N. 242 SENTENZA 16 - 24 luglio 2009

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo penale - Sentenza di non luogo a  procedere  -  Appello  del
  pubblico ministero  -  Preclusione  -  Denunciata  irragionevolezza
  nonche' ingiustificata discriminazione tra procedimenti a citazione
  diretta e  procedimenti  che  richiedono  l'udienza  preliminare  e
  violazione dei principi di parita' delle parti,  della  ragionevole
  durata del processo e  dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  -
  Esclusione - Non fondatezza delle questioni. 
- Cod. proc. pen., art. 428, come sostituito dall'art. 4 della  legge
  20 febbraio 2006, n. 46. 
- Costituzione, artt. 3, 111, secondo comma, e 112. 
(GU n.30 del 29-7-2009 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA,  Alfio  FINOCCHIARO,  Franco
  GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSSE, Maria Rita
  SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO,  Giuseppe  FRIGO,
  Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI; 
ha pronunciato la seguente 
                              Sentenza 
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 428  del  codice
di procedura penale  come  sostituito  dall'art.  4  della  legge  20
febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice  di  procedura  penale,  in
materia  di  inappellabilita'  delle  sentenze  di  proscioglimento),
promossi dalla Corte d'appello di Brescia con ordinanza del 25  marzo
2008, dalla Corte militare d'appello, sezione distaccata  di  Verona,
con ordinanza del 21 maggio 2008, dalla Corte d'appello  di  Brescia,
con ordinanza del 9 aprile 2008 e  dalla  Corte  militare  d'appello,
sezione distaccata di Verona, con due ordinanze del 21  maggio  2008,
ordinanze rispettivamente iscritte ai  numeri  187,  274  e  375  del
registro ordinanze 2008 e ai numeri 32 e 33  del  registro  ordinanze
2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica  nn.  26,
39 e 49, 1ª serie speciale, dell'anno 2008 e n. 7, 1ª serie speciale,
dell'anno 2009. 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella camera di consiglio dell'8  luglio  2009  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
                          Ritenuto in fatto 
    1.1 - Con ordinanza emessa il 25 marzo  2008  (r.o.  n.  187  del
2008), la Corte d'appello di Brescia  ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 3 e 111  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 428 del codice  di  procedura  penale,  come
sostituito dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche
al codice di procedura penale, in materia di  inappellabilita'  delle
sentenze  di  proscioglimento),  nella  parte  in  cui  non  consente
l'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di non  luogo  a
procedere. 
    La Corte rimettente riferisce di  essere  investita  dell'appello
proposto  dal  Procuratore  generale  della  Repubblica  avverso   la
sentenza  del  Giudice  dell'udienza  preliminare  del  Tribunale  di
Brescia che aveva dichiarato il non luogo a procedere  nei  confronti
di una  persona  imputata  di  tentata  concussione,  trattandosi  di
ipotesi di reato impossibile. Con  l'atto  di  appello,  il  pubblico
ministero aveva contestato la correttezza della  decisione  impugnata
alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione in ordine al
concetto di «inidoneita' dell'azione», eccependo, in via preliminare,
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 428 cod. proc.  pen.,  come
novellato dalla legge n. 46 del 2006, nella  parte  in  cui  preclude
alla pubblica accusa l'appello contro le  sentenze  di  non  luogo  a
procedere. 
    Ad  avviso  del  giudice  a  quo,  la  questione  deve  ritenersi
rilevante,  in  quanto  dal  suo  accoglimento  o  meno  dipende   la
prosecuzione del giudizio di appello, ovvero la  sua  cessazione  per
inammissibilita' dell'impugnazione. 
    Quanto, poi,  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
richiama le sentenze della Corte costituzionale n. 26 e  n.  320  del
2007,   con   le   quali   e'   stata   dichiarata   l'illegittimita'
costituzionale, rispettivamente, degli artt. 593 e 443, comma 1, cod.
proc. pen., come modificati dalla legge n. 46 del 2006, per contrasto
con il principio di parita'  delle  parti  nel  processo  (art.  111,
secondo comma, Cost.): e cio' - prosegue  il  giudice  a  quo  -  sul
rilievo che l'esclusione della facolta'  del  pubblico  ministero  di
appellare le sentenze «di assoluzione e di proscioglimento», disposta
da dette norme, genera una dissimmetria tra le parti processuali  non
sorretta  da  una  ratio  giustificatrice  connessa  ad  esigenze  di
funzionale  e  corretta  esplicazione  della  giustizia  penale,   ed
esorbita dai limiti della ragionevolezza. 
    Analogo contrasto con l'art. 111, secondo  comma,  Cost.  sarebbe
ravvisabile - a parere del rimettente - anche  in  rapporto  all'art.
428 cod. proc.  pen.,  che  nell'attuale  formulazione  impedisce  al
pubblico ministero di appellare le sentenze di non luogo a  procedere
pronunciate  dal  giudice  dell'udienza  preliminare:  sentenze   non
assimilabili - secondo  la  giurisprudenza  di  legittimita'  -  alle
sentenze di assoluzione e di proscioglimento, e sulle quali la  Corte
costituzionale non si e' ancora pronunciata. 
    La norma denunciata violerebbe, inoltre, l'art. 3 Cost. sotto  il
profilo  dell'irragionevolezza,  non   essendo   ravvisabili,   anche
nell'ipotesi in esame, motivi atti  a  giustificare  la  soppressione
della facolta' di appello del pubblico ministero: e cio'  specie  ove
si consideri che il novellato art. 428 cod.  proc.  pen.  esclude  il
potere di appello in situazione nella  quale  la  parte  pubblica  e'
totalmente soccombente, quando invece la medesima parte e' ammessa ad
appellare in situazioni di soccombenza parziale, come quella indicata
dall'art. 443, comma 3, cod. proc. pen. 
    1.2. -  Nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione  sia
dichiarata manifestamente infondata. 
    Ad avviso della difesa erariale, non potrebbero essere  utilmente
invocate, a sostegno delle censure, le sentenze n. 26 e  n.  320  del
2007,  trattandosi  di  declaratorie   di   incostituzionalita'   che
investono disposizioni  regolative  dell'appello  contro  sentenze  -
quali  quelle  di   proscioglimento   pronunciate   a   seguito   del
dibattimento e del giudizio abbreviato - che  implicano  un  compiuto
esame nel merito dell'ipotesi accusatoria. 
    Di contro, la  sentenza  di  non  luogo  a  procedere,  emessa  a
conclusione dell'udienza preliminare,  avrebbe  natura  di  pronuncia
processuale, basata esclusivamente  sull'evidenza  probatoria.  Essa,
inoltre, a differenza della sentenza di assoluzione emessa a  seguito
di  giudizio,  non  e'  destinata  a  divenire  definitiva,   essendo
suscettibile di revoca, ai  sensi  dell'art.  434  cod.  proc.  pen.,
qualora sopravvengano o si scoprano  nuove  fonti  di  prova  atte  a
determinare - da sole, o unitamente a  quelle  gia'  acquisite  -  il
rinvio a giudizio. 
    Priva  di  consistenza  risulterebbe  altresi'  la   censura   di
violazione dell'art. 3 Cost., formulata dal giudice a quo  allegando,
quale tertium comparationis, l'art. 443, comma 3, cod. proc. pen.,  a
norma del quale il pubblico ministero puo' appellare la  sentenza  di
condanna emessa all'esito del giudizio abbreviato solo  qualora  essa
abbia modificato il titolo del reato: e cio',  stante  l'evidenziata,
peculiare natura della sentenza di non luogo a procedere. 
    2. - La medesima questione di costituzionalita' e' sollevata,  in
riferimento agli artt. 3, 111 e 112 Cost., dalla Corte  d'appello  di
Brescia con ordinanza del 9 aprile  2008  (r.o.  n.  375  del  2008),
nell'ambito di un giudizio avente  ad  oggetto  gli  appelli  riuniti
proposti dal pubblico ministero avverso le sentenze di  non  luogo  a
procedere emesse il 26 gennaio e il 9 ottobre 2006 nei  confronti  di
persone imputate di associazione per delinquere. 
    La questione - secondo il giudice  a  quo  -  sarebbe  rilevante,
giacche' dalla sua risoluzione dipenderebbe l'ammissibilita'  o  meno
del gravame contro la sentenza del  9  ottobre  2006,  proposto  dopo
l'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006. 
    Quanto alla  non  manifesta  infondatezza,  la  Corte  rimettente
formula, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., censure  del  tutto
analoghe a quelle svolte con l'ordinanza r.o. n. 187 del 2008. 
    Il giudice a quo ritiene leso, altresi', l'art.  112  Cost.,  sul
rilievo che la norma censurata comprimerebbe ingiustificatamente  «la
funzione inerente alla  titolarita'  dell'azione  penale»,  garantita
dalla citata norma costituzionale. 
    3.1. - Con tre ordinanze di analogo tenore, emesse nell'ambito di
distinti processi il 21 maggio 2008 (r.o. n. 274 del 2008, n. 32 e n.
33 del 2009), la Corte  militare  d'appello,  sezione  distaccata  di
Verona, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma,  111,
secondo comma, e 112 Cost., questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 428 cod. proc. pen.,  come  sostituito  dall'art.  4  della
legge n. 46 del 2006, nella parte in cui ha soppresso la facolta' del
pubblico ministero di proporre appello avverso  la  sentenza  di  non
luogo a procedere. 
    La Corte rimettente riferisce  di  essere  investita  di  appelli
proposti dal pubblico ministero, in date  successive  all'entrata  in
vigore della legge n. 46 del 2006, avverso sentenze di  non  luogo  a
procedere per insussistenza del fatto, emesse da giudici dell'udienza
preliminare di tribunali militari nei confronti di persone  imputate,
a seconda dei casi, di diserzione  aggravata  e  di  truffa  militare
pluriaggravata.  Con  l'atto  di  impugnazione,  l'appellante   aveva
preliminarmente   eccepito   l'illegittimita'   costituzionale,   per
contrasto con gli artt. 3, primo comma, 111,  secondo  comma,  e  112
Cost., del nuovo testo dell'art. 428 cod. proc. pen., che ha previsto
come unico rimedio contro la sentenza di non  luogo  a  procedere  il
ricorso per cassazione. 
    Ad  avviso  del  rimettente,   la   rilevanza   della   questione
risulterebbe evidente, giacche', ove la stessa non fosse accolta,  il
gravame  andrebbe  dichiarato  inammissibile,  ovvero  convertito  in
ricorso per cassazione. 
    Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il  giudice  a  quo
reputa leso,  anzitutto,  il  principio  di  ragionevolezza  (art.  3
Cost.), osservando come la norma censurata si innesti  su  un  quadro
normativo che, per effetto delle sentenze della Corte  costituzionale
n. 26 e n. 320 del 2007, garantisce al pubblico ministero  il  potere
di proporre appello avverso le sentenze  di  assoluzione  pronunciate
sia  in  esito  al  dibattimento  che  a  conclusione  del   giudizio
abbreviato. Di conseguenza, la preclusione  stabilita  dall'art.  428
cod. proc. pen. resterebbe priva di giustificazione, sottraendo  alla
pubblica accusa, nella «fondamentale fase» in cui viene formulata  la
domanda di giudizio, quel potere di richiedere un completo riesame di
merito che le viene invece  riconosciuto  nelle  ulteriori  fasi  del
processo. 
    Detta preclusione risulterebbe inoltre  incoerente,  giacche'  il
pubblico ministero, per correggere gli eventuali vizi della  sentenza
di non luogo a procedere, disporrebbe esclusivamente di un  mezzo  di
impugnazione - il ricorso per cassazione -  inadeguato,  per  i  suoi
peculiari caratteri, rispetto al tipo di valutazione che  sovrintende
alla sentenza di non luogo procedere (l'insostenibilita'  dell'accusa
in giudizio): col  risultato  di  trasformare  quest'ultima  «in  una
sostanziale pietra tombale». 
    Ne deriverebbe, in pari tempo, una irragionevole  discriminazione
tra  i  procedimenti  che  richiedono  l'udienza  preliminare  ed   i
procedimenti a citazione diretta: procedimenti,  questi  ultimi,  nei
quali, da un lato, la domanda  di  giudizio  del  pubblico  ministero
determina l'immediata fissazione dell'udienza  dibattimentale,  senza
correre il rischio di venir «prematuramente bloccata»; e,  dall'altro
lato, la parte pubblica si vede assicurata - dopo le citate  sentenze
n. 26 e n. 320 del 2007 - la  possibilita'  di  appellare  contro  la
decisione conclusiva del giudizio di primo grado.  L'irragionevolezza
denunciata risulterebbe tanto piu' evidente ove si  consideri  che  i
procedimenti che richiedono l'udienza preliminare concernono i  reati
piu' gravi, rispetto ai quali e' piu' acuta e pressante l'esigenza di
un riesame del merito, per evitare che gli errori compiuti in sede di
verifica   della   domanda   di   giudizio   producano    conseguenze
irreversibili, in rapporto agli interessi  della  comunita'  e  della
persona offesa. 
    Nei procedimenti in cui e' prevista l'udienza preliminare - ossia
nella totalita' dei casi, quanto alla giurisdizione  penale  militare
(innanzi alla quale non  trovano  applicazione  le  disposizioni  del
Libro VIII del codice di rito, sul procedimento davanti al  tribunale
in  composizione  monocratica)  -  si  verificherebbe,  altresi',  un
irragionevole «sbilanciamento» delle posizioni  delle  parti,  lesivo
del principio di parita'  enunciato  dall'art.  111,  secondo  comma,
Cost. Infatti, mentre per l'imputato il piu' sfavorevole degli  esiti
di detta udienza e' rappresentato dal rinvio a  giudizio  davanti  al
suo  giudice  naturale,  ossia   da   un   provvedimento   «meramente
interlocutorio», che non preclude in alcun  modo  all'interessato  la
possibilita' di far valere in  seguito  le  opportune  doglianze  sul
merito della decisione conclusiva del processo di  primo  grado;  per
l'accusa,  la  sentenza  di  non  luogo  a  procedere  comporterebbe,
viceversa, il  pressoche'  definitivo  «affossamento»  delle  ragioni
pubblicistiche sottese all'esercizio dell'azione penale. 
    Il giudice a quo rileva, «per  inciso»,  come  l'inappellabilita'
delle sentenze di non luogo a procedere  incida  negativamente  anche
sulla sfera giuridica dell'imputato, posto che  nell'attuale  sistema
normativo non e' consentito al pubblico  ministero  di  appellare  le
suddette sentenze neanche nell'interesse del  soggetto  sottoposto  a
processo penale. Cio' determinerebbe una ulteriore incongruenza, alla
luce di quanto statuito dalla sentenza n. 85  del  2008  della  Corte
costituzionale, che ha  ripristinato  la  facolta'  dell'imputato  di
appellare le sentenze di proscioglimento dibattimentali le quali, pur
non applicando una pena, comportino un sostanziale riconoscimento  di
responsabilita' o, comunque, l'attribuzione  del  fatto  all'imputato
medesimo. L'«anomalia» eliminata dalla citata sentenza continuerebbe,
difatti, a contrassegnare le sentenze di non luogo a  procedere,  che
rimarrebbero   assoggettate   ad   un   indifferenziato   regime   di
inappellabilita', pur potendo essere emesse anche per la  sussistenza
di cause sopravvenute di non punibilita' o di cause di estinzione del
reato. 
    Altrettanto evidente risulterebbe, poi, il pregiudizio recato  al
principio della ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111,
secondo comma, seconda parte, Cost. Come  evidenziato,  infatti,  nel
messaggio del 20 gennaio 2006, con cui il Presidente della Repubblica
ha rinviato alle Camere l'originario testo  della  legge  n.  46  del
2006, il trasferimento dalla corte d'appello alla Corte di cassazione
dell'impugnazione  della  sentenza   di   non   luogo   a   procedere
determinerebbe «non soltanto un ulteriore aumento di  lavoro  per  la
Corte di cassazione, ma anche, in  caso  di  mancata  conferma  della
sentenza ..., una regressione del procedimento,  che  ne  allunghera'
inevitabilmente i tempi di definizione». In  effetti,  ove  ritenesse
fondate le  ragioni  dell'impugnazione  del  pubblico  ministero,  il
giudice di legittimita' non potrebbe comunque emettere il decreto che
dispone il giudizio (art. 429 cod. proc. pen.), ma dovrebbe annullare
la sentenza impugnata con rinvio «al giudice a quo»:  il  quale,  pur
cambiato nella persona,  potrebbe  adottare  una  diversa  «decisione
liberatoria», a sua volta ricorribile per cassazione, in una sequenza
suscettibile teoricamente di protrarsi «quasi all'infinito». Donde il
vulnus  al  parametro  evocato,  con  il  quale   debbono   ritenersi
incompatibili «le norme procedurali che  comportino  una  dilatazione
dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica». 
    Da ultimo, la norma censurata si porrebbe  in  contrasto  con  il
principio di obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112 Cost.).  Al
riguardo, il rimettente ricorda come la giurisprudenza costituzionale
abbia ravvisato nel potere di impugnazione del pubblico ministero una
delle espressioni dell'anzidetto principio, puntualizzando, altresi',
che la disciplina processuale non puo' essere congegnata in modo tale
da vanificare il complessivo assolvimento delle funzioni  dell'accusa
(vengono citate, in specie, le sentenze n. 98 del 1994 e n.  177  del
1971). Tale affermazione - ad avviso del giudice a quo - non  sarebbe
stata «completamente  neutralizzat[a]»  dalle  successive  decisioni,
nelle quali la Corte costituzionale ha escluso una diretta e generale
correlazione tra  potere  di  impugnazione  della  parte  pubblica  e
obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale (vengono citate  le
ordinanze n. 421 del 2001, n. 347  del  2002  e  n.  165  del  2003).
Siffatte decisioni riguarderebbero, infatti, un'ipotesi  ben  diversa
da quella oggi in esame, essendo riferite alla norma che impediva  al
pubblico ministero di proporre  appello,  principale  e  incidentale,
contro le sentenze di condanna  emesse  a  conclusione  del  giudizio
abbreviato: vale a dire nel  contesto  di  un  rito  che  -  dopo  il
positivo  esercizio  dell'azione  penale  -  persegue  obiettivi   di
semplificazione processuale, in relazione ai quali puo'  considerarsi
«appagante»  un  epilogo  «comunque  coincidente  con  le  essenziali
finalita' perseguite dall'accusa». 
    Nel caso di specie, per contro, verrebbe  in  rilievo  un  limite
direttamente incidente sull'atto di esercizio dell'azione penale, che
non ha realizzato il proprio obiettivo del  giudizio  dibattimentale:
onde non si comprenderebbe «con quale coerenza  "costituzionale"»  la
legge ordinaria possa interdire al pubblico ministero di chiedere  al
giudice di merito superiore una  diversa  valutazione  circa  la  non
superfluita' del dibattimento. E cio' soprattutto  ove  si  consideri
che la preclusione all'appello concerne  una  sentenza  di  carattere
processuale,  emessa  nell'ambito  di  un  giudizio   «essenzialmente
cartolare»,  nel  quale  non  trova  esplicazione  il  principio  del
contraddittorio nella formazione della prova. 
    3.2. - Nei giudizi relativi alle ordinanze r.o. n. 32 e n. 33 del
2009  e'  intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata. 
    L'Avvocatura generale dello Stato ribadisce  l'impossibilita'  di
far leva, onde ravvisare una  violazione  dell'art.  3  Cost.,  sulle
sentenze n. 26 e  n.  320  del  2007,  stante  l'eterogeneita'  delle
pronunce  cui  le  stesse  si  riferiscono:  rilievo,   questo,   che
renderebbe altresi' palese l'insussistenza  del  ventilato  contrasto
con l'art. 111 Cost. 
    Quanto, poi, alla supposta lesione dell'art. 112 Cost., la difesa
erariale  osserva  come  la  possibilita',  garantita   al   pubblico
ministero dall'art. 434 cod. proc. pen.,  di  sollecitare  la  revoca
della sentenza di non luogo a procedere  sia  preordinata  proprio  a
garantire efficacemente l'esercizio dell'azione penale. 
                       Considerato in diritto 
    1.1. - La Corte  d'appello  di  Brescia,  con  due  ordinanze  di
rimessione, sottopone  a  scrutinio  di  legittimita'  costituzionale
l'art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito  dall'art.
4 della legge 20  febbraio  2006,  n.  46  (Modifiche  al  codice  di
procedura penale, in materia di inappellabilita'  delle  sentenze  di
proscioglimento),  nella  parte  in  cui  non  consente  al  pubblico
ministero di proporre appello avverso le  sentenze  di  non  luogo  a
procedere. 
    Ad avviso della Corte rimettente, varrebbero,  in  rapporto  alla
norma censurata,  le  medesime  considerazioni  poste  a  base  delle
sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 di questa Corte: sentenze che  hanno
dichiarato  costituzionalmente  illegittime,  per  contrasto  con  il
principio di parita' delle parti  nel  processo  (art.  111,  secondo
comma, della Costituzione), le limitazioni  introdotte  dalla  citata
legge n. 46 del 2006 al potere  di  appello  del  pubblico  ministero
contro  le  sentenze  di   proscioglimento   emesse   all'esito   del
dibattimento (art. 593 cod. proc. pen.)  e  del  giudizio  abbreviato
(art. 443, comma 1, cod. proc.  pen.).  La  sottrazione  al  pubblico
ministero del potere di appello contro le sentenze  di  non  luogo  a
procedere genererebbe, difatti, anch'essa una asimmetria tra le parti
processuali non sorretta da adeguata ratio  giustificatrice  connessa
ad esigenze di funzionale e  corretta  esplicazione  della  giustizia
penale. 
    Risulterebbe leso, altresi',  l'art.  3  Cost.,  in  rapporto  al
principio di ragionevolezza, non essendo ravvisabili  motivi  atti  a
spiegare la  soppressione  di  detto  potere,  disposta  dalla  norma
denunciata in  una  situazione  nella  quale  la  parte  pubblica  e'
«totalmente soccombente», quando invece la medesima parte e' ammessa,
ai sensi dell'art. 443, comma 3, cod. proc.  pen.,  ad  appellare  in
situazioni di «soccombenza parziale». 
    Il giudice a quo rappresenta, infine, nella sola  ordinanza  r.o.
n. 375 del 2008, la violazione dell'art. 112 Cost., assumendo che  la
norma  censurata  comprimerebbe  ingiustificatamente   «la   funzione
inerente alla titolarita' dell'azione penale». 
    1.2. - La legittimita' costituzionale del nuovo  testo  dell'art.
428 cod. proc. pen.,  nella  parte  in  cui  preclude  l'appello  del
pubblico ministero contro le sentenze di non luogo  a  procedere,  e'
posta  in  dubbio  anche  dalla  Corte  militare  d'appello,  sezione
distaccata di Verona, con tre  ordinanze  di  rimessione  di  analogo
tenore. 
    Secondo la Corte rimettente, la disposizione censurata  lederebbe
l'art. 3, primo comma, Cost. sotto  un  triplice  profilo.  In  primo
luogo, perche' priverebbe  ingiustificatamente  la  pubblica  accusa,
nella «fondamentale fase»  in  cui  viene  formulata  la  domanda  di
giudizio, del potere di richiedere  un  completo  riesame  di  merito
della decisione a se' sfavorevole:  potere  che  -  a  seguito  delle
sentenze della Corte n. 26 e n.  320  del  2007  -  le  viene  invece
riconosciuto nelle ulteriori fasi del  processo.  In  secondo  luogo,
perche' accorderebbe al pubblico ministero un mezzo di impugnazione -
il  ricorso  per  cassazione  -  inadeguato  rispetto  al   tipo   di
valutazione che sovrintende alla sentenza di non  luogo  a  procedere
(l'insostenibilita' dell'accusa in giudizio), trasformando, di fatto,
quest'ultima in una «pietra tombale». In terzo  luogo  e  da  ultimo,
perche' determinerebbe una irragionevole  disparita'  di  trattamento
fra i  procedimenti  con  udienza  preliminare  e  i  procedimenti  a
citazione diretta, nei quali, da un lato, la domanda di giudizio  del
pubblico ministero determina senz'altro  la  fissazione  dell'udienza
dibattimentale; e, dall'altro, la parte pubblica  -  dopo  le  citate
sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 - resta abilitata  ad  appellare  la
decisione conclusiva del giudizio di primo grado. 
    La norma denunciata si porrebbe, altresi', in  contrasto  con  il
principio di parita' delle parti  (art.  111,  secondo  comma,  primo
periodo, Cost.), giacche' mentre per l'imputato il  piu'  sfavorevole
degli esiti dell'udienza preliminare e' rappresentato  dal  rinvio  a
giudizio, ossia da un provvedimento «meramente  interlocutorio»,  che
non pregiudica la possibilita' di far valere le  opportune  doglianze
di merito contro il provvedimento conclusivo del  giudizio  di  primo
grado; per l'accusa, invece, la sentenza di  non  luogo  a  procedere
comporterebbe  la  pressoche'  definitiva  negazione  delle   ragioni
pubblicistiche sottese all'esercizio dell'azione penale. 
    Verrebbe leso, ancora, il principio  di  ragionevole  durata  del
processo (art. 111, secondo comma, secondo periodo, Cost.), in quanto
il trasferimento alla Corte  di  cassazione  dell'impugnazione  della
sentenza di non luogo a procedere determinerebbe, nel caso di mancata
conferma della sentenza stessa, la regressione del procedimento,  con
illogico allungamento dei relativi tempi di definizione. 
    La nuova formulazione dell'art. 428 cod. proc.  pen.  violerebbe,
da ultimo, il principio di obbligatorieta' dell'azione  penale  (art.
112 Cost.), ponendo un limite che incide sull'atto  di  esercizio  di
tale azione, che non ha raggiunto l'obiettivo di accedere al giudizio
dibattimentale. 
    2. - Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche  od
analoghe, relative alla medesima norma, onde i relativi giudizi vanno
riuniti per essere definiti con unica decisione. 
    3. - La questione non e' fondata. 
    4. - Va escluso, in primo luogo, che la norma censurata determini
un vulnus al principio di parita' delle parti nel processo (art. 111,
secondo comma, Cost.) analogo a quello riscontrato dalle sentenze  n.
26  e  n.  320  del  2007  di  questa  Corte,  con  riferimento  alla
soppressione del potere di appello del pubblico ministero avverso  le
sentenze di proscioglimento emesse in esito al giudizio  ordinario  e
al giudizio abbreviato. 
    Nelle citate sentenze del 2007, questa Corte ha difatti  rilevato
che le disposizioni allora censurate (i novellati artt.  593  e  443,
comma 1, cod. proc. pen.) determinavano una «dissimmetria  radicale»,
facendo si' che una sola delle parti, e non l'altra, fosse  abilitata
a  chiedere  la  revisione  nel  merito   della   pronuncia   a   se'
completamente sfavorevole (l'imputato poteva appellare la sentenza di
condanna, che disattende la sua "pretesa di innocenza";  il  pubblico
ministero  solo  ricorrere  per  cassazione  contro  la  sentenza  di
proscioglimento,  che  respinge  integralmente  l'istanza  punitiva).
Dissimmetria che, per i suoi concorrenti caratteri di «generalita»  e
«unaliteralita»,  e'  stata   reputata   eccedente   i   margini   di
tollerabilita' connaturali al  principio  di  parita'  tra  accusa  e
difesa, il quale pure non puo' obliterare le «fisiologiche differenze
che connotano le posizioni delle due parti  necessarie  del  processo
penale, correlate  alle  diverse  condizioni  di  operativita'  e  ai
differenti  interessi  dei  quali,  anche  alla  luce  dei   precetti
costituzionali, le parti stesse sono portatrici» (cosi',  in  specie,
la sentenza n. 26 del 2007). 
    Diversamente dalla sentenza di proscioglimento,  la  sentenza  di
non luogo a procedere, emessa all'esito dell'udienza preliminare, non
rappresenta l'alternativa alla condanna, ma  al  rinvio  a  giudizio:
nell'udienza preliminare non si procede  ad  un  giudizio  pieno  sul
merito dell'imputazione, accertando la responsabilita' dell'imputato,
ma si verifica l'utilita' o meno del dibattimento alla stregua di una
prognosi sulla sostenibilita' dell'accusa in giudizio. Anche dopo  il
significativo  accrescimento  dei  poteri  del  giudice  dell'udienza
preliminare, operato  dalla  legge  16  dicembre  1999,  n.  479,  la
decisione di detto giudice resta difatti  fondamentalmente  calibrata
in quella chiave prognostica (sentenza n. 384 del 2006). 
    Cio' posto, vale osservare che se, con la novella  del  2006,  il
potere di appello contro la sentenza di  non  luogo  a  procedere  e'
stato sottratto ad entrambe le  parti;  per  altro  verso,  l'epilogo
alternativo  dell'udienza  preliminare,  sfavorevole  all'imputato  -
ossia il decreto di rinvio a giudizio - non e' impugnabile  da  parte
di alcuno. 
    Ne' e' dirimente l'obiezione che i due  provvedimenti  hanno  una
diversa portata sostanziale: giacche' mentre la sentenza di non luogo
a procedere paralizza  la  pretesa  punitiva  avanzata  dal  pubblico
ministero, il decreto di rinvio a giudizio si limita a determinare il
passaggio alla fase dibattimentale, contro il cui epilogo - ove a se'
sfavorevole - l'imputato potra' comunque proporre appello. 
    A prescindere, infatti, da ogni rilievo circa la possibilita'  di
porre a raffronto, ai presenti fini,  esiti  alternativi,  non  della
stessa fase, ma di fasi processuali successive ed eterogenee,  quanto
ad oggetto dell'accertamento e base decisionale (udienza  preliminare
e dibattimento), si deve osservare che la «paralisi» della domanda di
giudizio del pubblico ministero, conseguente  alla  sentenza  di  non
luogo a procedere, non e' comunque  definitiva.  A  differenza  della
sentenza di proscioglimento, la sentenza di non luogo a procedere non
e' idonea a dispiegare effetti preclusivi irremovibili, anche dopo lo
spirare dei  termini  di  impugnazione:  in  aggiunta  al  potere  di
ricorrere  per  cassazione,  il  pubblico  ministero  resta   difatti
abilitato ad ottenerne in ogni tempo la revoca (salvi solo  i  limiti
di prescrizione del reato), quando sopravvengano o si scoprano  nuove
prove che, da sole o unitamente  a  quelle  gia'  acquisite,  possano
determinare il rinvio a giudizio (art. 434 cod.  proc.  pen.),  cosi'
mutando il giudizio prognostico  negativo  implicato  dalla  sentenza
medesima. 
    In tale cornice, si deve dunque concludere che la scelta  operata
con la norma denunciata  rappresenta  esercizio  di  discrezionalita'
legislativa, non esorbitante dai confini  di  compatibilita'  con  il
parametro  costituzionale  evocato.  Allo  stesso  modo  in  cui  non
contrastava con il principio di parita'  delle  parti  la  disciplina
previgente, laddove attribuiva al pubblico ministero  un'ampia  gamma
di strumenti per rimuovere la sentenza  di  non  luogo  a  procedere,
cumulando alla facolta' di appello la possibilita' di chiederne  sine
die la revoca; cosi' pure non confligge con  detto  parametro  quella
attuale, che ha escluso, in via  generale,  un  controllo  di  merito
sulla delibazione operata dal giudice  dell'udienza  preliminare.  Si
tratta di scelta - condivisibile o meno, sul piano  dell'opportunita'
- comunque rimessa alla discrezionalita' del legislatore ordinario. 
    5.  -  E'  gia'  insita,  per  altro  verso,  in  quanto  precede
l'insussistenza della violazione dell'art.  3  Cost.,  dedotta  dalla
Corte militare d'appello, sezione  distaccata  di  Verona,  sotto  il
profilo della ingiustificata disparita'  di  trattamento,  quanto  al
regime di impugnazione, tra la sentenza di non luogo a procedere e le
sentenze di proscioglimento pronunciate a seguito del dibattimento  e
del giudizio abbreviato (decisioni, queste ultime,  che  il  pubblico
ministero e' abilitato ad appellare per effetto delle sentenze n.  26
e n. 320 del 2007). 
    La sentenza di non luogo  a  procedere  e',  difatti,  eterogenea
sotto plurimi aspetti - oggetto dell'accertamento, base  decisionale,
regime di stabilita' e carenza di efficacia extrapenale - rispetto ai
tertia comparationis: circostanza sulla quale questa  Corte  ha  gia'
avuto  modo  di  porre  l'accento  in   rapporto   a   questioni   di
costituzionalita' analoghe a quella in  esame,  rispetto  alle  quali
assumeva rilievo pregiudiziale (diversamente che nel caso odierno) il
problema dell'applicabilita' o meno alle  sentenze  di  non  luogo  a
procedere della disciplina transitoria  dettata  dall'art.  10  della
legge n. 46 del 2006 con riguardo alle sentenze di  «proscioglimento»
(ordinanze n. 156 e n. 4 del 2008). 
    6. - Neppure e' estensibile al nuovo art. 428 cod. proc.  pen.  -
contrariamente a quanto assume la Corte d'appello di Brescia, che  ne
fa oggetto di autonoma censura in rapporto all'art. 3 Cost. - l'altro
argomento posto a fondamento delle sentenze n. 26 e n. 320 del  2007:
ossia l'incoerenza connessa al fatto che i novellati artt. 593 e 443,
comma 1, cod. proc. pen. privassero il pubblico ministero del  potere
di proporre appello contro la pronuncia  totalmente  sfavorevole  (il
proscioglimento), quando invece la parte pubblica restava legittimata
ad appellare contro  sentenze  che  disattendono  solo  in  parte  le
istanze dell'accusa (quale la condanna a pena ritenuta non congrua  o
con mutamento del titolo del reato). 
    L'ipotesi  di  un  accoglimento  solo  parziale   delle   istanze
dell'accusa non e', infatti, configurabile nell'udienza  preliminare,
all'esito della quale il pubblico  ministero  o  vede  accogliere  la
propria richiesta di giudizio o la vede  respingere.  Ne'  il  vulnus
costituzionale  puo'  essere  desunto  -  come  pretende   la   Corte
rimettente (la quale evoca, in specie,  l'art.  443,  comma  3,  cod.
proc. pen., in tema di appellabilita' da parte del pubblico ministero
della sentenza di condanna emessa a seguito di  giudizio  abbreviato,
qualora abbia modificato il titolo del reato) - ponendo  a  raffronto
il regime di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere con
quello della sentenza di condanna: essendo quest'ultima una  sentenza
che pronuncia in  modo  pieno  sul  merito  dell'imputazione  e  che,
pertanto, rappresenta nuovamente un tertium comparationis  eterogeneo
(la sentenza n. 206 del 1997). 
    7. - Del tutto inconferente  risulta  poi  il  richiamo,  operato
dalla Corte militare d'appello, sezione distaccata  di  Verona,  alla
sentenza n. 85 del 2008 di  questa  Corte,  che  ha  ripristinato  il
potere di appello dell'imputato contro le sentenze di proscioglimento
dibattimentali con formula non ampiamente liberatoria, nell'ottica di
rimuovere una riscontrata posizione  di  svantaggio,  in  parte  qua,
dell'imputato rispetto al pubblico ministero  e  alla  parte  civile.
Posizione di svantaggio che nella specie non ricorre  e  che  non  si
vede, in ogni caso, come potrebbe rilevare rispetto  al  petitum  del
giudice rimettente, che e' di ripristino del potere di appello  della
parte contrapposta (il pubblico ministero). 
    8. - Insussistente e', ancora, la violazione dell'art.  3  Cost.,
ipotizzata dalla medesima Corte militare di appello sotto l'ulteriore
profilo della inadeguatezza dell'unico rimedio accordato al  pubblico
ministero  -  il  ricorso  per  cassazione  -  rispetto  al  tipo  di
valutazione  sotteso  alla  sentenza  di  non   luogo   a   procedere
(l'insostenibilita' dell'accusa in giudizio), in quanto apprezzamento
di ordine  prettamente  fattuale:  inadeguatezza  che  trasformerebbe
detta  sentenza  in  un  disconoscimento  definitivo  delle   ragioni
dell'accusa. 
    Anche a prescindere dalla perdurante possibilita' di revoca della
sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 434  cod.  proc.
pen., e' assorbente il rilievo che la  censura  in  esame  resta  sul
piano della mera critica di opportunita'.  Critica  che,  peraltro  -
almeno nei termini perentori in cui e' formulata dal rimettente - non
appare confortata dall'esperienza giurisprudenziale, nella quale  non
possono dirsi assenti, ne' assolutamente eccezionali, le  ipotesi  di
accoglimento del ricorso per cassazione del pubblico ministero contro
le  sentenze   in   questione   (e   cio'   anche   in   correlazione
all'ampliamento della griglia dei motivi  di  ricorso  operato  dalla
stessa legge n. 46 del 2006, che in particolare  ha  esteso,  con  il
nuovo art. 606, comma 1, lettera e, cod. proc. pen., il vaglio  della
Cassazione  al  vizio  di   «contraddittorieta»   della   motivazione
emergente non solo dal testo del provvedimento  impugnato,  ma  anche
«da altri atti del processo specificamente  indicati  nei  motivi  di
gravame»). 
    E' sintomatica, d'altronde, la circostanza che, nel caso  di  cui
all'ordinanza r.o. n. 187  del  2008,  il  pubblico  ministero  abbia
dedotto,  con  l'atto  di  appello,  motivi  che  appaiono  di   mera
legittimita' (il  richiamo  agli  orientamenti  della  giurisprudenza
della Corte di cassazione sul concetto di «inidoneita'  dell'azione»)
e che, come tali, risulterebbero deducibili anche con il ricorso  per
cassazione. 
    9. - Infondata e', parimenti, la censura di violazione  dell'art.
3 Cost. - formulata anch'essa dalla Corte militare d'appello, sezione
distaccata  di  Verona  -  sotto  il  profilo  della   ingiustificata
disparita' di trattamento tra procedimenti  con  udienza  preliminare
(sempre prevista nel processo penale militare, stante  la  necessaria
collegialita' del giudice) e procedimenti a  citazione  diretta,  nei
quali ultimi, per un verso,  la  domanda  di  giudizio  del  pubblico
ministero    sfocia    nell'immediata     fissazione     dell'udienza
dibattimentale, senza correre il rischio di  un  «blocco  prematuro»,
non censurabile dalla pubblica accusa quanto ai profili di merito; e,
per altro verso, la parte pubblica - dopo le sentenze n. 26 e n.  320
del 2007 - resta comunque  abilitata  ad  appellare  la  sentenza  di
proscioglimento emessa a conclusione del giudizio di primo grado. 
    La denunciata disparita' di regime non puo'  essere  considerata,
infatti - secondo quanto opina il rimettente - come  una  irrazionale
limitazione della tutela della pubblica accusa nei procedimenti per i
reati piu' gravi e di maggiore allarme sociale (quali quelli per  cui
e'  prevista  l'udienza  preliminare),  ma   rappresenta   solo   una
conseguenza  del  diverso  modulo  processuale:  modulo  che,  per  i
procedimenti a citazione diretta, disegnati con maggior snellezza  di
forme in considerazione sia del numero che della qualita'  non  grave
dei  reati,  consente  l'apertura  della  fase  dibattimentale  senza
passare attraverso il filtro  dell'udienza  preliminare  (in  termini
analoghi, si veda la sentenza n. 381 del 1992, chiamata a  scrutinare
la legittimita' costituzionale dello stesso art. 428 cod. proc. pen.,
nel testo originario, con riferimento alla disparita' di  trattamento
della persona offesa dal reato di  diffamazione,  a  seconda  che  si
trattasse di diffamazione semplice o a mezzo stampa). 
    10. - Quanto alla censura della stessa Corte militare  d'appello,
di contrarieta' del nuovo disposto dell'art. 428 cod. proc.  pen.  al
principio di ragionevole  durata  del  processo  (art.  111,  secondo
comma, Cost.), e' dirimente il rilievo  che  -  secondo  quanto  gia'
affermato in piu'  occasioni  da  questa  Corte  -  una  lesione  del
predetto principio non e' comunque configurabile  ove  l'allungamento
dei  tempi  del  procedimento,  eventualmente  indotto  dalla   norma
denunciata, risulti compensato dal possibile risparmio  di  attivita'
processuali su altri versanti: rimanendo, in tal caso, affidata  alla
discrezionalita' legislativa la valutazione comparativa tra «costi» e
«benefici» della scelta operata (sentenze n. 64 del 2009 e n. 298 del
2008, quest'ultima con riferimento alla soppressione  del  potere  di
appello del pubblico ministero contro  le  sentenze  del  giudice  di
pace). 
    Nel caso in esame, a prescindere da ogni apprezzamento di merito,
l'effetto  negativo   indotto   dalla   eventuale   regressione   del
procedimento - conseguente al fatto che, nel caso di accoglimento del
gravame del pubblico ministero, la Corte di cassazione (a  differenza
della corte d'appello) non puo' direttamente emettere il  decreto  di
citazione a giudizio,  ma  deve  annullare  con  rinvio  la  sentenza
impugnata - appare  comunque  compensato,  in  termini  di  riduzione
complessiva dei tempi necessari alla celebrazione del processo, dalla
eliminazione del secondo grado di giudizio  (che  vale  a  comprimere
tali tempi,  specie  nel  caso  in  cui  le  doglianze  del  pubblico
ministero risultassero infondate). 
    11. - Vanno disattese,  infine,  le  censure  di  violazione  del
principio di obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale  (art.
112 Cost.),  formulate  da  entrambi  i  giudici  rimettenti,  stante
l'inconferenza del parametro evocato. 
    La giurisprudenza di questa Corte e'  da  tempo  consolidata  nel
senso che il  potere  di  impugnazione  del  pubblico  ministero  non
costituisce   estrinsecazione   necessaria   dei   poteri    inerenti
all'esercizio dell'azione penale (sentenza n. 280 del 1995; ordinanze
n. 165 del 2003, n. 347 del 2002, n. 421 del 2001 e n. 426 del  1998;
si vedano, altresi', con riferimento a disposizioni della legge n. 46
del 2006, le sentenze n. 298 del 2008 e n. 26 del  2007).  Principio,
questo, che - contrariamente a quanto mostra  di  ritenere  la  Corte
militare d'appello, sezione distaccata  di  Verona  -  non  e'  stato
affatto affermato con esclusivo riferimento alle  sentenze  emesse  a
seguito di giudizio abbreviato, ma in  termini  generali,  e  dunque,
anche - e prima  di  tutto  -  con  riguardo  all'impugnazione  delle
sentenze dibattimentali (sentenza n. 280 del 1995; si  veda  pure  la
sentenza  n.  26  del  2007),  nonche'  -  per  quanto  al   presente
specificamente interessa - delle  stesse  sentenze  di  non  luogo  a
procedere (sentenza n. 206 del  1997).  A  corroborare  l'assunto  in
parola giova ricordare la discrezionalita' riconosciuta  al  pubblico
ministero nella scelta se proporre o meno impugnazione. 
    Tutto cio' a prescindere dal rilievo che la  norma  censurata  si
limita ad eliminare il doppio grado  di  giurisdizione  di  merito  -
privo, di per se', di  riconoscimento  costituzionale  -  permettendo
comunque  al  pubblico  ministero  di  attivare   il   controllo   di
legittimita',  con  i  piu'  ampi  margini  di  verifica  prefigurati
dall'attuale testo dell'art. 606 cod. proc. pen., e salva  sempre  la
possibilita' di revoca della sentenza di non luogo  a  procedere  nel
caso di novum probatorio, ai sensi  dell'art.  434  cod.  proc.  pen.
Situazione  nella   quale   non   potrebbe   comunque   parlarsi   di
compromissione definitiva della pretesa fatta valere  dalla  pubblica
accusa, come conseguenza della norma denunciata. 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
    Riuniti i giudizi, 
    Dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art.  428  del  codice  di  procedura  penale,  come  sostituito
dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al  codice
di procedura penale, in materia di inappellabilita' delle sentenze di
proscioglimento),  sollevate,  in  riferimento  agli  artt.  3,  111,
secondo comma, e 112 della Costituzione,  dalla  Corte  d'appello  di
Brescia e dalla  Corte  militare  d'appello,  sezione  distaccata  di
Verona, con le ordinanze indicate in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2009. 
                       Il Presidente: Amirante 
                         Il redattore: Frigo 
                       Il cancelliere: Milana 
    Depositata in cancelleria il 24 luglio 2009. 
                       Il cancelliere: Milana