N. 82 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 novembre 2009
Ordinanza del 21 novembre 2008 emessa dal Tribunale di Roma nel procedimento civile promosso da Manzo Sabrina contro RAI - Radiotelevisione Italiana S.p.A.. Lavoro e occupazione - Apposizione di termini alla durata del contratto di lavoro subordinato - Previsione, per i giudizi in corso alla data di entrata in vigore della norma censurata, di un indennizzo a carico del datore di lavoro ed in favore del lavoratore di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto - Violazione del principio di uguaglianza per la diversa disciplina di fattispecie identiche in base alla pendenza o meno di un giudizio - Incidenza sul diritto di difesa - Violazione di vincoli derivanti dalla normativa comunitaria e dalla CEDU - Violazione dei principi del giusto processo. - Decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, art. 4-bis, introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, della legge 6 agosto 2008, n. 133 [recte: art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, inserito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133]. - Costituzione artt. 3, 24, primo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.12 del 25-3-2009 )
IL TRIBUNALE All'udienza del 4 novembre 2008, ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile di primo grado, iscritta al n. 200596 R.G. degli Affari Civili Contenziosi, dell'anno 2007 e vertente tra Manzo Sabrina, elettivamente domiciliata in Roma, via Asiago n. 2, nello studio degli avvocati Carlo d'Inzillo e Matteo Adduci, che la rappresentano e difendono per procura a margine al ricorso introduttivo, ricorrente e RAI-Radiotelevisione Italiana S.p.A. (gia' R.A.I. - Radiotelevisione Italiana S.p.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Ezio n. 19, nello studio dell'avv. Marina La Ricca che la rappresenta e difende con l'avv. Pierluigi Lax per procura in calce alla copia notificata del ricorso, resistente. Il tribunale, sciogliendo la riserva assunta all'udienza del 4 novembre 2008, letti gli atti e la documentazione depositata espone quanto segue. Con ricorso depositato in data 11 gennaio 2007, Manzo Sabrina conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro la RAI - Radiotelevisione Italiana S.p.A. esponendo di avere lavorato alle dipendenze della resistente, nel periodo compreso tra il 1996 ed il 2006, con la qualifica di assistente ai programmi e di programmista regista, in forza di dodici contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, stipulati in occasione delle trasmissioni televisive specificate al punto 2) del ricorso, svolgendo le mansioni descritte analiticamente nell'atto introduttivo. Ha dedotto che i contratti in questione furono espressamente disciplinati, di volta in volta, dalla legge n. 230/1962 (come modificata dalla legge n. 266/1977), dalla legge n. 56/1987 e, da ultimo, dal decreto legislativo n. 368/2001, ma che per nessuna delle trasmissioni sopra indicate ricorrevano le condizioni per l'apposizione del termine, difettando in particolare il requisito della «specificita» del programma e che trattavasi comunque di assunzioni effettuate al fine di sopperire a carenze di personale e quindi con l'intento di eludere le disposizioni di legge. Cio' Premesso, chiedeva che venisse dichiarata la nullita' del termine apposto ai singoli contratti di lavoro, dichiarando conseguentemente che fra le parti era intercorso un unico ed unitario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla stipula del primo contratto ed ordinando il ripristino del rapporto di lavoro e/o la reintegrazione di esso lavoratore nel proprio posto di lavoro, con la condanna della societa' al pagamento di tutte le retribuzioni e contribuzioni maturate dalla scadenza di ogni contratto all'inizio del successivo e dalla scadenza dell'ultimo contratto in poi. Instauratosi il contraddittorio, la RAI contestava ed impugnava estensivamente quanto ex adverso dedotto ed allegato, concludendo per il rigetto del ricorso perche' infondato in fatto ed in diritto. Nel corso del presente giudizio e' entrato in vigore l'art. 21 del d.l. n. 112/2008, convertito nella legge n. 133/2008, che ha introdotto nel decreto legislativo n. 368/2001 l'art. 4-bis intitolato: «Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e diproroga del termine» che stabilisce «1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro e' tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni». Tutto cio' premesso in fatto, rileva il tribunale che l'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, applicabile pacificamente alla fattispecie oggi in esame, per due dei dodici contratti intervenuti tra le parti, nel testo ratione temporis applicabile prescrive al primo comma (oggi art. 1 n. 1 per effetto delle modifiche introdotte dalla legge 24 dicembre 2007 n. 247) che «E' consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo». Al secondo comma (oggi n. 2) poi prevede che «L'apposizione del termine e' priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1». Per semplicita' espositiva si continuera' a fare riferimento nella motivazione all'articolazione in commi vigente all'atto della stipula del contratto e come citata dalle parti nelle loro difese. Il Tribunale di Roma si e' gia' occupato della legittimita' dell'apposizione del termine in fattispecie analoghe nonche' degli effetti conseguenti, ritenendo che il legislatore, nel recepire la direttiva 1999/70/CE e ridisegnare la disciplina del lavoro a tempo determinato, ha introdotto una clausola molto ampia di legittimazione del contratto a termine, che per la sua generalita' viene a superare l'impostazione della normativa antecedente in vigenza della quale le assunzioni a termine erano consentite salvo che in ipotesi tassative. Tuttavia, con la previsione contenuta nel richiamato comma 2 della medesima norma, il legislatore, a fronte dell'ampiezza delle possibilita' nelle quali econsentito concludere un contratto a tempo determinato, di cui alla clausola generale dettata nel primo comma dell'art. 1 e alla maggiore autonomia concessa alle parti, ha, tuttavia, espressamente stabilito un onere di «specificazione», per iscritto, delle ragioni a carico del datore di lavoro. In conseguenza il tribunale ha tratto il convincimento che per la stipulazione di un valido contratto a termine, le ragioni di cui al comma 1 non possono essere tautologicamente ripetute o semplicemente determinate senza precisione, con una giustificazione che si risolva sostanzialmente in una letterale riproposizione delle cause di cui al primo comma; in tali casi sarebbe, infatti, eluso l'onere di specificazione di cui al comma 2. Ed ha ritenuto necessario, perche' possa dirsi assolto l'onere di specificazione, che dalle ipotesi generali indicate dal legislatore, in via astratta, nella prima parte della norma (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), si passi alla determinazione delle esigenze che, nel caso concreto, legittimano e motivano il ricorso ad una assunzione a termine, cosi' da rendere controllabile da parte del giudice la reale sussistenza delle stesse. Trattandosi di una specificazione necessaria, ai sensi di legge, nell'ambito del testo negoziale, e' stata affermata la sussistenza di un elemento essenziale e di un requisito necessario della fattispecie delineata dal legislatore per la valida apposizione del termine. Conseguentemente, qualora dette ragioni non siano state specificate (o siano state insufficientemente o tautologicamente esplicitate) nel testo contrattuale ne ha tratto la conseguenza della invalidita' della clausola contenente il termine per carenza di un suo elemento essenziale di carattere formale. Nei casi in cui, invece, le ragioni delle parti siano state formalmente e sufficientemente specificate nello scritto, ma sia risultato accertato, in seguito all'istruttoria, l'insussistenza dei fatti posti a fondamento delle stesse (e quindi delle stesse esigenze dichiarate), la clausola contenente il termine deve essere considerata ilegittima per l'assenza del presupposto legale necessario per la sua validita', cioe' per il difetto, nel caso concreto, delle ragioni «di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» di cui al comma 1 cit. Osserva in proposito il tribunale che questa opzione interpretativa raccoglie le indicazioni dell'Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70 CE, della quale il d.lgs. n. 368/2001 costituisce attuazione, che, nella clausola 3 delle «definizioni», afferma: «ai fini del presente accordo, il termine lavoratore a tempo determinato indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine e' determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico». L'assenza di quelle condizioni obiettive che siano state specificate e formalmente dichiarate dalle parti come «ragioni» giustificative del termine, determina, in conclusione, l'invalidita' della relativa clausola, come del resto sancisce l'art. 1 comma 1 cit. che vuole consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto solo a fronte delle ragioni nello stesso elencate. In altri termini, il requisito formale di cui al comma 2 citato, e' assolto quando siano inseriti nel testo contrattuale elementi sufficienti per il controllo sulla reale sussistenza delle ragioni menzionate e per consentire al lavoratore di averne contezza effettiva e, in caso di contrasto, al giudice di verificarne la reale consistenza e di individuare le reali esigenze alle quali il datore di lavoro ha inteso sopperire con la stipulazione del contratto a tempo determinato. Il legislatore - consentendo una maggiore autonomia delle parti rispetto al passato, con la previsione, in via astratta (in luogo delle ipotesi tassative), della amplissima e generale casistica di cui all'art. 1, comma 1 - ha posto il suddetto onere di specificazione al fine di evitare che la clausola del termine sia utilizzata anche laddove non ricorrano reali esigenze aziendali, vincolando, quindi, tale liberta' alla effettiva esistenza delle ragioni giustificatrici. Allo stato e per quanto e' dato delibare ai fini dell'esame della questione di conformita' a Costituzione, la clausola oppositiva del termine di scadenza al contratto di lavoro dedotto in giudizio non sembra contenere quegli elementi di specificazione che, come si e' detto, ne legittimano l'apposizione. Sicche', a prescindere dalla efficacia di una pattuizione di tal genere, accedendo alla proposta interpretazione della normativa applicabile al caso concreto, conseguenza della declaratoria di nullita' del termine, prima dell'entrata in vigore della legge n. 133 del 2008, sarebbe stata il ripristino del rapporto. Questo tribunale in altre decisioni ha gia' statuito che la nullita' della clausola non travolge l'intero contratto prevalendo, in una prospettiva interpretativa delle norme conforme ai principi dettati dalla direttiva comunitaria, il principio di conservazione degli atti e, dunque, la persistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti. Nella stessa direzione si e' pronunciata di recente la suprema Corte che ha affermato che l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, anche anteriormente alla modifica introdotta dall'art. 39 della legge n. 247 del 2007, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato e' normalmente a tempo indeterminato, costituendo l'apposizione del termine un'ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l'apposizione del termine «per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo». Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullita' parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonche' alla stregua dell'interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all'illegittimita' del termine ed alla nullita' della clausola di apposizione dello stesso consegue l'invalidita' parziale relativa alla sola clausola e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e cio' anche nel caso in cui tra le parti sia intercorso un unico contratto a termine (cfr. Cass. n. 12985/2008). Queste, in conclusione, nel caso concreto sarebbero state le conseguenze della eventuale declaratoria di illegittimita' del contratto, conseguenze oggi precluse per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 21-bis del decreto-legge n. 112/2008, convertito con modificazioni nella legge n. 133/2008 che ha introdotto nel decreto legislativo n. 368/2001 l'art. 4-bis. Non solo, quindi, sarebbe esclusa la possibilita' di ripristinare il rapporto di lavoro, ma l'indennita' riconoscibile sarebbe necessariamente limitata nel minimo a 2,5 e nel massimo a 6 mensilita'. Il tribunale ritiene che non si possa dubitare della rilevanza della questione di legittimita' costituzionale del piu' volte citato art. dell'art. 21, comma 1-bis della legge n. 133/2008, sulla scorta di quanto osservato con riferimento alla vicenda dedotta in giudizio, e della non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24, primo comma, 111, primo comma e 117, primo comma, della Costituzione, nel significato che assumono anche per effetto delle proclamazioni contenute nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, e negli artt. 20 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, alle quali la Corte costituzionale ha indubbiamente assegnato il valore di parametro di riferimento nel giudizio di costituzionalita' (v. Corte cost. 135/2002), implicitamente riconoscendo che i diritti e le liberta' fondamentali derivanti dalle fonti di convenzioni e trattati sovranazionali, affiancandosi quali valori-diritti alla dignita' delle persone, compongono un quadro di proclamazioni assimilabili al livello costituzionale. Contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Va considerato che tutti i poteri pubblici, anche quelli di rango costituzionale, possono e devono essere esercitati unicamente per il perseguimento dei fini in relazione ai quali il potere e' attribuito. E'questo il connotato dei poteri costituzionali delle moderne democrazie poiche' si tratta di poteri discrezionali ma non liberi nei fini, secondo la definizione di accreditata dottrina costituzionalista. Ne consegue che gli organi cui sono affidate le massime funzioni nelle quali si esprime la sovranita' dello Stato non possono espletare le potesta' loro attribuite per scopi diversi da quelli cui le funzioni stesse sono finalizzate, tantomeno in via strumentale per ledere diritti e principi stabiliti dalla Costituzione. Tale finalita' e' vietata dalla nostra Costituzione. In particolare, il potere legislativo, subordinato com'e' al pari degli altri poteri costituzionali all'impero delle norme e dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, incontra nel suo esplicarsi, il limite della legalita' costituito dalla ragionevolezza dell'intervento legislativo (cfr. Corte cost. 7 luglio 1964 n. 72 e Corte cost. 15 luglio 1991 n. 346). Tanto premesso il tribunale osserva che attraverso la disposizione denunciata e' stata introdotta, per i contratti regolati dal decreto legislativo n. 368/2001, rispetto ai quali sia pendente un giudizio circa la legittimita' del termine apposto, una regolamentazione diversa rispetto a quella in via generale applicabile ai contratti a termine, secondo quanto generalmente affermato in materia dalla giurisprudenza di merito e di legittimita'. Per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 133 del 2008, infatti, ove sia pendente un giudizio (e salvi dunque solo i giudicati) la tutela accordata ai contratti a tempo determinato, stipulati nella vigenza del decreto legislativo n. 368 del 2001 e che siano illegittimi in quanto stipulati in violazione dell'art. 1, 2 e 4 del decreto stesso, e' limitata al solo pagamento di una «indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 e successive modificazioni.» La norma censurata non contiene alcun riferimento all'obbligo per il datore di lavoro, pur previsto dall'art. 8 della legge n. 604/1966, di procedere al pagamento dell'indennizzo solo ove non provveda nel termine di tre giorni a riassumerlo, ma limita il richiamo ai soli criteri da seguire per l'esatta quantificazione dell'indennita'. Cosi' facendo il legislatore ha ridotto la tutela accordata, avendo riguardo al solo discrimine temporale della attuale pendenza di un giudizio. Per tutti quei contratti a termine stipulati nel regime del decreto legislativo n. 368/2001 il cui ricorso introduttivo della lite sia stato depositato successivamente all'entrata in vigore della legge 133/2008 (che ex art. 1 ultimo comma e' entrata in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e, dunque - per essere stata pubblicata nel s.o. n. 196 alla Gazzetta Ufficiale n. 195 del 21 agosto 2008 - a partire dal 22 agosto 2008) le conseguenze restano quelle gia' previste e sopra diffusamente riportate (ripristino del rapporto e risarcimento del danno). Il discrimine per individuare la normativa applicabile e', dunque, del tutto casualmente ancorato al fatto che il lavoratore avesse o meno iniziato un giudizio. Ritiene allora questo tribunale che non vi sia alcun elemento per ritenere che la scelta del legislatore sia stata determinata da un meditato ripensamento delle tutele da accordare, in generale, ai contratti a tempo determinato. Il tribunale e' a conoscenza dei principi affermati dal giudice delle leggi il quale in piu' occasioni ha precisato che ben puo' il legislatore applicare alla stessa categoria di soggetti, trattamenti differenziati in momenti diversi nel tempo. La Corte costituzionale ha, infatti, ancora di' recente, ribadito che tale scelta non contrasta di per se' con il principio di eguaglianza posto che proprio il fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore delle situazioni giuridiche. La demarcazione temporale consegue, come effetto naturale, alla generalita' delle leggi e non comporta, di per se', una lesione del principio di parita' di trattamento sancito dall'art. 3 della Costituzione (v. Corte cost. n. 234/2007 e ordinanze n. 342/2006, n. 216/2005 e n. 121/2003). Tuttavia la legge in esame non rappresenta una rimeditazione complessiva degli effetti con riferimento alla generalita' dei soggetti, canone di eguaglianza che deve permanere ove il tempo determini una modifica della disciplina, ma, piuttosto, contiene la previsione, di una sorta di moratoria delle conseguenze generali rispetto ad un contenzioso temporalmente definito (cause pendenti alla data del 22 agosto 2008), ma certo non esaurito per il futuro. Non dubita il tribunale che il legislatore abbia il potere di dettare norme aventi contenuto concreto e particolare dalle quali possano derivare effetti nei riguardi dei procedimenti giudiziari in corso ovvero sui provvedimenti giurisdizionali. Non e' ravvisabile, in via generale, un'illegittima invasione da parte della funzione legislativa nell'ambito riservato dalla Costituzione all'autorita' giudiziaria, posto che la norma di diritto sostanziale che regola una situazione anche pregressa, senza violare il giudicato, non sottrae al giudice alcuna controversia, ma gli fornisce, appunto, la regola di diritto che egli deve applicare. Ma con la norma in esame il legislatore non ha regolato diversamente - come bene avrebbe potuto - gli effetti rispetto a tutti i contratti stipulati da una certa data in poi, ma ha scelto, ad avviso di questo tribunale, in maniera del tutto irragionevole, di limitarne gli effetti alle sole controversie pendenti. Non e' infatti ravvisabile alcuna giustificazione razionale nel fatto che la disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad una categoria di soggetti, riducendo la tutela mentre pendono i giudizi, proprio e solo per il fatto di avere una causa in corso. Con l'aggravante che proprio per il modo in cui interviene «con riferimento ai soli giudizi in corso», il comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133 del 2008 finisce per amplificare ulteriormente, anche sul piano dell'utilizzo degli strumenti processuali di tutela e pertanto sul piano del diritto alla difesa e dell'«equo processo» (artt. 3, 24 comma 1 e 111, primo comma, 117 Cost.), gli effetti, gia' illustrati e per loro stessi discriminatori, dell'intervento provvedimentale mirato alle applicazioni del sistema sanzionatorio relativo agli artt. 1, 2 e 4 del decreto legislativo n. 368 del 2001. Contrasto con gli artt. 24, primo comma, 111, primo comma e 117, primo comma della Costituzione. Va premesso che, dal complessivo tenore delle norme richiamate e dall'interpretazione che delle stesse ha ripetutamente offerto la Corte costituzionale, emerge con evidenza l'esistenza, nel nostro ordinamento costituzionale, di un principio immanente del giusto processo, che proclamato dall'art. 111, primo comma Cost., si manifesta in maniera complessa e poliedrica e che ha stretta correlazione con il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi (art. 24, primo comma Cost.), con il diritto ad avere regole giuste nel processo (art. 111, primo comma Cost), a tutela del contraddittorio, della terzieta' ed imparzialita' del giudice (art. 111, secondo comma Cost.), con il diritto del cittadino di vedere esercitato il potere legislativo da parte dello Stato e delle regioni non solo nel rispetto della Costituzione italiana ma anche dei vincoli dettati dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, primo comma Cost.). L'art. 4-bis del decreto legislativo n. 368/2001 viola il principio costituzionale del giusto processo perche' nel corso del procedimento giudiziario modifica la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato senza che siano ravvisabili ragioni oggettive e generali che sostengono tale scelta del legislatore. Ritiene infatti il tribunale che nel caso in esame l'intervento legislativo determini un'alterazione della condizione di parita' nell'esercizio del diritto di difesa tra la parti in causa, condizione che, al contrario, deve essere sempre assicurata. Ed infatti, e' evidente che il legislatore a fronte del consistente contenzioso pendente in tutti gli uffici giudiziari italiani e' intervenuto allo scopo di favorire una definizione delle controversie pendenti in termini di minor impatto economico per le parti datoriali, senza che tuttavia tale scelta risulti sorretta da quelle imperiose ragioni d'interesse generale, che, ad esempio, la Corte europea di Strasburgo richiede come condizione per superare il divieto d'ingerenza (in tal senso si legga l'ordinanza della Cass. n. 22260/2008 relativamente all'art. 1, comma 218, legge n. 266 /2005). Ed, infatti, nessuna traccia di cio' e' riscontrabile nel procedimento legislativo che ha condotto all'approvazione di tale disposizione. E'sintomatico, anzi, che la norma (inizialmente limitata ai contenzioso Poste Italiane) sia stata in corso d'opera estesa a tutti i contratti a tempo determinato, proprio per rimediare ad una evidente violazione, quanto meno, dell'art. 3 della Costituzione. Ma anche nel testo approvato, ed oggi esaminato, non sono rintracciabili quelle ragioni oggettive a tutela di un interesse generale che, in ipotesi, avrebbero potuto giustificarne l'adozione. Al contrario, si potrebbe dire che l'inesistenza di una simile ratio e' in re ipsa per il solo fatto che la ridotta tutela e' limitata temporalmente ai soli giudizi pendenti e nessuna ragione di' interesse generale risulta in qualche modo esplicitata neppure nei lavori parlamentari. Con cio', e senza che per questo sia ravvisabile alcuna esigenza concreta a cui il legislatore abbia inteso sopperire, viene ribaltata la stessa ordinaria ed elementare logica del processo «equo» e improntato all'effettivita' della tutela giurisdizionale; giacche' sarebbe logico, al contrario di quel che discende dalle previsioni del comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133 del 2008, che nei «giudizi in corso» le certezze sulla difesa dei propri diritti tanto piu' siano acquisite, e non passibili di essere rimesse in gioco da capo, quanto piu' il processo sia pervenuto in una fase avanzata e sfociato in pronunciamenti esecutivi, o perfino eseguiti. Analoghe considerazioni valgono con riferimento alla violazione dell'art. 117, primo comma Cost. Il tribunale osserva che nell'esaminare la rilevanza della questione con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., si puo' dare valore interpretativo ai principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), sia in relazione ai parametri costituzionali di cui tenere conto, che alle norme censurate (cfr. Corte cost. n. 505/ 1995; ord. n. 305/2001), ben potendosi richiamare, per avvalorare una determinata esegesi, le indicazioni normative, anche di natura sovranazionale (cfr. di recente Corte cost. n. 349/2007 ma anche Corte cost. n. 231/ 2004). In taluni casi la Corte costituzionale ha richiamato norme della CEDU, svolgendo argomentazioni espressive di un'interpretazione conforme alla Convenzione (cfr. sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero richiamando dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell'esegesi accolta (cfr. sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003) che risultava cosi' avvalorata anche in ragione della sua conformita' con i «valori espressi» dalla Convenzione, «secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo» (v. sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998). Si e' infatti sottolineato come un diritto garantito da norme costituzionali sia «protetto anche dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti (...) come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo» (cfr. sentenza n. 154 del 2004). Avvalorata e confermata la possibilita' di utilizzare il parametro richiamato per valutare la compatibilita' della norma censurata con l'art. 6 della CEDU e dunque con l'art. 117, primo comma Cost., ancora una volta si deve rilevare che, come piu' volte statuito anche dalla Corte di Strasburgo (cfr. per tutte Scordino contro Italia, 29 marzo 2006), gli Stati aderenti alla Convenzione devono astenersi dall'esercitare ingerenze normative finalizzate ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo che l'intervento retroattivo sia giustificato da motivi di carattere imperioso e generale. Ne consegue che nel caso in esame il legislatore con una disposizione che, non interpreta norme di legge esistenti ma muta il quadro normativo di riferimento, esclude quelli che nel diritto vivente sono i normali effetti della declaratoria di illegittimita' del termine apposto al contratto e cosi' impedisce al giudice di adottare la tutela prevista dall'ordinamento generale (tutela sospesa temporaneamente in forma irragionevole). In tal modo la norma in esame determina una ingiustificata modificazione della tutela dei diritti azionati e incide, come si e' evidenziato, solo e soltanto sui giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge realizzando una inammissibile intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo d'influire sulla risoluzione di una specifica categoria di controversie. In conclusione, ed alla luce delle esposte considerazioni, si ritiene di dover valutare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della norma indicata in dispositivo in relazione ai profili sopra esposti. Il giudizio in corso deve quindi essere sospeso e gli atti rimessi alla Corte costituzionale.
P. Q. M. Visto l'art. 23, comma 2 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 21, comma 1-bis della legge 6 agosto 2008, n. 133, con il quale, dopo l'art. 4 del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368, e' stato inserito l'art. 4-bis, per contrasto con gli artt. 3, 24, primo comma, 111, primo comma e 117, primo comma della Costituzione. Sospende il presente giudizio. Manda alla cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri nonche' di comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Dispone la trasmissione dell'ordinanza e degli atti del giudizio alla Corte costituzionale unitamente alla prova delle comunicazioni prescritte. Roma, addi' 4 novembre 2008 Il giudice del lavoro: Mormile