N. 207 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 gennaio 2009
Ordinanza del 21 gennaio 2009 emessa dal Tribunale di Torino - Sezione distaccata Moncalieri nel procedimento penale a carico di Casalenovo Alfonso. Processo penale - Dibattimento - Ammissione di nuove prove - Prove in ordine alla cui ammissione si sia verificata la decadenza delle parti - Potere del giudice, secondo l'interpretazione della Corte di cassazione, di disporre di ufficio l'assunzione - Violazione del principio di terzieta' e imparzialita' del giudice. - Codice di procedura penale, art. 507. - Costituzione, art. 111.(GU n.34 del 26-8-2009 )
IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza. Il Giudice, pronunciandosi a scioglimento della riserva assunta nell'ambito del processo emarginato nei confronti di Casalenovo Alfonso, nato a Botricello (Catanzaro) il 1° ottobre 1933; elettivam. domicil. in Torino presso lo studio del difensore; difeso di fiducia avv. Paolo Micheletta del Foro di Torino; Premesso che Casalenovo Alfonso veniva citato a giudizio per rispondere dei reati di cui agli artt. 81 cpv., 582, 585 c.p., commessi in Moncalieri il 27 maggio 2004; che all'udienza dibattimentale del 16 aprile 2008 il pubblico ministero, essendo stata dichiarata inammissibile in quanto tardiva ai sensi dell'art. 468 c.p.p. la lista dei testimoni depositata il 14/4/08, chiedeva ai sensi dell'art. 507 c.p.p. l'escussione dei testimoni indicati nella propria lista, senza peraltro indicare ne' le ragioni del mancato deposito in termini della lista ne' quelle dell'assoluta necessita' richieste dall'art. 507 c.p.p.; Rilevato che la difesa si opponeva all'accoglimento della richiesta, prospettando la violazione dell'art. 111, secondo comma Cost. nella parte in cui prevede la terzieta' e imparzialita' del Giudice avanti al quale il processo deve svolgersi nel contraddittorio fra le parti, in condizioni di parita'; O s s e r v a Come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale, fin dall'entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988 l'interpretazione dell'art. 507 c.p.p. e' stata oggetto di un vivace dibattito in dottrina e di contrasti nella giurisprudenza sia di merito sia di legittimita'. In particolare, alcune pronunce della Corte di cassazione hanno dato un'interpretazione restrittiva dell'art. 507 c.p.p., negando al giudice il potere di assumere d'ufficio le prove dell'accusa in casi - analogo a quello in esame - in cui il pubblico ministero aveva omesso di presentare tempestivamente la propria lista di testimoni (Cass., sez. III 3 gennaio 1991,Ventura; Cass., sez. III, 7 febbraio 1992, Sala); altra parte della giurisprudenza propende invece per un'interpretazione piu' ampia, escludendo preclusioni per il giudice dipendenti dalla decadenza o inattivita' delle parti (Cass., sez. II, 10 ottobre 1991, Paoloni; Cass., sez. II, 23 ottobre 1991, Marinkovic). Dopo alcune oscillazioni, e' prevalso l'orientamento meno restrittivo, consacrato nella sentenza 6 novembre - 21 novembre 1992, n. 11227 delle sezioni unite penali della Cassazione, la quale ha statuito che: a) il potere del giudice di assunzione, anche d'ufficio, di mezzi di prova ben puo' essere esercitato anche se si tratti di prove dalle quali le parti siano decadute - per mancata o irritale indicazione nella lista di cui all'art. 468 c.p.p. - dovendo intendersi per prove «nuove» ai sensi dell'art. 507 tutte quelle precedentemente non disposte, siano esse preesistenti o sopravvenute, conosciute ovvero sconosciute; b) tale potere suppletivo non trova ostacolo nella circostanza che non vi sia stata alcuna acquisizione probatoria ad iniziativa delle parti, dato che la locuzione «terminata l'acquisizione delle prove» indica non il presupposto per l'esercizio del potere del giudice , ma solo il momento dell'istruzione dibattimentale a partire dal quale - nell'ipotesi normale in cui tali acquisizioni vi siano state - puo' avvenire l'assunzione delle nuove prove. Tale autorevole orientamento giurisprudenziale veniva sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, che con la nota sentenza 111 del 1993 dichiarava non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 507 c.p.p. - e dell'art. 468 dello stesso codice - in riferimento a tutti o alcuni degli artt. 2, 3, 24, 25, 76, 77, 101, 102, 111 e 112 della Costituzione. In sintesi, la Corte costituzionale osservava che se e' vero che l'esigenza di accentuare la terzieta' del giudice - percio' programmaticamente ignaro dei precedenti sviluppi della vicenda procedimentale - ha condotto ad introdurre di massima un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse, e' pero' anche vero che tale opzione metodologica non poteva far trascurare che fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita' e che ad un orientamento improntata al principio di legalita' (art. 25, secondo comma Cost.) - che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate - nonche' al connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione. Di talche', il nuovo codice, se ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale ed il metodo orale quali criteri maggiormente rispondenti all'esigenza di ricerca della verita' ha, pero', nel contempo provveduto a temperarne la portata in riferimento agli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con tale metodo, adottando per essi un principio di non dispersione degli elementi di prova. La Corte costituzionale quindi concludeva che, non esistendo nel nuovo codice di rito di un principio dispositivo in materia di prova, il potere conferito al giudice dall'art. 507 c.p.p. e' un potere suppletivo, si', ma non certo eccezionale, anche se poi la stessa Corte avverte la necessita' di spiegare la tecnica usata dal legislatore ed osserva che il fatto che il potere attribuito al giudice dall'art. 507 c.p.p. «sia connotato da un criterio che la norma pleonasticamente definisce di assoluta necessita' - e che peraltro la delega neppure prevede - si spiega considerando che il suo esercizio si colloca in una fase in cui e' terminata l'acquisizione delle prove che siano state svolte ad iniziativa delle parti (artt. 468, 493, 495) o su indicazione del giudice (art. 506); di talche' le nuove prove la cui possibile esistenza ed esperibilita' emerga dal materiale a disposizione del giudice sono soggette, rispetto a quelle inizialmente richieste dalle parti, ad una piu' penetrante e approfondita valutazione della loro pertinenza e rilevanza che e' correlativa alla piu' ampia conoscenza dei fatti di causa che il giudice ha ormai conseguito in tale momento». E conclude che sarebbe contraddittorio da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione (art. 409, comma 5 c.p.p. 9 e dall'altro negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica. La Corte costituzionale, dunque, ha fatto propria l'interpretazione estensiva cui erano pervenute le sezioni unite della suprema Corte, ritenendo che una diversa interpretazione contrasterebbe non solo con la direttiva 73 della legge delega, ma anche con le norme costituzionali richiamate in epigrafe. La questione dell'interpretazione dell'art. 507 c.p.p., in verita' mai del tutto sopita, e' tornata di attualita' dopo la legge cost. 23 novembre 1999, n. 2 che ha introdotto i commi primo e secondo dell'art. 111 della Costituzione, i quali - com'e' noto - stabiliscono, per quanto di interesse: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti ad un giudice terzo ed imparziale». Ebbene, nel 2006 le sezioni unite della Corte di cassazione sono state chiamate nuovamente a dirimere il contrasto che, sia pure in termini episodici, era insorto con riferimento all'ambito di applicazione dei poteri officiosi di natura probatoria del giudice, atteso che alcune sezioni continuavano ad escludere in particolare che questi poteri potessero essere esercitati nei casi di inerzia delle parti. La suprema Corte (sentenza 17 ottobre 2006 n. 41281) ha rilevato che sull'assetto codicistico non ha influito la recente riforma dell'art. 111 Cost., che avrebbe accentuato esclusivamente quello che costituisce il principio fondante del processo accusatorio - la formazione della prova nel contraddittorio delle parti - ma nulla avrebbe innovato sul principio dispositivo che, pur essendo uno dei principi cui si ispirano i sistemi accusatori, non li caratterizza in modo cosi' decisivo come i criteri che riguardano la formazione della prova. Ha affermato poi che la norma dell'art. 507 c.p.p. mira esclusivamente a salvaguardare la completezza dell'accertamento probatorio sul presupposto che, se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono piu' ampie, e' piu' probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti. Cio' consente, ad avviso delle Sezioni Unite della Cassazione, di eliminare l'equivoco secondo cui l'acquisizione d'ufficio delle prove da parte del giudice fa venire meno la sua terzieta', apparendo incomprensibile che possa non essere considerato terzo un giudice scrupoloso che intende giudicare a ragion veduta e non con informazioni conoscitive insufficienti, ben sapendo che e' possibile colmare almeno una parte delle lacune esistenti. Ed aggiungono che questo potere (da esercitare solo in caso di assoluta necessita!) non e' un residuo del principio inquisitorio, ma piuttosto vale a fondare un processo veramente giusto. I giudici di legittimita' quindi concludono che, dal punto di vista dell'adeguamento ai principi costituzionali e dello scopo della norma, e' evidente che all'art. 507 c.p.p. possa essere dato il significato piu' ampio conforme alla formulazione letterale della norma, osservando da un lato che la locuzione «terminata l'acquisizione delle prove» si riferisce al caso normale in cui acquisizione vi sia stata e precisando, dall'altro lato, che l'iniziativa del giudice dev'essere assolutamente necessaria, cio' che consentirebbe di evitare che l'esercizio del potere in esame avvenga in modo troppo esteso o addirittura arbitrario. L'interpretazione nettamente maggioritaria e dominante sancita e ribadita dalle sezioni unite della Corte di cassazione, quale questo Giudice ritiene di aderire, attesa la autorevolezza della decisione, contrasta tuttavia con l'art. 111 Cost. in quanto lede il principio della terzieta' e imparzialita' del giudice, che costituisce ineludibile strumento di attuazione e di garanzia del giusto processo delineato dalla carta fondamentale. Non convincono, in particolare, le argomentazioni secondo le quali sarebbe piu' terzo un giudice che acquisisca d'ufficio l'intero materiale probatorio piuttosto che un giudice che, attenendosi alla legge, valuti gli elementi di prova portati alla sua attenzione dalle parti ed acquisiti nel rispetto del codice di rito e decida, solo all'esito dell'effettiva acquisizione dibattimentale, se sia indispensabile provvedere ad un'integrazione nei casi di necessita'. La vulnerabilita' dell'argomentazione della Corte di legittimita' risiede, ad avviso di questo Giudice, nel fatto che nel caso di specie - caso che l'esperienza quotidiana delle aule di giustizia dimostra essere tutt'altro che raro - il giudice non si trova di fronte ad un materiale probatorio insufficiente o lacunoso, bensi' di fronte all'inesistenza della prova a causa dell'inammissibilita' della lista testimoniale del p.m. Ed altro aspetto di vulnerabilita' deriva dall'osservazione, piu' volte ribadita dalla suprema Corte, secondo la quale il potere previsto dall'art. 507 c.p.p. e' da esercitare solo in caso di assoluta necessita': si dimentica infatti che, in mancanza di assunzione di prove dell'accusa, l'assoluta necessita' e' in re ipsa, essendo evidente che se il Giudice non facesse ricorso all'art. 507 c.p.p., dovrebbe giocoforza pronunciare una sentenza di assoluzione per non essere stata raggiunta la prova del fatto contestato. E' questa oggettiva ed innegabile considerazione che induce a dubitare fortemente della legittimita' costituzionale dell'art. 507 in esame, in specie dopo l'introduzione dell'art. 111 Cost., che di certo non ha costituzionalizzato il principio dispositivo nel processo penale, ma ha comunque circondato l'acquisizione delle prove, legittimamente utilizzabili per l'affermazione della penale responsabilita' di un individuo, di garanzie oggettive e soggettive che verrebbero inevitabilmente meno, qualora si aderisse all'interpretazione dell'art. 507 c.p.p. fatta propria dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione. Trattasi di interpretazione abrogante non solo dell'art. 468 c.p.p., in quanto vanificherebbe la sanzione dell'inammissibilita' prevista dalla norma per il mancato deposito nei termini della lista dei testimoni e per la mancata indicazione delle circostanze, ma altresi' dello stesso art. 507 c.p.p., poiche' non vi e' dubbio che - cosi' interpretato - l'art. 507 c.p.p. consentirebbe, anzi imporrebbe al giudice (atteso il richiamo all'obbligatorieta' dell'azione penale e alla funzione fondamentale del processo penale di ricerca della verita'), di disporre sempre e in ogni caso l'assunzione d'ufficio delle prove e cio' non solo quando la lista testi sia stata depositata tardivamente, ma anche quando non sia stata depositata affatto. E tutto cio', quindi, anche nei (numerosi) casi in cui nel fascicolo del dibattimento non sia presente alcun atto che consenta al giudice di orientarsi nella vicenda processuale sottoposta al suo esame, cosicche' egli spesso si troverebbe ad esercitare i poteri di cui all'art. 507 c.p.p. e disporre l'istruttoria testimoniale senza essere a conoscenza dell'identita' dei testimoni, della loro qualifica, delle circostanze su cui sono chiamati a riferire e senza, in definitiva, essere in grado di effettuare una seria e motivata valutazione sulla rilevanza e pertinenza degli stessi. La sua decisione pertanto, lungi dall'essere maggiormente scrupolosa, sarebbe invece meramente formale e si porrebbe in contrasto con il principio della terzieta' e imparzialita' del giudice, che costituisce principio cardine del processo penale delineato dalla carta fondamentale come «processo giusto» alle condizioni dettate dalla legge. Per quanto sopra detto, la questione di legittimita' costituzionale pare non manifestamente infondata e, quanto alla rilevanza nel presente giudizio, essa deriva dall'adesione di questo giudice all'interpretazione espressa dalle sezioni unite della suprema Corte; interpretazione che tuttavia, per quanto finora detto, solleva dubbi di incostituzionalita' della norma dell'art. 507 c.p.p.
P. Q. M. Visti la legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 507 c.p.p. per contrasto con l'art. 111 Costituzione nei limiti e nei termini di cui in motivazione; Dichiara la sospensione del giudizio in corso ed ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Moncalieri, addi' 21 gennaio 2009. Il giudice: Podda