N. 140 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 ottobre 2008

Ordinanza del 13 ottobre 2008  emessa  dal  Tribunale  di  Venezia  -
Sezione distaccata di  Dolo  nel  procedimento  penale  a  carico  di
Prevedello Andrea ed altri. 
 
Ambiente - Rifiuti -  Esclusione  dalla  categoria  delle  ceneri  di
  pirite,  classificate  come   sottoprodotto   non   soggetto   alla
  disciplina dei rifiuti - Contrasto con la normativa comunitaria  in
  materia  -  Inosservanza  dei  vincoli  derivanti  dall'ordinamento
  comunitario. 
- Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, comma 1, lett.
  n), quarto periodo. 
- Costituzione, artt. 11 e 117, primo comma. 
(GU n.20 del 20-5-2009 )
                            IL TRIBUNALE 
    Visti gli atti e i documenti del procedimento penale  n.  9151/01
R.G.N.R. e n. /08 R.G. promosso contro:  Prevedello  Abdrea,  nato  a
Ponte di piave (Treviso) il 9 maggio  1957;  Melinato  Elio,  nato  a
Salzano (Venezia) il  2  gennaio  1938;  Sacco  Piergiorgio,  nato  a
Serravalle  Scrivia  (Alessandria)  il  2   luglio   1942;   Pavanato
Alessandro, nato a Cavarzere  (Venezia)  l'8  ottobre  1952,  osserva
quanto segue. 
§ 1. Gli odierni imputati sono chiamati a rispondere nell'ambito  del
processo succitato del  reato  previsto  e  punito  dall'art.  53-bis
d.lgs. n. 22 del 1997 (ora  art.  260,  d.lgs.  n.  152  del  2006  e
successive modifiche). 
    Secondo l'ipotesi accusatoria, i quattro  imputati,  in  concorso
tra  loro,  attraverso   l'allestimento   di   mezzi   ed   attivita'
continuativo organizzata, avrebbero effettuato un  traffico  illecito
di rifiuti tossico nocivi, nella fattispecie costituiti da un ingente
quantitativo di  ceneri  di  pirite  (8.084  tonnellate)  provenienti
dall'ex  cantiere  Perfosfafi   di   Portogruaro,   destinandole   ad
un'attivita' non consentita, cioe' al miscelamento con  altre  ceneri
di pirite site in un  impianto  di  Mira,  invece  di  destinarle  in
discarica di II categoria, tipo C. 
§ 2. Il quadro normativo di riferimento. Il  sottoprodotto  (excursus
normativo e giurisprudenza comunitaria). 
    Il quadro normativo di riferimento per la fattispecie di reato in
oggetto e' mutato sia a livello nazionale che comunitario. 
    Il 29 aprile del 2006 e' infatti entrato  in  vigore  il  decreto
legislativo  3  aprile  2006,  n.  152,  recante  «Norme  in  materia
ambientale» che ha inteso riordinare, tra l'altro,  nella  sua  parte
quarta, la materia della gestione dei rifiuti e  della  bonifica  dei
siti contaminati, con conseguente  espressa  abrogazione  dell'intero
decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22  (v.  art.  264,  lett.  i
d.lgs. n. 152/2006). Il fatto di reato contestato  agli  imputati  va
dunque  sussunto  sotto  le  disposizioni  sanzionatorie  del   nuovo
decreto; in particolare va richiamato l'art. 260,  il  quale  non  e'
stato modificato dal successivo d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, recante
disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. n. 152/2006, il cui
testo coincide completamente con quello del previgente  art.  53-bis,
d.lgs. n. 22/1997. 
    Nella Gazzetta Ufficiale europea del 27 aprile  2006  n.  114  e'
stata pubblicata la direttiva 2006/12/CEE, entrata in  vigore  il  17
maggio 2006,  che  sostituisce  ed  abroga  la  precedente  direttiva
75/442/CEE e  le  sue  successive  modifiche.  Tale  nuova  direttiva
costituisce dunque il nuovo punto di  riferimento  normativo  per  il
trattamento dei rifiuti nell'ambito dell'Unione europea  e  riproduce
sostanzialmente invariati i precetti, le definizioni e le nozioni del
precedente assetto normativo. 
    Sono dunque queste le disposizioni legislative che questo giudice
e' chiamato ad applicare nel presente procedimento. 
    La nuova direttiva comunitaria all'art.  1,  comma  1,  lett.  a)
definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto  che  rientri  nelle
categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi  o
abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi». 
    Analoga  definizione  e'  contenuta  nel  nuovo  testo  nazionale
all'art. 183, comma 1 lett. a): «qualsiasi sostanza  od  oggetto  che
rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A alla  parte  quarta
del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso  o
abbia l'obbligo di disfarsi». 
    Nell'ambito  dell'ordinamento   nazionale   e'   stata   altresi'
introdotta,  al  medesimo   articolo,   anche   la   definizione   di
sottoprodotto che non viene invece contemplata nella direttiva.  Tale
figura aveva gia' trovato una esplicita definizione sin  dall'entrata
in vigore dell'art. 14, d.l. 8 luglio 2002 n. 138 (Interventi urgenti
in materia tributaria,  di  privatizzazioni,  di  contenimento  della
spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche  nelle  aree
svantaggiate), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 2002,
n.  178,  il  quale  aveva  fornito   l'«interpretazione   autentica»
dell'art. 6,  comma  1,   lett.  a)  del  d.lgs.  n.  22/1997,  testo
normativo in vigore al momento in cui si sarebbero verificati i fatti
per cui e' processo, il quale aveva per  primo  recepito  la  nozione
comunitaria di rifiuto, definito «qualsiasi sostanza od  oggetto  che
rientra nelle  categorie  riportate  nell'allegato  A  e  di  cui  il
detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». 
    L'art. 14 d.l.  citato  recita:  «1.  Le  parole:  ''si  disfi'',
''abbia deciso" o ''abbia l'obbligo di disfarsi'' di cui all'art.  6,
comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.  22,
e  successive  modificazioni,  di   seguito   denominato:   ''decreto
legislativo n. 22'', si interpretano come  segue:  a)  ''si  disti'':
qualsiasi  comportamento  attraverso  il  quale  in  modo  diretto  o
indiretto una sostanza,  un  materiale  o  un  bene  sono  avviati  o
sottoposti ad attivita' di smaltimento o  di  recupero,  secondo  gli
allegati B e C del decreto legislativo n. 22; b) ''abbia deciso'': la
volonta' di destinare ad operazioni di  smaltimento  e  di  recupero,
secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n.  22,  sostanze,
materiali o beni; c) ''abbia l'obbligo di  disfarsi'':  l'obbligo  di
avviare un materiale,  una  sostanza  o  un  bene  ad  operazioni  di
recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di  legge  o
da un provvedimento delle pubbliche autorita' o imposto dalla  natura
stessa del materiale, della sostanza e del bene o  dal  fatto  che  i
medesimi siano compresi nell'elenco dei  rifiuti  pericolosi  di  cui
all'allegato D del decreto legislativo n. 22. / 2. Non  ricorrono  le
fattispecie di cui alle lettere b) e c)  del  comma  1,  per  beni  o
sostanze e  materiali  residuali  di  produzione  o  di  consumo  ove
sussista una delle seguenti condizioni:  a)  se  gli  stessi  possono
essere  e  sono  effettivamente  e  oggettivamente  riutilizzati  nel
medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo,  senza
subire alcun intervento preventivo  di  trattamento  e  senza  recare
pregiudizio all'ambiente; b) se gli  stessi  possono  essere  e  sono
effettivamente  e  oggettivamente  riutilizzati  nel  medesimo  o  in
analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito  un
trattamento  preventivo  senza  che  si   renda   necessaria   alcuna
operazione di recupero tra quelle  individuate  nell'allegato  C  del
decreto legislativo n. 22». Come e' noto,  la  disposizione  e'  gia'
stata oggetto di aspre critiche e  di  plurimi  rilievi  di  sospetta
incostituzionalita'  per  l'inopinata   restrizione   della   nozione
comunitaria  di  rifiuto.   Con   riferimento   alle   questioni   di
legittimita' costituzionale gia' sollevate ci si  limita  a  rinviare
all'ordinanza della Consulta n. 288 del 3 luglio 2006 con la quale e'
stata disposta la restituzione degli atti ai giudici a quibus ai fini
di una nuova valutazione  circa  la  rilevanza  e  la  non  manifesta
infondatezza  delle  questioni  sollevate   alla   luce   dello   ius
superveniens. 
    La categoria dei sottoprodotti ha invero trovato  ingresso  anche
nell'ambito della giurisprudenza comunitaria la quale  con  la  sent.
sez. VI, 18 aprile 2002, n. C-9/00, Palin Granit Oy ha per  la  prima
volta introdotto il  concetto  di  sottoprodotto  limitandolo  pero',
tenuto conto del noto principio di  interpretazione  estensiva  della
nozione di rifiuto,  al  caso  di  riutilizzo  certo  di  un  bene  o
materiale, senza trasformazione preliminare, nel corso  del  processo
di produzione. Nella successiva sent.  11  settembre  2003  C-114/01,
Avesta Polarit Chrome Oy viene sostanzialmente ribadito  il  medesimo
principio: laddove la utilizzazione dei residui non e' necessaria nel
processo di produzione, se per sfruttare o commercializzare i residui
stessi in maniera  diversa  e'  necessaria  una  loro  trasformazione
preliminare, si tratta di rifiuti di cui il detentore si disfa. 
    La disposizione contenuta nell'art. 14  del  decreto-legge  sopra
citato e' stata poi mantenuta in vigore dalla legge 15 dicembre 2004,
n. 308, la quale, nel conferire al Governo la delega per il  riordino
della legislazione in campo  ambientale,  aveva  comunque  stabilito,
all'art.  1,  comma  26  che  l'art.  14  dovesse  rimanere  «fermo»,
nonostante che tale disposto normativo  fosse  stato  un  mese  prima
censurato dalla  Corte  di  giustizia  delle  Comunita'  europee  con
sentenza 11 novembre 2004 in causa C -457,  Niselli.  Detta  sentenza
ribadisce al punto 33 che «l'ambito di applicazione della nozione  di
rifiuto dipende dal significato del  verbo  ''disfarsi''.  Esso  deve
essere interpretato alla luce della finalita' della direttiva 75/442,
che, ai sensi del suo terzo  ''considerando'',  e'  la  tutela  della
salute  umana  e  dell'ambiente  contro  gli  effetti  nocivi   della
raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito
dei rifiuti ...». Al successivo punto 34 evidenzia come «la direttiva
75/442 non suggerisce alcun criterio determinante per individuare  la
volonta' del detentore di disfarsi di una determinata sostanza  o  di
un determinato materiale. In mancanza  di  disposizioni  comunitarie,
gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalita' di  prova  dei
diversi elementi definiti nelle direttive da essi trasposte,  purche'
cio' non pregiudichi l'efficacia del diritto comunitario».  Al  punto
44 afferma «Puo' tuttavia ammettersi un'analisi secondo la  quale  un
bene, un materiale o una materia prima derivante da  un  processo  di
fabbricazione o di estrazione che non e' principalmente  destinato  a
produrlo puo' costituire non un residuo, bensi' un sottoprodotto, del
quale l'impresa non ha intenzione di disfarsi ai  sensi  dell'art. 1,
lett. a) primo  comma  della  direttiva  75/442  ...».  Al  punto  45
chiarisce   i   limiti   dell'apertura:   «Tuttavia,   tenuto   conto
dell'obbligo di interpretare  in  maniera  estensiva  la  nozione  di
rifiuto, per limitare gli inconvenienti ed i danni inerenti alla loro
natura»,  il  ricorso  alla  figura  del  sottoprodotto   «dev'essere
circoscritto alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene,  di  un
materiale o di una materia prima non  sia  solo  eventuale  ma  certo
senza previo trasformazione e  avvenga  nel  corso  del  processo  di
produzione». Al punto 46  ribadisce  che  il  bene  non  deve  essere
sottoposto ad «operazioni di trasformazione preliminare». 
    Vi sono stati tuttavia due  successivi  arresti  della  Corte  di
giustizia con due decisioni dell'8  settembre  2005,  in  C-416702  e
C-121/03  pronunciate  ex  art.  226  del  Trattato   (procedure   di
contestazione della Commissione) e non  ex  art.  234  (pronuncia  su
questione  pregiudiziale)  nelle  quali  ha  ritenuto   che   residui
dell'attivita' zootecnica accumulati dall'impresa  in  attesa  di  un
successivo utilizzo avrebbero potuto essere utilizzati anche «per  il
fabbisogno di operatori economici  diversi  da  chi  l'ha  prodotto».
Sarebbe  dunque  sottoprodotto  e  non  rifiuto  anche   il   residuo
produttivo destinato dal suo produttore a  terzi,  cioe'  all'esterno
dell'impresa che lo ha generato. Va  peraltro  considerato  che  tali
ultime due pronunce sono  state  precedute  da  un'ordinanza  del  15
aprile 2004 in causa C-235/02, Saetti Frediani nella quale  la  Corte
di giustizia ha enunciato il principio  (punto  48)  secondo  cui  un
residuo di produzione (nella fattispecie  si  trattava  del  coke  da
petrolio di Gela) utilizzato  con  certezza  «per  il  fabbisogno  di
energia della stessa impresa produttrice e  di  altre  industrie  non
costituisce rifiuto ai sensi della direttiva del Consiglio 15  luglio
1975 n.  75/442/CEE,  relativa  ai  rifiuti,  come  modificata  dalla
direttiva del Consiglio 18 marzo  1991  n.  91/156/CEE».  Dunque,  in
queste decisioni sembrerebbe ravvisarsi una  ulteriore  apertura  del
giudice comunitario circa il concetto di sottoprodotto nel  senso  di
una sua estensione all'ipotesi di utilizzo del residuo di  produzione
da parte di soggetti terzi rispetto all'impresa produttrice. 
    Frattanto e' entrato in vigore il decreto legislativo n. 152/2006
il quale nell'art. 183, comma 1, lett. n) introduceva la  definizione
di  sottoprodotto;  per  tali  si  devono   intendere   «i   prodotti
dell'attivita'  dell'impresa  che,  pur  non  costituendo   l'oggetto
dell'attivita'  principale,  scaturiscono  in  via  continuativa  dal
processo industriale dell'impresa  stessa  e  sono  destinati  ad  un
ulteriore impiego o al consumo». Nell'ambito della  medesima  lettera
veniva poi stabilito che tali prodotti sono sottratti alla  normativa
sui rifiuti a condizione che  si  tratti  di  «sottoprodotti  di  cui
l'impresa non si disfi, non sia obbligata a  disfarsi,  e  non  abbia
deciso di  disfarsi  ed  in  particolare  i  sottoprodotti  impiegati
direttamente  dall'impresa  che  li  produce  o  commercializzati   a
condizioni   economicamente   favorevoli   per    l'impresa    stessa
direttamente per il consumo o per l'impiego, senza la  necessita'  di
operare  trasformazioni  preliminari  in   un   successivo   processo
produttivo» ... «L'utilizzazione del prodotto dev'essere certa e  non
eventuale.» ... «L'utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per
l'ambiente o la salute  condizioni  peggiorative  rispetto  a  quelle
delle normali attivita' produttive».  Senonche'  nel  corpo  di  tale
lettera n) venivano altresi' prese in espressa considerazione  -  nel
quarto periodo - proprio le ceneri di pirite,  particolare  categoria
di sottoprodotto non soggetto alle disposizioni sui rifiuti, definite
«polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento
del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di
acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti  di
produzione dismessi, aree industriali e non, anche se  sottoposte  al
procedimento di bonifica o ripristino ambientale». 
    Dal  tenore  complessivo  dell'art.  183,  lett.  n),  d.lgs.  n.
152/2006, previgente, emerge dunque che quando un residuo produttivo: 
        1)  proviene  da  attivita'  di  impresa  (e  dunque  non  di
consumo); 
        2) scaturisce dall'attivita' produttiva in  via  continuativa
(cioe' come un materiale tipico di quella produzione); 
        3) non viene abbandonato dall'impresa (che dunque non  se  ne
disfa); 
        4) lo  reimpiega  direttamente  oppure  lo  commercializza  a
condizioni per lei economicamente favorevoli e 
        5) senza attivita' preliminare di trasformazione  (che  cioe'
«faccia perdere al prodotto la sua identita»); 
        6) viene effettivamente e certamente  riutilizzato  in  altro
ciclo  produttivo  (circostanza  che  deve   essere   attestata   con
dichiarazioni scritte delle imprese di partenza e di arrivo); 
        7) il suo utilizzo non comporta per l'ambiente  o  la  salute
condizioni  peggiorative  rispetto  a  quelle  legate  alle   normali
attivita' produttive, tale residuo non e' piu' rifiuto. 
    E' quindi intervenuta la sentenza della Corte di giustizia UE del
18 dicembre 2007 in causa C-263/05, anch'essa  emessa  a  seguito  di
ricorso per inadempimento ai sensi dell'art. 266  CE  proposto  dalla
Commissione delle Comunita' europee contro la Repubblica italiana per
avere adottato e mantenuto in vigore l'art. 14  del  decreto-legge  8
luglio 2002, n. 138, divenuto in seguito a modifica  legge  8  agosto
2002, n. 178. La Corte,  dopo  avere  ricordato  al  punto  33  della
pronuncia che il termine disfarsi e quindi la nozione di rifiuto  non
possono che essere  interpretati  in  senso  restrittivo,  svolge  un
excursus (punti 34-39) delle pronunce da essa emanate  in  materia  e
dei principi in esse individuati che si riassumono come segue: A) uno
degli indizi  per  stabilire  «se  una  sostanza  od  un  oggetto  e'
qualificabile come rifiuto e' accertare se esso  sia  un  residuo  di
produzione o di consumo, se cioe' un prodotto non e' stato  ricercato
in quanto tale»; B) «il metodo di trasformazione o  le  modalita'  di
utilizzo di una sostanza non sono determinanti per  stabilire  se  si
tratti o no di un rifiuto»; C) «la nozione di rifiuto non esclude  le
sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica»; D)
«in determinate situazioni un bene, un materiale o una materia  prima
che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non e'
principalmente destinato a produrlo  puo'  costituire  non  tanto  un
residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di
''disfarsi'' [...] ma che intende sfruttare o commercializzare  [...]
a condizioni  ad  esso  favorevoli,  in  un  processo  successivo,  a
condizione  che  tale  riutilizzo  sia  certo,  senza  trasformazione
preliminare e intervenga nel corso del processo di  produzione  o  di
utilizzazione»; E) ulteriore criterio  utile  per  stabilire  se  una
sostanza sia qualificabile o  meno  come  rifiuto  e'  «il  grado  di
probabilita' di riutilizzo di  tale  sostanza,  senza  operazioni  di
trasformazione preliminare»; la probabilita' e' alta nel caso in  cui
«il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo»; F) tuttavia
«se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che  possono
avere una certa durata,  e  quindi  rappresentare  un  onere  per  il
detentore nonche' essere  potenzialmente  fonte  di  quei  danni  per
l'ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso  non
puo' essere considerato certo ed e' prevedibile solo a  piu'  o  meno
lungo termine, cosicche' la sostanza  di  cui  trattasi  deve  essere
considerata, in linea di principio, come rifiuto». Quindi,  prendendo
le mosse dai principi cosi' enucleati e ponendosi nella scia  sino  a
quel momento tracciata, la Corte di giustizia al successivo punto  50
cosi'  statuisce:  «un  bene,  un  materiale  o  una  materia   prima
risultante da un processo di fabbricazione che  non  e'  destinato  a
produrlo puo' essere considerato come  un  sottoprodotto  di  cui  il
detentore non desidera disfarsi solo se il  suo  riutilizzo,  incluso
quello per i bisogni di operatori economici diversi da colui che l'ha
prodotto, e' non semplicemente eventuale, ma certo, non necessita  di
trasformazione preliminare e interviene nel  corso  del  processo  di
produzione o  di  utilizzazione».  Il  giudice  comunitario  conclude
quindi dichiarando che la Repubblica italiana  e'  venuta  meno  agli
obblighi che le incombono in  forza  dell'art.  1,  lett.  a),  della
direttiva 75/442/CEE. 
    Successivamente, il 13 febbraio 2008  e'  entrato  in  vigore  il
d.lgs. 16 gennaio  2008  n.  4  il  quale,  ha  introdotto  modifiche
significative al decreto legislativo n. 152/2006. Per quanto  e'  qui
di interesse l'art. 2, comma 20 del decreto legislativo correttivo ha
interamente  riscritto  l'art.  183  ed  anche  la   definizione   di
sottoprodotto che ora si trova collocata alla lettera p),  eliminando
completamente l'espressa menzione delle ceneri di  pirite.  La  nuova
definizione delineata dalla novella e' senza dubbio in linea  con  la
normativa  comunitaria  essendo  piu'  precisa,  dotata  di  maggiore
chiarezza e maggiormente restrittiva. Essa  ha  altresi'  recepito  i
criteri indicati dalla giurisprudenza  comunitaria  sopra  ricordati.
Infatti, secondo l'art. 183, comma 1, lett.  p)  nuova  formulazione:
«sono  sottoprodotti  le  sostanze  ed  i  materiali  dei  quali   il
produttore non intende disfarsi ai  sensi  dell'art.  183,  comma  1,
lettera a), che soddisfino tutti  i  seguenti  criteri,  requisiti  e
condizioni: 1)  siano  originati  da  un  processo  non  direttamente
destinato alla loro produzione; 2) il loro  impiego  sia  certo,  sin
dalla fase della produzione, integrale  e  avvenga  direttamente  nel
corso del processo di produzione o di  utilizzazione  preventivamente
individuato e definito; 3) soddisfino  requisiti  merceologici  e  di
qualita' ambientale idonei a garantire che il loro  impiego  non  dia
luogo  ad  emissioni  e  ad  impatti  ambientali  qualitativamente  e
quantitativamente diversi da quelli autorizzati per  l'impianto  dove
sono destinati ad essere utilizzati; 4) non debbano essere sottoposti
a  trattamenti  preventivi  o  a   trasformazioni   preliminari   per
soddisfare i requisiti merceologici e di qualita' ambientale  di  cui
al punto 3), ma  posseggano  tali  requisiti  sin  dalla  fase  della
produzione; 5) abbiano un valore economico di mercato». 
§ 3. Le ceneri di pirite. 
    Tale essendo il panorama legislativo e giurisprudenziale, e' bene
a questo punto evidenziare che le ceneri di pirite  costituiscono  il
necessario ed inevitabile residuo  del  procedimento  industriale  di
fabbricazione dell'acido solforico. Tale sostanza, fin dai primi anni
del secolo  scorso,  e'  stata  utilizzata  su  larga  scala  per  la
preparazione,   dei   concimi    chimici    (perfosfati)    destinati
all'agricoltura; essa, piu' in generale, rappresenta inoltre uno  dei
piu' importanti prodotti intermedi di tutta  l'industria  chimica  di
base.  L'acido  solforico  veniva   ottenuto   attraverso   il   c.d.
arrostimento del minerale pirite in  forni  speciali  a  seguito  del
quale il residuo solido che  ne  derivava  era  costituito,  appunto,
dalla cenere di pirite. Negli anni che  hanno  preceduto  il  secondo
conflitto  mondiale  furono  realizzati   in   Italia   circa   cento
stabilimenti di  varia  potenzialita'  per  la  produzione  di  acido
solforico a partire dalle piriti. Solamente verso i primi anni '70 la
materia prima pirite e' stata sostituita dallo  zolfo  -  proveniente
dalla desolforazione dei gas naturali e dei  prodotti  petroliferi  -
che e' divenuto l'ingrediente di base per  la  produzione  dell'acido
solforico attraverso l'impiego di una diversa tecnologia. Si  possono
cosi' trovare ancora oggi  depositi  (piu'  o  meno  controllati)  di
queste ceneri in  varie  zone  del  Paese  ed  anche  i  depositi  di
Portogruaro e di Mira rientrano in questo generale quadro storico. 
    Attualmente  la  naturale  destinazione  delle   ceneri   e'   il
conferimento del materiale a cementifici italiani ed  esteri.  Questi
ultimi rappresentano infatti i destinatari «naturali» delle ceneri di
pirite, poiche' dette polveri sono ricche  di  ossidi  di  ferro  che
costituiscono un additivo fondamentale nella produzione del  cemento.
Tale pratica di utilizzo risale agli inizi del  secolo  scorso  e  si
protrae tutt'oggi. Le ceneri vengono mescolate tal quali, senza alcun
trattamento preventivo alle altre materie prime e successivamente  la
miscela (c.d.  farina)  viene  inserita  in  speciali  forni  la  cui
temperatura viene spinta oltre i 1400 gradi C°;  il  materiale  cosi'
ottenuto, dopo essere stato raffreddato, viene macinato e  prende  il
nome di cemento. 
    Fatta questa doverosa premessa per meglio inquadrare il fenomeno,
appare subito chiara una caratteristica del residuo produttivo ceneri
di pirite: esse non derivano da un  processo  produttivo  attuale  ma
derivano sempre da attivita' industriali non piu' esistenti da  anni,
tanto da essere le stesse raccolte, come recava lo stesso  art.  183,
lett. n) d.lgs. n. 152/2006, in stabilimenti «dismessi» od in aree di
diverso tipo («industriali e non»), segno evidente del fatto  che  le
ceneri sono state  nel  corso  degli  anni  accantonate  in  svariate
localita' e con le piu' diverse modalita' e non piu' utilizzate. 
§ 4. La problematica della successione di leggi nel tempo in tema  di
sottoprodotto e la loro applicazione al caso in esame. 
    Tanto premesso, questo giudice e' dunque chiamato  ad  analizzare
la  questione  della  successione  delle  leggi  che   hanno   sinora
variamente regolato la materia dei rifiuti  e  dei  sottoprodotti  in
relazione al caso in esame. 
    Avuto riguardo al tempus commissi delicti  contestato,  la  prima
norma di riferimento nella successione normativa e' l'art.  6,  comma
1, lett. a) del d.lgs. n. 22/1997 sopra citato. Non v'e' dubbio  che,
in relazione a tale assetto  normativo,  le  ceneri  di  pirite,  per
l'aspetto storico e fattuale che le  caratterizza,  sopra  descritto,
rientrassero a pieno titolo nel concetto di rifiuto in quanto residuo
produttivo di cui l'originario detentore  si  era  disfatto  o  aveva
deciso di disfarsi. 
    Nelle more del procedimento  penale  e'  poi  entrato  in  vigore
l'art. 14, d.l. 8 luglio 2002 n. 138.  Come  e'  noto,  la  sedicente
norma di «interpretazione autentica» aveva condotto di fatto  ad  una
restrizione della nozione di rifiuto; tale innovazione  normativa  va
pero' applicata tenendo presente che il criterio interpretativo  piu'
corretto  in  materia  di  rifiuti  e'  quello  di  non  pregiudicare
l'efficacia del diritto comunitario. Ora,  nel  caso  di  specie,  la
notevole distanza temporale fra la produzione delle ceneri di  pirite
ed il loro impiego in diverso ciclo produttivo conduce a ritenere che
il residuo produttivo, per dirla con le parole del primo comma  della
disposizione  in  esame,  era  stato  sottoposto  ad  «attivita'   di
smaltimento o di recupero». Inoltre, la congiunzione  «e»  utilizzata
nel  secondo  comma  nella   locuzione   «possono   essere   e   sono
effettivamente  ...  riutilizzati»  indica  che  per   escludere   il
materiale o la sostanza dal novero dei  rifiuti  il  riutilizzo  deve
essere attuale (rispetto al momento della sua produzione) e non  solo
potenziale. Riguardato in tale prospettiva il caso in  esame  sarebbe
stato   senz'altro   riconducibile    alla    previgente    normativa
disciplinante la gestione  dei  rifiuti  anche  successivamente  alla
entrata in vigore dell'art. 14 del decreto-legge citato. 
    Come gia' evidenziato, la disciplina di cui all'art. 14  d.l.  n.
138/2002 e' rimasta immutata, grazie alla  legge  n.  308/2004,  sino
alla entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006 il quale, all'art.  183
lett. n), quarto periodo, aveva esplicitamente statuito che le ceneri
di  pirite  rientrano  tra  i   sottoprodotti   non   soggetti   alle
disposizioni di cui alla parte quarta del decreto legislativo. Appare
evidente che tale articolo introduce  nel  panorama  legislativo  una
sicura norma di  favore  per  gli  odierni  imputati,  ai  quali,  in
ossequio a quanto stabilito dall'art.  2,  comma  4,  c.p.,  potrebbe
essere applicata la norma richiamata, con conseguente proscioglimento
dai reati loro ascritti con la formula perche' il fatto non sussiste,
difettando per il materiale o per la sostanza di  cui  si  tratta  il
requisito dell'essere rifiuto. 
    Per  contro,  la  definizione  di  sottoprodotto  attualmente  in
vigore, contenuta  nell'art.  183,  lett.  p),  d.lgs.  n.  152/2006,
novellato dal d.lgs. n. 4/2008 e piu'  in  linea  con  la  disciplina
comunitaria, non consente assolutamente di  collocare  le  ceneri  di
pirite di cui al caso in esame nella nozione di sottoprodotto per  le
ragioni gia' esposte. Ed anzi, si puo' dire che la nuova  norma,  tra
tutte quelle che si sono succedute nella materia, e' quella che  meno
lascia adito a dubbi, delineando con chiarezza il percorso  che  deve
essere seguito per affermare che le ceneri di pirite costituiscono  a
tutti gli effetti un rifiuto. 
    Da quanto sin qui osservato in relazione alle norme  succedutesi,
sia applicando le norme che si sono avvicendate prima del  previgente
art. 183, comma 1,  lett.  n),  quarto  periodo,  sia  applicando  la
normativa attualmente in vigore  le  ceneri  di  pirite  ricadrebbero
nella  disciplina  della  norma  incriminatrice;  mentre  solo  nella
vigenza dell'art. 183 nel testo anteriore alla novella il residuo non
poteva essere fatto rientrare nella disciplina che regola la  materia
dei rifiuti. 
    Ed allora si comprendono le  ragioni  per  cui  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 183, comma 1 lett.  n),  quarto
periodo  d.lgs.  n.  152/2006,  cioe'  la   formulazione   previgente
dell'articolo,  e'  sicuramente  attuale.  Fintantoche'  l'art.   183
previgente  non  viene  espunto  dall'ordinamento  giuridico,  questo
giudice sara' tenuto ad applicarlo ai sensi dell'art. 2, comma 4 c.p.
in quanto norma piu' favorevole agli imputati,  essendo  l'unica  che
statuisce expressis verbis che  le  ceneri  di  pirite  non  sono  un
rifiuto. 
§ 5. Il contrasto del previgente art. 183, lett. n), quarto  periodo,
d.lgs. n. 152/2006 con gli artt. 11 e 117 Cost. 
    Come gia'  detto,  il  legislatore  italiano  nella  disposizione
normativa contenuta nell'art.  183,  comma  1,  lett.  n)  previgente
«fotografa» la  problematica  connessa  alle  ceneri  di  pirite  che
presenta la peculiarita' «storica» appena evidenziata: cosi'  facendo
pero'  abbandona  completamente  uno  di  principali  cardini   della
normativa comunitaria vigente in materia di rifiuti rappresentata dal
concetto di «disfarsi»: quando il produttore e/o detentore «si disfa»
di un  determinato  residuo  produttivo  e  non  lo  reimpiega  o  lo
commercializza, allora si ha necessariamente  un  rifiuto  e  non  un
sottoprodotto (art. 1, comma  1,  lettera  a)  della  direttiva  2006
dicembre CE). Stabilire che un residuo va  considerato  sottoprodotto
da sottrarre alla disciplina dei rifiuti a prescindere dal fatto  che
l'impresa produttrice se  ne  e'  gia'  disfatta  e'  operazione  che
contrasta con il diritto comunitario. 
    E' agevole prevedere l'obiezione che  tale  ragionamento  risulta
viziato  all'origine  poiche'  assume  a  punto  di  riferimento   il
produttore originario e non l'attuale detentore, che spesso si  trova
- come nella vicenda per cui e' processo - a  gestire  tali  depositi
per  sfruttare  commercialmente   dette   ceneri   ed   alienarle   a
cementifici: tale argomentazione e' suggestiva,  tuttavia  va  sempre
tenuto  presente  che  il  criterio  in  base   al   quale   adottare
l'interpretazione piu' corretta in materia di rifiuti  e'  quello  di
non pregiudicare l'efficacia del diritto comunitario  che  in  questo
settore si basa sul generale principio di  interpretazione  estensiva
della nozione di rifiuto per tutelare la salute  umana  e  l'ambiente
contro  gli  effetti  nocivi  della  raccolta,  del  trasporto,   del
trattamento, dell'ammasso e  del  deposito  di  tali  materiali.  Del
resto, la stessa normativa nazionale pone  a  base  della  disciplina
generale  dei  sottoprodotti  l'impresa  che  li   produce,   facendo
riferimento ad essa per tutto quanto concerne i presupposti (elencati
al § 3) che debbono ricorrere per sottrarre il  sottoprodotto  stesso
alla disciplina della parte quarta del d.lgs. n. 152/2006. 
    In quest'ottica  non  sembra  avere  pregio  neppure  l'eventuale
rilievo secondo cui tali accumuli di ceneri di pirite distribuiti sul
territorio non sarebbero mai stati «abbandonati» nel senso  giuridico
del termine dal  produttore  originario,  essendo  il  residuo  stato
oggetto, anche negli anni in cui si produceva l'acido  solforico,  di
conferimenti ai cementifici «a  pie'  di  impianto»  e  che  solo  il
surplus di produzione  ne  avrebbe  determinato  l'accantonamento  in
previsione di un loro futuro utilizzo. Va infatti evidenziato il dato
fattuale (recepito puntualmente  dal  legislatore  nazionale  laddove
menziona «stabilimenti dimessi» ed «aree industriali e non») che tale
accantonamento, raccolta, allocazione che dir  si  voglia  di  questi
materiali e' assai risalente  nel  tempo  (almeno  trent'anni):  tale
aspetto non fa dunque che sottolineare come per un  lungo  intervallo
temporale l'utilizzo  di  tali  ceneri  non  fosse  affatto  certo  o
probabile, e che le decisioni  sul  suo  destino  non  fossero  cosi'
scontate. E' dunque questo il dato obiettivo che dev'essere preso  in
considerazione, che non fa altro che sottolineare come  la  normativa
di cui si intende qui chiedere lo scrutinio costituzionale pare porsi
in contrasto non solo con il requisito del «non disfarsi» del residuo
da parte del produttore  originario  (cosa  che  invece  avviene  nel
momento in cui egli raccoglie il materiale in  una  determinata  area
che viene chiusa o messa in sicurezza e li' lasciata  per  anni),  ma
anche con l'ulteriore requisito dell'utilizzo certo ed effettivo  del
residuo  produttivo  nella  fase  in  cui  questo  viene  alla   luce
(dovendosi  come  gia'   detto   fare   riferimento   al   produttore
originario), come  invece  e'  stato  piu'  volte  evidenziato  dalla
giurisprudenza comunitaria. 
    Non solo: l'art. 183, lett. n) nella  parte  in  cui  dispone  la
deroga alla parte quarta del d.lgs. n.  152/2006  per  le  ceneri  di
pirite «anche se  sottoposte  a  bonifica  o  ripristino  ambientale»
appare in contrasto con il principio generale secondo cui  l'utilizzo
di un sottoprodotto deve avvenire senza che cio' arrechi  pregiudizio
per l'ambiente e la salute (art. 4 direttiva 2006/12/CE). Infatti, se
le ceneri sono sottoposte  a  bonifica  o  ripristino  ambientale  e'
probabile che il materiali  raccolti  possano  essere  contaminati  e
dunque pericolosi per l'uomo o per l'ambiente. 
    In conclusione, si ritiene che la disposizione in oggetto -  art.
183, comma 1, lett. n), quarto periodo, d.lgs. n. 152/2006 -  per  le
considerazioni sopra esposte contrasti con gli artt. 11 e  117  della
Costituzione. Con l'art. 11 Cost., laddove questo stabilisce  che  lo
Stato italiano deve osservare la limitazione di sovranita'  derivante
dalla sua partecipazione a ordinamenti internazionali,  quale  quello
della Comunita' europea e con l'art. 117,  primo  comma  Cost.,  come
novellato dalla legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3, che nel suo  primo
comma impone allo Stato di esercitare la sua potesta' legislativa nel
rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario. 
    Sotto tale profilo occorre sottolineare che  ai  sensi  dell'art.
130 R n. 2 del Trattato CE (divenuto in seguito a modifica, art.  174
n. 2 CE) la politica della Comunita' in materia ambientale mira ad un
elevato livello di tutela ed e' fondata sui principi, in particolare,
della  precauzione  e  dell'azione  preventiva,  sul   principio   di
correzione, anzitutto alla  fonte,  dei  danni  causati  all'ambiente
nonche' sul principio  «chi  inquina  paga».  Dunque  il  legislatore
italiano nell'introdurre nell'ordinamento giuridico interno una norma
in contrasto con tali principi e con la  direttiva  sopra  citata  ha
altresi' violato il generale obbligo di  leale  cooperazione  di  cui
all'art. 10 (ex art. 5) del Trattato CE laddove  viene  previsto  che
«gli  Stati  si  astengono  da  qualsiasi  misura   che   rischi   di
compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato». 
§ 6. Il ricorso alla Corte costituzionale. 
    Tanto premesso, si ritiene che lo  strumento  piu'  corretto  per
giungere ad eliminare ai fini del decidere tale contrasto  tra  norma
interna e norma comunitaria e, dunque, il conseguente  contrasto  con
le norme della Costituzione sia il ricorso al giudice delle leggi. 
    Non si possono infatti condividere le considerazioni secondo cui,
ricorrendo tale antinomia, il giudice nazionale e' ammesso comunque a
disapplicare la norma interna in favore  di  quella  comunitaria.  E'
stato infatti sostenuto che la direttiva 75/442 e  succ.  mod.  e  la
direttiva 2006/12 debbono  considerarsi  a  tutti  gli  effetti  come
direttive autoapplicative, quantomeno sotto il profilo della  nozione
di rifiuto: la controprova di tale assunto risiederebbe nel fatto che
la definizione di rifiuto e' stato infatti recepita  dal  legislatore
nazionale del 1997 prima e del 2006 dopo  ricalcando  pedissequamente
la norma comunitaria. Questo e' in realta'  un  argomento  che  prova
troppo:  invero  non  risulta   che   le   direttive   in   questione
attribuiscano in via chiara e diretta diritti in  capo  ai  cittadini
sicche' esse hanno la necessita' di essere fedelmente recepite  dagli
ordinamenti  nazionali  per  diventare  efficaci  nei  confronti  dei
soggetti intrastatali. 
    Sul punto si  fanno  comunque  proprie  le  osservazioni  cui  e'
pervenuta la Suprema Corte di cassazione, sez. III,  con  l'ordinanza
n. 1414 del 16  gennaio  2006:  la  possibilita'  di  procedere  alla
disapplicazione  di  una   norma   nazionale   in   quanto   ritenuta
incompatibile con il diritto  comunitario  e'  possibile  solo  nella
misura in cui la norma  di  diritto  comunitario  abbia  efficacia  e
diretta applicazione nell'ordinamento giuridico dello  Stato  membro,
cosa che avviene esclusivamente nel caso:  1)  di  alcune  norme  del
Trattato CE, 2) dei regolamenti,  3)  di  alcuni  tipi  di  direttive
precise  e  non  condizionate  per  la  loro  applicazione  ad  alcun
provvedimento ulteriore - tra le quali non puo' essere annoverata ne'
l'originaria direttiva 75/442 e succ. mod.  ne'  tantomeno  l'attuale
direttiva 2006/12 - e, infine, 4) delle decisioni rivolte ai  singoli
o agli stati membri. Cio' vale a  maggior  ragione  per  le  pronunce
della Corte di giustizia emanate in tema  di  sottoprodotti  e  sopra
richiamate: la sentenza della Corte emanata ai  sensi  dell'art.  234
del Trattato e'  sentenza  interpretativa,  vincolante  solo  per  il
giudice rimettente e ovviamente  non  ha  alcun  effetto  caducatorio
sulla  norma  nazionale;  in  altri  termini   si   puo'   dire   che
l'interpretazione  della  norma  comunitaria  resa  dalla  Corte   di
giustizia ha la stessa efficacia delle disposizioni interpretate  (v.
Corte cost. sent. 11 luglio 1989 n. 389) sicche' nel caso  di  specie
trattandosi di norme contenute in direttive  classiche,  gli  effetti
della sentenza non potranno mai riverberarsi  automaticamente  al  di
fuori  del  procedimento  nell'ambito  del  quale   essa   e'   stata
pronunciata. 
    Deve infine essere affrontata in questioni degli effetti in malam
partem di una eventuale sentenza di accoglimento della  Consulta.  In
realta', come e'  gia'  stato  osservato  in  occasione  di  analoghe
ordinanze di rinvio alla Corte nell'ambito della medesima materia, la
eventuale caducazione della norma piu' favorevole  al  reo,  qual  e'
quella contenuta nell'art. 183, lett. n) d.lgs. n. 152/2006  in  tema
di ceneri di pirite non comporterebbe una violazione del principio di
irretroattivita' della norma penale previsto  dall'art.  25,  secondo
comma Cost.: invero, da un lato la pirite doveva infatti qualificarsi
senza  dubbio  come  rifiuto  quantomeno  all'epoca   del   sequestro
dell'area avvenuto il 22 marzo 2002, non essendo ancora stato emanato
all'epoca l'art. 14, d.l. 8 luglio  2002,  n.  138,  poi  convertito,
recante un'interpretazione autentica e restrittiva della  nozione  di
rifiuto e dall'altro lato l'art.  51,  d.lgs.  n.  22/1997  era  gia'
entrato in vigore prima dei reati contestati. Inoltre  l'accoglimento
della  questione  potrebbe  incidere  comunque   sulle   formule   di
proscioglimento  o  sui  dispositivi  della  sentenza  penale  e   si
rifletterebbe comunque sullo schema argomentativo  della  motivazione
della sentenza (cfr. ex plurimis: sent. Corte cost. n. 148 del 1983). 
§ 7. Rilevanza e non manifesta infondatezza della questione. 
    Sul secondo requisito si rimanda a quanto sopra esposto. Circa la
rilevanza nel presente processo si richiamano le osservazioni di  cui
al § 4:  essa  e'  indubitabile  poiche'  il  reato  contestato  agli
imputati presuppone  la  riconducibilita'  delle  condotte  poste  in
essere in tesi accusatoria dagli imputati alla  norma  incriminatrice
originariamente contenute nell'art. 53-bis del d.lgs. n. 22 del  1997
poi trasposte nell'art. 260 del d.lgs. n. 152/2006. 
                              P. Q. M. 
    Visti gli artt. 134 Cost. e 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 183, comma 1, lett.  n)  quarto
periodo  d.lgs.  n.  152/2006  (nella  sua  formulazione   precedente
all'entrata in vigore dell'art. 2, comma 20  del  d.lgs.  16  gennaio
2008 n. 4 che ha  interamente  sostituito  l'articolo  in  questione)
nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite  rientrano  tra  i
sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta
del citato decreto legislativo, per violazione degli artt. 11 e  117,
primo comma della Costituzione. 
    Dispone la trasmissione degli atti del  procedimento  alla  Corte
costituzionale; 
    Sospende il giudizio in corso; 
    Dispone  altresi'  che  a  cura  della  cancelleria  la  presente
ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri, al
Presidente della Camera dei deputati  ed  al  Presidente  del  Senato
della Repubblica. 
        Dolo, addi' 13 ottobre 2008 
                        Il giudice: De Curtis