N. 169 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 novembre 2009

Ordinanza del 6 novembre 2008 emessa dal  Tribunale  di  Pistoia  nel
procedimento civile promosso  da  Bolognini  Riccardo  contro  C.I.S.
S.p.A.. 
 
Lavoro e  occupazione  -  Apposizione  di  termini  alla  durata  del
  contratto di lavoro subordinato -  Previsione,  per  i  giudizi  in
  corso alla data di entrata in vigore della norma censurata,  di  un
  indennizzo a carico del datore di lavoro e in favore del lavoratore
  di importo compreso tra un  minimo  di  2,5  ed  un  massimo  di  6
  mensilita'   dell'ultima   retribuzione   globale   di   fatto    -
  Irragionevolezza -  Ingiustificata  disparita'  di  trattamento  di
  fattispecie identiche discriminate in ragione della pendenza o meno
  di un giudizio alla data di entrata in vigore della legge censurata
  - Incidenza sul  diritto  di  difesa  e  sui  principi  del  giusto
  processo - Violazione dei vincoli derivanti dalla CEDU. 
- Decreto  legislativo  6  settembre  2001,  n.  368,   art.   4-bis,
  introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, della legge 6 agosto 2008, n.
  133 [recte: art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008,
  n. 112, inserito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133]. 
- Costituzione, artt. 3, 24, primo comma, 111, primo  comma,  e  117,
  primo comma. 
(GU n.24 del 17-6-2009 )
                            IL TRIBUNALE 
    A scioglimento della riserva assunta all'udienza  del  6  ottobre
2008, rileva quanto segue. 
    Bolognini Riccardo, con ricorso depositato  il  1°  aprile  2008,
premesso di  essere  stato  assunto  con  contratto  a  termine  alle
dipendenze della C.I.S. S.p.A., con mansioni di operaio di livello II
B, dal 1° giugno 2005 al 30 novembre 2005, con proroga al  30  maggio
2006; che, a giustificazione della previsione del  termine  (e  della
successiva proroga), era stata addotta la seguente motivazione:  «per
esigenze straordinarie connesse all'aumento  temporaneo  dei  servizi
prestati ai comuni consorziati»; che con lettera del 28 dicembre 2005
la C.I.S. S.p.A. aveva comunicato al lavoratore il  conferimento  del
ramo d'azienda avente ad oggetto la  gestione  dei  pubblici  servizi
alla C.I.S. S.r.l.; che la giustificazione addotta era  generica,  in
quanto non indicava quali erano i servizi oggetto del dedotto aumento
ne' i comuni che ne erano interessati e non consentiva in concreto di
stabilire l'entita' dell'aumento di lavoro, l'intervallo temporale in
cui si articolava e, in conseguenza, il  numero  e  la  durata  delle
assunzioni  a  termine  giustificate  da  tale  fattore;  tutto  cio'
premesso,  ha  chiesto,  nei  confronti  della   C.I.S.   S.r.l.   la
declaratoria della nullita' della clausola  appositiva  del  termine,
l'accertamento dell'esistenza  di  un  rapporto  di  lavoro  a  tempo
indeterminato sin dal 1° giugno 2005, l'accertamento del suo  diritto
a vedersi riconosciuta l'anzianita' contrattuale dal 1° giugno 2005 e
la conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento della somma
corrispondente alle retribuzioni non percepite a far data dalla messa
in mora, ossia dal 22 novembre 2006, oltre accessori di legge. 
    Nel costituirsi in giudizio, la C.I.S. S.r.l., per dimostrare  il
fondamento giustificativo dell'apposizione del termine,  ha  prodotto
scrittura privata del 31 marzo 2004, con la quale erano  state  poste
le basi per la costituzione di  una  societa'  consortile  denominata
«Manutenzione  Ambientale  Urbana»,  con  lo  scopo   di   coordinare
l'attivita' di manutenzione delle aree urbane, affidando l'esecuzione
dei relativi  servizi  ai  soci.  L'aumento  temporaneo  dei  servizi
sarebbe disceso dal fatto che, nelle more  della  costituzione  della
societa' consortile, la  societa'  C.I.S.  avrebbe  dovuto  garantire
provvisoriamente lo svolgimento dei servizi stessi. La resistente  ha
aggiunto che il ricorrente sarebbe risultato  inidoneo  per  impieghi
operativi nell'ambito delle attivita' svolte dalla  societa'  C.I.S.,
con conseguente pericolo per l'incolumita' sua e dei suoi colleghi. 
    Cio' posto, quanto alla rilevanza della questione  che  si  va  a
prospettare, si osserva che la scrittura privata del  31  marzo  2004
nulla prevede, quanto allo svolgimento provvisorio,  da  parte  della
societa' resistente dei servizi altrimenti destinati ad essere  posti
a  carico  della  costituenda  societa'.  L'accordo   sindacale   del
successivo 9 dicembre 2004 da' atto dell'attivazione da  parte  della
resistente di non precisati  «nuovi  servizi»  e,  nel  quadro  della
riorganizzazione aziendale  programmata,  prevede  la  copertura  dei
posti vacanti da attuarsi prioritariamente con la trasformazione  dei
contratti  a  tempo  determinato  in  essere  in  contratti  a  tempo
indeterminato e, per le attivita'  di  nuova  istituzione  (anche  in
questo caso non precisate in alcun modo)  l'assunzione  di  personale
«in funzione delle definizioni anche temporali, che verranno date  ai
servizi di volta in volta affidati». Anche in questo caso, manca ogni
specificazione idonea a dimostrare la  riconducibilita'  causale  del
contratto del quale si discute a  specifiche  esigenze  organizzative
del datore di lavoro. Quanto all'affermata inidoneita' al lavoro  del
ricorrente, la relazione del dr. Brettoni ribadisce che il Bolognini,
al momento della visita  medica,  non  si  presentava  in  condizioni
psico-fisiche ostative al rilascio del certificato di idoneita'  alla
mansione. 
    Cio' posto, l'art. 1, comma 1 del d.lgs. n. 368/2001 prevede  che
e' consentita l'apposizione di un termine alla durata  del  contratto
di lavoro subordinato a  fronte  di  ragioni  di  carattere  tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo.  Il  comma  2  aggiunge  che
l'apposizione del  termine  e'  priva  di  effetto  se  non  risulta,
direttamente  o  indirettamente,  da  atto  scritto  nel  quale  sono
specificate le ragioni di cui al comma 1. 
    Ritiene il giudicante che  il  generico  riferimento  all'aumento
temporaneo dei servizi non risponda alle esigenze  di  specificazione
contenute nell'art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 368/2001. 
    La  scelta  legislativa  di  imporre   un   generale   onere   di
specificazione comporta invece la necessita' di verificare quando  in
concreto esso possa dirsi assolto. 
    Al fine di evitare che tale verifica non  poggi  su  alcuna  base
obiettiva, e' necessario prendere le mosse dalla direttiva 1999/70/CE
del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa  all'accordo  quadro  sul
lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall'UNICE e dal  CEEP
e dal contenuto dell'accordo medesimo, dal  quale  emerge,  in  primo
luogo,  che  l'utilizzazione  dei  contratti  di   lavoro   a   tempo
determinato basata su ragioni oggettive e' un modo per prevenire  gli
abusi (punto 7 delle considerazioni generali) e,  in  secondo  luogo,
che il contratto deve essere  determinato  da  condizioni  oggettive,
quali il raggiungimento di una certa data,  il  completamento  di  un
compito specifico o il verificarsi di un evento  specifico  (clausola
n. 3). 
    Appare allora  evidente,  in  una  lettura  della  norma  interna
coerente  con  il  significato  della  fonte  sovraordinata,  che  la
specificazione delle ragioni impone (non solo il riscontro obiettivo,
ma anche) la puntualizzazione di  quale  sia  l'evento  concreto  che
giustifica  l'apposizione  del  termine.  Al   contrario,   il   mero
riferimento all'esistenza di un temporaneo aumento di lavoro  non  e'
altro che una  modalita'  appena  piu'  articolata  di  esprimere  le
esigenze sostitutive, nulla aggiunge  alla  generica  previsione  del
comma 1 dell'art. 1 e, in definitiva, non consente di  predeterminare
le ragioni che giustificano la  conclusione  del  contratto  a  tempo
determinato e di esercitare alcun controllo preventivo  sulla  stessa
obiettiva esistenza delle ragioni poste  a  fondamento  della  scelta
negoziale. 
    Peraltro, nella specie, come s'e' visto, a riprova del  carattere
tautologico dell'espressione, e' pure mancata  la  prova  (e,  a  ben
guardare,  sinanche  la  deduzione)   dei   servizi   che   sarebbero
«aumentati» nei previsto arco temporale di durata  del  contratto  de
quo. 
    Alla  stregua  di  tali  premesse,  alla  luce  deI   consolidato
orientamento  espresso  dalla  giurisprudenza  di  legittimita',   il
ricorrente  avrebbe  diritto  alla  declaratoria  di  nullita'  della
clausola appositiva del termine, all'accertamento  dell'esistenza  di
un rapporto di lavoro subordinato e a ottenere la condanna del datore
di lavoro alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal  giorno
dell'offerta della prestazione lavorativa sino all'intervento di  una
legittima causa di risoluzione del rapporto (Cass. 15628/2001;  Cass.
12985/2008). 
    Queste, in conclusione, nel  caso  concreto  sarebbero  state  le
conseguenze  della  eventuale  declaratoria  di  illegittimita'   del
contratto,conseguenze  oggi  precluse  per  effetto  dell'entrata  in
vigore dell'art. 21,  comma  1-bis  del  decreto-legge  n.  112/2008,
convertito  con  modificazioni  nella  legge  n.  133/2008   che   ha
introdotto nel decreto legislativo n. 368/2001 l'art. 4-bis. 
    La norma concentra la tutela del lavoratore assunto con contratto
a tempo determinato, nullo per violazione degli art. 1,  2  e  4  del
d.lgs. n. 368/2001, nella corresponsione di  un  indennizzo  compreso
tra un minimo di 2,5  mensilita'  e  un  massimo  di  sei  mensilita'
dell'ultima retribuzione globale di fatto. 
    Non solo, quindi, sarebbe esclusa la possibilita' di ripristinare
il  rapporto  di  lavoro,  ma  l'indennita'   riconoscibile   sarebbe
necessariamente  limitata  nel  minimo  a  2,5  e  nel  massimo  a  6
mensilita'. 
    Argomentato in ordine alla rilevanza, deve  osservarsi  a  questo
punto  che  appare  non  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 21 comina 1-bis della legge  n.
133/2008, per contrasto con gli artt. 3, 24 comma 1, 111  comma  1  e
117 comma 1, della Costituzione, nel significato che  assumono  anche
per  effetto  delle  proclamazioni  contenute   nell'art.   6   della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e  negli  artt.  20  e  47
della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a
Nizza il 7 dicembre 2000,  alle  quali  la  Corte  costituzionale  ha
indubbiamente assegnato il valore di  parametro  di  riferimento  nel
giudizio  di  costituzionalita'  (v.  Corte   cost.   n.   135/2002),
implicitamente riconoscendo che i diritti e le liberta'  fondamentali
derivanti dalle  fonti  di  convenzioni  e  trattati  sovranazionali,
affiancandosi  quali  valori-diritti  alla  dignita'  delle  persone,
compongono  un  quadro  di  proclamazioni  assimilabili  al   livello
costituzionale. 
    In particolare, si osserva, quanto  al  contrasto  con  l'art.  3
della Costituzione, che tutti i  poteri  pubblici,  anche  quelli  di
rango costituzionale, possono e devono essere  esercitati  unicamente
per il perseguimento dei fini in relazione  ai  quali  il  potere  e'
attribuito. E' questo il connotato dei  poteri  costituzionali  delle
moderne democrazie poiche' si tratta di poteri discrezionali, ma  non
liberi nei fini,  secondo  la  definizione  di  accreditata  dottrina
costituzionalista. 
    Ne consegue che gli organi cui sono affidate le massime  funzioni
nelle  quali  si  esprime  la  sovranita'  dello  Stato  non  possono
espletare le potesta' loro attribuite per scopi diversi da quelli cui
le funzioni stesse sono finalizzate, tantomeno in via strumentale per
ledere diritti e principi stabiliti dalla Costituzione. 
    In particolare, il potere legislativo, subordinato com'e' al pari
degli altri  poteri  costituzionali  all'impero  delle  norme  e  dei
principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, incontra  nel
suo  esplicarsi,  il  limite  della  ragionevolezza   dell'intervento
legislativo (cfr. Corte cost. n. 72/1964 e n. 346/1991). 
    Tanto Premesso, va aggiunto che  la  disposizione  denunciata  e'
stata introdotta, per i contratti regolati dal decreto legislativo n.
368/2001, rispetto  ai  quali  sia  pendente  un  giudizio  circa  la
legittimita'  del  termine  apposto,  una  regolamentazione   diversa
rispetto a quella in via generale applicabile ai contratti a termine,
secondo quanto generalmente affermato in materia dalla giurisprudenza
di merito e di legittimita'. 
    Per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 133  del  2008,
infatti, ove  sia  pendente  un  giudizio  (e  salvi  dunque  solo  i
giudicati), la tutela accordata ai  contratti  a  tempo  determinato,
stipulati nella vigenza del decreto legislativo n. 368 del 2001 e che
siano illegittimi in quanto stipulati in violazione dell'art. 1, 2  e
4  del  decreto  stesso,  e'  limitata  al  solo  pagamento  di   una
«indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di
sei mensilita'  dell'ultima  retribuzione  globale  di  fatto,  avuto
riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15  luglio  1966
n. 604 e successive modificazioni». 
    La norma censurata non contiene alcun riferimento all'obbligo per
il datore  di  lavoro,  pur  previsto  dall'art.  8  della  legge  n.
604/1966, di procedere al  pagamento  dell'indennizzo  solo  ove  non
provveda nel termine di  tre  giorni  a  riassumerlo,  ma  limita  il
richiamo ai soli criteri  da  seguire  per  l'esatta  quantificazione
dell'indennita'. 
    Cosi' facendo il legislatore  ha  ridotto  la  tutela  accordata,
avendo riguardo al solo discrimine temporale della  attuale  pendenza
di un giudizio. 
    Per tutti quei contratti  a  termine  stipulati  nel  regime  del
decreto legislativo n. 368/2001 il  cui  ricorso  introduttivo  della
lite sia stato depositato successivamente all'entrata in vigore della
legge n. 133/2008 (che ex art. 1, ultimo comma e' entrata  in  vigore
il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella  Gazzetta
Ufficiale e, dunque, per essere stata pubblicata sul S.O. n. 196 alla
Gazzetta Ufficiale n. 195 del 21 agosto 2008, dal 22 agosto 2008)  le
conseguenze  restano  quelle  gia'  previste  e  sopra   diffusamente
riportate (ripristino del rapporto e risarcimento del danno). 
    Il  discrimine  per  individuare  la  normativa  applicabile  e',
dunque, del tutto casualmente ancorato al  fatto  che  il  lavoratore
avesse o meno iniziato un giudizio. 
    Ritiene il giudicante che non vi sia alcun elemento per  ritenere
che la scelta del legislatore sia stata determinata  da  un  meditato
ripensamento delle tutele da accordare, in generale, ai  contratti  a
tempo determinato. 
    Sono noti i principi affermati dal giudice delle leggi  il  quale
in piu' occasioni ha precisato che ben puo' il legislatore  applicare
alla stessa  categoria  di  soggetti,  trattamenti  differenziati  in
momenti diversi nel  tempo.  La  Corte  costituzionale  ha,  infatti,
ancora di recente, ribadito che tale scelta non contrasta di per  se'
con il principio di eguaglianza posto che proprio il fluire del tempo
costituisce un elemento diversificatore delle situazioni  giuridiche.
La demarcazione  temporale  consegue,  come  effetto  naturale,  alla
generalita' delle leggi e non comporta, di per se', una  lesione  del
principio  di  parita'  di  trattamento  sancito  dall'art.  3  della
Costituzione (v. Corte cost. n. 234/2007 e  ordinanze  nn.  342/2006,
216/2005 e 121/2003). 
    Tuttavia la legge in  esame  non  rappresenta  una  rimeditazione
complessiva  degli  effetti  con  riferimento  alla  generalita'  dei
soggetti, canone di eguaglianza  che  deve  permanere  ove  il  tempo
determini una modifica della disciplina, ma, piuttosto,  contiene  la
previsione di una deroga  temporalmente  limitata  delle  conseguenze
generali rispetto ad un contenzioso  definito  (cause  pendenti  alla
data del 22 agosto 2008), ma certo non esaurito per il futuro. 
    E' ben possibile che il legislatore detti norme aventi  contenuto
concreto e particolare  dalle  quali  possano  derivare  effetti  nei
riguardi  dei   procedimenti   giudiziari   in   corso   ovvero   sui
provvedimenti giurisdizionali. Non e' ravvisabile, in  via  generale,
un'illegittima  invasione  da  parte   della   funzione   legislativa
nell'ambito riservato dalla Costituzione  all'autorita'  giudiziaria,
posto che la norma di diritto sostanziale che regola  una  situazione
anche pregressa, senza violare il giudicato, non sottrae  al  giudice
alcuna controversia, ma gli fornisce, appunto, la regola  di  diritto
che egli deve applicare. 
    Ma  con  la  norma  in  esame  il  legislatore  non  ha  regolato
diversamente - come bene avrebbe potuto  -  gli  effetti  rispetto  a
tutti i contratti stipulati da una certa data in poi, ma ha scelto in
maniera del tutto irragionevole, di limitarne gli effetti  alle  sole
controversie pendenti. 
    Non e' infatti ravvisabile alcuna giustificazione  razionale  nel
fatto che la disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad
una categoria di soggetti,  riducendo  la  tutela  mentre  pendono  i
giudizi, proprio e solo per il fatto di avere  una  causa  in  corso,
mentre se avessero tardato a proporla, il loro diritto sarebbe  stato
fatto salvo. 
    Con l'aggravante che proprio per il modo in cui  interviene  «con
riferimento ai soli giudizi in corso», il comma  1-bis  dell'art.  21
della legge n. 133 del 2008 finisce  per  amplificare  ulteriormente,
anche sul piano dell'utilizzo degli strumenti processuali di tutela e
pertanto sul piano del diritto alla  difesa  e  dell'«equo  processo»
(artt. 3, 24 comma 1 e 111, primo comma,  117  Cost.),  gli  effetti,
gia' illustrati e per  loro  stessi  discriminatori,  dell'intervento
provvedimentale mirato alle applicazioni  del  sistema  sanzionatorio
relativo agli artt. 1, 2 e 4 del decreto legislativo n. 368 del 2001. 
    Va poi sottolineato il contrasto con gli artt. 24,  primo  comma,
111, primo comma e 117, primo comma della Costituzione. 
    Va premesso che, dal complessivo tenore delle norme richiamate  e
dall'interpretazione che delle stesse  ha  ripetutamente  offerto  la
Corte costituzionale, emerge con  evidenza  l'esistenza,  nel  nostro
ordinamento costituzionale, di  un  principio  immanente  del  giusto
processo, che,  proclamato  dall'art.  111,  primo  comma  Cost.,  si
manifesta  in  maniera  complessa  e  poliedrica  e  che  ha  stretta
correlazione con il diritto ad agire in giudizio a tutela dei  propri
diritti ed interessi (art. 24, primo comma Cost.), con il diritto  ad
disporre di regole giuste nel processo (art. 111, primo comma Cost.),
a tutela del contraddittorio, della terzieta'  ed  imparzialita'  del
giudice (art 111, secondo comma Cost.), con il diritto del  cittadino
di vedere esercitato il potere legislativo da  parte  dello  Stato  e
delle Regioni non solo nel rispetto della  Costituzione  italiana  ma
anche  dei  vincoli  dettati  dall'ordinamento  comunitario  e  dagli
obblighi internazionali (art. 117, primo comma Cost.). 
    L'art.  4-bis  del  decreto  legislativo  n.  368/2001  viola  il
principio costituzionale del giusto processo perche'  nel  corso  del
procedimento giudiziario modifica la tutela  sostanziale  accordabile
al diritto azionato senza che siano ravvisabili ragioni  oggettive  e
generali che sostengono tale scelta dei legislatore. 
    Ritiene infatti il giudicante che nel caso in esame  l'intervento
legislativo determini  un'alterazione  della  condizione  di  parita'
nell'esercizio  del  diritto  di  difesa  tra  la  parti  in   causa,
condizione che, al contrario, deve essere sempre assicurata. 
    Ed  infatti,  e'  evidente  che  il  legislatore,  a  fronte  del
consistente contenzioso  pendente  in  tutti  gli  uffici  giudiziari
italiani, e' intervenuto allo scopo di favorire una definizione delle
controversie in termini di  minor  impatto  economico  per  le  parti
datoriali, senza che tuttavia tale scelta risulti sorretta da  quelle
imperiose ragioni d'interesse generale, che,  ad  esempio,  la  Corte
europea di  Strasburgo  richiede  come  condizione  per  superare  il
divieto d'ingerenza in tal senso si  legga  l'ordinanza  della  Corte
cass. n. 22260/2008, relativamente all'art. 1, comma  218,  legge  n.
266/2005). 
    Ed,  infatti,  nessuna  traccia  di  cio'  e'  riscontrabile  nel
procedimento legislativo  che  ha  condotto  all'approvazione  ditale
disposizione.  E'  sintomatico,  anzi,  che  la  norma,  inizialmente
pensata proprio per definire il contenzioso dei contratti  a  termine
con Poste Italiane S.p.A., sia stata in corso d'opera estesa a  tutti
i contratti  a  tempo  determinato,  proprio  per  rimediare  ad  una
evidente violazione, quanto meno, dell'art. 3 della Costituzione. 
    Ma anche  nel  testo  approvato,  ed  oggi  esaminato,  non  sono
rintracciabili quelle ragioni oggettive  a  tutela  di  un  interesse
generale che, in ipotesi, avrebbero potuto giustificarne l'adozione. 
    Al contrario, si potrebbe dire che i'inesistenza  di  una  simile
ratio e' in re ipsa per il  solo  fatto  che  la  ridotta  tutela  e'
limitata temporalmente ai soli giudizi pendenti e nessuna ragione  di
interesse generale risulta in qualche modo  esplicitata  neppure  nei
lavori parlamentari. 
    Con cio', e senza che per questo sia ravvisabile alcuna  esigenza
concreta a cui il legislatore abbia inteso sopperire, viene ribaltata
la stessa ordinaria  ed  elementare  logica  del  processo  «equo»  e
improntato all'effettivita' della  tutela  giurisdizionale;  giacche'
sarebbe logico, al contrario di quel che  discende  dalle  previsioni
del comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133  del  2008,  che  nei
«giudizi in corso» le certezze sulla difesa dei propri diritti  tanto
piu' siano acquisite, e non passibili di essere rimesse in  gioco  da
capo, quanto piu' il processo sia pervenuto in una  fase  avanzata  e
sfociato in pronunciamenti esecutivi, o perfino eseguiti. 
    Analoghe considerazioni valgono con riferimento  alla  violazione
deli'art. 117, primo comma Cost. 
    Nell'esaminare la rilevanza della questione con riguardo all'art.
117, primo comma,  Cost.,  si  puo'  dare  valore  interpretativo  ai
principi contenuti nella Convenzione europea  dei  diritti  dell'uomo
(CEDU), sia in relazione ai parametri costituzionali  di  cui  tenere
conto che alle norme censurate (cfr. Corte cost. n. 505/1995; ord. n.
305/2001), ben potendosi richiamare, per avvalorare  una  determinata
esegesi, le indicazioni normative,  anche  di  natura  sovranazionale
(cfr. di recente Corte cost. n. 349/2007  ma  anche  Corte  cost.  n.
231/2004). 
    In taluni casi la Corte costituzionale ha richiamato norme  della
CEDU,  svolgendo  argomentazioni  espressive  di   un'interpretazione
conforme alla Convenzione (cfr. sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del
1996), ovvero richiamando dette norme, e la ratio ad esse sottesa,  a
conforto dell'esegesi accolta (cfr. sentenze n. 299 del 2005 e n.  29
del 2003) che risultava cosi' avvalorata anche in ragione  della  sua
conformita' con  i  «valori  espressi»  dalla  Convenzione,  «secondo
l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo» (v.  sentenze  n.
299 del 2005; n. 299 del 1998). Si e' infatti  sottolineato  come  un
diritto  garantito  da  norme  costituzionali  sia  «protetto   anche
dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei  diritti  (...)
come  applicato  dalla  giurisprudenza   della   Corte   europea   di
Strasburgo» (cfr. sentenza n. 154 del 2004). 
    Avvalorata  e  confermata  la  possibilita'  di   utilizzare   il
parametro richiamato  per  valutare  la  compatibilita'  della  norma
censurata con l'art. 6 della CEDU e  dunque  con  l'art.  117,  primo
comma Cost., ancora una volta si deve rilevare che, come  piu'  volte
statuito anche dalla Corte di Strasburgo (cfr. per tutte Scordino  c.
Italia, 29 marzo 2006), gli Stati aderenti  alla  Convenzione  devono
astenersi dall'esercitare ingerenze normative finalizzate ad ottenere
una determinata soluzione delle  controversie  in  corso,  salvo  che
l'intervento retroattivo sia  giustificato  da  motivi  di  carattere
imperioso e generale. 
    Ne consegue che  nel  caso  in  esame  il  legislatore,  con  una
disposizione che non interpreta norme di legge esistenti ma  muta  il
quadro normativo di  riferimento,  esclude  quelli  che  nel  diritto
vivente sono i normali effetti della declaratoria  di  illegittimita'
del termine apposto al contratto e  cosi'  impedisce  al  giudice  di
adottare  la  tutela  prevista  dall'ordinamento   generale   (tutela
irragionevolmente temporaneamente sospesa). 
    In tal modo  la  norma  in  esame  determina  una  ingiustificata
modificazione della tutela dei diritti azionati e incide, come si  e'
evidenziato, solo e  soltanto  sui  giudizi  pendenti  alla  data  di
entrata  in  vigore  della  legge   realizzando   una   inammissibile
intromissione  del  potere  legislativo  nell'amministrazione   della
giustizia allo scopo d'influire sulla risoluzione  di  una  specifica
categoria di controversie. 
    In  conclusione,  ed  alla  luce  delle  esposte  considerazioni,
ritiene  il  giudicante   di   dover   ritenere   rilevante   e   non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
della norma indicata in dispositivo in  relazione  ai  profili  sopra
esposti. 
    Il giudizio in corso  deve  quindi  essere  sospeso  e  gli  atti
rimessi alla Corte costituzionale. 
                              P. Q. M. 
    Visto l'art. 23, comma 2 della legge 11 marzo 1953 n. 87 dichiara
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 21, comma 1-bis della legge 6 agosto 2008 n.
133, di conversione del d.l. 25 giugno 2008, n.  112,  con  il  quale
dopo l'art. 4 del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368  e'  stato  inserito
l'art. 4-bis, per contrasto con gli artt. 3,  24  primo  comma,  111,
primo comma e 117, primo comma della Costituzione. 
    Sospende il presente giudizio. 
    Manda alla cancelleria di notificare  la  presente  ordinanza  al
Presidente del Consiglio  dei  ministri  nonche'  di  comunicarla  ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
    Dispone la trasmissione dell'ordinanza e degli atti del  giudizio
alla Corte costituzionale unitamente alla prova  delle  comunicazioni
prescritte. 
        Pistoia, addi' 6 novembre 2008 
                        Il giudice: De Marzo