N. 442 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 settembre 2008
Ordinanza del 30 settembre 2008 emessa dal Tribunale di Ascoli Piceno nel procedimento civile promosso da Caporuscio Valentina contro Manuli Rubber Industries S.p.A.. Lavoro e occupazione - Apposizione di termini alla durata del contratto di lavoro subordinato - Previsione, per i giudizi in corso alla data di entrata in vigore della norma censurata, di un indennizzo a carico del datore di lavoro e in favore del lavoratore di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto - Violazione del principio di uguaglianza per la diversa disciplina di fattispecie identiche in base alla pendenza o meno di un giudizio - Incidenza sul diritto al lavoro e sul principio di tutela del lavoro - Violazione dei vincoli derivanti dalla normativa comunitaria. - Decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, art. 4-bis, introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, della legge 6 agosto 2008, n. 133 [recte: art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, inserito dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133]. - Costituzione, artt. 3, primo comma, 4, primo comma, 11, 35, primo comma, e 117, primo comma.(GU n.3 del 21-1-2009 )
IL TRIBUNALE A scioglimento della riserva assunta all'udienza del 19 settembre 2008, rileva quanto segue. Con ricorso depositato in data 14 febbraio 2008 Caporuscio Valentina ha esposto e dedotto di aver lavorato alle dipendenze della Manuli Rubber Industries S.p.A. con contratti a tempo determinato di cui: a) il primo stipulato in data 12 aprile 2005 valevole fino all'11 ottobre 2005 e poi prorogato fino al 10 aprile 2006; b) il secondo in data 2 maggio 2006 operante fino al 31 agosto 2006 e poi prorogato al 20 dicembre 2006; che il termine finale apposto ad entrambi i contratti doveva considerarsi privo di effetto, a norma dell'art. 1, comma 2, decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, perche' non erano state idoneamente specificate per iscritto le ragioni giustificative dell'apposizione dell' elemento accidentale; che anche le proroghe dovevano considerarsi prive di effetto, ai sensi dell'art. 4 del citato d.lgs., per difetto delle condizioni legittimanti; che il rapporto di lavoro doveva considerarsi convertito a tempo indeterminato fin dalla data della stipula del primo dei suddetti contratti ed ancora in corso. Tanto premesso il ricorrente chiedeva la condanna della Manuli al ripristino del rapporto di lavoro alle condizioni previste dal primo dei contratti, salvo l'esclusione del termine, ed al pagamento delle retribuzioni nel frattempo maturate. Si costituiva la societa' convenuta, resistendo. In particolare eccepiva la risoluzione dei contratti per mutuo consenso, negava la inefficacia sia del termine apposto ai contratti sia delle proroghe; e comunque si opponeva alla conversione a tempo indeterminato del rapporto invocando la applicabilita' del comma 1-bis dell'art. 21 del d.l. n. 112 del 2008, nel testo convertito con modifiche dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, con cui, dopo l'art. 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e' stato inserito l'art. 4-bis del seguente tenore: «Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione , e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizione di cui agli articoli 1, 2 e 4 il datore di lavoro e' tenuto unicamente a indennizzare il prestatore con una indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e successive modificazioni». A fronte della invocazione della applicabilita' di tale norma, il ricorrente ha insistito nell'accoglimento della propria domanda, chiedendo: a) in via principale, la disapplicazione dell'art. 4-bis per contrasto con il diritto comunitario; b) in via subordinata sollevarsi la questione di legittimita' costituzionale in rapporto agli articoli 1, 3, 4, 24, 25, 36, 39, 41, 43, 76, 77, 97, 101, 102, 104, 111 e 117 della Costituzione. Orbene, e' da premettersi che entrambi i contratti in esame sono privi di idonea indicazione delle ragioni specifiche e concrete della apposizione del termine. Anche le proroghe mancano di ragioni oggettive e specifiche indicate nell'atto. Inoltre la eccezione di risoluzione dei contratti e' da disattendere per difetto degli elementi indicativi del realizzarsi del mutuo consenso. Ne consegue che assume rilievo la forma di tutela da attribuirsi al lavoratore ricorrente. Applicando la legge vigente al momento della instaurazione del rapporto e della introduzione del giudizio (vedi, giusta la consolidata giurisprudenza di merito e Cass. 21 maggio 2008 n. 12985, il combinato disposto degli articoli 1 e 4 del d.lgs. n. 368/2001 e dell'articolo 1419 secondo comma c.c.), si dovrebbe dichiarare la conversione del primo dei contratti a termine in contratto a tempo indeterminato e condannare il convenuto al ripristino del rapporto. La entrata in vigore della legge sopravvenuta preclude una pronuncia di tal fatta. Difatti l'art. 4-bis, di chiara ed univoca lettura, prevede che, limitatamente ai giudizi in corso, in caso di violazione degli obblighi previsti dagli articoli 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, il datore e' tenuto solo a corrispondere un indennizzo monetario in favore del lavoratore e non gia' alla conversione a tempo indeterminato del rapporto od ad altre sanzioni. Si deve allora esaminare, in primo luogo, la istanza di disapplicazione avanzata dal ricorrente. E' vero che sorge il dubbio della sussistenza del contrasto fra l'art. 4-bis e l'ordinamento comunitario, cosi' come in particolare espresso dalla clausola 8 punto 3 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato («clausola di non regresso») concluso dall'Unice, dal Ceep e dal Ces siccome recepito dalla direttiva 1999/70/CE. Tale clausola cosi' recita: «L'applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso». Difatti la Corte di Giustizia della Comunita' Europea con la sentenza 22 novembre 2005, «Mangold», in causa n. 144/04 , ha precisato che: «51. L'espressione "applicazione" utilizzata senza ulteriori precisazioni nella clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro non riguarda la sola iniziale trasposizione della direttiva 1999/70 e, in particolare, del suo allegato contenente l'accordo quadro, ma copre ogni misura nazionale intesa a garantire che l'obiettivo da questa perseguito possa essere raggiunto, comprese le misure che, successivamente alla trasposizione propriamente detta, completano o modificano le norme nazionali gia' adottate. 52. Per contro una reformatio in peius della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato non e' , in quanto tale, vietata dall'accordo quadro quando non e' in alcun modo collegata con l'applicazione di questo». prima della applicazione in Italia della direttiva 1999/70 l'art. 1, legge n. 230 del 1962 prevedeva che alla illegittima apposizione del termine conseguiva la conversione in contratto a tempo indeterminato; la direttiva citata e l'accordo quadro allegato non prevedono solo il divieto di discriminazione dei lavoratori a tempo determinato e le misure di prevenzione contro gli abusi derivanti dall'utilizzo di successivi rapporti a tempo determinato ne' si disinteressano del primo ed unico contratto successivo ma stabiliscono, anche, i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato (ossia di ogni contratto a tempo determinato successivo) con l'obiettivo, peraltro, di proteggere i lavoratori dall'instabilita' dell'impiego (vedi Corte di Giustizia delle Comunita' Europee, sentenza 4 luglio 2006 «Adeneler» in causa n. 212/04, in particolare i punti da 58 a 75; vedi anche, in motivazione, Cass. 21 maggio 2008, n. 12985); e' pertanto sostenibile che la disciplina della protezione offerta ai lavoratori a tempo determinato in materia di rimedi contro la illegittima apposizione del termine rientri nell'ambito o comunque sia in qualche modo collegata all'accordo quadro; ne consegue che la reformatio in peius di detta disciplina puo' concretare la violazione dell'accordo medesimo. L'opinione della disapplicazione della norma interna ad opera del giudice della controversia non puo' pero', nel caso di specie, essere seguita. Difatti, a parte ogni altra considerazione, la presente causa verte tra soggetti privati, per cui deve trovare attuazione il consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria (vedi, da ultimo, la sentenza 5 ottobre 2004, «Pfeiffer», cause riunite da C-397/01 a C- 403/01, punti 107-109; a tale principio non deroga, nonostante quanto potrebbe apparire ad una lettura superficiale, la sentenza «Mangold» gia' citata) secondo cui, giusta l'art. 249 Tce (gia' art. 189), una direttiva vincola solo lo Stato cui e' diretta con la conseguenza che, anche se self-executing, non puo' di per se' creare obblighi a carico di un singolo e quindi non puo' trovare diretta applicazione nell'ambito di una controversia cui sono del tutto estranei gli Stati membri (c.d. inefficacia orizzontale della direttiva). Cio' posto, si deve allora vagliare la questione di legittimita' costituzionale della norma in argomento. Orbene tale questione risulta (oltre che rilevante, per le medesime ragioni gia' innanzi riferite) non manifestamente infondata, perlomeno con riferimento a taluni degli articoli della Costituzione indicati dal ricorrente. Al riguardo sorge anzitutto il dubbio del contrasto con gli articoli 11, secondo periodo, e 117 primo comma della Costituzione in riferimento alla clausola 8, punto 3 della direttiva Cee 1990/70. Difatti si sono gia' esaminati e riferiti i motivi del plausibile contrasto fra l'art. 4-bis d.lgs. n. 368/2001 e la clausola di non regresso: la circostanza che la direttiva comunitaria 1990/70 non possa trovare diretta applicazione nel presente giudizio non esclude che il giudice della causa debba fare tutto cio' che gli e' possibile per ottenere il risultato perseguito dalla direttiva medesima e cosi' assicurare il rispetto del diritto comunitario (vedi la gia' citata sentenza «Pfeiffer» della Corte di Giustizia , punti da 110 al 119); a tal fine e' ipotizzabile il ricorso alla Corte costituzionale affinche' dichiari illegittima la norma interna perche' contrastante con le disposizioni della Carta che sottopongono la potesta' legislativa dello Stato al rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, cosi' come espressi nella specie dalla suddetta clausola di non regresso, in modo da far operare questa norma comunitaria da parametro interposto di costituzionalita'; d'altra parte la Corte costituzionale gia' in passato ha esaminato nel merito questioni di legittimita' sollevate per contrasto fra norma comunitaria non direttamente applicabile dal giudice della controversia e l'art. 11 della Costituzione (vedi, ad esempio, sent. 13 giugno 2000, n. 190) e, piu' recentemente, a seguito delle modifiche dell'art. 117, primo comma della Costituzione, ha avuto modo di assumere a parametro interposto di costituzionalita' norme Cedu (vedi sent. 24 ottobre 2007, n. 42). Sotto un secondo profilo la norma sopravvenuta appare in contrasto con il canone di ragionevolezza desumibile dall'art. 3, primo comma, della Costituzione. Trattasi, difatti, di disposizione retroattiva che interviene nei rapporti di diritto privato sacrificando arbitrariamente il diritto del lavoratore assunto illegittimamente a tempo determinato a godere della tutela garantita dalla legge vigente all'epoca della instaurazione del rapporto, e favorendo nel contempo il datore che ha dato luogo alla illegittimita'. Vero e' che, secondo la consolidata giurisprudenza del giudice delle leggi (vedi, tra le tante, la sentenza 7 luglio 2006 n. 274), il divieto di retroattivita' della legge, pur costituendo fondamentale valore di civilta' giuridica e principio generale dell'ordinamento, cui il legislatore deve in linea di principio attenersi, non e' stato elevato a dignita' costituzionale, salva la previsione dell'art. 25 Costituzione relativo alla sola materia penale. Tuttavia, secondo la medesima giurisprudenza, il legislatore ordinario puo' emanare norme retroattive in materia diversa dal penale solo quando esse trovino giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti, cosi' da non incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti. Nella specie la norma in esame risulta priva di giustificazione, ossia non ispirata da preminenti ed eccezionali ragioni di interesse generale. Inoltre essa pregiudica, oltre che legittimi affidamenti, valori ed interessi costituzionalmente protetti dell'articolo 4, primo comma, («La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto») e dall'art. 35, primo comma, («La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»). Infine, e sotto un terzo profilo, la norma in questione sembra collidere anche con il principio di uguaglianza garantito dall'art. 3 della Costituzione. Con l'art. 4-bis si viene, difatti, a costituire una evidente disparita' di trattamento fra i lavoratori assunti a tempo determinato in violazione delle condizioni previste dagli artt. 1, 2 e 4 d.lgs. n. 368 del 2001 che abbiano avviato una controversia prima del 23 agosto 2008 e non l'abbiano vista ancora definita con sentenza passata in giudicato ed i lavoratori che, versando nella identica situazione, abbiano promosso la controversia dalla suddetta data in poi. Difatti solo i primi possono ambire alla prosecuzione del rapporto di lavoro nella forma del tempo indeterminato. Anzi, a ben vedere, se lo stesso lavoratore di cui alla presente causa, invece di instaurare il giudizio prima della entrata in vigore della norma di cui si dubita la legittimita', lo avesse ritardato a dopo, si sarebbe trovato nelle condizioni di conseguire la tutela piu' favorevole. Anche detta disparita' di trattamento risulta priva di ogni idonea giustificazione. Per di piu', pure la individuazione del dato temporale di esclusione della tutela piu' favorevole per il lavoratore non sembra rispondere ad alcuna esigenza apprezzabile.
P. Q. M. Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 21, comma 1-bis del d.l. n. 112 del 2008, nel testo convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, con cui, dopo l'art. 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e' stato inserito l'art. 4-bis, per contrasto con gli articoli 11, secondo periodo, 117, primo comma e 3 della Costituzione; Sospende il giudizio in corso e dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la presente ordinanza sia notificata, a cura della cancelleria, alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Ascoli Piceno, addi' 30 settembre 2008 Il giudice: Boeri