N. 210 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 aprile 2009

Ordinanza del 29 aprile  2009  emessa  dal  Tribunale  amministrativo
regionale per la Sicilia -  Sez.  staccata  di  Catania  sul  ricorso
proposto  dalla  Tecnital  S.p.A.  contro  Ufficio  territoriale  del
Governo di Catania. 
 
Mafia e criminalita' organizzata - Imprese per le quali  siano  stati
  ritenuti  inizialmente  sussistenti  i  rischi  di  condizionamento
  mafioso ex art. 4 del d.lgs. 8 agosto 1994, n. 490 e  art.  10  del
  D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, ed adottati i necessari provvedimenti
  interdittivi - Successivo accertamento della totale assenza di tali
  rischi mediante sentenza passata in  giudicato  -  «Obbligo  di  un
  appropriato  indennizzo  a   tutela   dei   livelli   occupazionali
  dell'azienda e dell'integrita' del valore del  relativo  patrimonio
  di esperienza  e  competenza  posseduto»  -  Mancata  previsione  -
  Incidenza su diritto fondamentale della persona  -  Violazione  del
  principio di uguaglianza  sotto  il  profilo  della  disparita'  di
  trattamento,  rispetto  alla  disciplina   in   tema   di   vincoli
  preespropriativi  e  di  tutela  della  proprieta'  -  Lesione  del
  principio di liberta' di iniziativa economica privata e del diritto
  di proprieta' - Incidenza sui  principi  di  imparzialita'  e  buon
  andamento della pubblica amministrazione. 
- Legge 31 maggio 1965, n. 575, art. 10; legge 17  gennaio  1994,  n.
  47; decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490, art. 4; decreto  del
  Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252, art. 10. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 41, 42 e 97. 
(GU n.35 del 2-9-2009 )
                IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale  3259  del  2006,  integrato  da  motivi  aggiunti,
proposto  da  Tecnital  S.p.A.,  rappresentato  e  difeso   dall'avv.
Giuseppe Aliquo', con  domicilio  eletto  presso  il  suo  studio  in
Catania, via M. Scammacca n. 46. 
    Contro Ufficio territoriale del Governo - Prefettura di  Catania,
rappresentato e  difeso  dall'Avvocatura  distrettuale  dello  Stato,
domiciliata per legge in Catania, via Vecchia Ognina n. 149 presso la
sua sede; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia: 
        con il ricorso e con i  primi  motivi  aggiunti  al  ricorso:
della nota prot. n. 6069/2006/15000/U.A./Area I bis del  9  settembre
2006, comunicata con nota del 29 settembre  2006,  con  la  quale  la
Prefettura di Catania ha rilasciato informativa antimafia che attesta
la sussistenza  del  «pericolo  di  condizionamento  da  parte  della
criminalita' organizzata...» nei confronti della impresa  ricorrente,
dei relativi allegati, nonche' del successivo provvedimento reso  con
nota prot. n. 6069/2006/15000/U.A./Area I bis del  14  novembre  2006
della Prefettura di Catania e del relativo allegato n.  1  contenente
le informazioni rese dalla Questura di Catania e di  tutti  gli  atti
presupposti, connessi e conseguenziali, anche se non conosciuti; 
        con i II motivi aggiunti al  ricorso:  della  nota  prot.  n.
6069/2006/15000/U.A./Area I bis del 10 gennaio 2007,  comunicata  con
nota del 16 gennaio 2007, con la quale la Prefettura  di  Catania  ha
rilasciato informativa  antimafia  che  attesta  la  sussistenza  del
«pericolo   di   condizionamento   da   parte   della    criminalita'
organizzata...»  nei  confronti  della  impresa  ricorrente,  e   del
relativo allegato contenente le informazioni rese dalla  Questura  di
Catania e di tutti gli atti presupposti, connessi  e  conseguenziali,
anche se non conosciuti; 
        e per il risarcimento del danno. 
    Visto il ricorso ed i motivi aggiunti, con i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ufficio  territoriale
del Governo - Prefettura di Catania; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno  12  febbraio  2009  il
dott. Salvatore Gatto Costantino e uditi per  le  parti  i  difensori
come specificato nel verbale; 
                           I n  f a t t o 
    La societa' Tecnital S.p.A., ha proposto ricorso  giurisdizionale
di fronte a  questo  Tribunale  avverso  gli  atti  con  i  quali  la
Prefettura di Catania ha attestato la  sussistenza  del  pericolo  di
condizionamento da parte  della  criminalita'  organizzata  nei  suoi
confronti. 
    Espone, in fatto, che la suddetta  Autorita'  adottava  gli  atti
impugnati,  in  quanto  il  socio  di  maggioranza  della  ricorrente
(detentore del 700/o delle  quote  societarie)  geom.  Russello,  era
stato tratto in arresto per reati ex art. 416-bis del codice penale. 
    La societa' Tecnital impugnava i suddetti  provvedimenti  con  il
ricorso notificato il 22 novembre 2006,  depositato  il  27  novembre
2006, che risultava  affidato  ad  articolate  censure;  nel  gravame
proponeva anche domanda di risarcimento del danno. 
    Si  costituiva,  a  difesa  delle   Amministrazioni   resistenti,
l'Avvocatura distrettuale dello Stato. 
    In sede cautelare, veniva respinta dal Tribunale  la  domanda  di
sospensione degli effetti  degli  atti  impugnati,  nella  camera  di
consiglio del 19 dicembre 2006, con ordinanza n. 1968. depositata  il
21 dicembre 2006. 
    Nelle more del giudizio, l'Assemblea dei soci  adottava  atti  di
modifica dello Statuto volti  a  scindere,  nella  titolarita'  delle
quote   sociali,   i   diritti   sociali   patrimoniali   da   quelli
amministrativi. I primi venivano mantenuti in capo ai soci;  mente  i
secondi affidati alla gestione di  esperti  esterni,  nominati  dagli
ordini professionali di Catania, allo scopo di separare  la  gestione
dell'impresa dalla disponibilita'  dei  rispettivi  soci  ed  evitare
cosi' ogni possibilita' di influenza di questi ultimi. 
    A nulla valevano tali accorgimenti rispetto alla posizione  della
Autorita'  che  continuava  a  ritenere  sussistenti  i  pericoli  di
condizionamento. 
    Il giudizio penale che riguardava il geom. Russello si concludeva
con la sentenza della Corte di assise di appello di Caltanissetta  n.
8/08 del 23 luglio 2008, depositata il 21 ottobre 2008, con la  quale
si  confermava  la  sentenza   di   proscioglimento   precedentemente
intervenuta in primo grado. 
    A questo punto,  la  Prefettura  di  Catania  attestava  che  non
sussistevano piu' i pericoli di condizionamento mafioso. 
    Alla  udienza  pubblica  del  12  febbraio  2009,  trattenuto  in
decisione il giudizio, con sentenza  pronunciata  nella  stessa  data
della presente ordinanza, questo Tribunale ha rigettato la domanda di
annullamento degli  atti  impugnati;  ha  dichiarato  il  difetto  di
giurisdizione su parte della domanda di risarcimento  del  danno;  ha
riservato di pronunciarsi sulla  rimanente  parte  della  domanda  di
risarcimento del danno, previa la proposizione di  una  questione  di
legittimita' costituzionale in ordine alle norme di cui agli art. 10,
legge 31 maggio 1965, n. 575, della legge 17  gennaio  1994,  n.  47,
dell'art. 4  del  decreto  legislativo  8  agosto  1994,  n.  490,  e
dell'art. 10 del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, nella parte in cui non
prevedono  un   appropriato   indennizzo   a   tutela   dei   livelli
occupazionali dell'azienda e della integrita' del valore del relativo
patrimonio di esperienza e competenza posseduto, in favore di  quelle
imprese per le quali, ritenuti inizialmente sussistenti i  rischi  di
condizionamento  mafioso,  si  accettino,  all'esito  definitivo  del
giudizio penale, come assenti tali rischi, in relazione agli artt. 2,
3, 41, 42 e 97 della Costituzione; 
                         I n  d i r i t t o 
    Con la presente ordinanza, a scioglimento della riserva contenuta
nella sentenza pronunciata nella medesima udienza, cui  si  e'  fatto
cenno  nella  parte  in  fatto,  il  Collegio  solleva  questione  di
legittimita' costituzionale degli artt. 10, legge 31 maggio 1965,  n.
575, della legge 17 gennaio 1994, n.  47,  dell'art.  4  del  decreto
legislativo 8 agosto 1994, n. 490, e dell'art. 10 del d.P.R. 3 giugno
1998, n. 252,  nella  parte  in  cui  non  prevedono  un  appropriato
indennizzo a tutela dei livelli occupazionali  dell'azienda  e  della
integrita'  del  valore  del  relativo  patrimonio  di  esperienza  e
competenza posseduto, in favore  di  quelle  imprese  per  le  quali,
ritenuti inizialmente sussistenti i rischi di condizionamento mafioso
ex  art.  4,  decreto  legislativo  e  10   d.P.R.   ed   emesse   le
corrispondenti certificazioni dell'Autorita', si accertino, all'esito
definitivo  del  giudizio  penale,  come  assenti  tali  rischi,   in
relazione agli artt. 2, 3, 41, 42 e 97 della Costituzione; 
Sulla rilevanza della questione. 
    La questione che il Collegio intende sottoporre al  vaglio  della
Corte  costituzionale  e'  direttamente  rilevante  ai   fini   della
decisione sulla domanda di risarcimento del danno, nella parte in cui
su di essa questo TAR e' fornito di giurisdizione. 
    Invero, va precisato che,  in  applicazione  dell'istituto  delle
informazioni antimafia al Prefetto, nell'attuale  assetto  normativo,
la domanda di risarcimento del danno andrebbe  sicuramente  respinta:
come  si  e'  ritenuto  nella  sentenza  pronunciata   inter   partes
contestualmente alla presente ordinanza, infatti, nel contesto  della
situazione personale del principale socio della societa'  ricorrente,
che e' stato sottoposto ad una  misura  cautelare  restrittiva  della
liberta'  personale,  le  informazioni  antimafia  che   sono   state
rilasciate dalla Prefettura di Catania e  ritualmente  impugnate  con
l'odierno  ricorso  introduttivo  e  relativi  motivi  aggiunti,  non
avrebbero potuto avere se non il contenuto di cui la parte ricorrente
si duole. 
    Correlativamente, gli atti con i quali le Amministrazioni  locali
hanno proceduto ad escludere la ricorrente dalle gare, o  a  revocare
gli affidamenti nelle more a suo favore disposti, sono  atti  dovuti,
in  quanto  nessuna  valutazione  differente   da   quanto   ritenuto
dall'Autorita'  certificante  poteva  effettuarsi  da   parte   delle
Amministrazioni locali. 
    Il Collegio osserva che, se la normativa di cui  si  sospetta  la
incostituzionalita' non ostasse all'accoglimento di un qualsiasi tipo
di risarcimento nei confronti della societa' ricorrente, si  potrebbe
disporre nei suoi confronti il pagamento di una indennita', ossia  di
una somma avente natura ed importo «inferiore» a quello  oggetto  del
risarcimento e tale pronuncia sarebbe comunque possibile in relazione
al petitum, in quanto la domanda attorea potrebbe essere  accolta  in
parte, ai sensi dell'art. 112 c.p.c. 
    In  relazione  a  cio',  come   affermato   pacificamente   dalla
giurisprudenza, il giudice non travalica i  limiti  delle  domande  o
delle eccezioni delle parti «quando una domanda tendente ad  ottenere
un effetto piu' ampio venga accolta per un  effetto  minore,  ma  non
diverso qualitativamente (Cass. n. /11419 del 1993)» come ad  esempio
«quando, richiesta la declaratoria  di  nullita'  del  contratto,  il
giudice  ne  pronunci  l'annullamento»  (Corte   di   cassazione   n.
16708/2002; 11157/1996); analogamente, il giudice puo' esaminare  una
questione non espressamente formulata, ma  da  ritenersi  tacitamente
proposta per essere in rapporto di necessaria connessione con  quelle
espressamente formulate, delle quali costituisca l'antecedente logico
(cfr. Cass. sez. lav. 12 marzo 2004, n. 5134); ed inoltre il  giudice
non incorre nel vizio di extra-petizione in ordine alle ragioni della
decisione, quando la pronuncia giudiziale rimanga  nell'ambito  della
fattispecie prospettata dalle parti, anche se la decisione  afferisca
a  una  questione  non  espressamente  formulata,  ma  implicitamente
contenuta nel thema decidendum (Cass. civ. 6 maggio  2005,  n.  9504;
cfr. anche Cass. civ. III, 11 ottobre 2006, n.  21745;  Consiglio  di
Stato, IV, 23 settembre 2004, n. 6217; cfr. anche TAR Catania,  sent.
13 marzo 2008, n. 467/08). 
Sulla non manifesta infondatezza della questione. 
    A giudizio  del  Collegio  la  questione  non  e'  manifestamente
infondata, per piu' ordini di ragioni che sono esposte a seguire. 
    I) E' opportuno premettere,  per  chiarezza  espositiva,  che  le
informative  antimafia,  possono  essere  classificate,  secondo   le
categorie  di  elaborazione  giurisprudenziale,   «in   tre   diverse
tipologie a seconda delle circostanze che  siano  maturate  a  carico
della  impresa:  a)  quando  la   nota   prefettizia   comunichi   la
sussistenza, a carico dei soggetti responsabili  dell'impresa,  delle
cause di divieto o sospensione dei procedimenti indicate nell'all.  1
del citato decreto legislativo (ex art. 10, legge 31 maggio 1965,  n.
575 e succ. mod.; b) quando la nota prefettizia contenga informazioni
relative ad eventuali tentativi di infiltrazioni mafiose  tendenti  a
condizionare le scelte o  gli  indirizzi  delle  societa'  o  imprese
interessate; c) quando la informativa, pur non raggiungendo la soglia
di gravita' delle prime due (id est: circa i requisiti  soggettivi  e
oggettivi), e' caratterizzata da elementi che denotano il pericolo di
collegamenti  fra  l'impresa  e  la  criminalita'  organizzata  (c.d.
informativa «atipica» o «supplementare»), elementi che sono  comunque
valutabili discrezionalmente dalla p.a.  in  ossequio  alle  generali
esigenze   di   buon   andamento   ed    imparzialita'    dell'azione
amministrativa; quest'ultima tipologia  e'  fondata,  in  materia  di
lotta antimafia, su fatti e  vicende  aventi  valore  sintomatico  ed
indiziario, che prescindono da valutazioni di carattere  strettamente
penalistico (T.A.R. Campania Salerno, sez. I, 7 maggio 2004, n. 375). 
    In proposito, la Sezione ha avuto modo di affermare  recentemente
(TAR Catania, I, 16 gennaio 2009, n. 88/2009) che  il  sistema  della
informativa disciplinato dall'art. 10, comma  2  e  7  del  d.P.R.  3
giugno 1998 e dall'art. 4, comma 4 e  6  del  decreto  legislativo  8
agosto 1994, n. 490, costituisce uno degli strumenti piu'  importanti
ed avanzati di cui l'apparato  amministrativo  pubblico  dispone  per
difendere le istituzioni e, conseguentemente,  la  collettivita',  da
organizzazioni criminali come la mafia  (cfr.  TAR  Calabria,  Reggio
Calabria, 31 gennaio 2007, n.  69),  che  si  caratterizzano  per  il
peculiare «mimetismo» che consente loro di agire, per  lo  piu',  non
militarmente contro le istituzioni democratiche,  ma  sforzandosi  di
condizionarne l'operato, piegandolo ai propri interessi ed aumentando
cosi', per tale tramite, la propria capacita' eversiva e di controllo
criminale del territorio. 
    Affinche' questo strumento  di  tutela  sia  realmente  efficace,
pero', e' necessario che sia  utilizzato  con  estrema  attenzione  e
rigore, perche' il suo meccanismo  incide  nel  delicato  equilibrio,
proprio dell'Ordinamento democratico, che  sussiste  tra  diritti  di
difesa e di liberta' di impresa da un lato, ed esigenze  di  politica
preventiva, di pubblica sicurezza e repressiva, dall'altro. 
    Il rischio concreto di  un  cattivo  uso  di  questo  potere  e',
pertanto, che una immotivata ed irrazionale compressione dei  diritti
di difesa da un lato e di liberta' di impresa dall'altro, cosi'  come
l'adozione  di  una  politica  repressiva  criptica,  opaca  e   poco
trasparente,  finisca  per  rendere  inefficace  il  contrasto   alla
criminalita' organizzata sul piano della protezione dei poteri  della
p.a. dai tentativi di condizionamento: in altri termini, si corre  il
rischio, inaccettabile,  di  allontanare  la  societa'  civile  dalle
Istituzioni  democratiche,  producendo  disaffezione  rispetto   alla
cultura della legalita', che va promossa  e  non  imposta  e  che  e'
vitale solo in quanto sorretta da un convinto sostenimento. 
    In definitiva, l'uso  non  appropriato  del  potere  interdittivo
rischia di compromettere  il  rapporto  di  fiducia  della  comunita'
proprio verso quelle Istituzioni che piu' sono chiamate a  tutelarla,
tutte quelle volte in cui sia  utilizzato  senza  che  i  destinatari
della misura siano effettivamente  posti  in  grado  di  comprenderne
appieno  il  significato,  sia   per   la   sostanziale   correttezza
dell'apprezzamento di merito dell'Autorita', sia per  la  efficace  e
trasparente rappresentazione di tale apprezzamento. 
    II) Richiamate queste brevi premesse in  ordine  all'istituto  di
riferimento, il Collegio puo'  passare  all'esame  della  fattispecie
sottoposta  all'odierno  giudizio,  ai  fini  della  trattazione  del
requisito della non manifesta infondatezza della questione. 
    Come ritenuto in sede di pronuncia sulla domanda di annullamento,
la informativa antimafia contenuta nel provvedimento del 9  settembre
2006, impugnato con il ricorso e con  i  primi  motivi  aggiunti,  ha
tratto  origine  da  una  circostanza  che,  in  se',  e'   tale   da
giustificare   il   giudizio   di   sussistenza   del   rischio    di
condizionamenti di tipo mafioso sugli assetti della societa'. 
    Il titolare del 70% delle quote azionarie della parte ricorrente,
geom. Russello, e' stato infatti soggetto  ad  una  misura  cautelare
restrittiva della liberta' personale per il  reato  di  cui  all'art.
416-bis del codice penale, che, nel quadro del sistema  normativo  di
cui all'art. 10, comma 7 del d.P.R. n.  252  del  3  giugno  1998  e'
certamente da ritenersi come una fonte  tipica  da  cui  desumere  la
sussistenza dei presupposti  di  un  possibile  condizionamento  (per
effetto del richiamo contenuto a tale fattispecie nell'art. 51, comma
3 bis del codice  di  procedura  penale,  di  cui  alla  lettera  «a»
dell'art. 10 menzionato). 
    In presenza di tali presupposti, dunque, derivano necessariamente
le corrispondenti misure interdittive, aspetto questo che non  revoca
in dubbio neppure parte ricorrente, le cui censure, si sono appuntate
su una pretesa insufficiente istruttoria, in  relazione  al  rapporto
tra il geom. Russello e la societa' di cui detiene la maggioranza del
pacchetto azionario, che, secondo  parte  ricorrente,  sarebbe  stato
«neutralizzato»  dalle  modifiche  societarie  della  disciplina  dei
diritti sociali (aspetto quest'ultimo  che,  pero',  il  Collegio  ha
giudicato insufficiente a sostenere le censure di annullamento  degli
atti impugnati). 
    Con il ricorso introduttivo e con i successivi  motivi  aggiunti,
la parte ricorrente ha introdotto  la  domanda  di  risarcimento  del
danno, poiche' per effetto delle  impugnate  misure  interdittive  ha
perduto occasioni di lavoro, per l'avvenuta rescissione di  contratti
gia' stipulati e per  l'avvenuta  esclusione  da  gare  o  revoca  di
aggiudicazioni gia' disposte. 
    Il Collegio, ritenuta la propria giurisdizione  solo  per  queste
ultime  fattispecie,  (e,  piu'  precisamente:   sulla   domanda   di
risarcimento  per  il  danno  esistenziale  e  su   quella   per   il
risarcimento  per  l'esclusione  dalla  gara  per  l'ampliamento   ed
adeguamento della discarica per rifiuti non  pericolosi  di  contrada
Impazzo di Gela, per la revoca aggiudicazione dei  lavori  di  «avvio
degli impianti consortili di  depurazione  I  stralcio  -  collettore
emissario, tratto B-G») ha poi osservato che il rigetto della domanda
di annullamento, che costituisce il presupposto  logico  e  giuridico
della domanda di risarcimento, avrebbe dovuto comportare,  a  rigore,
il rigetto anche di quest'ultima. 
    Tuttavia, tale soluzione e' apparsa del tutto insoddisfacente  al
Collegio per piu' ordini di ragioni. 
    All'esito del giudizio penale, in primo grado e con  conferma  in
appello, il geom. Russello e' stato  pienamente  prosciolto  da  ogni
accusa, essendo le  ipotesi  di  reato  a  lui  ascritte  fondate  su
elementi che si sono rivelati inconsistenti. 
    Inoltre, la difesa  della  societa'  ricorrente  ha  puntualmente
ricostruito anche precedenti vicende giudiziarie del geom.  Russello,
che era gia' stato coinvolto altre volte in  inchieste  penali  dalle
quali  e'  sempre  emerso  come  del  tutto  estraneo  alle   vicende
contestategli. 
    Ordunque, nella fattispecie odierna, emerge che, all'esito di  un
procedimento penale che ha riguardato il proprio maggiore  azionista,
e dal quale quest'ultimo e' uscito scagionato, la societa' ricorrente
ha comprovato di avere perso importanti  occasioni  di  lavoro  e  di
guadagno, con conseguenze intuibili in termini di  occupazione  delle
maestranze e dei dipendenti, nonche' in termini di conservazione  del
patrimonio e dell'esperienza  aziendale  (in  un  sistema  di  lavori
pubblici in cui tutto cio' rappresenta un preciso valore  in  termini
di qualificazione), e di immagine. 
    Tuttavia, essendo legittima l'attivita' dell'Autorita' (che, come
si e' visto sopra, in costanza dei presupposti di fatto entro i quali
si e' svolta la vicenda,  non  poteva  che  emettere  le  informative
impugnate), questa deminutio patrimoniale  non  puo'  trovare  alcuna
tutela, alla luce dell'attuale normativa. Infatti,  non  e'  previsto
alcun tipo di risarcimento o di  reintegrazione  per  l'impresa  che,
sottoposta legittimamente a misure  interdittive  per  effetto  della
informativa antimafia ex art. 10 d.P.R. n. 252/1998 e art. 4  decreto
legislativo  n.  490/1994,  subisce   perdite   aziendali   e   danni
patrimoniali  quando  poi,  all'esito  del  necessario   procedimento
penale, conclusosi dopo l'emanazione delle  informative,  si  accerta
che i presupposti di ordine penale,  per  i  quali  l'informativa  e'
stata rilasciata, non erano sussistenti ab origine. 
    A tale proposito, e' stato infatti  autorevolmente  ritenuto  che
«e' pacifico che nella complessa  materia,  delimitata  dall'art.  1,
legge 31 maggio 1965,  n.  575,  siano  state  introdotte  cautele  e
garanzie piu' avanzate di quelle meramente penalistiche, al  fine  di
proteggere la collettivita' da fenomeni criminosi di  vasta  portata,
spesso   incidenti   sull'esercizio   di   attivita'   economiche   e
imprenditoriali,  in  misura  tale   da   alterare   interi   settori
dell'economia nazionale. Alla gravita' della  situazione  sono  state
pertanto  contrapposte -  soprattutto  nel  delicato  settore   degli
appalti pubblici - misure eccezionali, che anche in presenza di  soli
elementi  indiziari,   circa   la   sussistenza   di   tentativi   di
infiltrazione mafiosa, consentono di limitare la libera iniziativa di
impresa, pur  costituzionalmente  garantita,  ma  da  bilanciare  (in
conformita' all'art. 41, commi secondo e terzo, Cost.), con  principi
di pari rango  costituzionale,  quali  la  sicurezza  e  il  corretto
indirizzo  dell'attivita'  economica;  quanto  sopra,   nei   termini
previsti dal legislatore e quindi, per quanto qui interessa, in  base
al prudente apprezzamento del Prefetto e degli organi di polizia,  il
cui giudizio - ove espresso nei termini  di  legge -  e'  sindacabile
solo per illogicita' manifesta o travisamento dei  fatti»  (Consiglio
Stato, sez. VI, 25 giugno 2008, n. 3214). 
    Il Collegio, dunque, e' ben  consapevole  che  l'attuale  assetto
normativo  dell'istituto(  di  riferimento  e'  frutto  di   delicati
equilibri tra opposti interessi (quello pubblico alla prevenzione  ed
alla repressione di quel particolare fenomeno criminale che  e'  dato
dalle associazioni a delinquere di stampo mafioso, e  quello  privato
alla liberta' di impresa e  di  tutela  della  proprieta')  che  sono
intimamente governati dalla discrezionalita' legislativa, la quale  a
sua volta e' chiamata a confrontarsi con problematiche ed esigenze di
particolarissima delicatezza e complessita'. 
    Tuttavia, anche considerando gli ampi margini di discrezionalita'
di cui gode il legislatore e le  peculiari  esigenze  cui  deve  fare
fronte, il Collegio non  puo'  non  cogliere  che  l'attuale  assetto
normativo e' gravemente lacunoso laddove nulla prevede in  merito  al
caso in cui le realta' aziendali  ed  imprenditoriali  sane  sono  di
fatto esposte ad effetti distorsivi e lesivi del tutto  ingiusti  che
non solo lo stesso legislatore  certamente  non  vuole,  ma  che,  in
definitiva, proprio in quanto ingiusti, compromettono  l'efficacia  e
l'efficienza dell'applicazione concreta dell'istituto. 
    In altre parole, il Collegio sospetta di  incostituzionalita'  la
normativa in esame, laddove consente,  di  fatto,  l'applicazione  di
misure interdittive alla partecipazione a gare ed all'affidamento  di
appalti   della   p.a.   in   maniera   provvisoria    (ossia    fino
all'accertamento dei fatti in sede  penale),  senza  pero'  prevedere
alcuna forma di indennizzo per le imprese che risultino poi  estranee
a tali accertamenti,  e  quindi  provocando  una  perdita  definitiva
patrimoniale e di valori aziendali. 
    Cio' e' lesivo, al contempo, sia dei principi  costituzionali  di
tutela della liberta' di impresa (art. 41), di tutela del diritto  di
proprieta' che  il  precedente  presuppone  ed  al  quale  e'  quindi
connesso (art. 42), sia del principio di imparzialita', efficenza  ed
efficacia dell'azione amministrativa (art. 97). 
    Infatti, non tutelando le imprese «incolpevoli» dalle conseguenze
inevitabilmente lesive che  il  legittimo  esercizio  del  potere  in
questi casi comporta temporaneamente (ma  con  effetti  irreversibili
sul piano economico ed organizzativo),  l'istituto  normativo,  nella
sua attuale  consistenza,  comporta  restrizione  della  liberta'  di
impresa, compressione del correlativo diritto di  proprieta'  ed,  al
contempo, una corrispondente caduta di credibilita'  delle  pubbliche
autorita' e dei pubblici poteri, con  la  inaccettabile  conseguenza,
tra l'altro, del rischio di allontanare cosi' da  esse,  parti  anche
importanti della «societa' civile». 
    III) A riprova di quanto sopra,  il  Collegio  osserva  che,  sul
piano del rapporto tra la misura autoritativa a  natura  interdittiva
della p.a. e il contenuto del diritto di impresa (art. 41 Cost.) e di
proprieta' (art. 42 Cost.) che il primo presuppone, si  determina  un
evidente   parallelismo   con   la   piu'    risalente    fattispecie
dell'espropriazione  per  fini   di   pubblica   utilita',   ed,   in
particolare,  con  quel  particolare  effetto  di  compressione  solo
temporanea che sulla proprieta'  privata  esplicano  i  cd.  «vincoli
preespropriativi» la cui apposizione senza  indennizzo  e'  legittima
solo se contenuta entro predeterminati limiti di tempo. 
    In  merito,  l'insegnamento  della  giurisprudenza  della   Corte
costituzionale, ha consentito di fissare chiari principi di  diritto,
ai quali si e' informata anche la legislazione piu' recente, principi
che  qui  e'  opportuno  richiamare  in  quanto   sono   direttamente
conducenti ai fini della proposizione della odierna questione. 
    L'istituto  della   proprieta'   privata   e'   garantito   dalla
Costituzione  e  regolato  dalla  legge  nei  modi  di  acquisto,  di
godimento e nei limiti di tali facolta', e tale garanzia e'  menomata
qualora singoli diritti che all'istituto si ricollegano  (secondo  il
regime  di  appartenenza  prefigurato  dalla  legge  di  riferimento)
vengano compressi o soppressi  senza  indennizzo,  mediante  atti  di
imposizione che, indipendentemente dalla loro forma, conducono  tanto
ad una traslazione totale o  parziale  del  diritto,  quanto  ad  uno
svuotamento di rilevante entita' ed incisivita'  del  suo  contenuto,
pur restando intatta l'appartenenza del diritto e la sottoposizione a
tutti gli oneri, anche fiscali, riguardanti la  proprieta'  fondiaria
(sent. n. 55 del 29 maggio 1968). 
    In  forza  della  «clausola  sociale»  che  connota   il   regime
dominicale, contenuta nell'art. 42, secondo comma della Costituzione,
il legislatore puo' escludere la proprieta' privata di cene categorie
di beni, cosi' come puo' imporre, sempre per determinate categorie di
beni,  talune  limitazioni  in  via  generale,   ovvero   autorizzare
imposizioni a titolo particolare, con diversa gradazione  o  diverse,
maggiori o minori, ampiezze delle restrizioni di particolari facolta'
di godimento o di  disposizione,  ma  tali  imposizioni  non  possono
eccedere, senza indennizzo, quella portata al di la' della  quale  il
sacrificio imposto venga ad incidere  sul  bene  oltre  cio'  che  e'
connaturale  al  diritto   dominicale,   quale   viene   riconosciuto
nell'attuale momento storico (sent. n. 20 e 119 del 1967). 
    Sulla medesima linea interpretativa si collocano poi le ulteriori
note pronuncie con le quali la Corte ha sancito la illegittimita' dei
vincoli a tempo indeterminato ed ha previsto che il legislatore debba
comunque contenere il sacrificio della proprieta',  optando  tra  una
durata  di  tempo  predeterminata  entro  cui  limitare  il  suddetto
sacrificio, o un  indennizzo  (sent.  n.  5/1980  e  n.  92/1982.  Si
richiamano anche Corte cost. n. 6/1966 e n. 179/1999). 
    In particolare, con la surichiamata sentenza n. 179/99, la  Corte
ha sancito la illegittimita' costituzionale  del  combinato  disposto
degli artt. 7, n. 2, 3 e 40 della legge n. 1150/1942 e 2, primo comma
della legge n. 1187/1968, nella parte in cui non prevede l'obbligo di
indennizzo nel caso di permanenza dei vincoli urbanistici  una  volta
superato il primo  periodo  di  ordinaria  durata  temporanea,  quale
determinata dal legislatore entro limiti non irragionevoli. 
    In quest'ottica, riportando l'esame alla fattispecie  odierna,  i
suddetti principi - maturati nell'ambito dell'espropriazione e  della
tutela del diritto di proprieta' - suggeriscono al  Collegio  che  si
debba  pervenire  anche  nel  caso  delle  informative  antimafia   a
conclusioni non dissimili in ordine alla necessita' che l'ordinamento
appresti forme, anche indennitarie, di  ristoro  delle  posizioni  di
coloro che subiscono incolpevolmente una compressione temporanea  dei
propri diritti di iniziativa economica e di proprieta'  privata,  per
effetto della  legittima  attivita'  di  prevenzione  della  pubblica
amministrazione, una volta accertata, nelle competenti  sedi  penali,
la  loro  completa  estraneita'  ai   fatti   che,   a   suo   tempo,
giustificarono l'adozione dei provvedimenti interdittivi. 
    IIIa) In primo luogo, a cio' conduce  l'esame  comparativo  delle
disposizioni costituzionali di cui agli artt. 41 e 42 della Carta. 
    Entrambe le disposizioni prevedono che la liberta' di  iniziativa
economica ed il diritto di proprieta' possano subire limitazioni  per
legge, volte ad assicurarne un uso sociale e non confliggente con  la
dignita' e la liberta'  della  persona  umana;  solo  la  seconda,  a
differenza della prima, prevede la possibilita'  di  esproprio:  cio'
rende ancora  piu'  stridente  con  lo  spirito  dei  Costituenti  la
temporanea   limitazione   per   atto   della   pubblica    autorita'
dell'esercizio  della  attivita'  di  impresa,   con   un   contenuto
sostanzialmente espropriativo delle utilita' che a detta attivita' si
riconnettono, senza  indennizzo,  quando  cio'  accade  senza  alcuna
responsabilita' da parte della impresa. 
    Sotto altro profilo, gli artt.  41  e  42  sono  avvinti  da  una
relazione di omogeneita' strutturale, in quanto tutelano  liberta'  a
contenuto patrimoniale ed economico, che, nel  primo  caso,  assumono
l'aspetto  dinamico   della   iniziativa   economica,   ossia   della
utilizzazione dei beni di cui  si  e'  proprietari  o  se  ne  ha  la
legittima disponibilita' a fini produttivi, mentre nel  secondo  sono
assunti nella loro dimensione paradigmatica di un  diritto  «statico»
ossia conservativo. 
    In questo senso, il diritto di liberta' di  iniziativa  economica
non puo' prescindere dal diritto di  proprieta',  essendo  una  forma
particolare  di  utilizzazione  dei  beni  tutelati  da  quest'ultima
posizione di diritto e quindi le limitazioni all'esercizio del  primo
non possono non tradursi  in  corrispondenti  violazioni,  oltre  che
dell'art.  41,  anche  dei  principi  di  cui   all'art.   42   della
Costituzione. 
    Sotto questo aspetto, in altri termini, la disciplina di  cui  si
sospetta  la  illegittimita'   consente   alla   pubblica   autorita'
l'esercizio di atti di imposizione che, indipendentemente dalla  loro
forma, conducono tanto  ad  una  traslazione  totale  o parziale  del
diritto (se si considerano le utilita' perdute dell'azienda),  quanto
ad uno svuotamento  di  rilevante  entita'  ed  incisivita'  del  suo
contenuto, pur restando  intatta  l'appartenenza  del  diritto  e  la
sottoposizione a tutti  gli  oneri,  anche  fiscali,  riguardanti  la
proprieta' economica dei beni aziendali. 
    IIIb) Inoltre, e' opportuno  richiamare  espressamente  il  testo
dell'art. 41 Cost.  il  quale  prevede  che  «L'iniziativa  economica
privata e' libera. Non puo' svolgersi  in  contrasto  con  l'utilita'
sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla liberta', alla
dignita' umana». Alla luce di tale disposizione, le limitazioni  alla
liberta' di impresa che  derivano  dalla  legge  n.  575/1965  e  dai
successivi provvedimenti normativi prima richiamati hanno,  in  linea
di principio, natura di norme attuative  dell'art.  41, in  quanto  i
tentativi di infiltrazioni  mafiose  ed  i  condizionamenti  di  tale
genere sono sicuramente  elementi  che  limitano  la  liberta'  della
iniziativa economica privata ed, al contempo, la pongono in contrasto
con l'utilita' sociale e recano evidente danno alla liberta' ed  alla
sicurezza ed alla dignita' umana. 
    Tuttavia, se cio' giustifica pienamente, sul piano costituzionale
il limite alla attivita' di impresa di cui al  sistema  normativo  in
esame,  laddove  effettivamente  i   tentativi   di   condizionamento
sussistono, quando invece le condizioni per la  loro  apposizione  si
rivelano, ex  post,  come  inesistenti  ab  origine,  sulla  base  di
elementi di fatto e  circostanze  che  sono  apprezzate  dal  giudice
competente a tale riguardo, allora si deve ritenere che, nel  periodo
di tempo che si e' reso  necessario  agli  accertamenti,  l'attivita'
economica  e'  stata  compressa  e  limitata  per  fini  di  pubblico
interesse (ossia l'interesse ad  accertare  l'esistenza  o  meno  dei
condizionamenti)  ma  senza  che  ne  ricorressero  effettivamente  i
presupposti e dunque in maniera  ingiusta  e  non  corrispondente  ai
limiti di cui al citato art. 41. 
    In maniera non dissimile, a giudizio del Collegio,  la  Corte  ha
gia' ritenuto che la compressione del diritto di proprieta' in  vista
di una procedura ablativa fosse  illegittima  in  quanto  comprime  a
tempo indeterminato o comunque senza convenienti limiti di  tempo  il
diritto di proprieta'. 
    In quest'ultimo caso, il ragionamento della Corte  ha  tratto  le
mosse dalla assenza di una determinata circostanza di tempo entro  la
quale consentire  la  compressione  del  diritto,  come  elemento  di
irragionevolezza della norma. Tuttavia, quello che nella  fattispecie
dei  vincoli  a  natura  espropriativa  e'  costituito  dall'elemento
temporale, nel caso  delle  informative  interdittive  e'  sostituito
dalla definitivita' della perdita delle utilita' che sono  riconnesse
alla attivita' di impresa che viene limitata. 
    In altre  parole,  nei  fatti  si  verifica  un  vero  e  proprio
«esproprio» di attivita' economiche, senza indennizzo, che non  trova
alcuna giustificazione nella previsione costituzionale. 
    IIIc) Ne derivano sia un danno per l'impresa, sia un danno per  i
posti di lavoro che essa  garantisce  ai  dipendenti,  in  violazione
degli artt. 2 e 3 della Costituzione, in quanto i dipendenti  sono  a
loro volta del tutto estranei alla vicenda del  datore  di  lavoro  e
dunque risentono in maniera del tutto incolpevole  delle  conseguente
dirette dell'attivita' della pubblica autorita'. 
    Ne deriva anche un danno per le ragioni  di  interesse  pubblico,
con violazione dell'art. 97 della Costituzione, perche' una volta che
l'imprenditore dimostra in giudizio la propria estraneita'  ai  fatti
contestatigli, avendo pero' definitivamente perso occasioni di lavoro
e di produzione, si produrra' evidentemente disaffezione e caduta  di
fiducia del privato e  dell'opinione  pubblica  nei  confronti  delle
Istituzioni e dell'Autorita', con  tutto  cio'  che  tale  gravissima
conseguenza comporta in ambiti  territoriali  ove  le  organizzazioni
criminali, da tali  circostanze,  possono  trarre  ovvi  profitti  in
termini di controllo di fatto del territorio. 
    IV) Si rendono  utili  poche  ulteriori  osservazioni,  sotto  il
profilo della violazione dell'art. 3 della Carta. 
    A giudizio del Collegio, la normativa in esame implica,  come  si
e' visto prima, un grave vulnus ai principi di cui agli artt. 41,  42
e 97 della Costituzione. 
    Tuttavia, la suddetta normativa, nella parte  di  cui  si  dubita
della legittimita' costituzionale, e', prima  ancora,  irrazionale  e
quindi viola il principio di cui all'art. 3, per piu' radicali ordini
di motivi. 
    La circostanza  che  un  operatore  economico  incolpevole  venga
sottoposto ad accertamenti per reati associativi di stampo mafioso e,
durante tale periodo, gli vengano interdette le attivita'  economiche
con la p.a. come controparte, e', come si  e'  detto,  conforme  allo
spirito, oltre che alla lettera, dell'art. 41 della Cost. 
    Non lo e', invece, la circostanza  che,  perdute  definitivamente
durante tali periodi, le opportunita' di  lavoro  e  di  impresa  che
erano  nella  propria  sfera  giuridica,  all'imprenditore  risultato
estraneo alle fattispecie contestategli non  sia  riconosciuto  alcun
indennizzo di cio' che, per effetto della legittima  attivita'  della
p. a., gli e' stato definitivamente «espropriato». 
    Tale fattispecie costituisce, ad avviso  del  Collegio,  un  caso
manifesto  di  eccesso  di  potere  legislativo  per  «incoerenza»  e
«irragionevolezza», che appare evidentemente sussistere sotto diversi
e   concorrenti   ordini   ermeneutici   di   indagine   dei   valori
costituzionali  di  riferimento,  perche'  non  e'  in   alcun   modo
giustificata da nessuno degli scopi  di  tutela  della  norma  ed  e'
pertanto eccessiva ed immotivata. 
    IVa)  Se  l'interprete  si   pone   nell'ottica   del   sindacato
sull'eccesso  di  potere  legislativo  per  violazione  delle   norme
costituzionali di «scopo»,  allora  risulta  sicuramente  violata  la
tutela costituzionale della liberta' di impresa, perche' si  consente
al potere autoritativo della p.a. di comprimerla,  senza  indennizzo,
sulla base di presupposti che, come  si  e'  visto,  sono  fortemente
discrezionali e  comunque  affidati  a  circostanze  che  si  possono
verificare senza  le  precise  garanzie  proprie  degli  accertamenti
penali (Consiglio di Stato, 3214/08, cit.) e cio' ad (ingiustificata)
differenza del sistema di tutela che  e'  apprestato  al  diritto  di
proprieta' nella sua dimensione «statica» ex art. 42 Cost. 
    A tale ultimo proposito, la manifesta disparita'  di  trattamento
tra le due fattispecie, non trova  giustificazione  nelle  diversita'
dei  presupposti,  perche',  a  stretto   rigore,   la   compressione
temporanea della liberta' di iniziativa economica comporta la perdita
definitiva delle corrispondenti attivita' e  puo'  portare  anche  al
fallimento della Impresa,  laddove  la  compressione  temporanea  del
diritto di proprieta' non comporta, in linea di principio, la perdita
definitiva  delle  corrispondenti   utilita',   ma   solo   la   loro
sospensione. 
    IVb) Tale ottica diviene ancora piu' incisiva se l'interprete  si
colloca sul piano della piu' recente giurisprudenza della Corte, che,
secondo attenta dottrina, si e'  caratterizzata  dagli  anni  '80  ad
oggi, per l'uso sempre piu' esteso  del  criterio  di  ragionevolezza
della norma di legge, attraverso un processo di autonomizzazione  del
giudizio di ragionevolezza rispetto al principio di eguaglianza e con
l'accostamento sostanziale e fattuale del giudizio di  ragionevolezza
al giudizio di merito (cfr. sent. n. 991/1988,  sent.  n.  179/1999 -
prima richiamata - sent. n. 104/2003, sent. n. 204/2004). 
    Peraltro, il Collegio e' ben consapevole che, sul medesimo  piano
ermeneutico, la giurisprudenza della Corte non esita a  stigmatizzare
il ricorso eccessivo da parte dei giudici remittenti del criterio del
c.d. tertium comparationis,  ossia  del  giudizio  di  disparita'  di
trattamento e di irragionevolezza  della  norma  censurata:  cio',  a
seconda dei casi, per la  «particolarita'  del  profilo  considerato»
(sent. n. 180/2004), per la diversita'  di  ratio  (sent.  n.  168  -
340/2004), per la non omogeneita'  e  non  comparabilita'  del  terzo
normativo invocato (sent. n. 136/2004, 335/2007, 325/2008),  per  non
manifesta irragionevolezza della disparita',  ricollegata  a  profili
temporali (n. 208/2008), per il carattere derogatorio della normativa
presa  a  comparazione  (sent.  n.  192/2008),  per   la   situazione
emergenziale  o  eccezionale  che  ha  giustificato  una  particolare
normativa (sent. n. 92/2008, 318/2008). 
    Tuttavia,    dall'analisi    succintamente    riportata     della
giurisprudenza della Corte, il Collegio trae il convincimento che  la
odierna questione non si presta ad essere respinta sotto  alcuno  dei
profili appena indicati, essendo palese  la  violazione  dell'art.  3
della Costituzione, nei termini proposti, come conseguenza non voluta
dal legislatore; ed essendo altresi' palesi i gravi effetti che  tale
illegittimita' comporta  specialmente  sul  piano  della  tutela  dei
valori  costituzionali  della  liberta'  di  impresa  e   di   tutela
dell'azione della p.a. nei confronti  di  quel  particolare  fenomeno
criminale che e' costituto dalle organizzazioni mafiose. 
    D'altronde, se pure la  Corte  e'  attenta  a  non  eccedere  nel
giudizio  sull'eccesso  di  potere  legislativo,  non  sono  comunque
mancati i casi in cui ha ammesso tale sindacato, con riferimento,  ad
es., alla mancata inclusione di fattispecie simili all'interno di una
specifica  normativa  di  privilegio  (sent.  n.  113/2004),  o  alla
esistenza  di  un  tertium  comparationis eccezionale,  ma   comunque
omogeneo alla normativa di riferimento (sent. n.  167/2008)  e  cosi'
via. 
    Piu' in generale, appare manifesto al Collegio che la fattispecie
odierna giustifichi un giudizio di illegittimita', ex  art.  3  della
Costituzione, della normativa in esame, sia in termini di  incoerenza
del sistema normativo censurato, che di irragionevolezza. 
    Rispettivamente, le norme censurate appaiono  incoerenti  in  una
ottica  di  sindacato   intrinseco   con   riferimento   al   tertium
comparationis costituito  dal  complesso  delle  tutela  in  tema  di
vincoli  preespropriativi  e  tutela  della  proprieta'  (essendo  il
diritto di proprieta' e quello di iniziativa  economica  strettamente
correlati   tra   loro,   in   diverse   dimensioni   di    utilita',
rispettivamente statica e dinamica dei beni economici).  Sotto  altro
aspetto, le medesime norme sono da censurare  sotto  il  profilo  del
sindacato estrinseco, ossia in termini  di  irragionevolezza,  se  si
prendono  a  riferimento  i  criteri  di  bilanciamento  dei   valori
costituzionali prima  indicati  e,  soprattutto,  se  si  esamina  la
congruita' dei mezzi (misure interdittive e perdita definitiva  delle
opportunita' aziendali) rispetto ai fini (tutela della p.a.  e  delle
imprese dai tentativi di infiltrazione mafiosa). 
    IVc) Ancora recependo gli insegnamenti di una  accorta  dottrina,
il  Collegio  rammenta  che   l'attuale   Stato   costituzionale   e'
storicamente la forma piu' evoluta dello Stato  di  diritto,  proprio
perche' ha la capacita' di  mediare  al  suo  interno  il  «problema»
metagiuridico  della  legge  «ingiusta»  trasformandolo  in   quello,
proprio  della  scienza  del  diritto,  della  legge   «illegittima»,
conferendo cosi' dignita' giuridica all'aspirazione della comunita' a
perseguire concretamente un ideale  di  giustizia  sostanziale  delle
proprie norme, che diviene valore fondante dell'unita' repubblicana. 
    Per tale ragione ed in tale ottica,  il  remittente  osserva  che
l'odierna questione costituzionale  che  si  propone  alla  decisione
della Corte, implica una vera  e  propria  questione  di  «giustizia»
della legge, sotto quel profilo che e' tipico di tale giudizio  negli
ordinamenti   democratici   moderni,   ossia   il   giudizio    della
illegittimita' della legge per sua irragionevolezza,  da  apprezzarsi
con riferimento quindi non gia'  a  criteri  autoreferenziali,  ossia
fondati su soli parametri logici e/o  normativi  intrinseci,  ma  con
riferimento a quelle norme di valore che la Costituzione  possiede  e
che sono capaci di orientare l'evoluzione giuridica  secondo  modelli
di  giustizia  sostanziale  che,  pur  senza  sconfinare  nel  merito
legislativo, trovano comunque nella Carta  la  loro  rappresentazione
plastica, ossia non cristallizzata, bensi' possibile  di  evoluzione,
in risonanza armonica con la crescita  e  con  la  maturazione  della
societa'. 
    Il richiamo di tale importante  principio  appare  necessario  al
Collegio tanto piu' ove la questione  proposta  attiene  direttamente
alla necessita' di rendere effettiva la difesa dei consociati e della
societa' civile,  da  parte  dello  Stato  e  delle  sue  Istituzioni
repubblicane, contro quei fenomeni criminali che, come la  mafia,  si
pongono all'esterno dell'Ordinamento  e  confliggono  gravemente  con
esso, tanto da potersi considerare come veri e  propri  «nemici»  del
sistema di giustizia sociale che e' delineato dai costituenti e cosi'
sancito nella Carta. 
    Integra il parametro di giudizio cui fa riferimento  il  Collegio
proprio quella nozione di «utilita'  sociale»  che  l'art.  41  della
Carta pone, al contempo, quale limite  alla  liberta'  di  iniziativa
economica e quale modalita' di essa. 
    L'utilita' sociale, ad avviso del  remittente,  non  puo'  essere
considerata esigenza tale  da  giustificare  una  compressione  cosi'
radicale, sia pure contenuta entro limiti di tempo,  del  diritto  di
impresa,  con  la  correlativa  perdita  definitiva  delle   connesse
utilita', in relazione ad operatori economici incolpevoli, perche' da
tale compressione non deriva alcun vantaggio, ne'  per  la  societa',
ne' per l'Autorita' che e' chiamata a proteggerla. 
    Al contrario, tale «utilita» fonda il giudizio di disvalore delle
norme in esame, nelle parti denunciate: infatti, l'«utilita' sociale»
dell'art.  41  della  Cost.  (secondo   l'insegnamento   della   piu'
autorevole dottrina e delle pronuncie della stessa Corte)  e'  intesa
come    un    «principio-valvola»    che    consente    l'adattamento
dell'Ordinamento al mutare dei fatti sociali, ed anche come «concetto
di valore intriso di giustizia sociale, che partecipa  dei  caratteri
dei valori costituzionali ed  e'  teso  alla  realizzazione  di  quel
progetto di trasformazione della societa' italiana voluto dal secondo
comma dell'art. 3 della Carta» e  che  in  questo  senso  assegna  al
giudice costituzionale il ruolo di verificare in primo luogo  i  fini
effettivamente perseguiti dalla legge ed in secondo luogo l'idoneita'
dei mezzi predisposti a perseguirli (ruolo sempre svolto dalla  Corte
con grande prudenza, ma altresi' con attento  equilibrio  e  apertura
sin dalla sent. n. 14/1964). 
    Anche sotto questo profilo, pertanto,  le  norme  in  esame  sono
irrazionali, in quanto, contrastando  con  l'utilita'  sociale  quale
«modo» di svolgimento della  liberta'  di  iniziativa  economica,  ne
comprimono immotivatamente  l'esercizio  senza  che  (come  accennato
prima) ne derivi un effettivo beneficio ne'  alla  collettivita',  in
termini di sicurezza e di tutela  del  mercato,  ne'  all'azione  dei
pubblici poteri, che, al contrario, rischiano  di  essere  indeboliti
dall'applicazione di tali norme, nel  mantenimento  di  un  effettivo
controllo del territorio rispetto  all'emergenza  della  criminalita'
organizzata e nei rapporti con la c.d. «societa' civile» (da cio', la
violazione degli artt. 3 e 41 della Costituzione). 
    Per tutte queste ragioni, pertanto, il Collegio  sente  di  dover
revocare in dubbio la  legittimita'  costituzionale  delle  norme  in
esame, nella parte in cui, in violazione degli artt. 2, 3, 41,  42  e
97 della Costituzione, non  prevedono  l'obbligo  di  un  appropriato
indennizzo a tutela dei livelli occupazionali  dell'azienda  e  della
integrita'  del  valore  del  relativo  patrimonio  di  esperienza  e
competenza posseduto, a  favore  di  quelle  imprese  per  le  quali,
ritenuti inizialmente sussistenti i rischi di condizionamento mafioso
ex art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490, ed  art.  10
del  d.P.R.  3  giugno  1998,  n.  252,  ed  adottati   i   necessari
provvedimenti interdittivi, risultino  poi  del  tutto  assenti  tali
rischi, in base all'accertamento contenuto  in  sentenze  passate  in
giudicato. 
                              P. Q. M. 
    Solleva la questione di legittimita' costituzionale, in relazione
agli artt. 2, 3, 42 e 97 della Costituzione, dell'art. 10,  legge  31
maggio 1965, n. 575, della legge 17 gennaio 1994, n. 47, dell'art.  4
del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490,  e  dell'art.  10  del
d.P.R. 3 giugno 1998, n.  252,  nella  parte  in  cui  non  prevedono
l'obbligo  di  un  appropriato  indennizzo  a  tutela   dei   livelli
occupazionali dell'azienda e della integrita' del valore del relativo
patrimonio di esperienza e competenza posseduto, a favore  di  quelle
imprese per le quali, ritenuti inizialmente sussistenti i  rischi  di
condizionamento mafioso ex art. 4 del decreto  legislativo  8  agosto
1994, n. 490, ed art. 10  del  d.P.R.  3  giugno  1998,  n.  252,  ed
adottati i necessari provvedimenti interdittivi,  risultino  poi  del
tutto assenti tali rischi,  in  base  all'accertamento  contenuto  in
sentenze passate in giudicato. 
    Visti  gli  artt.  134  della   Costituzione,   1   della   legge
costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953,
n. 87; 
    Sospende il giudizio in corso ed ordina l'immediata  trasmissione
degli atti  alla  Corte  costituzionale  perche'  si  pronunci  sulla
questione  di  legittimita'  costituzionale  delle  norme  di   legge
sopraindicate; 
    Dispone che, a cura della segreteria della sezione,  la  presente
ordinanza sia notificata alle  parti  in  causa,  al  Presidente  del
Consiglio dei ministri ed ai Presidenti delle Camere. 
    Cosi' deciso in Catania, nella Camera di consiglio del giorno  12
febbraio 2009 e del 26 febbraio 2009. 
                       Il Presidente: Zingales 
                                                   L'estensore: Gatto