit. art. 10, legge n. 46 del 2006. Detta disposizione, la quale tratteggia la sorte dei processi pendenti in sede di gravame in forza di un appello legittimamente presentato dal pubblico ministero, destinandoli ad un'indiscriminata declaratoria d'inammissibilita' e ad un successivo ricorso per Cassazione da parte del pubblico ministero avverso l'assoluzione di primo grado, aggiunge ulteriori motivi di violazione del principio, gia' intaccato dal nuovo disegno normativo, di' ragionevole durata del processo. Ed, infatti, il nuovo sistema normativo, derogando al principio tempus regit actum che governa la materia processuale, non solo sacrifica ineludibilmente un atto di gravame tempestivamente proposto, costringendo la parte interessata a presentarne un altro, ma comporta l'inevitabile differimento della presentazione di esso all'eseguita notifica del provvedimento di inammissibilita' e, pertanto, ad un termine futuro ed incerto, considerati i tempi di fissazione dei processi di appello normalmente scanditi in base ai termini prescrizionali misurati sui tre gradi del giudizio, sinora fisiologici.
P. Q. M. Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593 cod. proc. pen., come modificato dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, e dell'art. 10 della medesima legge in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost.; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, sospendendo il giudizio in corso; Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Trieste, il 6 dicembre 2006. Il Presidente: Trampus