N. 133 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 marzo 2009
Ordinanza del 4 marzo 2009 emessa dal Tribunale di Trieste nel procedimento penale a carico di Dragic Zvetoslav. Reati e pene - Circostanze aggravanti comuni - Previsione quale circostanza aggravante comune del fatto commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale - Violazione del principio di ragionevolezza, per l'applicabilita' di tale circostanza aggravante, a seguito dell'inottemperanza alla disciplina amministrativa dell'immigrazione, a prescindere dalla valutazione del giudice della pericolosita' sociale - Violazione del principio di uguaglianza - Lesione del principio di inviolabilita' della liberta' personale - Contrasto con il principio di offensivita' - Violazione dei principi della personalita' della responsabilita' penale, di proporzionalita' e della finalita' rieducativa della pena. - Codice penale, art. 61, comma 1, n. 11-bis, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lett. f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, modificato dalla legge 24 luglio 2008, n. 125. - Costituzione, artt. 3, 13, 25, comma secondo, e 27, commi primo e terzo.(GU n.19 del 13-5-2009 )
IL TRIBUNALE Nel processo nei confronti di Dragic Zvetolsalv, nato a Latina, il 14 gennaio 1983, ha emesso la seguente ordinanza. Vivirito Cristian e Dragic Zvetoslav venivano tratti a giudizio con rito direttissimo, dopo che l'arresto in flagranza di entrambi era gia' stato convalidato, per rispondere del reato di cui agli artt.56, 61 n. 11-bis, 110, 624, 625 n. 2 c.p., in ordine all'ipotesi di tentativo di furto aggravato dalla violenza sulle cose e, per il solo Dragic, anche dalla presenza irregolare sul t.n. , di denaro ed oggetti di valore esistenti all'interno dell'agenzia marittima «Agemar S.r.l.» di Trieste. Il g.i.p., all'esito della convalida, aveva altresi' applicato la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di Vivirito Cristian e quella dell'obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria nei confronti di Dragic Zvetoslav. All'udienza del 25 febbraio 2009 innanzi al giudice del Tribunale di Trieste in composizione monocratica l'imputato Vivirito formulava istanza ex art.444 c.p.p., per la quale il p.m. prestava il consenso e a cui il decidente aderiva. Il processo proseguiva quindi separatamente con rito ordinario per il coimputato. Espletate le formalita' di apertura del dibattimento e data lettura del capo d'imputazione ad esso si riportava il pubblico ministero, chiedendo l'acquisizione degli atti e dei documenti gia' nel fascicolo del dibattimento e l'ammissione dei testi di cui alla propria lista, per il cui controesame instava la difesa. All'esito dell'istruttoria dibattimentale, assunte le prove richieste, le parti rassegnavano le rispettive conclusioni. Orbene, alla luce della richiesta di pena formulata dal rappresentante dell'accusa si impone, preliminarmente, la valutazione dovuta in ordine alla conformita' alla Carta costituzionale delle previsioni edittali stabilite per l'aggravante di cui all'art.61 n. 11-bis c.p., in esame, di cui il p.m. ha tenuto conto, alla luce delle emergenze processuali, peraltro nei limiti in cui tale valutazione e' consentita dall'art. 1 della legge. costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e dall'art. 23, comma 3 della legge 11 marzo 1953, n. 87. 1. Rilevanza della questione proposta. Quanto a tale requisito si osserva che dall'istruttoria dibattimentale espletata e dagli atti del fascicolo per il dibattimento emerge in particolare, anche per la stessa confessione del Dragic, che egli, colto nella flagranza del reato tentato ascrittogli, e' stato segnalato dalle forze dell'ordine come cittadino bosniaco in situazione di clandestinita'. Nello specifico e' emerso che il prevenuto, privo di qualsiasi documento d'identita', era privo della nazionalita' italiana come di quella bosniaca. Nato in Italia, a Latina, aveva fatto rientro nel 1992 nell'allora Federazione Jugoslava, senza ottenere alcuna cittadinanza. Rientrato in Italia, aveva girato molto e, al momento del fatto, si trovava a Trieste in situazione del tutto precaria. Le sintetizzate circostanze, unitamente alla prova del fatto di reato di cui in epigrafe, impongono a questo giudice, dunque, ai fini dell'affermazione di responsabilita' e della configurazione delle aggravanti, l'accertamento anche della ricorrenza dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 11-bis c.p., contestata all'imputato, sprovvisto di regolare documento di permanenza in Italia, come pacificamente emerso dagli atti e non contestato dall'imputato. Ne', ai fini della esclusione della rilevanza della questione sollevata, potrebbe assumere valenza l'eventuale giudizio di bilanciamento, ai sensi dell'art. 69 c.p., da operare all'esito (della possibile affermazione di responsabilita' e) dell'eventuale concessione di attenuanti (in particolare, quelle ex art. 62-bis c.p.). E' evidente, infatti, che proprio per compiere correttamente tale eventuale giudizio occorre valutare, da un lato, le attenuanti, dall'altro, le aggravanti ritenute esistenti, sicche' la presenza di una o piu' aggravanti inciderebbe proprio sull'esito del giudizio e sull'entita' della pena da applicare. In definitiva, nell'ipotesi eventuale di condanna, la sanzione da irrogare andrebbe definita nell'ambito della cornice edittale di cui al nuovo testo dell'art. 61 n. 11-bis c.p. del citato decreto legge n. 92/2008, convertito nella legge n. 125/2008, nella cui vigenza e' stato posto in essere il fatto delittuoso oggetto del giudizio. In relazione ad identica fattispecie, tra gli altri (Trib. Ferrara, 15 luglio 2008, num. Reg. ord.308; Trib. Livorno, 9 luglio 2008, num. Reg. ord. 411/2008), anche il Tribunale di Livorno ha proposto questione di legittimita' costituzionale, il cui contenuto questo Tribunale condivide appieno e che qui si riporta, facendolo proprio: 2. Non manifesta infondatezza della questione. Con riferimento alla non manifesta infondatezza, questo giudice la ritiene sussistente in base alle considerazioni che seguono. 2.1 - Violazione dell'art. 3 della Costituzione e dei principi di ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalita' cosi' come desumibili dalla giurisprudenza costituzionale in relazione al sistema penalistico dell'istituto delle aggravanti. Per affrontare il tema oggetto del dubbio di costituzionalita' e' preliminare accertare sinteticamente la natura giuridica della circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 11-bis c.p. («se il fatto e' commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale»). Com'e' noto la ratio essendi delle circostanze del reato e' costituita dall'aspirazione del legislatore di adeguare la pena al reale disvalore dei fatti concreti, nella prospettiva di individualizzazione dell'illecito penale e, con esso, della responsabilita' dell'agente. Si tratta cioe' di uno strumento con il quale si adegua la sanzione al reato e all'agente in un'ottica non solo di prevenzione generale ma anche rieducativa della pena. Il nostro ordinamento penalistico prevede varie classificazioni delle circostanze ma quelle che in questa sede ci interessano sono le seguenti: a) circostanze oggettive e circostanze soggettive (art. 70 c.p); b) circostanze comuni e speciali. La circostanza in esame poiche' attiene allo status personale di straniero presente illegalmente sul territorio dello Stato non puo' che essere qualificata come circostanza aggravante di tipo soggettivo connessa alle «qualita' personali del colpevole» e poiche' e' applicabile indistintamente a qualsiasi fattispecie di reato, a prescindere dal tipo e dalle circostanze di fatto che lo caratterizzano - con un aumento di pena generale e costante fino a un terzo ex artt. 64 e 65 c.p. -, deve considerarsi una circostanza aggravante comune, e cio' anche in ragione della sua collocazione entro l'art. 61 c.p. E' proprio sotto i profili di generalita' ed automaticita' tipici delle aggravanti comuni, collegati pero' ad una «qualita' personale del colpevole», che si evidenziano i piu' gravi dubbi di legittimita' costituzionale. Lo sforzo di tipizzazione della fattispecie penale, grazie alla previsione di elementi accessori del fatto che consentono l'adeguamento della pena al caso concreto, si materializza solo attraverso l'operazione accertativa del giudice che, come per gli elementi essenziali del reato, deve verificare la presenza delle condizioni di fatto costitutive dell'aggravante. Ad esempio nel caso dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 9 c.p. («l'avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualita' di ministro di un culto»), qualificata come aggravante comune soggettiva perche' concerne la qualita' personale del colpevole (Cass. Pen. 8 maggio 1981 su Rep Foro It. 1981, 391) non basta che il soggetto possieda la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio o di ministro di culto, ma occorre che il giudice accerti anche «l'abuso» e l'intenzionalita' dell'agente di usare il potere oltre i limiti legali. La ratio dell'aggravante risiede nell'esigenza di tutela del corretto svolgimento dell'attivita', a rilevanza pubblica, svolta da alcuni soggetti. E ancora, nel caso dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 11-bis c.p. («l'avere commesso il fatto con abuso di autorita' o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione, o di ospitalita»), anch'essa qualificata come aggravante comune soggettiva, invece, si intende tutelare il dovere di lealta' nei rapporti di lavoro, di convivenza, di famiglia e di ospitalita', cioe' in relazioni interpersonali di reciproco affidamento, cosicche' al giudice spetta di accertare in concreto non solo la qualita' personale dell'agente ma anche l'abuso della stessa e i rapporti tra colpevole e offeso. Nelle ipotesi esemplificativamente richiamate, quindi, l'applicazione dell'aggravante comune soggettiva non discende automaticamente dalla condizione o qualita' personale dell'agente, ma dalla verifica in concreto che quella condizione abbia effettivamente aggravato la condotta. Solo dopo la valutazione del giudice sul maggiore disvalore del fatto per la sussistenza di tutti i presupposti dell'aggravante si perviene all'applicazione dell'aumento di pena. L'unico caso assimilabile a quello dell'art. 61 n. 11-bis c.p., in cui invece l'applicazione della circostanza discende automaticamente dalla condizione dell'agente, e' quello della recidiva prevista dall'art. 70 ultimo comma c.p. Questo istituto pero', non e' logicamente e giuridicamente equiparabile alla fattispecie de qua, in quanto la recidiva presuppone la condanna dell'agente per una condotta di per se', ed autonomamente, illecita sul piano penalistico. Cio' che ne giustifica l'automatica applicazione (sul punto vedi infra in relazione al potere discrezionale del giudice e al problema dell'automatismo applicativo), indipendentemente dalla relazione della stessa con la fattispecie astratta di reato cui e' connessa, si giustifica in ragione del particolare disvalore attribuito dall'ordinamento a chi abbia gia' commesso altri illeciti penali, percio' accertati dal giudice. Ripugnerebbe alla coscienza giuridica e sarebbe in contrasto con il nostro sistema un'ipotesi in cui si stabilisse un'aggravante per la commissione di un mero illecito amministrativo (vedi sent. della Corte cost. 354/02). Nel caso dell'aggravante di cui all'art.61 n. 11-bis c.p. ci troviamo di fronte ad una fattispecie totalmente eccentrica rispetto al sistema e, dunque, irragionevole ai sensi dell'art. 3 della Costituzione, perche' non solo non consente al giudice alcuna valutazione in concreto della connessione tra la qualita' di straniero illegittimamente presente nello Stato e la condotta criminale per la quale viene giudicato (come invece avviene per le altre aggravanti comuni soggettive), ma riconnette alla condizione personale dell'inottemperanza alla disciplina amministrativa dell'immigrazione una valenza penale, con obbligatorio riflesso sulla pena. Cio' avviene in termini del tutto differenti rispetto al regime previsto nel caso della recidiva - come modificata dalla legge 251 del 2005 - che, come si vedra' oltre, ha indotto il giudice delle leggi (vedi sent. n. 192 del 2007) e il giudice di legittimita' (Cass. pen. , sent. n. 2606 del 2008) a prospettare una interpretazione che, per essere rispondente alla Costituzione, esclude qualsiasi automatismo ed impone sempre una valutazione discrezionale del caso e della persona in esame con possibilita' di evitare l'applicazione dell'aggravamento sanzionatorio allorche' la maggiore pericolosita' non sia ravvisata in concreto. D'altra parte, qualora si ritenesse ammissibile un'aggravante derivante dalla commissione di un mero illecito amministrativo l'ordinamento, irragionevolmente, sanzionerebbe in modo uguale situazioni ontologicamente diverse non graduando la pena tra chi commette un illecito amministrativo (art. 61 n. 11-bis c.p.), anche non formalmente accertato o contestato - si pensi al caso di specie in cui per XXXXXXX manca un provvedimento di espulsione -, e chi ha commesso un illecito penale accertato con sentenza passata in giudicato (recidivo). Il necessario intervento della valutazione del giudice, tale da garantire il rispetto della norma costituzionale invocata e' ulteriormente confermato dalla previsione di talune aggravanti, comuni e speciali, fondate unicamente sulla condizione o qualita' personale del colpevole, purche' sia pero' preventivamente intervenuto un provvedimento del giudice che abbia accertato la pericolosita' del soggetto in forza di specifici provvedimenti che attestino tale qualita'. Ad esempio nel caso dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 6 c.p. («l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in cui si e' sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato»), comunemente ritenuta di tipo soggettivo, la maggiore gravita' del fatto e' determinata appunto dalla maggiore pericolosita' del soggetto che, «non piegandosi al potere coercitivo dello Stato» (Cass. 29 gennaio 1994 De Feo) si sottrae volontariamente a provvedimenti restrittivi della liberta' personale emessi dall'Autorita' giudiziaria e, contemporaneamente, commette un altro reato. Lo stesso avviene nel caso delle circostanze aggravanti previste da specifiche fattispecie di reato o da leggi speciali come ad esempio: per l'omicidio (576 c.p.) e per le lesioni personali (585 c.p.), le aggravanti di cui agli artt. 576 comma 1 nn. 3 («dal latitante, per sottrarsi all'arresto, alla cattura o alla carcerazione ovvero per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza») e n. 4 («dall'associato per delinquere, per sottrarsi all'arresto, alla cattura o alla carcerazione»); per la rapina l'aggravante di cui all'art. 628 comma 3 n. 3) c.p. («se la violenza o minaccia e' posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis»); per l'estorsione le aggravanti di cui all'art. 629 comma 2 c.p. («La pena e' della reclusione da sei a venti anni e della multa da € 1.032 a € 3.098, se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente»); per la persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione, 1'aggravante di cui all'art. 7 della legge n. 575 del 1965 («Le pene stabilite per i delitti previsti dagli artt. 336, 338, 353, 378, 379, 416, 416-bis, 424, 435, 513-bis, 575, 605, 610, 611, 612, 628, 629, 630, 632, 633, 634, 635, 636, 637,638, 640-bis, 648-bis, 648-ter del codice penale sono aumentate da un terzo alla meta' e quelle stabilite per le contravvenzioni di cui agli artt. 695, primo comma, 696, 697, 698, 699 del codice penale sono aumentate nella misura di cui al secondo comma dell'art. 99 del codice penale se il fatto e' commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne e' cessata»). In dette circostanze viene in rilievo il profilo di ragionevolezza sotteso alle aggravanti, consistente nella maggiore offensivita' della condotta derivante dalla commissione di un reato da parte di soggetto nei cui confronti e' stato gia' emesso un provvedimento giudiziario che ne ha accertato la pericolosita' - anche specifica per l'associato per delinquere o per l'associato a sodalizio criminale di cui all'art. 416-bis c.p. - (Cass. 29 gennaio 1994, cit.). Inoltre e' utile aggiungere che il legislatore, al solo fine di garantire le funzioni amministrative preordinate all'espulsione degli immigrati irregolari e di disciplinare in modo rigoroso i flussi migratori, stabilisce che la medesima condizione soggettiva possa simultaneamente essere da un lato elemento costitutivo del reato di cui all'art. 14 comma 5-ter del testo unico dell'immigrazione - fattispecie anch'essa che prescinde da una accertata o presunta pericolosita' dei soggetti responsabili - e dall'altro circostanza aggravante, cosi' da duplicare, anche in termini di pena, la stessa condizione soggettiva allorche' l'agente si sia reso responsabile sia del reato di inosservanza l'ordine di allontanamento dato dal questore, sia di altro reato aggravato dalla presenza irregolare nello Stato. In conclusione, la disposizione impugnata sembra ulteriormente confermare le considerazioni piu' volte prospettate dalla Corte costituzionale in relazione alla sproporzione e alla irragionevolezza della legislazione interna sulla condizione dello straniero clandestino e si scontra frontalmente con il monito di recente nuovamente espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 22 del 2007, sentenza nella quale, dopo essersi premesso che il controllo dei flussi migratori e la disciplina dell'ingresso e della permanenza degli stranieri nel territorio nazionale e' «un grave problema sociale, umanitario ed economico che implica valutazioni di politica legislativa non riconducibili a mere esigenze generali di ordine e sicurezza pubblica ne' sovrapponibili o assimilabili a problematiche diverse, legate alla pericolosita' di alcuni soggetti e di alcuni comportamenti che nulla hanno a che fare con il fenomeno dell'immigrazione», da' atto che le questioni di costituzionalita' sollevate con riferimento alla disciplina del testo unico sull'immigrazione, per come modificato dalla legge n. 271 del 2004, in comparazione con altre norme penali «puo' servire eventualmente al legislatore per una considerazione sistematica di tutte le norme che prevedono sanzioni penali per violazioni di provvedimenti amministrativi in materia di sicurezza pubblica, senza dimenticare peraltro che il reato di indebito trattenimento nel territorio nazionale dello straniero espulso riguarda la semplice condotta di inosservanza dell'ordine di allontanamento dato dal questore, con una fattispecie che prescinde da una accertata o presunta pericolosita' dei soggetti responsabili.» e conclude con un significativo monito, proprio in relazione al profilo sanzionatorio, in forza del quale: «Occorre tuttavia riconoscere che il quadro normativo in materia di sanzioni penali per l'illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel territorio nazionale, risultante dalle modificazioni che si sono succedute negli ultimi anni, anche per interventi legislativi successivi a pronunce di questa Corte, presenta squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilita' con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalita' della pena e con la finalita' rieducativa della stessa». 2.2. - Violazione del principio di ragionevolezza anche in relazione all'art. 3 della Costituzione ed alla valutazione della pericolosita' sociale. Il decreto legge n. 92 del 2008, con la previsione impugnata, ha ulteriormente aggravato la disciplina sanzionatoria, nonostante l'indicazione contenuta nella sopra citata sentenza della Corte costituzionale, che aveva richiamato il legislatore ad avvedersi degli squilibri denunciati dai giudici remittenti per invitarlo ad «un intervento legislativo che ben piu' efficacemente potrebbe ripristinare un sistema sanzionatorio dagli equilibri compatibili coi valori costituzionali evocati. In estrema sintesi, la rigorosa osservanza dei limiti dei poteri del giudice costituzionale non esime questa Corte dal rilevare l'opportunita' di un sollecito intervento del legislatore, volto ad eliminare gli squilibri, le sproporzioni e le disarmnonie prima evidenziate». Infatti l'aggravante contestata sancisce sostanzialmente un'ipotesi di presunzione ex lege di pericolosita' del soggetto, tale da imporre un aumento di pena fino ad un terzo rispetto alla pena del reato cui accede e a prescindere da una qualsiasi valutazione in concreto da parte del giudice, cosicche' deve essere sottoposta ad uno scrutinio rigoroso di compatibilita' anche rispetto all'art. 13 della Costituzione che sancisce un diritto inviolabile dell'uomo, cittadino o straniero che sia (cosi' la sentenza n. 58 del 1995 della Corte costituzionale, al punto 3 del Considerato in diritto, e la sentenza n. 62 del 1994 che, con riferimento alla liberta' personale, stabilisce che «il principio costituzionale di uguaglianza in generale non tollera discriminazioni tra la posizione del cittadino e quella dello straniero»). La norma penale, nella specie l'aggravante di cui all'art. 61 n. 11-bis c.p., potra' sacrificare o comprimere detto diritto purche' sia sostenuta dal perseguimento o dalla realizzazione di altri interessi di pari rango costituzionale (sentenze della Corte costituzionale 63/1994, 81/1993, 368/1992, 366/1991), dei quali, pero', nella specie, non si riesce ad intravedere il fondamento. Il controllo del fenomeno migratorio illegittimo, infatti, ammesso che rientri tra gli interessi di rango costituzionale e non di mera politica del diritto, non sembra comunque equiparabile a quello della tutela della liberta' personale in relazione a categorie di soggetti la cui pericolosita' sociale non e' in alcun modo dimostrata. Che la pericolosita' sociale dello straniero illegittimamente presente nello Stato non possa essere presunta e' altresi' dimostrato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, nella sentenza n. 58 del 1995 in cui il giudice remittente dubitava della legittimita' costituzionale dell'art. 86, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 («nella parte in cui obbliga il giudice a emettere, contestualmente alla condanna, l'ordine di espulsione dallo Stato, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, precludendogli, in forza dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta»), ha ritenuto irragionevole l'applicazione della misura di sicurezza della espulsione dello straniero «senza l'accertamento della sussistenza in concreto della pericolosita' sociale contestualmente alla condanna» (cosi' nel dispositivo della menzionata pronunzia). Se, dunque, e' stata ritenuta costituzionalmente illegittima la disposizione sopra menzionata perche' fondata sul solo presupposto legale della condizione di straniero del condannato per la determinazione presuntiva della pericolosita' sociale di questi, a maggior ragione cio' deve valere con riferimento all'ipotesi di specie in cui non viene in rilievo, sulla base del medesimo presupposto, l'applicazione di una misura di sicurezza personale ma la quantificazione stessa della pena. Sotto il profilo della ragionevolezza va ancora osservato che secondo la Corte costituzionale «la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale e' collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanita' pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un'ampia discrezionalita»; ma tale discrezionalita' incontra un insuperabile limite «costituito appunto dalla conformita' a Costituzione, ovverosia dalla non manifesta irragionevolezza delle scelte legisiative operate» (si vedano, per tutte, la sentenza n. 148 del 2008, la sentenza n. 206 del 2006 e l'ordinanza n. 361 del 2007). La motivazione della richiamata sentenza n. 58 del 1995 della Corte costituzionale consente appunto di affermare che la non ragionevolezza dell'aggravante in esame discende proprio dal profilo aprioristico di pericolosita' che introduce, senza alcun accertamento della sua sussistenza in concreto, ragion per cui appare inidoneo il richiamo, a sua giustificazione, di altri «interessi pubblici» da tutelare, quali il presidio della sicurezza dei cittadini o dell'ordine pubblico. 2.3. - Violazione dell'art. 25 comma 2 della Costituzione. Se le circostanze aggravanti comuni costituiscono una variante di intensita' dell'offesa al bene giuridico tutelato dalla fattispecie di reato cui accedono, ne consegue che anche rispetto ad esse va accertato se rispondono al principio di offensivita' (si vedano le sentenze della Corte costituzionale nn. 265 del 2005 e 519 del 2000), di necessarieta' e di sussidiarieta' del diritto penale intesi come corollari del principio di legalita' sancito dall'art. 25 della Costituzione. A questo riguardo e' utile richiamare la sentenza della Corte costituzionale n. 409 del 1989 li' dove afferma che «il legislatore non e' sostanzialmente arbitro delle sue scelte criminalizzatrici ma deve, oltre che ancorare ogni previsione di reato ad una reale dannosita' sociale, circoscrivere, per quanto possibile, tenuto conto del rango costituzionale della (con la pena sacrificata) liberta' personale l'ambito del penalmente rilevante». Proprio il legame indissolubile che deve sussistere tra sanzione penale e commissione di un fatto offensivo, anche alla luce della «individualizzazione» della pena (vedi infra), impone al giudice la valutazione in concreto della incidenza della qualita' personale dell'agente sulle specifiche esigenze dei singoli casi al fine di evitare la punizione di una pericolosita' presunta e l'adesione ad una ormai definitivamente tramontata concezione etico-sociale del «tipo normativo d'autore» volta a cogliere la tipologia etico-politica degli autori del fatto-reato rispondendo alle esigenze sentite e rappresentate dalla coscienza sociale. Se, come nella specie, l'aumento di pena e' applicato all'agente in forza della sola condizione di straniero presente illegalmente nello Stato, quindi automaticamente in forza di un mero status personale, viene meno il principio verso cui e' diretto il nostro sistema penalistico che fonda anche la politica criminale della difesa sociale sulla responsabilita' individuale e non su un «a priori» elevato a presunzione di pericolosita' sociale. E' evidente, infatti, che in concreto il giudice, sulla base dell'art. 61 n. 11-bis c.p., e' oggi tenuto ad accertare solo se esista il fatto costitutivo dell'aggravante - il dato oggettivo della presenza irregolare dello straniero nel territorio dello Stato - ma non anche se e come questo incida sulla fattispecie base tanto da aggravarne concretamente l'offesa. Ad esempio, per i reati contro l'inviolabilita' del domicilio (come quello contestato agli imputati del presente processo penale), contro il patrimonio o contro la persona commessi da stranieri clandestini oggi dovrebbe automaticamente ritenersi sussistente la circostanza pur se concretamente l'offesa non risulti aggravata dallo status dell'agente o percepita dalla stessa vittima come piu' grave, mentre basterebbe tenerne conto in sede di quantificazione della pena ai sensi degli artt. 133 (in particolare il secondo comma n. 4) e 133-bis c.p., allorche' la clandestinita' sia concretamente incidente sulla gravita' del reato e sulla capacita' a delinquere dell'agente. Al riguardo si richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 354 del 2002 che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 688, secondo comma, dei codice penale (art. 688 c.p. «1 . Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, e' colto in stato di manifesta ubriachezza e' punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da € 51 a € 309. La pena e' aumentata se l'ubriachezza e' abituale. 2 La pena e' dell'arresto da tre a sei mesi se il fatto e' commesso da chi ha gia' riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l'incolumita' individuale».) proprio stigmatizzando in detta disposizione «una sorta di reato d'autore, in aperta violazione del principio di offensivita' del reato che, nella sua accezione astratta, costituisce un limite alla discrezionalita' legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa Corte (sentenze n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995). Tale limite, desumibile dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione, nel suo legame sistematico con l'insieme dei valori connessi alla dignita' umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la qualita' di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalita' dei soggetti non costituiscono illecito penale». Mutatis mutandis cio' deve valere anche nel caso in esame in cui costituisce aggravante, tale da determinare l'aumento di pena, la condizione di clandestinita' dello straniero del tutto sconnessa dal concreto contenuto offensivo del reato base e che finisce col punire non tanto la clandestinita' in se', quanto una qualita' personale del soggetto. Se si volesse ritenere che la condizione di clandestinita' dell'autore del reato sia di per se' sufficiente a determinare una maggiore dannosita' del fatto si ricadrebbe, come sopra sostenuto, nell'accoglimento della concezione etico-sociale del «tipo normativo d'autore» rifiutata dal nostro ordinamento costituzionale e penale. 2.4 - Violazione dell'art. 27 cost. sotto il profilo del principio della personalita' della responsabilita' penale, del principio di proporzionalita' della pena, del principio rieducativo della pena. L'art. 61 n. 11-bis c.p. conduce anche a punire diversamente fatti tra loro oggettivamente identici e che si differenziano solo per lo status personale di chi li abbia commessi, cioe' solo per la circostanza che l'autore sia, oppure no, uno straniero presente irregolarmente nel territorio italiano. Questo dato contrasta con il principio della personalita' della responsabilita' penale, della proporzionalita' della pena e della sua funzione rieducativi. Contrasta con il principio della responsabilita' penale personale sancito daIl'art. 27 cost. comma 1 in quanto con l'aggravante in esame all'agente si rimprovera non un'attitudine delinquenziale ma una qualita' personale, punendo piu' gravemente un tipo di autore: il clandestino. Se per i motivi sopra. esposti si esclude una valutazione in concreto da parte del giudice non puo' neanche essere sondato il grado di partecipazione psichica del soggetto rispetto alla sua condizione di irregolare presenza in Italia, nonostante la clausola di apertura del «giustificato motivo» contenuta nella disposizione di cui all'art. 14 comma 5-ter TU immigrazione e riempita di contenuto dalla giurisprudenza costituzionale. Omettendosi qualsiasi accertamento in concreto viene meno anche «l'uguaglianza di fronte alla pena» intesa come «proporzione» della pena rispetto alle «personali» responsabilita' ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, in violazione dell'esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio che individualizzi le pene inflitte (vedi sent. n. 50 del 1980); al fine di evitare che la funzione aggravatrice della pena possa soddisfare solo esigenze generali di prevenzione e di difesa sociale che prescindono dalla valutazione della personalita' del condannato. Contrasta con il principio rieducativo della pena sancito dall'art. 27, terzo comma della Costituzione nella prospettiva della finalizzazione della sanzione al recupero sociale dell'agente e al suo reinserimento nel circuito della legalita'. Sul punto non vi e' dubbio che vi sia un ampio ambito di discrezionalita' del legislatore, ma allorche', come nella specie, non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza per le ragioni sopra prospettate, la sanzione diventera' per cio' solo irrazionale ed arbitraria (cfr., tra le numerose decisioni della Corte costituzionale, la sent. n. 72 del 1980 e la sent. n. 103 del 1982). Prevedere un aumento di pena fino ad un terzo per essere l'autore del fatto uno straniero illegalmente sul territorio dello Stato, senza che cio' determini alcuna maggiore offensivita' concreta del fatto reato (il cui accertamento e' peraltro precluso al giudice) e senza che cio' costituisca un indice concreto di pericolosita' dell'agente, frustra la finalita' rieducativa della pena perche' non vi e' un ragionevole rapporto tra maggiore severita' della pena ed effettiva entita' del reato. In conclusione l'aggravante in esame da un lato non realizza la finalita' retributiva e generalpreventiva perche' non consente di adeguare la pena alla specificita' del caso concreto e, anzi, impone, un trattamento sanzionatorio sproporzionato ed inadeguato alla gravita' del caso; dall'altro lato non realizza la finalita' specialpreventiva e rieducativa della pena poiche' una sanzione siffatta non agevola il reinserimento sociale dell'agente ne' lo riconduce nell'ambito della legalita', anche amministrativa. Cio' vale a maggior ragione nel caso in esame in cui, in violazione anche del principio di uguaglianza di fronte alla pena, il trattamento sanzionatorio astrattamente previsto per XXXXXXX, illegalmente presenti in Italia ma non attinti da provvedimento espulsivo, e' identico a quello previsto per XXXXXX che e' anch'egli irregolarmente in Italia ma non ha ottemperato all'ordine di espulsione (reato quello di cui all'art. 14, comma 5-ter T.U. immigrazione non contestato dal p.m.). Ne deriva un'irragionevole ed disparita' di trattamento penale per effetto della quale, in dipendenza della condizione di clandestino in cui versa l'autore, fatti oggettivamente identici o analoghi sono sottoposti a pene sensibilmente diverse e fatti oggettivamente diversi sono sottoposti alla medesima pena. Solo l'adeguamento del trattamento punitivo alla specificita' del caso concreto consente di assicurare un'effettiva eguaglianza di fronte alle pene, contribuisce a rendere «personale» la responsabilita' penale e a finalizzare la pena alla rieducazione del condannato. In questa logica e' utile ricordare che il Giudice delle leggi con la sentenza 192 del 2007, in relazione al problema della obbligatorieta' o meno della recidiva reiterata e del divieto per il giudice di procedere al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti, ha escluso l'automatismo oggetto di censura, fondato su una presunzione assoluta di pericolosita' sociale, stabilendo che «conformemente ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa», il giudice deve applicare «l'aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo - in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall'art. 133 c.p. - sotto il profilo della piu' accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosita' del reo». Se tali sono i caratteri che deve avere il trattamento sanzionatorio delineato dalla Costituzione, l'attuale disciplina dell'art. 61 comma 11-bis c.p. non appare conforme ad essi ed anzi li viola. 3. Per le ragioni sopra indicate, questo giudice ritiene non manifestamente infondata l'esposta questione di legittimita' costituzionale. Il processo percio' deve venire sospeso e gli atti immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale, per la risoluzione della questione. Va ordinata altresi', a cura della Cancelleria, la notifica della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e la sua comunicazione ai Presidenti delle Camere.
P. Q. M. Visto I'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 61 n. 11-bis c.p., introdotto con l'art. l, lett. f) decreto-legge 23 maggio 2008 n. 92, convertito nella legge 24 luglio 2008, n. 125, in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e 30 comma, della Costituzione; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione della questione; Sospende il giudizio nei confronti dell'imputato; Dispone la notifica della presente ordinanza, a cura della cancelleria, al Presidente del Consiglio dei ministri; Dispone la comunicazione della presente ordinanza, a cura della cancelleria, ai Presidenti delle Camere; Manda alla cancelleria per gli altri adempimenti di competenza. Trieste, addi' 4 marzo 2009 Il giudice: Gianelli