N. 84 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 novembre 2008

Ordinanza del 13 novembre 2008 emessa dalla Corte militare  d'appello
di Roma nel procedimento penale militare a carico di Cavallo Livio. 
 
Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n.
  46/2006 -  Possibilita'  per  il  pubblico  ministero  di  proporre
  appello contro le sentenze di non luogo a procedere - Preclusione -
  Violazione del  principio  di  ragionevolezza  -  Contrasto  con  i
  principi della ragionevole durata dei procedimenti e della  parita'
  delle  parti  -  Violazione  del   principio   di   obbligatorieta'
  dell'azione  penale  -   Richiamo   alle   sentenze   della   Corte
  costituzionale nn. 26/2007, 320/2007 e 85/2008. 
- Codice di procedura penale, art. 428, come sostituito  dall'art.  4
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46. 
- Costituzione, artt. 3, primo comma, 111, comma secondo, e 112. 
(GU n.12 del 25-3-2009 )
                    LA CORTE MILITARE DI APPELLO 
    Ha pronunciato in Camera di consiglio la seguente  ordinanza  nel
procedimento penale a carico di Cavallo Livio  nato  a  Lecce  il  26
novembre 1953, residente a Fossano  (CN)  in  via  S.  Michele  n.13,
Maresciallo della Guardia di Finanza, libero, in seguito  all'appello
proposto dal P.G.M. presso la Corte  militare  di  appello,  sez.  di
Verona, in data 11 febbraio 2008 avverso la sentenza n. 04/08  emessa
il 17 gennaio 2008 dal g.u.p. presso il Tribunale militare di Torino,
con la quale per il triplice reato p. e p. dall'art. 3 della legge  9
dicembre 1941 , n. 1383, veniva dichiarato  non  luogo  a  procedere,
perche' il fatto non sussiste. 
    Sentito il pubblico ministero, che ha ribadito  la  questione  di
legittimita'  costituzionale,  sollevata  nell'atto  di  appello  del
P.G.M., per violazione degli articoli 3, primo comma, e 111,  secondo
comma, primo e  secondo  periodo,  della  Costituzione,  della  norma
contenuta  nell'art.  428  del  codice  di  procedura  penale,  quale
modificata dall'art. 4 della legge 20 febbraio  2006,  n.  46,  nella
parte in cui ha  soppresso  il  diritto  del  pubblico  ministero  di
proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere; 
    Sentito il difensore dell'imputato,  che  ha  chiesto  di  volere
ritenere manifestamente infondata l'eccezione sollevata dal P.G.M.  e
conseguentemente la declaratoria di inanimissibilita' dell'appello; 
                    Osserva in fatto e in diritto 
Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. 
    Il  presente  giudizio  di  gravame  trae  origine   dall'appello
tempestivamente presentato dalla Procura generale militare presso  la
Corte militare di appello, sez.di  Verona  avverso  la  sentenza  del
G.U.P. sopra indicato. 
    Nel  contesto  dell'atto  di  appello,  provvisto  di  tutti  gli
intrinseci requisiti di ammissibilita', viene sollevata la  questione
di legittimita' costituzionale  della  norma,  per  violazione  degli
articoli 3, primo comma,  e  111,  secondo  comma,  primo  e  secondo
periodo, della Costituzione, contenuta nell'art. 428  del  codice  di
rito penale, la quale, nella formulazione conseguente all'entrata  in
vigore della legge 20 febbraio 2006 - e segnatamente dell'art.  4  -,
ha previsto il ricorso per cassazione come unico  rimedio  contro  la
sentenza di non luogo a procedere, cosi' inderogabilmente  escludendo
la proponibilita', prima consentita, dell'appello avanti  al  giudice
di secondo grado. 
    In conformita' a  quanto  disposto  dal  codice  di  rito  questa
Corte,ove   non   condividesse   le   censure    di    illegittimita'
costituzionale prospettate dai rappresentanti dell'accusa, sia  negli
atti di gravame che nella presente udienza, avrebbe a disposizione la
seguente    alternativa:    o    dichiarare    la    inammissibilita'
dell'impugnazione, in  quanto  presentata  contro  provvedimento  non
appellabile; oppure convertire l'appello in ricorso per cassazione  e
trasmettere gli atti al giudice competente al suo esame. 
    Di conseguenza appare evidente  la  rilevanza  della  prospettata
questione di legittimita' costituzionale, in ragione del fatto che la
possibilita' di trattare il  procedimento  nell'ambito  del  presente
giudizio di appello e'  preclusa  proprio  della  nuova  formulazione
dell'art. 428, di cui entrambi i rappresentanti della pubblica accusa
hanno denunciato il contrasto con gli articoli 3,  secondo  comma,  e
111, secondo comma, della Costituzione. 
Non  manifesta   infondatezza   della   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    Ritiene la  Corte  che  siano  da  condividere  i  rilievi  e  le
osservazioni  contenuti  negli  atti  di  appello  e   ribaditi   dal
rappresentante della procura generale nel presente giudizio camerale,
a sostegno del prospettato dubbio di legittimita'  costituzionale  in
ordine alla nuova formulazione dell'art. 428 c.p.p. In particolare e'
da condividersi l'assunto che la nuova  norma  sui  limiti  oggettivi
alla impugnabilita' della sentenza di non luogo a  procedere  sia  in
contrasto con le seguenti disposizioni della Carta costituzionale: 
        a) il comma  1  dell'art.  3,  istitutivo  del  principio  di
eguaglianza  e   costituente   -   sub   specie   di   parametro   di
«ragionevolezza» - il termine di raffronto fondamentale ai fini della
valutazione della legittimita' costituzionale del suddetto art. 428; 
        b) il comma 2 dell'art. 111 (introdotto ex art. 1 della legge
cost. 23 novembre 1999, n. 2), contenente la norma secondo cui  «Ogni
processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni  di
parita', davanti a giudice terzo e imparziale. La legge  ne  assicura
la ragionevole durata». 
Sul contrasto con l'articolo 3 della Costituzione. 
    Il contrasto con l'art. 3 della Costituzione si  evidenzia  sotto
una duplice prospettiva: innanzitutto sotto forma di irragionevolezza
della disciplina, in quanto essa si innesta su di un quadro normativo
che, grazie alle fondamentali sentenze della Corte costituzionale  n.
26 e 320 del 2007, garantisce al  pubblico  ministero  il  potere  di
proporre appello avverso le sentenze di assoluzione  pronunciate  sia
in esito ad un dibattimento che a conclusione di un rito abbreviato. 
    Di  conseguenza  la  preclusione  disposta  dalla  norma  di  cui
all'art.  428  viene  a  perdere  ogni  ragionevolezza  e  fondamento
giustificativo, posto  che  nega  al  rappresentante  della  pubblica
accusa, nella fondamentale fase in cui viene formulata la domanda  di
giudizio, il potere di richiedere quel completo riesame di merito che
viene allo stesso riconosciuto nelle ulteriori fasi del processo. 
    Ritiene questo giudice, in particolare, che  la  norma  in  esame
costituisca un elemento di forte turbativa ed incoerenza nel contesto
della complessiva disciplina del potere di appello, in  quanto  priva
il  rappresentante  della  pubblica  accusa  della  possibilita'   di
segnalare e far correggere gli eventuali vizi della sentenza  di  non
luogo a procedere e trasforma quest'ultima in una sostanziale  pietra
tombale, che preclude ogni ulteriore confronto dialettico sul  merito
dell'accusa e  rende  possibile  il  solo  rimedio  del  ricorso  per
cassazione, i cui peculiari connotati  non  consentono  una  adeguata
disamina della totalita' dei vizi che  possono  inficiare  il  merito
della decisione. 
    Il novellato art. 428 c.p.p., nella parte in cui consente il solo
rimedio del ricorso per cassazione e non prevede piu'  l'appello  del
p.m. contro  la  sentenza  di  non  luogo  a  procedere  del  g.u.p.,
contrasta anzitutto con il parametro dell'art. 3, primo comma, Cost.,
che, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale,  funge  da
limite alla discrezionalita' del  Legislatore,  facendo  si'  che  le
scelte di questi, per quanto tendenzialmente  del  tutto  libere  nei
fini, siano sindacabili sotto il profilo della ragionevolezza  (cfr.,
ex multis, Corte cost., 20 luglio 1994, n. 324). 
    Nel caso di specie non risulta soddisfatto proprio  il  requisito
della ragionevolezza, per la determinante ragione che si impedisce al
pubblico  ministero  di  coltivare  l'esercizio  dell'azione   penale
nell'ambito della sequenza procedimentale che ancora si  frappone  al
giudizio dibattimentale e gli si  impone  di  esperire  un  mezzo  di
impugnativa (il ricorso  per  cassazione)  che,  oltre  a  quanto  si
osservera' in seguito, non appare fisiologicamente  coerente  con  il
tipo di valutazione che deve sovrintendere alla decisione di rinvio a
giudizio  ed  appare  poco  adatto  a  contrastare  efficacemente  la
sentenza con la quale il giudice a quo  si  sia  espresso  in  ordine
all'insostenibilita' dell'accusa in giudizio. 
    In tal modo  si  compromette  la  possibilita'  che  il  pubblico
ministero chieda ad un ulteriore giudice di esaminare  le  risultanze
processuali  nella  totalita'  del  loro  significato  e  della  loro
consistenza e si opera una non ragionevole discriminazione tra quanto
previsto per i procedimenti che richiedono  l'udienza  preliminare  e
quanto previsto per i diversi procedimenti a citazione diretta,  dove
la domanda di  giudizio  del  pubblico  ministero  trova  l'immediato
riscontro della  fissazione  della  udienza  dibattimentale,  non  e'
minimamente esposta al rischio di essere prematuramente bloccata  nei
suoi atti di concreto e doveroso esercizio ed e' altresi'  garantita,
nell'attuale contesto normativo e grazie alle  sentenze  della  Corte
costituzionale n. 26 e 320 del 2007, dalla possibilita' di un appello
avverso la decisione conclusiva del giudizio di primo grado. 
    L'intera sequenza di rimedi impugnatori sopra indicata viene  del
tutto paralizzata nel caso di procedimenti che  richiedano  l'udienza
preliminare; di quei procedimenti, cioe', che concernono i reati piu'
gravi ed in relazione ai quali appare ancora di certo  piu'  acuta  e
pressante la esigenza di un riesame del merito della imputazione, per
evitare che gli errori  compiuti  nella  verifica  della  domanda  di
giudizio producano conseguenze irreversibili e impediscano  la  piena
attuazione  del  diritto  positivo  e  l'adeguato   riscontro   degli
interessi della comunita' e della persona offesa. 
Sul  contrasto  con  i  principi   della   ragionevole   durata   dei
procedimenti e della parita' delle parti. 
    Ritiene la Corte che la nuova disciplina sia in  contrasto  anche
con  la  norma  costituzionale  che  impone  di  predisporre   quanto
necessario ad assicurare la ragionevole durata del procedimenti (art.
111, secondo comma, Cost.) e garantire  pari  possibilita'  operative
alle parti processuali, in ragione degli  obiettivi  coessenziali  al
rispettivo ruolo e in considerazione delle specifiche caratteristiche
delle singole fasi processuali. 
    La proponibilita' avverso la sentenza di non  luogo  a  procedere
del solo ricorso per cassazione, infatti, non  consente  al  pubblico
ministero (il quale non condivida la decisione del g.u.p. di bloccare
l'esercizio dell'azione penale) di tutelare, efficacemente e in tempi
congrui,  la  funzione  del  processo   penale,   che,   secondo   la
giurisprudenza della Corte  costituzionale,  e'  strumento  destinato
all'accertamento giudiziale dei  fatti  di  reato  e  delle  relative
responsabilita' (cfr. Corte cost., 2 novembre 1998, n. 361). 
    Va sul punto condiviso il rilievo  del  p.g.m.,  secondo  cui  la
violazione dell'art. 111,  secondo  comma,  Cost.,  ascrivibile  alla
nuova formulazione dell'art. 428 c.p.p., e' duplice, palesandosi  sia
come vulnus arrecato al principio di  parita',  coram  iudice,  delle
parti (pubblica e privata) del processo; sia come vulnus arrecato  al
principio di ragionevole durata dei tempi di svolgimento del processo
medesimo. 
    Invero, e' difficile non ammettere che nei procedimenti in cui e'
prevista l'udienza preliminare - ossia nella totalita' dei casi,  per
quanto riguarda gli organi della giurisdizione  militare  (davanti  a
cui non trovano applicazione  le  disposizioni  del  Libro  VIII  del
codice di rito sul procedimento davanti al tribunale in  composizione
monocratica) -, si verifichi, a causa del riformato art. 428  c.p.p.,
un ingiustificato ed irragionevole «sbilanciamento»  delle  parti  in
relazione alle conseguenze del provvedimento conclusivo. 
    Infatti, mentre per l'imputato il piu' sfavorevole degli esiti e'
rappresentato dal rinvio a giudizio davanti al suo giudice  naturale,
ossia un atto  meramente  interlocutorio,  per  l'accusa  l'eventuale
pronuncia ex  art.  425  c.p.p.  comporta  il  pressoche'  definitivo
«affossamento» delle  ragioni  pubblicistiche  sottese  all'esercizio
dell'azione  penale;  esercizio  -  si  badi  -  non  intrapreso  dal
requirente sulla base di una scelta discrezionale, il cui  fallimento
possa  essere  in  certa   misura   ascritto   a   sua   «imprudenza»
professionale,  ma  adottato  in  ossequio  a   un   preciso   dovere
costituzionalmente imposto. 
    Le condizioni paritarie, di cui parla il secondo comma  dell'art.
111 della Carta fondamentale, infatti, non  possono  non  significare
anche ragionevole  parita'  di  posizioni  davanti  al  provvedimento
conclusivo della fase, da valutare in un ottica prospettica  e  dando
il giusto significato alla non impugnabilita' del rinvio a  giudizio,
che e' misura di carattere interlocutorio e  non  preclude  in  alcun
modo che l'imputato possa far valere in seguito le sue doglianze  sul
merito del provvedimento che concluda il processo di primo grado. 
    Inoltre   vale   la   pena   di   rilevare,   per   inciso,   che
l'inappellabilita' delle sentenze di non  luogo  a  procedere  incide
negativamente anche sulla sfera giuridica  dell'imputato,  posto  che
nell'attuale  sistema  normativo  non  e'  consentito   al   pubblico
ministero di appellare le suddette  sentenze  neanche  nell'interesse
del  soggetto  sottoposto  a  processo  penale.  E   cio'   determina
un'ulteriore incongruita' del sistema, alla luce di  quanto  statuito
dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2008  che
ha ripristinato  la  facolta'  per  l'imputato  di  appellare  quelle
sentenze  di  proscioglimento  dibattimentale  le  quali,   pur   non
applicando una pena, comportino - in diverse forme e gradazioni -  un
sostanziale riconoscimento  della  responsabilita'  dell'imputato  o,
comunque,  l'attribuzione  del  fatto   all'imputato   medesimo   (in
particolare, il proscioglimento per cause di non punibilita' legate a
condotte o accadimenti post factum). 
    L'anomalia  eliminata  dalla  sentenza  di  cui  sopra,  infatti,
continua a contrassegnare le  sentenze  di  non  luogo  a  procedere,
tendenzialmente   assoggettate   ad   uno   statuto    unitario    ed
indifferenziato di inappellabilita' e che possono essere emesse anche
per la sussistenza di cause sopravvenute di non punibilita' o per  la
sussistenza di cause di estinzione del reato (sono, infatti, precluse
solo nella marginale  ipotesi  in  cui  dalle  medesime  consegua  la
applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca). 
    La sostanziale inadeguatezza del nuovo strumento di  impugnazione
( ricorso per cassazione), infine, emerge non appena si consideri che
esso, ancorche' contemplato dal sistema previgente, non  aveva  quasi
mai ricevuto applicazione,  in  quanto  poco  congeniale  alla  quasi
generalita' delle censure che venivano mosse  alla  sentenze  di  non
luogo a procedere e che vedevano nell'appello il  tipico  e  naturale
strumento di impiego e reazione. 
    Divenuta regola quella  che  era  l'eccezione,  non  ci  si  puo'
esimere dall'interrogarsi  circa  la  congruita'  costituzionale  del
mezzo rispetto al fine, che - come prima - non puo' che essere quello
di ottenere che venga rimosso il non condiviso ostacolo all'esercizio
dell'azione penale rappresentato dal proscioglimento  del  g.u.p.  ed
ottenere che la res judicanda sia sottoposta  all'esame  del  giudice
del dibattimento. 
    Il  novellato  testo   dell'art.   428   c.p.p.,   inoltre,   pur
riconoscendo  la  facolta'  di  ricorrere  per  cassazione  anche  al
Procuratore della Repubblica [comma  1,  lett.  a)]  e  alla  persona
offesa costituita parte civile (comma 2,  seconda  parte),  tace  sui
provvedimenti assumibili da parte della Corte suprema, limitandosi  a
precisare che questa «decide (...) in  camera  di  consiglio  con  le
forme previste dall'art. 127» (comma 3). 
    Nel silenzio della legge, non sembra vi sia spazio per  spingersi
oltre quelli che, nel sistema quo  ante,  venivano  ritenuti  i  soli
possibili esiti del giudizio di cassazione; 
Il  rigetto  dell'impugnazione,  con   la   conseguenziale   conferma
tout-court della decisione. 
    La  rettifica   della   formula   terminativa   in   ipotesi   di
proscioglimento pronunciato dal g.u.p. con  una  causale  diversa  da
quella emergente dalla motivazione  (cfr.  Cass.  pen.,  sez.  I,  13
dicembre 1991, Sassola, in Mass. Cass. Pen., 1992, fasc. 1, 77); 
L'annullamento della sentenza impugnata. 
    Unanime era, prima dell'entrata in vigore della legge n.  46  del
2006, l'opinione che escludeva la possibilita' per la  Corte  suprema
di emettere decreto ai sensi dell'art.  429  c.p.p.;  ma  altrettanto
deve ritenersi oggi, dal momento che appare francamente insostenibile
l'ipotesi che il giudice di legittimita' possa disporre il  rinvio  a
giudizio, provvedendo contestualmente alla formazione  del  fascicolo
per il dibattimento: oltre tutto, tale ultima  incombenza  va  svolta
dal giudice «nel contraddittorio delle parti», e cio' mal si attaglia
al rito camerale «puro» ex art. 127 c.p.p. stabilito per il  giudizio
di cassazione. 
    Quindi, tralasciando qui l'eventualita'  di  un  «ritocco»  della
causale del proscioglimento, l'unico esito configurabile in  caso  di
condivisione delle ragioni dell'impugnazione del p.m.  da  parte  del
supremo Collegio e' quello di un annullamento con rinvio al giudice a
quo: il quale, pur cambiato nella persona, potra' pur sempre adottare
una diversa  decisione  liberatoria,  a  sua  volta  ricorribile  per
cassazione  secondo  una  sequenza  che  potrebbe  -  in   teoria   -
prolungarsi quasi all'infinito. 
    Ma  se  grave  e'  la  ferita   cagionata   all'interesse   della
parte-accusa - che pero' e' sempre interesse dell'ordinamento  e  mai
del singolo p.m., che ha l'obbligo, ex art. 112 Cost., di  esercitare
l'azione penale - non meno grave e clamoroso e'  il  pregiudizio  che
subisce la regola, anch'essa costituzionalmente garantita (art.  111,
secondo  comma,  seconda  parte)  della  «ragionevole   durata»   del
processo. 
    Non a caso, proprio con riferimento alla modifica  dell'art.  428
c.p.p., nel messaggio del 20 gennaio 2006,  con  cui  il  Capo  dello
Stato ha rinviato alle Camere il disegno di  legge  originario  sulla
inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento  (poi  trasformato
nella legge che, in parte qua, in questa sede si  contesta  sotto  il
profilo della legittimita' costituzionale), si legge: 
    «Un altro problema (...) e' quello che deriva dall'art.  4  della
legge, che modifica  l'art.  428  del  codice  di  procedura  penale,
trasferendo  dalla  Corte  d'appello   alla   Corte   di   cassazione
l'impugnazione della sentenza di non luogo a procedere. Ne  derivera'
non  soltanto  un  ulteriore  aumento  di  lavoro  per  la  Corte  di
cassazione, ma anche, in caso di mancata conferma della  sentenza  di
non luogo a procedere,  una  regressione  del  procedimento,  che  ne
allunghera' inevitabilmente i tempi di definizione». 
    Sicche' appare scontata ed  inevitabile  la  conclusione  che  la
nuova disciplina comprometta il principio  della  ragionevole  durata
del processo e che cio' faccia in  difetto  di  qualsivoglia  ragione
giustificativa. 
    Ne  deriva,  di  conseguenza,   il   ragionevole   dubbio   sulla
costituzionalita'  della  medesima,  posto  che  al  principio  della
ragionevole durata del processo arrecano un indubbio vulnus «le norme
procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non
sorrette da alcuna  logica  esistenza,  non  essendo  in  altro  modo
definibile la durata ragionevole del  processo  se  non  in  funzione
della ragionevolezza degli adempimenti che ne scandiscono il corso  e
ne determinano i tempi» (Corte Cost., sentenza n. 148 del  12  aprile
2005 (4 aprile 2005). 
    La Corte  rileva  altresi'  un  contrasto  con  il  principio  di
obbligatorieta' dell'azione penale (art.112 Cost.). 
    L'esclusione dell'appello del p.m. avverso  le  sentenze  di  non
luogo  a  procedere  appare   contrastare   anche   con   il   canone
costituzionale sulla obbligatorieta' dell'azione penale. 
    La  giurisprudenza  costituzionale,  infatti,  ha  esplicitamente
riconosciuto  nel  potere  di  impugnazione  del   p.m.   una   delle
espressioni dell'obbligo di esercizio dell'azione  penale  consacrato
nell'art. 112 Cost. ed affermato  che  non  puo'  ammettersi  che  la
normativa ordinaria sia congegnata in  modo  tale  da  vanificare  il
complessivo assolvimento delle funzioni  di  accusa  (sentenze  Corte
cost. n. 177/1971 e 98/1994). 
    L'importante principio affermato nelle citate sentenze,  inoltre,
non risulta essere stato completamente neutralizzato dalle successive
decisioni con  le  quali  il  Giudice  delle  leggi  ha  espresso  il
convincimento che non vi sia una diretta e generale correlazione  tra
potere di impugnazione  del  p.m.  e  poteri  inerenti  all'esercizio
dell'azione  penale  (cfr.  Corte  cost.,  ordinanze  nn.   421/2001,
347/2002 e 165/2003). 
    Le argomentazioni contenute in queste ultime decisioni,  infatti,
riguardano il diverso scenario in cui l'azione penale era gia'  stata
positivamente  esercitata  ed  aveva  altresi'  messo  capo  ad   una
pronuncia favorevole alle ragioni dell'accusa, posto che si  trattava
di verificare se e quanta ragionevolezza fosse insita nella norma che
impediva al p.m.  di  proporre  appello,  principale  e  incidentale,
contro le sentenze di condanna  emesse  a  conclusione  del  giudizio
abbreviato; cioe' nel contesto di un  rito  che  perseguiva  evidenti
obiettivi di semplificazione processuale ed  in  relazione  ai  quali
poteva considerarsi appagante un epilogo comunque coincidente con  le
essenziali finalita' perseguite dalla pubblica accusa. 
    Nel caso di specie, per contro, si registra la previsione  di  un
limite oggettivo che concerne in misura diretta ed immediata  proprio
l'esercizio dell'azione penale, che non  ha  realizzato  il  divisato
obiettivo del giudizio dibattimentale ed in  relazione  al  quale  si
preclude la possibilita' dell'appello. 
    Alla luce del principio di obbligatorieta' dell'azione penale, in
altri termini, non si vede con  quale  coerenza  «costituzionale»  si
possa, per legge  ordinaria,  interdire  al  p.m.  di  richiedere  al
superiore giudice di merito una diversa valutazione  in  ordine  alla
non superfluita' del dibattimento. 
    E  cio'  soprattutto  ove  si  consideri   che   la   preclusione
all'appello concerne una sentenza di  carattere  processuale,  emessa
nell'ambito di un giudizio essenzialmente cartolare ed in cui non  ha
avuto modo di  esplicarsi  il  principio  del  contraddittorio  nella
formazione della prova. 
    E'  convincimento  della  Corte,  pertanto,  che  la   disciplina
predisposta dal nuovo art. 428 comporti un  «salto»  logico-giuridico
che  non  trova  giustificazione  nel  vigente  assetto  dei   valori
costituzionali. 
    Viene rimossa, infatti, la ragionevole disciplina apprestata  dal
pregresso testo dell'art.  428  c.p.p.,  caratterizzata  dall'obbligo
dell'esercizio dell'azione penale e dalla facolta' di coltivare  tale
obbligo pur dopo la pronuncia di non luogo a  procedere  del  g.u.p.,
richiedendo alla Corte d'appello il rinvio  a  giudizio;  ed  al  suo
posto se ne introduce una che altera  la  intrinseca  coerenza  della
complessiva  normativa  e  sottrae  all'organo  di  accusa  uno   dei
fondamentali presidi di puntuale ed integrale attuazione dell'obbligo
di esercitare l'azione penale, impedendogli di richiedere al  giudice
superiore -  di  merito  -  la  rimozione  del  pregiudizio  arrecato
all'atto di esercizio  dell'azione  penale  e  la  emissione  di  una
decisione conforme alla pretesa punitiva e di  diretta  ed  immediata
estrinsecazione della medesima. 
                              P. Q. M. 
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art.  428  c.p.p.,  come  sostituito
dall'art. 4  della  legge  n.  46/2006,  in  relazione  ai  parametri
costituzionali degli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e  112
Cost; 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale, sospendendo il processo in  corso  nei  confronti  di
Cavallo Livio; 
    Dispone che la presente ordinanza, a cura della cancelleria,  sia
notificata alle parti del  presente  processo  e  al  Presidente  del
Consiglio dei ministri e  sia  comunicata  ai  Presidenti  delle  due
Camere del Parlamento della Repubblica. 
        Roma, addi' 12 novembre 2008 
                  Il Presidente estensore: Molinari