N. 102 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 ottobre 2008
Ordinanza del 21 ottobre 2008 emessa dalla Corte d'appello di Roma nel procedimento civile promosso da Grieco Giuseppe contro Poste Italiane S.p.A.. Lavoro e occupazione - Apposizione di termini alla durata del contratto di lavoro subordinato - Previsione, per i giudizi in corso alla data di entrata in vigore della norma censurata, di un indennizzo a carico del datore di lavoro e in favore del lavoratore di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto - Irragionevolezza - Ingiustificata disparita' di trattamento di fattispecie identiche discriminate in ragione della pendenza o meno di un giudizio alla data di entrata in vigore della legge censurata - Incidenza sul diritto di difesa e sui principi del giusto processo - Violazione dei vincoli derivanti dalla normativa comunitaria. - Decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, art. 4-bis, introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, della legge 6 agosto 2008, n. 133 [recte: art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, inserito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133]. - Costituzione, artt. 3, 24, primo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.15 del 15-4-2009 )
LA CORTE DI APPELLO All'udienza del 21 ottobre 2008 ha pronunziato la presente ordinanza nella causa in grado di appello iscritta al n. 4589 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2006 vertente tra Giuseppe Grieco, elettivamente domiciliato in Roma, viale delle Milizie n. 37 presso lo studio dell'avv. L. Zezza e S. Galleano che lo rappresentano e difendono per delega in atti, appellante e Poste Italiane S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma viale Mazzini n. 134 e rappresentato e difeso dall'avv. L. Fiorillo per procura in atti, appellato. La Corte, letti gli atti e le note depositate ed esaminata la documentazione allegata, osserva quanto segue: l'odierno appellante ha chiesto la riforma della sentenza impugnata con la quale e' stata respinta la sua domanda tesa ad ottenere l'accertamento della nullita' del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con la societa' appellata per ragioni di carattere sostitutivo di personale assente con diritto alla conservazione del posto. Con il gravame ha reiterato tutte le ragioni poste a fondamento del ricorso introduttivo del giudizio rilevando che la sentenza impugnata ha motivato il rigetto con argomentazioni non pertinenti rispetto alla fattispecie dedotta in giudizio (la specifica clausola contrattuale apposta al contratto) e dunque con affermazioni che sul piano probatorio non sono conferenti. Premesso, quindi, che le ragioni di doglianza formulate attengono al mancato esame da parte della sentenza impugnata delle specifiche ragioni poste a fondamento della domanda, l'appellante pone in evidenza che nel sistema del decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368 le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo devono rispondere ad una esigenza «speciale» del datore di lavoro (art. 1, comma 1) e l'apposizione del termine deve risultare da atto scritto e motivato (art. 1, comma 2). Nel caso in cui le ragioni non siano specifiche ovvero manchi il collegamento causale con l'assunzione, e l'onere probatorio della sussistenza dei detti requisiti non sia compiutamente assolto dalla parte datoriale su cui grava, il termine sarebbe nullo e, essendo venuta meno la clausola limitativa della durata, il contratto sarebbe a tempo indeterminato, posto che la sanzione dell'inefficacia della clausola e' prevista proprio dal comma 2 dell'art. 1 della legge citata. Pertanto, ha concluso per la declaratoria dell'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 4 ottobre 2003; per l'inefficacia, annullabilita' o nullita' del recesso con ordine di reintegrazione e condanna al risarcimento del danno in misura non inferiore a cinque mensilita'. In alternativa o in subordine ha chiesto il ripristino del rapporto e la condanna alla corresponsione delle retribuzioni mensili maturate, anche a titolo risarcitorio, fino all'effettiva reintegrazione. Poste Italiane S.p.A. si e' costituita ed ha rilevato che deve essere esclusa la necessita' che il contratto sia sorretto da esigenze eccezionali e strettamente temporanee; che sia sufficiente che sussistano oggettivamente ragioni di tipo organizzativo, tecnico, produttivo o, appunto, come nel caso dedotto in giudizio, sostitutivo; che tali ragioni devono essere reali e dunque verificabili di tal che al lavoratore sia consentito di escluderne un utilizzo abusivo. Dopo aver dedotto che tutte queste condizioni erano state rispettate nel caso in esame, ha escluso di essere rimasta inadempiente all'obbligo di specificare per iscritto le ragioni sostitutive, ed ha precisato di avere, comunque, chiesto di poter procedere all'istruttoria testimoniale sul punto. Quanto alle conseguenze della declaratoria di illegittimita', l'appellata sostiene che la sanzione non potrebbe essere quella, prospettata, della convertibilita' del rapporto mancando, in tal senso, una previsione di legge. Ne' sarebbe, nella prospettazione difensiva della societa', applicabile al caso in esame il disposto dell'art. 1419 c.c. e cio' perche' : 1) il termine apposto aveva natura essenziale; 2) diversamente, la societa' non avrebbe concluso il contratto; 3) la relativa clausola era stata espressamente sottoscritta dal lavoratore. Quanto alle conseguenze economiche, ad avviso dell'appellata, le retribuzioni sarebbero, in ipotesi, dovute solo dalla effettiva ripresa del servizio o, al piu', dalla messa in mora da parte del lavoratore mediante offerta della propria prestazione lavorativa, nella specie realizzatasi solo con la notificazione del ricorso introduttivo del giudizio. Nel corso di questo giudizio di gravame e' entrato in vigore l'art. 21 del d.l. n. 112/2008, come convertito in legge n. 133/2008, che ha introdotto nel decreto legislativo n. 368/2001 l'art. 4-bis che titola: «Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine» e dispone che «1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro e' tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni». Tutto cio' premesso in fatto, la Corte rileva che l'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, che regola pacificamente la fattispecie oggi in esame, trattandosi di contratto stipulato il 3 ottobre 2003 (v. doc. 1 in atti Grieco), nel testo ratione temporis applicabile, prescrive al primo comma (oggi art. 1 n. 1 per effetto delle modifiche introdotte dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247) che E' consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Al secondo comma (oggi n. 2) poi prevede che L'apposizione del termine e' priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di' cui al comma 1. Per semplicita' espositiva si continuera' a fare riferimento nella motivazione all'articolazione in commi vigente all'atto della stipula del contratto e come citata dalle parti nelle loro difese. Questa Corte si e' gia' occupata della legittimita' dell'apposizione del termine in fattispecie analoghe e degli effetti conseguenti ed ha ritenuto che il legislatore, nel recepire la direttiva 1999/70/CE e ridisegnare la disciplina del lavoro a tempo determinato, ha introdotto una clausola molto ampia di legittimazione del contratto a termine, che per la sua generalita' viene a superare l'impostazione della normativa antecedente in vigenza della quale le assunzioni a termine erano vietate salvo che in ipotesi tassative. Tuttavia, con la previsione contenuta nel richiamato comma 2 della medesima norma, il legislatore, a fronte dell'ampiezza delle possibilita' nelle quali e' possibile concludere un contratto a tempo determinato di cui alla clausola generale dettata nel primo comma dell'art. 1 e alla maggiore autonomia concessa alle parti, ha, tuttavia, espressamente stabilito un onere di specificazione, per iscritto, delle ragioni a carico del datore di lavoro. In conseguenza, questa Corte ha tratto il convincimento che per la stipulazione di un valido contratto a termine, le ragioni di cui al comma 1 non possono essere tautologicamente ripetute o semplicemente determinate senza precisione, con una giustificazione che si risolva sostanzialmente in una letterale riproposizione delle cause di cui al primo comma; in tali casi sarebbe, infatti, eluso l'onere di specificazione di cui al comma 2. Ed ha ritenuto necessario, perche' possa dirsi assolto l'onere di specificazione, che dalle ipotesi generali indicate dal legislatore, in via astratta, nella prima parte della norma (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), si passi alla determinazione delle esigenze che, nel caso concreto, legittimano e motivano il ricorso ad una assunzione a termine, cosi' da rendere controllabile da parte del giudice la reale sussistenza delle stesse. Trattandosi di una specificazione necessaria, ai sensi di legge, nell'ambito del testo negoziale, e' stato affermato che si tratta di un elemento essenziale e di un requisito necessario della fattispecie delineata dal legislatore per la valida apposizione del termine. Qualora dette ragioni non siano state specificate (o siano state insufficientemente o tautologicamente esplicitate) nel testo contrattuale ne ha tratto la conseguenza della invalidita' della clausola contenente il termine per carenza di un suo elemento essenziale di carattere formale. Nei casi in cui, invece, le ragioni delle parti siano state formalmente e sufficientemente specificate nello scritto, ma sia risultato accertato, in seguito all'istruttoria, l'insussistenza dei fatti posti a fondamento delle stesse (e quindi delle stesse esigenze dichiarate), la clausola contenente il termine e' stata considerata illegittima per l'assenza del presupposto legale necessario per la sua validita', cioe' per il difetto, nel caso concreto, delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui al comma 1 cit. Osserva in proposito questa Corte che questa opzione interpretativa raccoglie le indicazioni dell'Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70 CE, della quale il decreto legislativo n. 368/2001 costituisce attuazione, che, nella clausola 3 delle definizioni, recita: ai fini del presente accordo, il termine lavoratore a tempo determinato indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine e' determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico. L'assenza di quelle condizioni obiettive che siano state specificate e formalmente dichiarate dalle parti come ragioni giustificative del termine, determina, in conclusione, l'invalidita' della relativa clausola, come del resto sancisce l'art. 1, comma 1 cit., che vuole consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto solo a fronte delle ragioni nello stesso elencate. In altri termini, il requisito formale di cui al comma 2 citato, e' assolto quando siano inseriti nel testo contrattuale elementi sufficienti per il controllo sulla reale sussistenza delle ragioni menzionate e per consentire al lavoratore di averne contezza effettiva e al giudice, in caso di contrasto, di verificarne la reale consistenza e di individuare le reali esigenze alle quali il datore di lavoro ha inteso sopperire con la stipulazione del contratto a tempo determinato. Il legislatore - consentendo una maggiore autonomia delle parti rispetto al passato, con la previsione, in via astratta (in luogo delle ipotesi tassative), della amplissima e generale casistica di cui all'art. 1, comma l - ha posto il suddetto onere di specificazione al fine di evitare che la clausola del termine sia utilizzata anche laddove non ricorrano reali esigenze aziendali, vincolando, quindi, tale liberta' alla effettiva esistenza delle ragioni giustificatrici. Allo stato e per quanto e' dato delibare ai fini dell'esame della questione di conformita' a Costituzione, la clausola appositiva del termine di scadenza al contratto di lavoro dedotto in giudizio non reca quegli elementi di specificazione che, come si e' detto, ne legittimano l'apposizione. L'assunzione e' stata disposta per «ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione di personale inquadrato nell'Area operativa e addetto al servizio recapito, presso la Regione Sud, assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro nel periodo dal 1° ottobre 2003 al 31 dicembre 2003. Resta inteso che il rapporto di lavoro a tempo determinato si estinguera', anche anticipatamente rispetto al termine finale del 31 dicembre 2003 ove le esigenze di sostituzione dovessero venir meno per il rientro in servizio del personale assente». Orbene, osserva questa Corte che le ragioni di carattere sostitutivo non sono precisate nel concreto e con riferimento specifico alla struttura alla quale il Grieco sarebbe stato addetto (filiale di Salerno 2 - Sala Consilina), tale non potendosi considerare il generico riferimento ad una esigenza di provvedere alla sostituzione di personale inquadrato nell'Area operativa e addetto al servizio di recapito presso la Regione Sud con diritto alla conservazione del posto. Come e' noto la «Regione Sud» comprende un'area ben piu' vasta di quella di destinazione (filiale di Salerno), ne' e' stato, neppure indirettamente, precisato se e per quali specifiche aree della regione tali esigenze si sarebbero manifestate. La genericita' delle espressioni utilizzate non evidenzia, in questa fase di delibazione, l'individuazione del nesso causale tra l'assunzione del Grieco e le concrete esigenze della Societa' Poste Italiane, con specifico riferimento al preciso ambito organizzativo. Non e' dato conoscere neppure numericamente l'incidenza delle assenze sull'organico della filiale di destinazione di tal che e' interdetto al lavoratore in prima battuta, e al giudice poi, di verificare la effettivita' delle ragioni giustificatrici per esercitare quel controllo che, quanto meno ex post, deve essere effettuato dal giudice in relazione alla sussistenza della causale giustificativa della limitazione temporale del rapporto. Peraltro, nel caso in esame, tale verifica appare preclusa anche a causa della estrema genericita' delle circostanze di prova articolate dalla societa' appellata nella memoria di primo grado, e reiterate in appello, che tautologicamente ripetono la causale gia' riportata nel contratto senza null'altro aggiungere neppure in via di allegazione (cfr. memoria Poste I pagg. 2 e 11). Va precisato che nel caso in esame, contrariamente a quanto dedotto dalla societa' nella memoria di costituzione in giudizio, non e' stata concordata alcuna clausola che attribuisca al termine di durata il valore di pattuizione essenziale. Sicche', a prescindere dalla efficacia di una pattuizione di tal fatta, accedendo alla proposta interpretazione della normativa applicabile al caso concreto, conseguenza della declaratoria di nullita' del termine, prima dell'entrata in vigore della legge n. 133 del 2008, sarebbe il ripristino del rapporto. Questa Corte in altre decisioni ha gia' statuito che la nullita' della clausola non travolge l'intero contratto prevalendo, in una prospettiva interpretativa delle norme conforme ai principi dettati dalla direttiva comunitaria, il principio di conservazione degli atti e, dunque, la persistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti. In tal senso si e' pronunciata di recente la suprema Corte che ha affermato che «l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, anche anteriormente alla modifica introdotta dall'art. 39 della legge n. 247 del 2007, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato e' normalmente a tempo indeterminato, costituendo l'apposizione del termine un'ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l'apposizione del termine "per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo". Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullita' parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonche' alla stregua dell'interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all'illegittimita' del termine ed alla nullita' della clausola di apposizione dello stesso consegue l'invalidita' parziale relativa alla sola clausola e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e cio' anche nel caso in cui tra le parti sia intercorso un unico contratto a termine» (v. Cass. 12985/2008). Queste, in conclusione, nel caso concreto sarebbero le conseguenze della eventuale declaratoria di illegittimita' del contratto, conseguenze oggi precluse per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 21-bis del decreto legge n. 112/2008, convertito con modificazioni nella legge n. 133/2008 che ha introdotto nel decreto legislativo n. 368/2001 l'art. 4-bis. Non solo, quindi, sarebbe esclusa la possibilita' di ripristinare il rapporto di lavoro, ma l'indennita' riconoscibile sarebbe necessariamente limitata nel minimo a 2,5 e nel massimo a 6 mensilita'. Questa Corte ritiene che non si possa dubitare della rilevanza della questione di legittimita' costituzionale del piu' volte citato art. dell'art. 21, comma 1-bis della legge n. 133/2008, sulla scorta di quanto osservato con riferimento alla vicenda dedotta in giudizio, per quanto e' necessario e consentito ai fini della delibazione della questione di costituzionalita', e della non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24, primo comma, 111, primo comma e 117, primo comma, della Costituzione, nel significato che assumono anche per effetto delle proclamazioni contenute nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e negli artt. 20 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, alle quali la Corte costituzionale ha indubbiamente assegnato il valore di parametro di riferimento nel giudizio di costituzionalita' (v. Corte cost. n. 135/2002), implicitamente riconoscendo che i diritti e le liberta' fondamentali derivanti dalle fonti di convenzioni e trattati sovranazionali, affiancandosi quali valori-diritti alla dignita' delle persone, compongono un quadro di proclamazioni assimilabili al livello costituzionale. Contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Va considerato che tutti i poteri pubblici, anche quelli di rango costituzionale, possono e devono essere esercitati unicamente per il perseguimento dei fini in relazione ai quali il potere e' attribuito. E' questo il connotato dei poteri costituzionali delle moderne democrazie poiche' si tratta di poteri discrezionali ma non liberi nei fini, secondo la definizione di accreditata dottrina costituzionalista. Ne consegue che gli organi cui sono affidate le massime funzioni nelle quali si esprime la sovranita' dello Stato non possono espletare le potesta' loro attribuite per scopi diversi da quelli cui le funzioni stesse sono finalizzate, tantomeno in via strumentale per ledere diritti e principi stabiliti dalla Costituzione. Tale finalita' e' vietata dalla nostra Costituzione. In particolare, il potere legislativo, subordinato com'e' al pari degli altri poteri costituzionali all'impero delle norme e dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, incontra nel suo esplicarsi, il limite della legalita' costituiti dalla ragionevolezza dell'intervento legislativo (cfr. Corte costituzionale 7 luglio 1964 n. 72, 15 luglio 1991 n. 346). Tanto premesso, questa Corte osserva che la disposizione denunciata e' stata introdotta, per i contratti regolati dal decreto legislativo n. 368/2001, rispetto ai quali sia pendente un giudizio circa la legittimita' del termine apposto, una regolamentazione diversa rispetto a quella in via generale applicabile ai contratti a termine, secondo quanto generalmente affermato in materia dalla giurisprudenza di merito e di legittimita'. Per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 133 del 2008, infatti, ove sia pendente un giudizio (e salvi dunque solo i giudicati) la tutela accordata ai contratti a tempo determinato, stipulati nella vigenza del decreto legislativo n. 368 del 2001 e che siano illegittimi in quanto stipulati in violazione dell'art. 1, 2 e 4 del decreto stesso, e' limitata al solo pagamento di una «indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni». La norma censurata non contiene alcun riferimento all'obbligo per il datore di lavoro, pur previsto dall'art. 8 della legge n. 604/1966, di procedere al pagamento dell'indennizzo solo ove non provveda nel termine di tre giorni a riassumerlo, ma limita il richiamo ai soli criteri da seguire per l'esatta quantificazione dell'indennita'. Cosi' facendo il legislatore ha ridotto la tutela accordata, avendo riguardo al solo discrimine temporale della attuale pendenza di un giudizio. Per tutti quei contratti a termine stipulati nel regime del decreto legislativo n. 368/2001 il cui ricorso introduttivo della lite sia stato depositato successivamente all'entrata in vigore della legge n. 133/2008 le conseguenze restano quelle gia' previste e sopra diffusamente riportate (ripristino del rapporto e risarcimento del danno). Il discrimine per individuare la normativa applicabile e', dunque, del tutto casualmente ancorato al fatto che il lavoratore abbia o meno iniziato un giudizio. A giudizio di questa Corte che non vi e' alcun elemento per ritenere che la scelta del legislatore sia stata determinata da un meditato ripensamento delle tutele da accordare, in generale, ai contratti a tempo determinato. Questa Corte e' ben a conoscenza dei principi affermati dal Giudice delle leggi il quale in piu' occasioni ha precisato che ben puo' il legislatore applicare alla stessa categoria di soggetti, trattamenti differenziati in momenti diversi nel tempo. La Corte costituzionale ha, infatti, ancora di recente, ribadito che tale scelta non contrasta di per se' con il principio di eguaglianza, posto che proprio il fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore delle situazioni giuridiche. La demarcazione temporale consegue, come effetto naturale, alla generalita' delle leggi e non comporta, di per se', una lesione del principio di parita' di trattamento sancito dall'art. 3 della Costituzione (v. Corte cost. 234/2007 e ordinanze 342/2006, 216/2005 e 121/2003). Tuttavia la legge in esame non si compendia nella rimeditazione complessiva degli effetti con riferimento alla generalita' dei soggetti, canone di eguaglianza che deve permanere ove il tempo determini una modifica della disciplina, ma, piuttosto, contiene la previsione, di una sorta di moratoria delle conseguenze generali rispetto ad un contenzioso temporalmente definito (cause pendenti alla data del 22 agosto 2008), ma certo non esaurito per il futuro. Questa Corte non dubita che il legislatore abbia il potere di dettare norme aventi contenuto concreto e particolare dalle quali possano derivare effetti nei riguardi dei procedimenti giudiziari in corso ovvero sui provvedimenti giurisdizionali. Non e' ravvisabile, in via generale, un'illegittima invasione da parte della funzione legislativa nell'ambito riservato dalla Costituzione all'autorita' giudiziaria, posto che la norma di diritto sostanziale che regola una situazione anche pregressa, senza violare il giudicato, non sottrae al giudice alcuna controversia, ma gli fornisce, appunto, la regola di diritto che egli deve applicare. Ma con la norma in esame il legislatore non ha regolato diversamente - come bene avrebbe potuto - gli effetti rispetto a tutti i contratti stipulati da una certa data in poi, ma ha scelto, ad avviso di questa Corte in maniera del tutto irragionevole, di limitarne gli effetti alle sole controversie pendenti. Non e' infatti ravvisabile alcuna giustificazione razionale nel fatto che la disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad una categoria di soggetti, riducendo la tutela mentre pendono i giudizi, proprio e solo per il fatto di avere una causa in corso (che' se avessero tardato a proporla, il loro diritto sarebbe stato fatto salvo). Con l'aggravante che proprio per il modo in cui interviene con riferimento ai soli giudizi in corso, il comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133 del 2008 finisce per amplificare ulteriormente, anche sul piano dell'utilizzo degli strumenti processuali di tutela e pertanto sul piano del diritto alla difesa e dell'«equo processo» (artt. 3, 24, primo comma e 111, primo comma, 117 Cost.), gli effetti, gia' illustrati e per loro stessi discriminatori, dell'intervento provvedimentale mirato alle applicazioni del sistema sanzionatorio relativo agli artt. 1, 2 e 4 del decreto legislativo n. 368 del 2001. Contrasto con gli artt. 24, primo comma, 111, primo comma e 117, primo comma della Costituzione. Va Premesso che, dal complessivo tenore delle norme richiamate e dall'interpretazione che delle stesse ha ripetutamente offerto la Corte costituzionale, emerge con evidenza l'esistenza, nel nostro ordinamento costituzionale, di un principio immanente del giusto processo, che proclamato dall'art. 111, primo comma Cost., si manifesta in maniera complessa e poliedrica e che ha stretta correlazione con il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi (art. 24, primo comma Cost.), con il diritto ad avere regole giuste nel processo (art. 111, primo comma Cost.), a tutela del contraddittorio, della terzieta' ed imparzialita' del giudice (art 111, secondo comma Cost.), con il diritto del cittadino di vedere esercitato il potere legislativo da parte dello Stato e delle regioni non solo nel rispetto della Costituzione italiana ma anche dei vincoli dettati dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, primo comma Cost.). L'art. 4-bis del decreto legislativo n. 368/2001 viola il principio costituzionale del giusto processo perche' nel corso del procedimento giudiziario modifica la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato senza che siano ravvisabili ragioni oggettive e generali che sostengono tale scelta del legislatore. Questa Corte ritiene che nel caso in esame l'intervento legislativo determini un'alterazione della condizione di parita' nell'esercizio del diritto di difesa tra la parti in causa, rispetto al diritto azionato, condizione di parita' che, al contrario, deve essere sempre assicurata. Ed infatti, e' evidente che il legislatore a fronte del consistente contenzioso pendente in tutti gli uffici giudiziari italiani e' intervenuto allo scopo di favorire una definizione delle controversie pendenti in termini di minor impatto economico per le parti datoriali, senza che tuttavia tale scelta risulti sorretta da quelle imperiose ragioni d'interesse generale, che, ad esempio, la Corte europea di Strasburgo richiede come condizione per superare il divieto d'ingerenza (in tal senso si legga l'ordinanza della Corte cass. n. 22260/2008 relativamente all'art. 1, comma 218, legge n. 266 /2005). Ed, infatti, nessuna traccia di cio' e' riscontrabile nel procedimento legislativo che ha condotto all'approvazione di tale disposizione. E' sintomatico, anzi, che la norma, inizialmente pensata proprio per definire il contenzioso dei contratti a termine con la societa' qui appellata, sia stata in corso d'opera estesa a tutti i contratti a tempo determinato, proprio per rimediare ad una evidente violazione, quanto meno, dell'art. 3 della Costituzione. Ma anche nel testo approvato, ed oggi esaminato, non sono rintracciabili quelle ragioni oggettive a tutela di un interesse generale che, in ipotesi, avrebbero potuto giustificarne l'adozione. Al contrario, si potrebbe dire che 1'inesistenza di una simile ratio e' in re ipsa per il solo fatto che la ridotta tutela e' limitata temporalmente ai soli giudizi pendenti e nessuna ragione di interesse generale risulta in qualche modo esplicitata neppure nei lavori parlamentari. Con cio', e senza che per questo sia ravvisabile alcuna esigenza concreta a cui il legislatore abbia inteso sopperire, viene ribaltata la stessa ordinaria ed elementare logica del processo equo e improntato all'effettivita' della tutela giurisdizionale; giacche' sarebbe logico, al contrario di quel che discende dalle previsioni del comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133 del 2008, che nei giudizi in corso le certezze sulla difesa dei propri diritti tanto piu' siano acquisite, e non passibili di essere messe nuovamente in gioco, quanto piu' il processo sia pervenuto in una fase avanzata e sfociato in pronunciamenti esecutivi, o perfino eseguiti. Analoghe considerazioni valgono con riferimento alla violazione dell'art. 117, primo comma Cost. La Corte osserva che, nell'esaminare la rilevanza della questione con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., si puo' dare valore interpretativo ai principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), in relazione ai parametri costituzionali di cui tenere conto con riguardo alle norme censurate (v. Corte cost. n. 505/1995; ord. n. 305/2001), ben potendosi richiamare, per avvalorare una determinata esegesi, le indicazioni normative, anche di natura sovranazionale (v. di recente Corte cost. n. 349/2007 ma anche Corte cost. n. 231/ 2004). In taluni casi la Corte costituzionale ha richiamato norme della CEDU, svolgendo argomentazioni espressive di un'interpretazione conforme alla Convenzione (v. sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero richiamando dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell'esegesi accolta (v. sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003) che risultava cosi' avvalorata anche in ragione della sua conformita' con i «valori espressi» dalla Convenzione, secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo (v. sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998). Si e' infatti sottolineato come un diritto garantito da norme costituzionali sia protetto anche dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti (...) come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo (v. sentenza n. 154 del 2004). Avvalorata e confermata la possibilita' di utilizzare il parametro richiamato per valutare la compatibilita' della norma censurata con l'art. 6 della CEDU e dunque con l'art. 117, primo comma Cost., ancora una volta si deve rilevare che, come piu' volte statuito anche dalla Corte di Strasburgo (cfr. per tutte Scordino contro Italia, 29 marzo 2006), gli Stati aderenti alla Convenzione devono astenersi dall'esercitare ingerenze normative finalizzate ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo che l'intervento retroattivo sia giustificato da motivi di carattere imperioso e generale. Ne consegue che nel caso in esame il legislatore, con la disposizione in esame non interpreta norme di legge esistenti, muta temporaneamente il quadro normativo di riferimento, esclude quelli che nel diritto vivente sono i normali effetti della declaratoria di illegittimita' del termine apposto al contratto e impedisce al giudice di adottare la tutela prevista dall'ordinamento generale (tutela irragionevolmente temporaneamente sospesa). In conclusione la norma in esame determina una ingiustificata modificazione della tutela dei diritti azionati e incide, come si e' evidenziato, solo e soltanto sui giudizi pendenti alla data di sua entrata in vigore, realizzando una inammissibile intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo d'influire sulla risoluzione di una specifica categoria di controversie. Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della norma indicata in dispositivo in relazione ai profili sopra esposti. Il giudizio in corso deve quindi essere sospeso e gli atti rimessi alla Corte costituzionale .
P. Q. M. Visto l'art. 23, comma 2 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 21, comma 1-bis della legge 6 agosto 2008, n. 133 con il quale dopo l'art. 4 del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368 e' stato inserito l'art. 4-bis, per contrasto con gli artt. 3, 24, primo comma, 111, primo comma e 117, primo comma della Costituzione. Sospende il presente giudizio. Manda alla cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri nonche' di comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Dispone la trasmissione dell'ordinanza e degli atti del giudizio alla Corte costituzionale unitamente alla prova delle comunicazioni prescritte. Roma, addi' 21 ottobre 2008 Il Presidente: Torrice