N. 274 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 - 21 maggio 2008

Ordinanza  del 21 maggio 2008 emessa dalla Corte militare d'appello -
Sezione  distaccata  di  Verona  nel  procedimento  penale militare a
carico di Chierchia Michele

Processo  penale  -  Appello - Modifiche normative recate dalla legge
  n. 46/2006  -  Possibilita'  per  il pubblico ministero di proporre
  appello contro le sentenze di non luogo a procedere - Preclusione -
  Violazione  del  principio  di  ragionevolezza  -  Contrasto  con i
  principi  della ragionevole durata dei procedimenti e della parita'
  delle   parti   -   Violazione  del  principio  di  obbligatorieta'
  dell'azione   penale   -   Richiamo   alle   sentenze  della  Corte
  costituzionale nn. 26/2007, 320/2007 e 85/2008.
- Codice  di  procedura penale, art. 428, come sostituito dall'art. 4
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3, primo comma, 111, comma secondo, e 112.
(GU n.39 del 17-9-2008 )
                    LA CORTE MILITARE DI APPELLO
   Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  nel procedimento a carico di:
Chierchia  Michele  nato a Gragnano (Napoli) il 4 novembre 1979 (atto
600  p.l.s.A),  ivi residente in via Mandrio n. 8, C.le Magg. Sc. EI,
libero,  in  seguito all'appello proposto dal p.m. in data 7 novembre
2007 avverso la sentenza n. 37/07 emessa il 5 ottobre 2007 dal G.u.p.
presso  il  Tribunale militare di Verona con la quale per il reato di
«Diserzione   aggravata   e   truffa   militare   pluriaggravata,  in
continuazione» (artt. 81 cpv. c.p.; 148 n. 2, 234 c.c. 1 e 2, 47 n. 2
c.p.m.p.)  veniva dichiarato non luogo a procedere in ordine al reato
di truffa militare plunagg. cont., nonche' per il reato di diserzione
aggr.  cont.  relativo  ai periodi di assenza dal 22 maggio 2006 al 7
agosto  2006,  dal  29 agosto 2006 al 31 agosto 2006, dal 28 dicembre
2006 al 9 gennaio 2007, perche' risulta che i fatti non sussistono.
   La  Corte,  riunita  in  camera  di  consiglio nell'udienza del 19
maggio  2008,  nel procedimento penale a carico di Chierchia Michele,
nato  il  4  novembre  1979  a  Gragnano  (NA), imputato del reato di
«diserzione   aggravata   e   truffa   militare   pluriaggravata,  in
continuazione»  (artt.  81  cpv.  c.p.; 148 n. 2, 234 commi 1 e 2, 47
n. 2 c.p.m.p.), ha pronunciato la seguente ordinanza.
   Sentito  il  pubblico  ministero,  che  ha  sollevato, depositando
memoria  scritta,  la  questione  di legittimita' costituzionale, per
violazione  degli articoli 3, primo comma, e 111, secondo comma della
Costituzione,  della  norma contenuta nell'articolo 428 del codice di
procedura  penale,  quale  modificata  dall'articolo 4 della legge 20
febbraio  2006, n. 46, nella parte in cui ha soppresso il diritto del
pubblico  ministero  di  proporre  appello avverso la sentenza di non
luogo a procedere;
   Sentito il difensore dell'imputato, che ha chiesto la declaratoria
di  inammissibilita'  dell'appello  ed  in subordine ha dichiarato di
rimettersi alla decisione della Corte;
                   Osserva in fatto ed in diritto
Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale.
   Il   presente   giudizio  di  gravame  trae  origine  dall'appello
tempestivamente  presentato  dalla Procura militare di Verona avverso
la sentenza, emessa in data 5 ottobre 2007 e depositata il successivo
20  ottobre  dello  stesso  anno,  con  la  quale il G.u.p. presso il
Tribunale  militare  di Verona ha dichiarato il non luogo a procedere
nei confronti di Chierchia Michele, imputato del reato di «diserzione
aggravata e truffa militare pluriaggravata, in continuazione», con la
formula del fatto non sussiste.
   Nel   contesto  dell'atto  di  appello,  provvisto  di  tutti  gli
intrinseci  requisiti di ammissibilita', viene sollevata la questione
di  legittimita'  costituzionale  della  norma,  per violazione degli
articoli   3,   primo  comma,  e  111,  secondo  comma  e  112  della
Costituzione,  contenuta nell'articolo 428 del codice di rito penale,
la  quale, nella formulazione conseguente all'entrata in vigore della
legge  20  febbraio  2006  -  e  segnatamente  dell'articolo 4 - , ha
previsto  il  ricorso  per  cassazione  come  unico rimedio contro la
sentenza  di non luogo a procedere, cosi' inderogabilmente escludendo
la  proponibilita',  prima consentita, dell'appello avanti al giudice
di secondo grado.
   In  conformita' a quanto disposto dal codice di rito questa Corte,
ove  non  condividesse  le  censure  di illegittimita' costituzionale
prospettate dai rappresentanti dell'accusa, sia negli atti di gravame
che  nella  presente  udienza,  avrebbe  a  disposizione  la seguente
alternativa:  o  dichiarare la inammissibilita' dell'impugnazione, in
quanto   presentata  contro  provvedimento  non  appellabile;  oppure
convertire l'appello in ricorso per cassazione e trasmettere gli atti
al giudice competente al suo esame.
   Di  conseguenza  appare  evidente  la  rilevanza della prospettata
questione di legittimita' costituzionale, in ragione del fatto che la
possibilita'  di  trattare  il  procedimento nell'ambito del presente
giudizio  di  appello  e'  preclusa  proprio della nuova formulazione
dell'articolo  428,  di  cui entrambi i rappresentanti della pubblica
accusa  hanno  denunciato il contrasto con gli articoli 3, comma 2, e
111, comma 2, e 112 della Costituzione.
Non   manifesta   infondatezza   della   questione   di  legittimita'
costituzionale.
   Ritiene  la  Corte  che  siano  da  condividere  i  rilievi  e  le
osservazioni contenuti negli atti di appello e ribaditi nella memoria
presentata  dal  rappresentante  della  procura generale nel presente
giudizio  camerale, a sostegno del prospettato dubbio di legittimita'
costituzionale  in  ordine  alla nuova formulazione dell'articolo 428
c.p.p. In particolare e' da condividersi l'assunto che la nuova norma
sui  limiti oggettivi alla impugnabilita' della sentenza di non luogo
a procedere sia in contrasto con le seguenti disposizioni della Carta
costituzionale:
     a)   il  comma  1  dell'art.  3,  istitutivo  del  principio  di
eguaglianza   e   costituente   -   sub   specie   di   parametro  di
«ragionevolezza» - il termine di raffronto fondamentale ai fini della
valutazione della legittimita' costituzionale del suddetto art. 428;
     b)  il  comma  2 dell'art. 111 (introdotto ex art. 1 della legge
cost.  23 novembre 1999, n. 2), contenente la norma secondo cui «Ogni
processo  si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di
parita',  davanti  a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura
la ragionevole durata»;
     c)  l'articolo  112, che prescrive la regola per cui, nel nostro
ordinamento   «Il  pubblico  ministero  ha  l'obbligo  di  esercitare
l'azione penale».
Sul contrasto con l'articolo 3 della Costituzione.
   il  contrasto  con  l'articolo  3  della Costituzione si evidenzia
sotto   una   duplice   prospettiva:   innanzitutto  sotto  forma  di
irragionevolezza della disciplina, in quanto essa si innesta su di un
quadro  normativo  che, grazie alle fondamentali sentenze della Corte
costituzionale  n. 26  e  320  del 2007 (vedi nota 1) , garantisce al
pubblico  ministero il potere di proporre appello avverso le sentenze
di  assoluzione  pronunciate  sia  in  esito ad un dibattimento che a
conclusione di un rito abbreviato.
    Di  conseguenza  la  preclusione  disposta  dalla  norma  di  cui
all'articolo  428  viene  a  perdere ogni ragionevolezza e fondamento
giustificativo,  posto  che  nega  al  rappresentante  della pubblica
accusa,  nella fondamentale fase in cui viene formulata la domanda di
giudizio, il potere di richiedere quel completo riesame di merito che
viene allo stesso riconosciuto nelle ulteriori fasi del processo.
   Ritiene  questo  Giudice,  in  particolare,  che la norma in esame
costituisca un elemento di forte turbativa ed incoerenza nel contesto
della  complessiva  disciplina del potere di appello, in quanto priva
il   rappresentante  della  pubblica  accusa  della  possibilita'  di
segnalare  e  far correggere gli eventuali vizi della sentenza di non
luogo  a procedere e trasforma quest'ultima in una sostanziale pietra
tombale,  che preclude ogni ulteriore confronto dialettico sul merito
dell'accusa  e  rende  possibile  il  solo  rimedio  del  ricorso per
cassazione,  i  cui  peculiari  connotati non consentono una adeguata
disamina  della  totalita'  dei  vizi che possono inficiare il merito
della decisione.
   Il  novellato art. 428 c.p.p., nella parte in cui consente il solo
rimedio  del  ricorso per cassazione e non prevede piu' l'appello del
p.m.  contro  la sentenza di non luogo a procedere del GUP, contrasta
anzitutto  con  il  parametro  dell'art.  3, primo comma, Cost., che,
secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, funge da limite
alla  discrezionalita'  del Legislatore, facendo si' che le scelte di
questi,  per  quanto tendenzialmente del tutto libere nei fini, siano
sindacabili  sotto  il profilo della ragionevolezza (cfr., ex multis,
Corte cost., 20 luglio 1994, n. 324).
   Nel  caso  di  specie non risulta soddisfatto proprio il requisito
della ragionevolezza, per la determinante ragione che si impedisce al
pubblico   ministero  di  coltivare  l'esercizio  dell'azione  penale
nell'ambito  della  sequenza procedimentale che ancora si frappone al
giudizio  dibattimentale  e  gli  si  impone  di esperire un mezzo di
impugnativa  (il  ricorso  per  cassazione)  che,  oltre  a quanto si
osservera'  in  seguito,  non appare fisiologicamente coerente con il
tipo di valutazione che deve sovrintendere alla decisione di rinvio a
giudizio  ed  appare  poco  adatto  a  contrastare  efficacemente  la
sentenza  con  la  quale  il  giudice a quo si sia espresso in ordine
all'insostenibilita' dell'accusa in giudizio.
   In  tal  modo  si  compromette  la  possibilita'  che  il pubblico
ministero  chieda  ad un ulteriore giudice di esaminare le risultanze
processuali  nella  totalita'  del  loro  significato  e  della  loro
consistenza e si opera una non ragionevole discriminazione tra quanto
previsto  per  i  procedimenti che richiedono l'udienza preliminare e
quanto  previsto per i diversi procedimenti a citazione diretta, dove
la  domanda  di  giudizio  del  pubblico  ministero trova l'immediato
riscontro  della  fissazione  della  udienza  dibattimentale,  non e'
minimamente  esposta al rischio di essere prematuramente bloccata nei
suoi  atti di concreto e doveroso esercizio ed e' altresi' garantita,
nell'attuale  contesto  normativo  e grazie alle sentenze della Corte
costituzionale n. 26 e 320 del 2007, dalla possibilita' di un appello
avverso la decisione conclusiva del giudizio di primo grado.
   L'intera  sequenza  di rimedi impugnatori sopra indicata viene del
tutto  paralizzata  nel caso di procedimenti che richiedano l'udienza
preliminare; di quei procedimenti, cioe', che concernono i reati piu'
gravi  ed  in  relazione ai quali appare ancora di certo piu' acuta e
pressante la esigenza di un riesame del merito della imputazione, per
evitare  che  gli  errori  compiuti  nella  verifica della domanda di
giudizio  producano  conseguenze irreversibili e impediscano la piena
attuazione   del   diritto  positivo  e  l'adeguato  riscontro  degli
interessi della comunita' e della persona offesa.
Sul   contrasto   con   i   principi  della  ragionevole  durata  dei
procedimenti e della parita' delle parti.
   Ritiene  la  Corte  che la nuova disciplina sia in contrasto anche
con   la  norma  costituzionale  che  impone  di  predisporre  quanto
necessario ad assicurare la ragionevole durata del procedimenti (art.
111,  secondo  comma,  Cost.) e garantire pari possibilita' operative
alle  parti  processuali,  in ragione degli obiettivi coessenziali al
rispettivo ruolo e in considerazione delle specifiche caratteristiche
delle singole fasi processuali.
   La proponibilita' avverso la sentenza di non luogo a procedere del
solo  ricorso  per  cassazione,  infatti,  non  consente  al pubblico
ministero (il quale non condivida la decisione del g.u.p. di bloccare
l'esercizio dell'azione penale) di tutelare, efficacemente e in tempi
congrui,   la   funzione   del   processo  penale,  che,  secondo  la
giurisprudenza  della  Corte  costituzionale,  e' strumento destinato
all'accertamento  giudiziale  dei  fatti  di  reato  e delle relative
responsabilita' (cfr. Corte cost., 2 novembre 1998, n. 361).
   Va  sul  punto  condiviso  il  rilievo del p.g.m., contenuto nella
memoria  scritta  presentata  alla  presente  udienza, secondo cui la
violazione  dell'art.  111,  secondo  comma,  Cost., ascrivibile alla
nuova  formulazione dell'art. 428 c.p.p., e' duplice, palesandosi sia
come  vulnus  arrecato  al  principio di parita', coram iudice, delle
parti  (pubblica e privata) del processo; sia come vulnus arrecato al
principio di ragionevole durata dei tempi di svolgimento del processo
medesimo.
   Invero,  e' difficile non ammettere che nei procedimenti in cui e'
prevista  l'udienza preliminare - ossia nella totalita' dei casi, per
quanto  riguarda  gli  organi della giurisdizione militare (davanti a
cui  non  trovano  applicazione  le  disposizioni  del Libro VIII del
codice  di rito sul procedimento davanti al Tribunale in composizione
monocratica)  -, si verifichi, a causa del riformato art. 428 c.p.p.,
un  ingiustificato  ed  irragionevole «sbilanciamento» delle parti in
relazione alle conseguenze del provvedimento conclusivo.
   Infatti,  mentre per l'imputato il piu' sfavorevole degli esiti e'
rappresentato  dal rinvio a giudizio davanti al suo giudice naturale,
ossia  un  atto  meramente  interlocutorio,  per l'accusa l'eventuale
pronuncia  ex  art.  425  c.p.p.  comporta  il  pressoche' definitivo
«affossamento»  delle  ragioni  pubblicistiche  sottese all'esercizio
dell'azione   penale;   esercizio  -si  badi  -  non  intrapreso  dal
requirente  sulla base di una scelta discrezionale, il cui fallimento
possa   essere   in   certa   misura   ascritto  a  sua  «imprudenza»
professionale,   ma   adottato   in  ossequio  a  un  preciso  dovere
costituzionalmente imposto.
   Le  condizioni  paritarie, di cui parla il secondo comma dell'art.
111  della  Carta  fondamentale, infatti, non possono non significare
anche  ragionevole  parita'  di  posizioni  davanti  al provvedimento
conclusivo  della  fase, da valutare in un ottica prospettica e dando
il  giusto significato alla non impugnabilita' del rinvio a giudizio,
che  e'  misura  di  carattere interlocutorio e non preclude in alcun
modo  che l'imputato possa far valere in seguito le sue doglianze sul
merito del provvedimento che concluda il processo di primo grado.
   Inoltre    vale   la   pena   di   rilevare,   per   inciso,   che
l'inappellabilita'  delle  sentenze  di  non luogo a procedere incide
negativamente  anche  sulla  sfera giuridica dell'imputato, posto che
nell'attuale   sistema   normativo  non  e'  consentito  al  pubblico
ministero  di  appellare  le suddette sentenze neanche nell'interesse
del   soggetto   sottoposto  a  processo  penale.  E  cio'  determina
un'ulteriore  incongruita'  del sistema, alla luce di quanto statuito
dalla  recente sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2008 Con
la  sentenza  n. 85  del  2008,  (vedi nota 2) unitario, ma abbraccia
ipotesi  marcatamente  eterogenee, quanto all'attitudine lesiva degli
interessi  morali  e  giuridici del prosciolto. A fianco di decisioni
ampiamente  liberatorie - quelle pronunciate con le formule "il fatto
non  sussiste''  e l'"imputato non lo ha commesso'' - detta categoria
comprende,  difatti,  sentenze  che,  pur  non  applicando  una pena,
comportano   -  in  diverse  forme  e  gradazioni  -  un  sostanziale
riconoscimento   della  responsabilita'  dell'imputato  o,  comunque,
l'attribuzione  del  fatto  all'imputato  medesimo. Paradigmatiche le
fattispecie oggetto dei giudizi a quibus: dichiarazione di estinzione
del  reato  per  prescrizione  (nel  regime  anteriore  alla  legge 5
dicembre  2005, n. 251), conseguente al riconoscimento di circostanze
attenuanti;  proscioglimento  per  cause  di non punibilita' legate a
condotte  o  accadimenti post factum; proscioglimento per concessione
del  perdono  giudiziale;  quest'ultimo, in particolare, si traduce -
per  conmiunis  opinio  -  in  una  vera  e  propria  affermazione di
colpevolezza,  non  seguita dall'irrogazione della pena (peraltro con
effetti preclusivi della reiterazione del beneficio: art. 169, quarto
comma,  cod. pen.).».  che ha ripristinato la facolta' per l'imputato
di  appellare  quelle  sentenze  di proscioglimento dibattimentale le
quali,  pur  non applicando una pena, comportino - in diverse forme e
gradazioni  -  un  sostanziale  riconoscimento  della responsabilita'
dell'imputato  o,  comunque,  l'attribuzione  del  fatto all'imputato
medesimo  (in  particolare,  il  proscioglimento  per  cause  di  non
punibilita' legate a condotte o accadimenti post factum).
   L'anomalia   eliminata  dalla  sentenza  di  cui  sopra,  infatti,
continua  a  contrassegnare  le  sentenze  di  non luogo a procedere,
tendenzialmente    assoggettate    ad   uno   statuto   unitario   ed
indifferenziato di inappellabilita' e che possono essere emesse anche
per  la sussistenza di cause sopravvenute di non punibilita' o per la
sussistenza di cause di estinzione del reato (sono, infatti, precluse
solo  nella  marginale  ipotesi  in  cui  dalle  medesime consegua la
applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca).
   La sostanziale inadeguatezza del nuovo strumento di impugnazione (
ricorso  per  cassazione), infine, emerge non appena si consideri che
esso,  ancorche'  contemplato dal sistema previgente, non aveva quasi
mai  ricevuto  applicazione,  in  quanto  poco  congeniale alla quasi
generalita'  delle  censure  che  venivano mosse alla sentenze di non
luogo  a  procedere  e che vedevano nell'appello il tipico e naturale
strumento di impiego e reazione.
   Divenuta regola quella che era l'eccezione, non ci si puo' esimere
dall'interrogarsi   circa  la  congruita'  costituzionale  del  mezzo
rispetto  al  fine,  che - come prima - non puo' che essere quello di
ottenere  che  venga  rimosso il non condiviso ostacolo all'esercizio
dell'azione  penale  rappresentato  dal proscioglimento del g.u.p. ed
ottenere  che  la  res iudicanda sia sottoposta all'esame del giudice
del dibattimento.
   Il novellato testo dell'art. 428 c.p.p., inoltre, pur riconoscendo
la  facolta'  di  ricorrere per cassazione anche al Procuratore della
Repubblica [comma 1, lett. a)] e alla persona offesa costituita parte
civile (comma 2, seconda parte), tace sui provvedimenti assumibili da
parte della Corte suprema, limitandosi a precisare che questa «decide
(...)  in  camera  di  consiglio con le forme previste dall'art. 127»
(comma 3).
   Nel  silenzio  della legge, non sembra vi sia spazio per spingersi
oltre  quelli  che,  nel  sistema  quo ante, venivano ritenuti i soli
possibili esiti del giudizio di cassazione:
    il  rigetto  dell'impugnazione,  con  la  consequenziale conferma
tout-court della decisione;
     la   rettifica   della   formula   terminativa   in  ipotesi  di
proscioglimento  pronunciato  dal  g.u.p.  con una causale diversa da
quella  emergente  dalla  motivazione  (cfr.  Cass.  pen., sez. I, 13
dicembre 4991, Sassola, in Mass. Cass. Pen., 1992, fasc. 1, 77);
     l'annullamento della sentenza impugnata.
   Unanime  era,  prima  dell'entrata in vigore della legge n. 46 del
2006,  l'opinione  che escludeva la possibilita' per la Corte suprema
di  emettere  decreto  ai  sensi dell'art. 429 c.p.p.; ma altrettanto
deve ritenersi oggi, dal momento che appare francamente insostenibile
l'ipotesi  che  il giudice di legittimita' possa disporre il rinvio a
giudizio,  provvedendo  contestualmente alla formazione del fascicolo
per  il  dibattimento:  oltre tutto, tale ultima incombenza va svolta
dal giudice «nel contraddittorio delle parti», e cio' mal si attaglia
al  rito camerale «puro» ex art. 127 c.p.p. stabilito per il giudizio
di cassazione.
   Quindi,  tralasciando  qui  l'eventualita'  di  un «ritocco» della
causale  del  proscioglimento, l'unico esito configurabile in caso di
condivisione  delle  ragioni  dell'impugnazione del p.m. da parte del
supremo Collegio e' quello di un annullamento con rinvio al giudice a
quo: il quale, pur cambiato nella persona, potra' pur sempre adottare
una  diversa  decisione  liberatoria,  a  sua  volta  ricorribile per
cassazione   secondo   una  sequenza  che  potrebbe  -  in  teoria  -
prolungarsi quasi all'infinito.
   Ma   se   grave   e'   la  ferita  cagionata  all'interesse  della
parte-accusa  -  che pero' e' sempre interesse dell'ordinamento e mai
del  singolo p.m., che ha l'obbligo, ex art. 112 Cost., di esercitare
l'azione  penale  -  non meno grave e clamoroso e' il pregiudizio che
subisce  la regola, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 111,
comma 2, seconda parte) della «ragionevole durata» del processo.
   Non  a  caso,  proprio con riferimento alla modifica dell'art. 428
c.p.p.,  nel  messaggio  del  20  gennaio  2006,  con  cui il Capo ha
rinviato   alle   Camere   il   disegno  di  legge  originario  sulla
inappellabilita'  delle  sentenze di proscioglimento (poi trasformato
nella  legge  che,  in parte qua, in questa sede si contesta sotto il
profilo della legittimita' costituzionale), si legge:
   «Un  altro  problema  (...)  e'  quello che deriva dall'articolo 4
della  legge,  che  modifica  l'articolo  428 del codice di procedura
penate,  trasferendo  dalla  Corte d'appello alla Corte di cassazione
l'impugnazione  della sentenza di non luogo a procedere. Ne derivera'
non  soltanto  un  ulteriore  aumento  di  lavoro  per  la  Corte  di
cassazione,  ma  anche, in caso di mancata conferma della sentenza di
non  luogo  a  procedere,  una  regressione  del procedimento, che ne
allunghera' inevitabilmente i tempi di definizione».
   Sicche' appare scontata ed inevitabile la conclusione che la nuova
disciplina  comprometta  il  principio  della  ragionevole durata del
processo  e  che  cio'  faccia  in  difetto  di  qualsivoglia ragione
giustificativa.
   Ne   deriva,   di   conseguenza,   il   ragionevole  dubbio  sulla
costituzionalita'  della  medesima,  posto  che  al  principio  della
ragionevole durata del processo arrecano un indubbio vulnus «le norme
procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non
sorrette  da  alcuna  logica  esistenza,  non  essendo  in altro modo
definibile  la  durata  ragionevole  del  processo se non in funzione
della  ragionevolezza degli adempimenti che ne scandiscono il corso e
ne  determinano  i tempi» (Corte Cost., sentenza n. 148 del 12 aprile
2005 (4 aprile 2005).
Sul contrasto con il principio di obbligatorieta' dell'azione penale.
   L'esclusione  dell'appello  del  p.m.  avverso  le sentenze di non
luogo  a  procedere  appare,  infine, contrastare anche con il canone
costituzionale sulla obbligatorieta' dell'azione penale.
   La   giurisprudenza  costituzionale,  infatti,  ha  esplicitamente
riconosciuto   nel   potere   di  impugnazione  del  p.m.  una  delle
espressioni  dell'obbligo  di esercizio dell'azione penale consacrato
nell'articolo  112  Cost. ed affermato che non puo' ammettersi che la
normativa  ordinaria  sia  congegnata  in  modo tale da vanificare il
complessivo  assolvimento  delle  funzioni  di accusa (Sentenze Corte
cost. n. 177/71 e 98/94).
   L'importante  principio  affermato nelle citate sentenze, inoltre,
non risulta essere stato completamente neutralizzato dalle successive
decisioni  con  le  quali  il  Giudice  delle  leggi  ha  espresso il
convincimento  che non vi sia una diretta e generale correlazione tra
potere  di  impugnazione  del  p.m.  e  poteri inerenti all'esercizio
dell'azione   penale  (cfr.  Corte  cost.,  ordinanze  nn.  421/2001,
347/2002 e 165/2003).
   Le  argomentazioni  contenute in queste ultime decisioni, infatti,
riguardano  il diverso scenario in cui l'azione penale era gia' stata
positivamente   esercitata  ed  aveva  altresi'  messo  capo  ad  una
pronuncia  favorevole alle ragioni dell'accusa, posto che si trattava
di verificare se e quanta ragionevolezza fosse insita nella norma che
impediva  al  p.m.  di  proporre  appello,  principale e incidentale,
contro  le  sentenze  di  condanna  emesse a conclusione del giudizio
abbreviato;  cioe'  nel  contesto  di un rito che perseguiva evidenti
obiettivi  di  semplificazione  processuale  ed in relazione ai quali
poteva  considerarsi appagante un epilogo comunque coincidente con le
essenziali finalita' perseguite dalla pubblica accusa.
   Nel  caso  di  specie, per contro, si registra la previsione di un
limite  oggettivo che concerne in misura diretta ed immediata proprio
fatto  di  esercizio  dell'azione  penale,  che  non ha realizzato il
divisato  obiettivo  del  giudizio  dibattimentale ed in relazione al
quale si preclude la possibilita' dell'appello.
   Alla  luce del principio di obbligatorieta' dell'azione penale, in
altri  termini,  non  si  vede con quale coerenza «costituzionale» si
possa,  per  legge  ordinaria,  interdire  al  P.M.  di richiedere al
superiore  giudice  di  merito una diversa valutazione in ordine alla
non superfluita' del dibattimento.
   E cio' soprattutto ove si consideri che la preclusione all'appello
concerne una sentenza di carattere processuale, emessa nell'ambito di
un  giudizio  essenzialmente cartolare ed in cui non ha avuto modo di
esplicarsi  il  principio  del contraddittorio nella formazione della
prova.
   E'   convincimento   della  Corte,  pertanto,  che  la  disciplina
predisposta    dal   nuovo   articolo   428   comporti   un   «salto»
logico-giuridico  che  non  trova giustificazione nel vigente assetto
dei valori costituzionali.
   Viene  rimossa,  infatti, la ragionevole disciplina apprestata dal
pregresso testo dell'articolo 428 c.p.p., caratterizzata dall'obbligo
dell'esercizio  dell'azione penale e dalla facolta' di coltivare tale
obbligo  pur  dopo  la pronuncia di non luogo a procedere del g.u.p.,
richiedendo  alla  Corte  d'appello  il  rinvio a giudizio; ed al suo
posto  se  ne  introduce  una che altera la intrinseca coerenza della
complessiva   normativa  e  sottrae  all'organo  di  accusa  uno  dei
fondamentali presidi di puntuale ed integrale attuazione dell'obbligo
di  esercitare l'azione penale, impedendogli di richiedere al giudice
superiore  -  di  merito  -  la  rimozione  del  pregiudizio arrecato
all'atto  di  esercizio  dell'azione  penale  e  la  emissione di una
decisione  conforme  alla  pretesa punitiva e di diretta ed immediata
estrinsecazione della medesima.


(1)   Con  la  sentenza  n. 26  del  2007,  la  Corte  ha  dichiarato
costituzionalmente  illegittima  -  per contrasto con il principio di
parita' delle parti - la rimozione del potere di appello del pubblico
ministero  contro  le  sentenze  di  proscioglimento  pronunciate nel
giudizio  ordinario  (rimozione sancita dall'art. 1 della legge n. 46
del  2006,  tramite  sostituzione  dell'art.  593  cod.  proc. pen.):
rilevando  come  l'asimmetria di poteri fra parte pubblica e imputato
che  ne  conseguiva  - per il suo carattere radicale, generalizzato e
unilaterale  -  non  potesse  trovare  adeguata giustificazione nelle
rationes che, alla stregua dei lavori parlamentari, si collocano alla
radice  della  riforma  (vale  a  dire:  l'assenta  impossibilita' di
considerare   colpevole  «al  di  la'  di  ogni  ragionevole  dubbio»
l'imputato  prosciolto  in primo grado; l'esigenza di dare attuazione
alle previsioni di determinati atti internazionali; l'opportunita' di
evitare  che la sentenza di proscioglimento, emessa da un giudice che
-  come  quello  di  primo grado - ha assistito alla formazione della
prova  nel  contraddittorio  fra  le  parti, venga ribaltata da altro
giudice  che  - come quello di appello - basa invece la sua decisione
su  una  prova  prevalentemente  scritta).Con  la sentenza n. 320 del
2007,  la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 2
della  legge  n. 46  del 2006, nella parte in cui, modificando l'art.
443,  comma  1,  cod.  proc.  pen., esclude che il pubblico ministero
possa  appellare  contro  le  sentenze  di  proscioglimento  emesse a
seguito  di  giudizio abbreviato. Nella motivazione della sentenza la
Corte  ha  osservato  che «vale evidentemente, anche in rapporto alla
norma  oggi  censurata, quanto preliminarmente osservato dalla citata
sentenza n. 26 del 2007: e, cioe', che al di sotto dell'assimilazione
formale delle parti - "l'imputato e il pubblico ministero non possono
proporre  appello  contro  le sentenze di proscioglimento'' (cosi' il
novellato art. 443, comma 1, cod. proc. pen.) - detta norma racchiude
"una  dissimmetria radicale''». A differenza dell'imputato - il quale
resta  abilitato  ad  appellare  le  sentenze  che  affermino  la sua
responsabilita'  -  il  pubblico ministero viene, infatti, totalmente
privato del simmetrico potere di proporre doglianze di merito avverso
la  pronuncia  che  disattenda in modo integrale la pretesa punitiva.
Menomazione,    questa,    che    non   puo'   ritenersi   compensata
dall'ampliamento    dei    motivi   del   ricorso   per   cassazione,
parallelamente  operato  -  peraltro  a favore di entrambe le parti -
dall'art. 8 della stessa legge n. 46 del 2006 (modificativo dell'art.
606,  comma 1, cod. proc. pen.): giacche' - quale che sia l'effettiva
portata  dei  nuovi  e  piu'  ampi  casi del ricorso - il rimedio non
attinge  comunque  alla  pienezza  del  riesame di merito, consentito
dall'appello.
(2)   la   Corte   costituzionale   ha   dichiarato  l'illegittimita'
costituzionale  dell'art.  1  della  legge  20  febbraio  2006, n. 46
(Modifiche   al   codice   di   procedura   penale,   in  materia  di
inappellabilita'  delle  sentenze di proscioglimento), nella parte in
cui,  sostituendo  l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude
che  l'imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento
relative  a  reati  diversi  dalle contravvenzioni punite con la sola
ammenda  o  con  pena  alternativa,  fatta  eccezione  per le ipotesi
previste  dall'art.  603,  comma  2, del medesimo codice, se la nuova
prova e' decisiva. Nel corpo della motivazione si e' rilevato che «la
categoria   delle  sentenze  di  proscioglimento  -  che  la  riforma
assoggetta ad un regime uniforme, quanto alla sottrazione all'appello
dell'imputato - non costituisce un genus
                              P. Q. M.
   Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  428  c.p.p., come sostituito
dall'articolo  4  della  legge  n. 46/2006, in relazione ai parametri
costituzionali  degli  artt.  3,  comma  1, 111, secondo comma, e 112
Cost;
   Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale,  sospendendo  il  processo  in corso nei confronti di
Chierchia Michele;
   Dispone  che  la presente ordinanza, a cura della cancelleria, sia
notificata  alle  parti  del  presente  processo  e al Presidente del
Consiglio  dei  ministri  e  sia  comunicata  ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento della Repubblica.
     Verona, addi' 19 maggio 2008
                      Il Presidente: Antonelli
                                    Il consigliere estensore: Santoro