N. 139 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 marzo 2009

Ordinanza del 3 marzo 2009 emessa dalla Corte d'appello di Genova nel
procedimento civile promosso da I.N.P.S. contro Borchini Giovanni. 
 
Procedimento  civile  -  Impugnazione  in  appello  di  sentenza  del
  tribunale  -  Termine  di  dieci  giorni,  per  l'appellante,   per
  provvedere alla notifica del ricorso e del decreto  del  Presidente
  di nomina del relatore e di fissazione dell'udienza di  discussione
  - Perdita del diritto di azione in caso di inosservanza del termine
  stesso - Lesione del diritto di azione in giudizio e del diritto al
  giusto processo. 
- Codice di procedura civile, art. 435, comma secondo. 
- Costituzione, artt. 24 e 111. 
(GU n.20 del 20-5-2009 )
                         LA CORTE DI APPELLO 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta  al  n.
R.G.  145/2008  promossa  da  Istituto  Nazionale  della   Previdenza
Sociale, rappresentato e difeso  dall'avv.  Christian  Lo  Scalzo  in
virtu' di procura generale alle liti per  atto  notaio  L.  Biasi  di
Roma, elettivamente domiciliato in  Genova,  via  D'Annunzio  n.  80,
appellante; 
    Contro Borchini Giovanni elettivamente domiciliato in Genova, via
Pastrengo n. 12/17 presso lo studio dell'avv. Roberta Figheti che  lo
rappresenta e difende per mandato a  margine  del  ricorso  di  primo
grado, appellato. 
    La Corte, letti gli atti e sentiti  i  difensori  nella  pubblica
udienza di discussione 
                            O s s e r v a 
    I.N.P.S. ha proposto appello contro la sentenza del Tribunale  di
Genova che ha dichiarato il  diritto  di  Borchini  Giovanni  ad  una
pensione commisurata da un numero complessivo  di  settimane  pari  a
2138,  condannando  l'I.N.P.S.   a   corrispondere   le   conseguenti
differenze pensionistiche, oltre agli interessi legali;  l'appellante
ha  censurato  detta  sentenza  per  essere  incorsa  in   vizio   di
ultrapetizione. 
    Si  e'  costituito  l'appellato  eccependo   preliminarmente   la
improcedibilita' dell'appello per  non  essere  stato  rispettato  il
termine di dieci giorni previsto dall'art. 435, comma 2  del  c.p.c.,
per la notifica all'appellato del ricorso e del decreto di nomina del
relatore e di fissazione dell'udienza di discussione. In effetti,  il
decreto presidenziale di fissazione dell'udienza  di  discussione  e'
stato comunicato all'appellante in data  11  aprile  2008  mentre  la
notifica e' avvenuta in data 16 settembre 2008, quando  l'udienza  di
discussione era fissata per il 28 novembre 2008. 
    Questa Corte ha altre volte ritenuto fondata detta eccezione,  in
adesione alla recente sentenza n. 20604  del  30  luglio  2008  delle
sezioni unite della Corte di cassazione. 
    Con essa,  discostandosi  da  un  precedente  orientamento  delle
stesse sezioni unite (nn. 6841 e 9331 del 1996) e' stato ritenuto che
gli effetti del tempestivo deposito del ricorso  e  la  tempestivita'
dell'impugnazione non si stabilizzano, in mancanza di valida notifica
all'appellato del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di
discussione, nel termine imposto dalla legge. E' stato cosi' superato
l'indirizzo giurisprudenziale che imponeva al giudice  d'appello  che
avesse rilevato qualsiasi vizio della notifica del ricorso in appello
e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, o  anche  la
sua inesistenza, di indicano all'appellante ex  art.  421  c.p.c.  e,
facendo applicazione dell'art.  291  c.p.c.,  assegnare  un  termine,
necessariamente perentorio, per effettuare o rinnovare la notifica. 
    E' stato inoltre escluso che il carattere ordinatorio del termine
di dieci giorni che la legge impone all'appellante, per la notifica a
controparte del ricorso e del decreto di fissazione  dell'udienza  di
discussione, contrasti con  la  conclusione  raggiunta.  Infatti  «la
chiara  formulazione  degli  artt.   153   e   154   c.p.c.   e   una
interpretazione ''costituzionalmente orientata'' anche di tali  norme
nel rispetto della  'ragionevole  durata'  del  processo,  portano  a
condividere l'assunto che la differenza tra termini ''ordinatori''  e
termini ''perentori'' risieda nella prorogabilita' o meno dei  primi,
perche' mentre i termini perentori non possono in alcun caso ''essere
abbreviati o prorogati, nemmeno sull'accordo delle parti'' (art.  153
c.p.c.), in relazione ai termini ordinatori e' consentito, di contro,
al giudice la  loro  abbreviazione  o  proroga,  finanche  d'ufficio,
sempre  pero'  ''prima  della  scadenza''  (art.  154  c.p.c.)»   ...
''pertanto, scaduto il termine ordinatorio senza che si sia avuta una
proroga  -  come  e'  avvenuto  nella  fattispecie  in  esame  -   si
determinano, per  il  venir  meno  del  potere  di  compiere  l'atto,
conseguenze analoghe a quelle ricollegabili al  decorso  del  termine
perentorio» (Cass. S.U., n. 20604/08). 
    I  difensori  dell'appellante  hanno  sollecitato  la  Corte   ha
rimeditare il ricordato orientamento,  proponendo  in  questo,  e  in
analoghi  giudizi  trattati  nella  medesima  udienza   odierna,   le
considerazioni che sinteticamente vengono di seguito riassunte. 
    1) Nessuna dilatazione dei tempi del processo consegue al mancato
rispetto del termine  di  dieci  giorni  fissato  dal  comma  secondo
dell'art. 435 c.p.c. per la notifica all'appellato del ricorso e  del
decreto  di  fissazione  dell'udienza  di  discussione.  A  tal  fine
assumono rilievo il termine non superiore a sessanta giorni entro  il
quale deve essere fissata l'udienza di discussione e  il  termine  di
venticinque   giorni   che   deve   essere   rispettato   a    difesa
dell'appellato, ma non quello di dieci giorni  per  la  notifica  del
ricorso e del decreto; quest'ultimo  sarebbe  essenzialmente  rivolto
all'ufficio - retaggio dei lavori preparatoni della legge n. 533/1973
che prevedevano che  alle  notifiche  provvedesse  la  cancelleria  -
affinche' l'udienza di discussione non venga fissata in termini cosi'
brevi da rendere difficoltosa la notifica all'appellato. 
    2)  La  decadenza  dalla  possibilita'  di  compiere  l'atto   e'
conseguenza che la legge ricollega solo alla consumazione dei termini
perentori, non di quelli ordinatori. 
    3) La sanzione del mancato rispetto del termine di  dieci  giorni
previsto dal comma 3 dell'art. 435 c.p.c., non puo' essere  rinvenuta
nell'improcedibilita' del ricorso; tale sanzione infatti consegue nei
soli  casi  previsti  dalla  legge,  e  una  estensione   a   diverse
fattispecie violerebbe il principio di legalita'  che  presiede  alle
conseguenze sanzionatoria  eventualmente  scaturenti  da  determinate
condotte. 
    4) L'equiparazione degli effetti dell'inutile decorso del termine
dell'art. 435, comma secondo c.p.c. a quelli propri del decorso di un
termine   perentorio,   si   espone   a   rilievi   di   legittimita'
costituzionale - anche per il tramite dell'art. 6  CEDU  quale  norma
interposta ex art. 117 Cost. - qualora, come nel caso, il  termine  a
difesa posto dall'art. 435 comma  3  c.p.c.  sia'  stato  rispettato,
perche' in  contrasto  con  il  diritto  vivente,  consolidato  dalla
precedente  giurisprudenza  di  legittimita'  e  di   merito,   cosi'
pregiudicando «retroattivamente» i valori costituzionali del  diritto
alla difesa, del giusto processo e della tutela dell'affidamento  nel
processo, quantomeno con riguardo ai giudizi in corso  alla  data  di
pubblicazione della sentenza n. 20604/08 della Corte di cassazione. 
    La situazione processuale determinatasi nel presente giudizio  di
appello e' caratterizzata dal fatto che  il  contraddittorio  tra  le
parti si e' realizzato nel rispetto del  termine  a  difesa  previsto
dall'art. 435, comma 3  c.p.c.,  ma  in  violazione  degli  ulteriori
termini previsti dai commi i (fissazione dell'udienza) e  2  (termine
per la notifica) del medesimo articolo. 
    La questione preliminare che si pone e' quella degli effetti  che
conseguono  qualora  la  notifica  del  ricorso  e  del  decreto   di
fissazione d'udienza venga effettuata con ritardo,  ma  nel  rispetto
dei del termine a difesa previsto dal comma 3. 
    L'appellante ritiene che a cio' non consegua  la  sanzione  della
decadenza  e  dell'improcedibilita'  del  giudizio,  per  non  essere
espressamente prevista dalla legge. 
    La Corte reputa errate entrambe le affermazioni. 
    Quanto alla prima,  circa  le  conseguenze  preclusive  derivanti
dall'inutile decorso  del  termine  ordinatorio  non  tempestivamente
prorogato, alla piana interpretazione letterale degli artt. 153 e 154
c.p.c., che pone in  evidenza  come  la  distinzione  con  i  termini
perentori risiede unicamente nel fatto che i primi e  non  i  secondi
sono prorogabili, nei modi e nei tempi di legge, non  puo'  utilmente
opporsi - come e' stato fatto dal Tribunale di Genova in una  recente
pronuncia che ha affrontato la questione in discussione - che  l'art.
154 c.p.c., nel prevedere la  derogabilita'  dei  termini  ordinatori
esclude che cio' possa avvenire quanto il termine sia posto a pena di
decadenza, da cio' traendo la conseguenza che la  decadenza  consegua
solo al decorso dei termini non prorogabili, cioe' i perentori. 
    Tale   interpretazione,   che   porta   a   considerare   innocua
processualmente la violazione di tutti i termini  non  specificamente
qualificati dalla legge come perentori, non puo' essere condivisa per
ragioni di carattere letterale e sistematico. Se  la  violazione  del
termine ordinatorio fosse innocua, non si comprenderebbe  perche'  la
legge  ne  disciplini  dettagliatamente  condizioni   e   limiti   di
prorogabilita'. Inoltre, come anche ha posto in rilievo la  Corte  di
cassazione nella piu'  volte  ricordata  sentenza  n.  20604/08,  una
interpretazione  costituzionalmente  orientata   della   norma,   nel
rispetto del principio di ragionevole durata del processo, impone  di
attribuire rilevanza alla violazione di termini anche quando  effetti
preclusivi non siano espressamente previsti dalla legge. 
    Che all'inutile  decorso  del  termine  ordinatorio  consegua  la
decadenza e' conclusione  condivisa  dalla  Corte  costituzionale  la
quale, con ordinanze n.  117/2003  e  n.  127/2004,  ha  ritenuto  la
manifesta   inammissibilita'   della   questione   di    legittimita'
costituzionale dell'art. 269 secondo comma c.p.c., prospettata  sotto
il  profilo  della  violazione  degli  artt.  3,  24  e   111   della
Costituzione, per la mancata previsione di un termine perentorio  per
la chiamata in causa da parte del convenuto, come invece e'  previsto
nel caso in cui la chiamata  venga  fatta  dall'attore  o  dal  terzo
chiamato. La Corte ha  rilevato  «che  la  richiesta  di  proroga  di
termini ordinatori come quello in esame,  puo'  utilmente  formularsi
solo prima della  scadenza,  ai  sensi  dell'art.  154  c.p.c.  nella
interpretazione tuttora prevalente della  Corte  di  cassazione;  che
invece,  come  riferisce  il  giudice  remittente,  la  richiesta  di
concessione di un nuovo termine per la citazione del terzo  e'  stata
formulata dal convenuto alla prima udienza, quando era  gia'  decorso
il termine, ormai non piu' prorogabile,  che  avrebbe  consentito  la
citazione nel rispetto dell'art. 163-bis c.p.c.; che  la  intervenuta
decadenza del  convenuto  dal  potere  di  chiamare  in  causa  terzi
determina quindi il difetto di rilevanza della questione nel giudizio
a quo». 
    E' altresi' infondata  l'ulteriore  affermazione  dell'appellante
per la quale, se non espressamente prevista, la improcedibilita'  del
ricorso non potrebbe essere dichiarata. 
    Il mancato rispetto del termine  previsto  dall'art.  435,  comma
secondo c.p.c. determina la preclusione dalla possibilita' di  potere
validamente notificare il ricorso di impugnazione  e  il  decreto  di
fissazione dell'udienza, con la conseguenza  che  il  complesso  atto
unitario di introduzione del giudizio di impugnazione, caratterizzato
da un fase iniziale di deposito del ricorso e di  una  successiva  di
instaurazione del contraddittorio, non si perfeziona,  cosicche'  gli
effetti prodromici e preliminari conseguenti  alla  edictio  actionis
non si stabilizzano in assenza  di  una  valida  vocatio  in  ius,  e
l'impugnazione, anche se valida e tempestiva al momento del  deposito
del   ricorso,   non    si    perfeziona,    con    la    conseguenza
dell'improcedibilita' del giudizio di  appello,  pur  se  ritualmente
instaurato. 
    Dalle considerazioni sopra  esposte  deriva  la  rilevanza  della
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 435 comma 2 c.p.c.
che viene di seguito  prospettata,  dal  momento  che  l'accoglimento
dell'eccezione determinerebbe una pronuncia di mero rito declaratoria
dell'improcedibilita' dell'appello. 
    Quanto  alla   non   manifesta   infondatezza   del   dubbio   di
illegittimita' costituzionale si richiama l'insegnamento della  Corte
costituzionale medesima la quale ha affermato che: «Nel  delineare  i
principi   informa   toni   della   disciplina   legislativa    della
giurisdizione  con   riferimento   ai   diritti   delle   parti,   la
Costituzione, all'art. 24, riconosce  i  diritti  della  difesa  come
valori primari, che, in quanto tali, godono  dell'immediata  garanzia
costituzionale quali diritti inviolabili ai sensi dell'art.  2  della
medesima Carta fondamentale (v. sent. nn. 98 del 1965, 125 del  1979,
.18 del 1982, 243 del 1989, 329 del 1992). Tuttavia, i diritti  della
difesa, nei quali  va  ricompreso  anche  il  cosiddetto  diritto  al
giudizio (v. sent. nn. 220 del 1986, 123 del 1987), si  traducono  in
specifiche e concrete situazioni  giuridiche  soggettive  soltanto  a
seguito della loro articolazione in diritti e  pretese  attinenti  al
processo  o,  piu'  precisamente,  soltanto  in   conseguenza   della
disciplina legislativa delle attivita' e  dei  procedimenti  connessi
con l'esercizio della giurisdizione. Per tale ragione questa Corte ha
costantemente sottolineato il principio secondo il quale  l'effettiva
garanzia  dei  diritti  della  difesa  riposa   sull'esercizio,   non
irragionevole, dell'ampia potesta' discrezionale che  il  legislatore
possiede in relazione all'opera di  conformazione  del  processo  (v.
sent. nn. 89 del 1972, 49 del 1979, 100 del 1987, 82 del  1992,  ord.
nn. 37 e 38 del 1988, 517 del 1990). 
    In  riferimento  allo  svolgimento   di   tale   discrezionalita'
politica, questa Corte ha costantemente affermato che il legislatore,
ove riconosca la sussistenza in concreto di uno  specifico  interesse
pubblico che ne giustifichi l'adozione, puo'  legittimamente  imporre
all'esercizio  di  facolta'  e  di  poteri  processuali   limitazioni
temporali immutabili e irreversibili, per  il  fatto  che  i  termini
perentori, cui sono connaturali i caratteri  dell'improrogabilita'  e
dell'insanabilita', tendono  a  garantire,  oltre  alla  fondamentale
esigenza di giustizia relativa alla celerita' o alla  speditezza  dei
processi, un'effettiva parita'  dei  diritti  delle  parti  in  causa
mediante il contemperamento dell'esercizio dei rispettivi diritti  di
difesa (v. spec. sent. n. 106 del  1973  e  ord.  n.  900  del  1988,
nonche' sent. nn. 138 del 1975 e 63 del 1977)». (C.  cost.  sent.  n.
471/1992). 
    Nel caso di specie si dubita che la  previsione  del  termine  di
dieci giorni per la notifica all'appellato del ricorso e del  decreto
di  fissazione  d'udienza,  sia  assistita   da   ragioni   tali   da
giustificarla e da giustificare, in caso  di  suo  vano  decorso,  la
preclusione che ne deriva e che non differisce da  quella  risultante
dal decorso di un termine perentorio. 
    Infatti quel termine non e' funzionale  a  ridurre  i  tempi  del
processo nella  sua  fase  iniziale,  che  conseguono  alla  data  di
fissazione dell'udienza di discussione da parte del Presidente  della
Corte di appello. Neppure appare adeguata la  ragione  che  e'  stata
ipotizzata dalla Corte di cassazione,  nell'ordinanza  interlocutoria
del 10 luglio 2007 con la quale si  e'  detto  che  il  rispetto  del
termine di dieci giorni «consente di rinnovare le notifiche  eseguite
ma viziate in tempo utile per  l'udienza  di  discussione»;  infatti,
quando la notifica ancorche' viziata sia esistente, alla parte dovra'
essere assegnato dal giudice un  termine  perentorio  per  rinnovarla
(artt. 291 e 421 c.p.c.). 
    Neppure quel termine appare finalizzato  ad  assicurare  adeguati
termini a difesa dell'appellato, poiche'  questi  sono  definiti  dal
comma 3 dell'art. 435 c.p.c. 
    La sola funzione concreta  che  puo'  essere  attribuita  a  quel
termine appare essere quella di impedire che l'udienza di discussione
possa essere fissata dal Presidente della Corte di appello  in  tempi
cosi'   brevi   da   rendere   perfino   difficoltosa   la   notifica
all'appellato. Ma se tale e' lo scopo, non sembra ragionevole gravare
l'appellante di un onere di notifica in termini prestabiliti, non per
la loro brevita' - che comunque e' idonea a consentire di  provvedere
all'adempimento - ma per la gravita' delle conseguenze derivanti  dal
mancato rispetto del termine,  comportanti  la  perdita  del  diritto
all'azione, senza che cio'  appaia  in  alcun  modo  giustificato  da
ragioni di equilibrio tra i poteri delle parti  o  di  celerita'  del
processo. 
    Per tutte le sovraesposte ragioni  l'art.  435,  comma  2  c.p.c.
nella parte in cui fissa all'appellante un  termine  per   provvedere
alla notifica del ricorso e del decreto, appare in contrasto con  gli
artt. 24 e 111  della  Costituzione,  poiche'  esso  comporta,  quale
sanzione della  sua  decorrenza,  il  pregiudizio  del  diritto  alla
difesa, come diritto ad agire in giudizio, senza che ricorrano motivi
ragionevoli che possano giustificare tale effetto, cosi' violando  il
diritto al giusto processo. 
                              P. Q. M. 
    Dichiara   non   manifestamente   infondata   la   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 435 comma 2 c.p.c. nella  parte
in cui fissa all'appellante un termine per provvedere  alla  notifica
del ricorso e del decreto, per contrasto con gli artt. 24 e 111 della
Costituzione; 
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953 n. 87 sospende  il  giudizio
in corso e dispone l'immediata trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale. 
    Ordina che a cura della cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
notificata al Presidente del Consiglio dei ministri. e sia comunicata
ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
        Genova, addi' 3 marzo 2009 
                        Il Presidente: Haupt