N. 266 SENTENZA 8 - 23 ottobre 2009

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Ordinamento penitenziario - Funzioni del magistrato di sorveglianza -
  Attribuzione, secondo l'interpretazione vigente, della competenza a
  decidere  in  ordine  alle  lesioni  dei   diritti   dei   detenuti
  conseguenti ad atti dell'amministrazione penitenziaria - Denunciata
  limitazione della effettivita' della tutela giurisdizionale nonche'
  violazione dei principi di eguaglianza, del giusto processo  e  del
  buon andamento  della  pubblica  amministrazione,  del  diritto  di
  difesa  e  della  finalita'  rieducativa  della   pena   -   Omessa
  formulazione di un petitum specifico; richiesta di  intervento  che
  postula scelte discrezionali spettanti al  legislatore  e  precluse
  alla   Corte;   omessa    verifica    della    praticabilita'    di
  un'interpretazione conforme a Costituzione - Inammissibilita' della
  questione. 
- Legge 26 luglio 1975, n. 354, artt. 35, 14-ter e 71. 
- Costituzione, artt. 3, 24, primo comma, 27, terzo comma, 97,  primo
  comma, 111, primo e secondo comma, e 113. 
(GU n.43 del 28-10-2009 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo  MADDALENA, Alfio  FINOCCHIARO, Alfonso
  QUARANTA, Franco  GALLO, Luigi  MAZZELLA, Gaetano  SILVESTRI, Maria
  Rita  SAULLE, Giuseppe  TESAURO, Paolo  Maria  NAPOLITANO, Giuseppe
  FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI; 
ha pronunciato la seguente 
                              Sentenza 
nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 35,  14-ter  e
71 della  legge  26  luglio  1975,  n.  354  (Norme  sull'ordinamento
penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative  e  limitative
della liberta'), promossi dal Magistrato di  sorveglianza  di  Nuoro,
con due ordinanze dell'11 febbraio 2009, iscritte ai nn.  100  e  101
del registro ordinanze 2009 e  pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica n. 15, 1ª serie speciale, dell'anno 2009; 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella Camera di consiglio del 23 settembre 2009 il  giudice
relatore Alessandro Criscuolo. 
                          Ritenuto in fatto 
    1. - Il Magistrato di sorveglianza di Nuoro, con due ordinanze di
analogo tenore in data 27 gennaio 2009, ha sollevato, in  riferimento
agli articoli 3, 24, primo comma, 27, terzo comma, 97,  primo  comma,
111, primo e secondo comma, e 113 della Costituzione, «ed ai principi
generali   sulla   giurisdizione»,    questione    di    legittimita'
costituzionale degli articoli 35, 14-ter e 71 della legge  26  luglio
1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e  sull'esecuzione
delle   misure    privative    e    limitative    della    liberta'),
«nell'interpretazione  vigente  che  attribuisce  al  magistrato   di
sorveglianza la competenza a decidere  in  ordine  alle  lesioni  dei
diritti e delle posizioni giuridiche dei detenuti conseguenti ad atti
e provvedimenti dell'amministrazione penitenziaria». 
    2. - Il rimettente, all'esito dell'udienza  celebrata  a  seguito
della   procedura   di   cui   all'art.    14-ter    dell'ordinamento
penitenziario, con la partecipazione del  difensore  e  del  pubblico
ministero, riferisce di essere chiamato a decidere  su  due  reclami,
presentanti da altrettanti detenuti in espiazione di pena nella  casa
circondariale di Nuoro. I reclamanti hanno chiesto al  Magistrato  di
sorveglianza di decidere in ordine alla loro permanenza nel  circuito
detentivo E. I. V.  (Elevato  Indice  di  Vigilanza),  istituito  con
circolare del  Dipartimento  dell'amministrazione  penitenziaria  del
Ministero della giustizia n. 3479/5929 del 9 luglio 1998 e  destinato
alla custodia dei detenuti di «particolare pericolosita' soggettiva».
Essi  sono  stati  inseriti  in  tale  circuito  contestualmente   al
trasferimento  nella  detta  casa  circondariale,  a  seguito   della
dichiarazione   d'inefficacia    del    decreto    ministeriale    di
sottoposizione  al   regime   speciale   di   cui   all'art.   41-bis
dell'ordinamento penitenziario, in forza di ordinanze  dell'8  giugno
2005 e del 17 gennaio 2006 dei Tribunali di sorveglianza di Torino  e
di Roma. 
    3. - Il giudice a quo espone che le doglianze  dei  due  detenuti
riguardano il regime cui sono sottoposti e l'idoneita' dello stesso a
garantire il perseguimento del percorso di rieducazione, a  cui  deve
tendere l'esecuzione della pena, possibilmente  attraverso  strumenti
adeguati alla sua realizzazione, come stabilito dall'art.  27,  terzo
comma, Cost. 
    E' specifico dovere dell'amministrazione penitenziaria - prosegue
il rimettente  -  fornire  al  detenuto  un  trattamento  rieducativo
adeguato  e  conforme  alle  sue  reali  condizioni   e   necessita',
periodicamente riscontrate e valutate in relazione alle modificazioni
dei comportamenti e della personalita'. A tale dovere corrisponde  il
diritto del  detenuto  ad  un'esecuzione  della  pena  organizzata  e
modulata in guisa da consentirgli di realizzare un percorso reale  di
recupero e risocializzazione,  diritto  costituzionalmente  garantito
che scaturisce proprio dalla condizione di detenuto in espiazione  di
pena ed e' funzionale alla realizzazione dei principi di  uguaglianza
e pari dignita' sociale, che l'art. 3, primo comma, Cost. assicura  a
tutti i cittadini. 
    In questo quadro si pone il problema dell'esperibilita', da parte
del reclamante, di adeguati strumenti giurisdizionali per  la  tutela
effettiva della speciale posizione giuridica che  egli  assume  lesa,
cioe'  del  diritto  ad  un  trattamento  penitenziario   consono   e
rispondente al concreto grado di «rieducazione» conseguito,  tale  da
non vanificare i progressi realizzati in termini di  acquisizione  di
adeguate capacita' di onesto reinserimento nella societa' libera. 
    In particolare, va verificato se  il  rimedio  generale  previsto
dall'art. 35 dell'ordinamento  penitenziario  costituisca,  nel  caso
specifico, strumento idoneo a decidere sulla lesione  -  per  atti  o
fatti dell'amministrazione relativi all'assegnazione al  circuito  E.
I. V. del detenuto e alla sua permanenza ad libitum  nello  stesso  -
del  diritto  del  medesimo  detenuto  alla  «rieducazione»   e   se,
attraverso questo strumento, il magistrato di  sorveglianza  possa  e
debba adottare provvedimenti conseguenti di  natura  giurisdizionale,
dotati di forza cogente,  diversi  ed  ulteriori  rispetto  a  quelli
costituenti espressione del  dovere  di  vigilanza  e  prospettazione
attribuitogli  dall'art.  69,  primo  e  secondo  comma,  del   detto
ordinamento ovvero del previsto potere/dovere d'impartire, nel  corso
del  trattamento,  disposizioni  dirette   ad   eliminare   eventuali
violazioni dei diritti dei  condannati,  come  stabilito  dal  quinto
comma della stessa norma. 
    4. - Il rimettente ricostruisce la vicenda giurisprudenziale  del
diritto  di  reclamo  disciplinato  dall'art.   35   dell'ordinamento
penitenziario  e  dall'art.  70  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica del 30 giugno 2000,  n.  230  (Regolamento  recante  norme
sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e  limitative
della liberta'). 
    Nel  richiamare  la  sentenza  n.  26  del   1999   della   Corte
costituzionale,  egli  osserva  che,  a   seguito   di   questa,   la
giurisprudenza dei  magistrati  di  sorveglianza  e  della  Corte  di
cassazione, nonche' parte della dottrina, ha configurato ex  novo  il
reclamo  di  cui  al  citato  art.   35,   attribuendogli   carattere
giurisdizionale nel prevedere la possibilita'  di  decidere  mediante
l'adozione della procedura prevista dagli artt. 69,  sesto  comma,  e
14-ter per i reclami dei detenuti e degli internati  concernenti:  a)
l'attribuzione  della  qualifica  lavorativa,   la   mercede   e   la
remunerazione, nonche' lo svolgimento delle attivita' di tirocinio  e
di lavoro e le assicurazioni sociali; b) le condizioni  di  esercizio
del potere disciplinare, la costituzione e la competenza  dell'organo
disciplinare, la  contestazione  degli  addebiti  e  la  facolta'  di
discolpa. 
    Il giudice a quo  ricorda,  quindi,  i  contrasti  insorti  nella
giurisprudenza  e  pone  l'accento  sulla  sentenza  della  Corte  di
cassazione (Sezioni unite penali, 26 febbraio 2003, n.  25079),  resa
per decidere su quei contrasti. Osserva che detta pronunzia, partendo
dall'analisi della sentenza di questa Corte  n.  26  del  1999  e  di
quelle precedenti, enuncia il principio secondo cui  «l'esistenza  di
un microsistema entro il quale  lo  stato  di  detenzione,  lasciando
sopravvivere posizioni soggettive e spazi di  tutela  giurisdizionale
coincidenti  col  diritto  di  azione,  anche  a  prescindere   dalle
tipizzazioni stratificate da novazioni  legislative  o  da  decisioni
della  Corte  costituzionale,  impone  la  verifica  dello  strumento
attivabile, da attivare sempre e comunque in un  modello  diretto  ad
investire la magistratura di sorveglianza». 
    All'esito di tale verifica, il giudice di  legittimita'  perviene
all'interpretazione secondo cui il mezzo di tutela contro la  lesione
delle  posizioni  soggettive  del  detenuto  non  puo'   che   essere
ricondotto agli artt. 14-ter, 69 e 71 dell'ordinamento penitenziario. 
    Ad avviso del rimettente, il significato  della  decisione  delle
Sezioni  unite  penali,  per  quanto  qui  interessa,  «e'   che   la
dichiarazione  di   incostituzionalita'   degli   artt.   35   e   69
dell'ordinamento penitenziario, lasciando sopravvivere gli stessi (in
particolare il 35) si sia risolta, in sostanza,  in  un  invito  alla
magistratura  di  sorveglianza  monocratica  ad  adottare,   per   la
decisione dei reclami dei detenuti,  pur  in  assenza  di  specifiche
previsioni  legislative,   modelli   procedimentali   predisposti   e
disciplinati in relazione a materie particolari, comunque  rientranti
nella  competenza   giurisdizionale   assegnatagli   dall'ordinamento
penitenziario ed idonei, percio' stesso, ad elidere, superandolo  per
via interpretativa, il vizio di costituzionalita' "parziale" rilevato
dal giudice delle leggi». 
    Tuttavia, secondo il giudice  a  quo,  la  sentenza  della  Corte
costituzionale n. 341 del  2006  -  dichiarativa  dell'illegittimita'
costituzionale dell'art. 69, sesto comma, lettera a), della legge  n.
354 del 1975 - avrebbe messo in crisi  il  modello  di  «integrazione
interpretativa» delineato dalle Sezioni unite penali della  Corte  di
cassazione. Infatti, sarebbe stato sgombrato dal campo interpretativo
«il  canone  secondo  cui  tutto  quel  che  attiene  al  trattamento
penitenziario, in ossequio al principio  della  funzione  rieducativa
della pena, sia sempre e comunque  demandato  alla  cognizione  della
magistratura di  sorveglianza,  indipendentemente  dalla  natura  dei
diritti e degli interessi coinvolti ed a prescindere dagli  strumenti
processuali disponibili». 
    In questa prospettiva, anche la  funzione  di  rimedio  generale,
assegnata all'art. 35 della legge n. 354 del 1975, integrato  in  via
interpretativa con il ricorso alla procedura di cui agli artt. 14-ter
e 71 della stessa legge, risulta  essere  non  piu'  appagante  quale
norma di  chiusura  del  «microsistema»  del  diritto  penitenziario,
sicche' nascono di nuovo i dubbi  sulla  legittimita'  costituzionale
del citato art.  35,  nell'interpretazione  configurata  dal  diritto
vivente. 
    In particolare,  nel  caso  in  esame,  il  rimettente  considera
fondato il dubbio che il reclamo  previsto  nella  detta  norma,  pur
deciso con la  procedura  di  cui  all'art.  14-ter  dell'ordinamento
penitenziario,    possa    non    assicurare    al    reclamante    e
all'amministrazione  controinteressata  la   tutela   giurisdizionale
prevista dall'art. 113, primo comma, Cost., tutela  che  puo'  essere
soltanto quella disciplinata dall'art. 111, primo  e  secondo  comma,
Cost., attraverso il giusto processo regolato dalla legge, svolto nel
contraddittorio delle parti in condizioni di parita', davanti  ad  un
giudice terzo e imparziale. 
    In primo luogo, i citati artt. 14-ter  e  71  non  prevedono  che
l'amministrazione sia  parte  nel  procedimento,  potendo  presentare
soltanto memorie, mentre e' previsto che il reclamante, oltre a poter
presentare memorie, partecipi ad esso col ministero del difensore. 
    Inoltre, il dato che il magistrato  di  sorveglianza  sia  organo
deputato a vigilare sull'organizzazione degli istituti di prevenzione
e  pena  ed  abbia  il  dovere  di  prospettare   all'amministrazione
penitenziaria  anche  le   esigenze   relative   all'attuazione   del
trattamento rieducativo nei confronti  dei  detenuti,  impartendo  le
disposizioni destinate ad eliminare le violazioni dei  diritti  degli
stessi, lascia ritenere, ad avviso del rimettente, che, qualora  egli
nulla abbia segnalato a fronte di determinati  atti  o  comportamenti
dell'amministrazione penitenziaria, per cio' solo li  abbia  ritenuti
legittimi. Qualora,  invece,  abbia  chiesto  all'amministrazione  di
apportare  delle  modifiche,  avrebbe  palesato  di  considerare  non
conformi al diritto quegli atti o comportamenti. 
    In entrambi i casi potrebbe sorgere il dubbio che  il  magistrato
di sorveglianza non sia giudice terzo, «a meno di  non  ritenere,  ma
cio' in evidente contrasto con il secondo comma dell'art.  113  della
Costituzione, che la tutela giurisdizionale nei confronti degli  atti
dell'amministrazione  penitenziaria,  relativi  al  trattamento   dei
detenuti, sia esclusa  perche'  limitata  al  mezzo  di  impugnazione
costituito  dal  reclamo  ai  sensi  dell'art.  35   dell'ordinamento
penitenziario». 
    Se poi  il  magistrato  di  sorveglianza  dovesse  ritenere,  con
decisione assunta con la procedura di cui  agli  artt.  14-ter  e  71
dell'ordinamento    penitenziario,    che    l'atto    o    l'inerzia
dell'amministrazione si siano concretati in un'effettiva lesione  del
diritto del detenuto, bisogna chiedersi quale  valore  vincolante  la
sua  decisione  potrebbe  avere  nei  confronti  dell'amministrazione
medesima. 
    Escluso che l'atto  illegittimo,  senza  espressa  previsione  di
legge (art. 113, terzo comma,  Cost.),  possa  essere  annullato  con
pronunzia del giudice ordinario, o che il magistrato di  sorveglianza
in caso d'inerzia  possa  nominare  un  commissario  ad  acta,  anche
l'eventuale disapplicazione dell'atto illegittimo  sarebbe  priva  di
effettivita', quanto alla reale tutela  del  diritto  al  trattamento
rieducativo,  perche'  questo  si  svolge   tutto   attraverso   atti
dell'amministrazione penitenziaria, emanati  ed  applicati  dai  suoi
stessi organi ai vari  livelli.  Pertanto,  seppure  determinata  con
l'adozione della procedura di cui  all'art.  14-ter  dell'ordinamento
penitenziario, ed anche se  confermata  dalla  Corte  di  cassazione,
l'ordinanza del magistrato di sorveglianza,  che  dovesse  dichiarare
illegittima l'assegnazione del detenuto al circuito  E.  I.  V.,  non
condurrebbe a far cessare la  violazione  del  diritto  del  detenuto
medesimo ad un trattamento conforme  al  grado  di  risocializzazione
conseguito. 
    L'ordinanza avrebbe, in concreto, la medesima  efficacia  di  una
segnalazione  ai  sensi  dell'art.  69,   primo   e   quarto   comma,
dell'ordinamento penitenziario e il diritto del  detenuto  rimarrebbe
privo di tutela, con l'ulteriore conseguenza di un inutile  dispendio
di mezzi ed attivita', in contrasto col principio di  buon  andamento
dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost. 
    In conclusione, secondo il rimettente, «con riferimento  all'art.
6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo,  per
le ragioni sopra esposte,  deve  ritenersi  che  l'assetto  normativo
vigente,  quale  venutosi  a  delineare   attraverso   le   decisioni
interpretative  dei  giudici  di  merito  e  di   legittimita',   non
garantisca al reclamante e all'amministrazione  controinteressata  la
possibilita' di rivolgersi ad un giudice terzo il  quale,  attraverso
un giusto processo svolto in contraddittorio tra le parti, assuma una
decisione che della giurisdizione non abbia solo il nome e  la  forma
ma anche la sostanza e la forza vincolante». 
    La  questione,  ad  avviso  del  giudice  a  quo,  e'  rilevante,
«attenendo  alla  sussistenza   della   giurisdizione   del   Giudice
rimettente  nel  procedimento  in  corso;  attenendo  altresi'   alla
concreta efficacia dell'ordinanza nella  quale  sarebbe  destinato  a
culminare il procedimento». 
    5. - Il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha  spiegato  intervento
in entrambi i  giudizi  di  legittimita'  costituzionale,  sostenendo
l'infondatezza della questione. 
    A suo avviso, la tutela assicurata ai diritti  e  alle  posizioni
giuridiche dei detenuti dal combinato disposto degli artt. 35, 14-ter
e 71 della legge n. 354  del  1975  risulta  rispondente  ai  vigenti
principi costituzionali in materia di giurisdizione. 
    Come gia' affermato da questa Corte (sentenze n. 341 del  2006  e
n.  543  del  1983;  ordinanza  n.  121  del  1994),  la  scelta  del
legislatore in favore del rito camerale non e' illegittima in se', ma
solo in quanto non siano  assicurati  lo  scopo  e  la  funzione  del
processo, in particolare  il  contraddittorio.  La  Costituzione  non
impone un modello vincolante di processo,  lasciando  il  legislatore
ordinario libero di conformare gli istituti processuali, purche' essi
siano in grado di assicurare un nucleo minimo di difesa. 
    Non   giova   richiamare,   a   sostegno   della    tesi    sulla
incostituzionalita' della norma in questione, la circostanza che, con
la sentenza n. 341 del 2006, la Corte costituzionale abbia dichiarato
l'illegittimita' dell'art. 69, sesto comma, lettera a),  della  legge
n. 354 del 1975, in  quanto  tale  decisione  e'  giustificata  dalla
ritenuta  inidoneita'  della  disciplina  processuale  censurata   ad
assicurare lo  scopo  e  la  funzione  del  processo,  con  specifico
riferimento alle  controversie  di  lavoro  nascenti  da  prestazioni
lavorative dei detenuti. Tale ratio decidendi non puo' essere  estesa
alla disciplina  in  esame,  concernente  la  tutela  giurisdizionale
assicurata al detenuto nei confronti  di  atti  dell'amministrazione,
incidenti sul trattamento penitenziario stricto sensu. 
    Ne' puo' essere condiviso l'assunto del giudice a quo secondo cui
il  ruolo  di  vigilanza  sugli  istituti  di  prevenzione  e   pena,
istituzionalmente svolto dal magistrato di sorveglianza,  ne  farebbe
venir meno la terzieta',  qualora  fosse  chiamato  ad  accertare  la
sussistenza in concreto di lesioni delle  situazioni  giuridiche  dei
detenuti, derivanti dall'operato dell'amministrazione penitenziaria. 
    La  terzieta'  del  magistrato  di  sorveglianza  e'  un   tratto
appartenente  a  tale  organo  giudiziario  in   virtu'   della   sua
collocazione all'interno del relativo ordine. Comunque,  al  fine  di
evitare l'evenienza paventata  dal  giudice  a  quo,  soccorrono  gli
istituti  di  diritto  processuale  relativi  all'astensione  e  alla
ricusazione. 
                       Considerato in diritto 
    1. - Il Magistrato di sorveglianza di Nuoro, con le due ordinanze
di analogo tenore indicate in epigrafe, dubita - in riferimento  agli
articoli 3, 24, primo comma, 27, terzo comma, 97, primo  comma,  111,
primo e secondo comma, e  113  della  Costituzione  «ed  ai  principi
generali sulla giurisdizione»  -  della  legittimita'  costituzionale
degli articoli 35, 14-ter e 71 della legge 26  luglio  1975,  n.  354
(Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle  misure
privative e limitative della liberta'), «nell'interpretazione vigente
che  attribuisce  al  magistrato  di  sorveglianza  la  competenza  a
decidere in  ordine  alle  lesioni  dei  diritti  e  delle  posizioni
giuridiche  dei  detenuti  conseguenti  ad   atti   e   provvedimenti
dell'amministrazione penitenziaria». 
    Il giudice a quo  e'  stato  chiamato  a  decidere  sui  reclami,
proposti da due condannati in espiazione di pena reclusi  nella  casa
circondariale di Nuoro. Con i reclami, formulati ai  sensi  dell'art.
35 della legge  n.  354  del  1975,  gli  istanti  hanno  chiesto  la
«declassificazione»  dal  circuito  E.  I.  V.  (Elevato  Indice   di
Vigilanza), istituito con circolare del Ministero della  giustizia  -
Dipartimento  dell'amministrazione  penitenziaria  (D.  A.   P.)   n.
3479/5929 e destinato  alla  custodia  di  detenuti  «di  particolare
pericolosita' soggettiva». Essi sono stati inseriti in tale  circuito
contestualmente al trasferimento nella detta  casa  circondariale,  a
seguito delle dichiarazioni d'inefficacia, emesse  dai  Tribunali  di
sorveglianza di Roma e di Torino, dei provvedimenti con i quali erano
stati  sottoposti  al  regime  speciale  di   cui   all'art.   41-bis
dell'ordinamento penitenziario. 
    Il rimettente ricostruisce gli aspetti salienti  del  diritto  di
reclamo disciplinato dal citato art.  35,  richiama  la  sentenza  di
questa  Corte  n.  26  del  1999  e  le  conclusioni  alle  quali  la
giurisprudenza di legittimita' e' pervenuta,  sulla  scorta  di  tale
sentenza, individuando il procedimento di cui agli artt. 14-ter e  71
della legge n. 354 del 1975 come il piu' idoneo per la decisione  sui
reclami stessi. 
    Tuttavia, il giudice a quo ritiene tale approdo  ermeneutico  non
appagante, perche'  non  in  grado  di  assicurare  al  reclamante  e
all'amministrazione  controinteressata  la   tutela   giurisdizionale
prevista dall'art. 113, primo comma, Cost., come  meglio  esposto  in
narrativa. Afferma, pertanto, che e' configurabile la violazione  dei
parametri costituzionali sopra indicati. 
    Ad  avviso  del  Magistrato  di  sorveglianza,  la  questione  e'
rilevante,  «attenendo  alla  sussistenza  della  giurisdizione   del
Giudice remittente nel procedimento in corso; attenendo altresi' alla
concreta efficacia dell'ordinanza nella  quale  sarebbe  destinato  a
culminare il procedimento». 
    2. - I due giudizi, avendo  ad  oggetto  la  medesima  questione,
vanno riuniti per essere definiti con unica decisione. 
    3. - La questione e' inammissibile per piu' profili concorrenti. 
    4.  -  Si  deve  premettere  che,  come   emerge   dall'art.   35
dell'ordinamento penitenziario, intitolato «diritto  di  reclamo»,  i
detenuti e gli internati possono rivolgere istanze o reclami orali  o
scritti, anche in busta chiusa, a varie autorita', nella norma stessa
indicate, nonche' al magistrato di sorveglianza. L'esercizio di  tale
diritto puo' avere finalita'  diverse,  a  seconda  dell'oggetto  del
reclamo o  del  contenuto  della  domanda.  Per  quanto  riguarda  il
magistrato di sorveglianza (la cui posizione viene qui  in  rilievo),
mentre in alcune ipotesi le determinazioni che egli  e'  chiamato  ad
adottare non esorbitano dall'ambito amministrativo,  altre  volte  e'
posta in discussione la concreta tutela di un  diritto  del  detenuto
che, pur trovandosi in stato di privazione della liberta'  personale,
resta sempre titolare di diritti incomprimibili, il cui esercizio non
e'   rimesso   alla    semplice    discrezionalita'    dell'autorita'
amministrativa preposta all'esecuzione della pena detentiva e la  cui
tutela, pertanto, non sfugge al giudice dei diritti (sentenze n.  212
del 1997 e n. 410 del 1993). 
    Nel caso in esame, i reclamanti chiedono di non essere  mantenuti
in  un   regime   comportante   un   piu'   restrittivo   trattamento
penitenziario e fanno quindi  valere  situazioni  giuridiche  cui  va
riconosciuta la consistenza di diritti soggettivi. 
    Al riguardo, questa Corte, con la  citata  sentenza  n.  212  del
1997, gia' ebbe  a  porre  in  luce  che  «poiche'  nell'ordinamento,
secondo il principio di assolutezza, inviolabilita'  e  universalita'
del diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113  Cost.),  non
v'e' posizione giuridica tutelata di diritto sostanziale,  senza  che
vi sia un giudice davanti al quale essa possa essere fatta valere, e'
inevitabile  riconoscere  carattere  giurisdizionale  al  reclamo  al
magistrato di sorveglianza che l'ordinamento appresta a tale scopo». 
    Successivamente, con sentenza n. 26 del 1999, questa Corte,  dopo
aver rilevato che il procedimento instaurato  attraverso  l'esercizio
del  generico  diritto   di   «reclamo»,   delineato   nell'art.   35
dell'ordinamento penitenziario  nonche'  nell'art.  70  del  relativo
regolamento di esecuzione (decreto del Presidente della Repubblica 29
aprile 1978, n. 431), era privo dei requisiti  minimi  necessari  per
poterlo  ritenere  sufficiente  a  fornire   un   mezzo   di   tutela
qualificabile come giurisdizionale, osservo' che nella  normativa  di
settore  mancava  un  rimedio  giurisdizionale  che  potesse   essere
considerato di carattere generale e, quindi, suscettibile  di  essere
esteso anche alla fattispecie in esame. Pertanto, nel sollecitare  il
legislatore all'esercizio della  funzione  legislativa  che  ad  esso
compete, dichiaro' l'illegittimita' costituzionale degli artt.  35  e
69  della  legge  n.  354  del  1975,  quest'ultimo  come  sostituito
dall'art. 21 della legge del 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche  alla
legge sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione  delle  misure
privative e limitative della  liberta'),  «nella  parte  in  cui  non
prevedono  una  tutela  giurisdizionale  nei  confronti  degli   atti
dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di  coloro  che
sono sottoposti a restrizione della liberta' personale». 
    La citata decisione enuncia il principio secondo cui  il  rimedio
previsto dagli artt. 35 e 69 dell'ordinamento penitenziario avverso i
provvedimenti   dell'amministrazione   penitenziaria   potenzialmente
lesivi dei diritti  dei  detenuti  e  degli  internati,  deve  essere
trattato con le forme dei procedimenti giurisdizionali. Esso, oltre a
sollecitare l'intervento del legislatore (finora  mancato),  richiede
anche ai giudici di ricercare, con gli strumenti dell'interpretazione
sistematica, una  soluzione  conforme  a  Costituzione.  E  cio',  in
effetti, e' avvenuto, perche' la Corte di cassazione, pronunciando  a
Sezioni unite penali, con sentenza del 26 febbraio  2003,  n.  25079,
decidendo sul contrasto giurisprudenziale insorto circa la natura del
provvedimento del magistrato di sorveglianza reso ai sensi del citato
art. 35, ha affermato  che,  se  un'interpretazione  della  normativa
ordinaria conforme a Costituzione impone di  rinvenire  un  mezzo  di
tutela definito dai caratteri della giurisdizione contro  la  lesione
delle posizioni  soggettive  del  detenuto,  secondo  le  progressive
sequenze ermeneutiche indicate dalla sentenza  n.  26  del  1999,  un
simile mezzo non puo' che ricondursi - proprio  per  le  esigenze  di
speditezza e semplificazione che devono distinguerlo, considerando le
posizioni soggettive fatte valere - a quello di cui agli artt. 14-ter
e 69 dell'ordinamento penitenziario, che  prevede  la  procedura  del
reclamo al magistrato di sorveglianza nelle  materie  indicate  dalla
prima di tali disposizioni. 
    Successivamente la giurisprudenza risulta essersi adeguata a tale
indirizzo ermeneutico (Cass., sentenze n. 7791 del 2008  e  n.  46269
del 2007), che peraltro e' conforme anche ai principi espressi  dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza  11  gennaio  2005,  n.
33965/96). 
    5. - Il giudice a quo, che  -  come  emerge  dalle  ordinanze  di
rimessione - in entrambi i casi al suo esame ha proceduto nelle forme
di  cui  all'art.  14-ter  dell'ordinamento  penitenziario,  fissando
l'udienza alla quale hanno partecipato il  difensore  e  il  pubblico
ministero, non ignora il contesto sopra descritto. Ritiene pero'  che
la  sentenza  di  questa  Corte  n.  341   del   2006,   dichiarativa
dell'illegittimita' costituzionale dell'art. 69, sesto comma, lettera
a), della legge n. 354 del 1975, avrebbe «messo in crisi  il  modello
di integrazione interpretativa» delineato dalle Sezioni unite  penali
della Corte di cassazione. Cio' perche' sarebbe stato «sgombrato  dal
campo interpretativo il canone secondo cui tutto quel che attiene  al
trattamento penitenziario, in ossequio al  principio  della  funzione
rieducativa  della  pena,  sia  sempre  e  comunque  demandato   alla
cognizione  della  magistratura  di  sorveglianza,  indipendentemente
dalla natura dei diritti e degli interessi coinvolti ed a prescindere
dagli strumenti processuali disponibili». 
    Ma,  cosi'  opinando,   il   rimettente   cade   in   un   errore
interpretativo. 
    La sentenza di questa Corte n. 341 del 2006  ritenne  illegittima
ogni «irrazionale ingiustificata discriminazione»,  con  riguardo  ai
diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i  detenuti  e  gli
altri cittadini; affermo'  che  sia  i  detenuti  sia  le  rispettive
controparti avevano diritto ad un procedimento giurisdizionale basato
sul contraddittorio, come imposto dagli artt. 24,  secondo  comma,  e
111, secondo comma, Cost.; considero' il procedimento di cui all'art.
14-ter della legge n. 354 del 1975, imposto dalla norma censurata per
tutte le controversie civili nascenti  dalle  prestazioni  lavorative
dei detenuti, inidoneo - se riferito alle controversie di lavoro - ad
assicurare un nucleo minimo di contraddittorio e di  difesa  (ponendo
in evidenza, tra l'altro,  che  il  terzo  eventualmente  interessato
quale controparte del  lavoratore  restava  addirittura  escluso  dal
contraddittorio);   e    pervenne,    quindi,    alla    declaratoria
d'illegittimita' costituzionale della norma denunziata, che demandava
al magistrato di sorveglianza di decidere sui reclami dei detenuti  e
degli internati  concernenti  l'osservanza  delle  norme  riguardanti
«l'attribuzione  della  qualifica  lavorativa,  la   mercede   e   la
remunerazione nonche' lo svolgimento delle attivita' di  tirocinio  e
di lavoro e le assicurazioni sociali». 
    Come si vede, dunque, la sentenza de qua non incise affatto sulla
competenza  generale  della  magistratura  di  sorveglianza,  ma   si
pronuncio' con riguardo ad una ben precisa tipologia  di  reclami  in
materia di lavoro, ossia con riferimento a situazioni giuridiche  per
le  quali  nell'ordinamento  generale   e'   istituito   un   giudice
specializzato. Pertanto, resta valido quanto gia' affermato da questa
Corte  con  la  citata  sentenza  n.  212  del  1997,  per  la  quale
l'ordinamento penitenziario,  nel  configurare  l'organizzazione  dei
«giudici di sorveglianza» (magistrati e  tribunale  di  sorveglianza)
«ha dato vita ad un assetto chiaramente ispirato al criterio per  cui
la funzione di tutela giurisdizionale dei  diritti  dei  detenuti  e'
posta in capo a tali uffici della magistratura ordinaria». 
    6. - Cio' posto, gli argomenti,  sulla  cui  base  il  rimettente
dubita della  legittimita'  costituzionale  della  norma  denunziata,
possono essere riassunti  come  segue:  a)  gli  artt.  14-ter  e  71
dell'ordinamento penitenziario non  prevedono  che  l'amministrazione
sia parte nel  procedimento,  potendo  soltanto  presentare  memorie,
mentre  il  reclamante  puo'  presentare  memorie  e  partecipare  al
procedimento  col  ministero  del  difensore;  b)  la  posizione  del
magistrato   di   sorveglianza   (organo    preposto    a    vigilare
sull'organizzazione  degli  istituti  di  prevenzione  e  pena  e  ad
impartire le disposizioni necessarie ad eliminare le  violazioni  dei
diritti dei detenuti) e' tale da far dubitare che egli «possa  essere
giudice terzo quando  sia  chiamato  a  decidere  della  legittimita'
dell'agire dell'amministrazione penitenziaria e della sussistenza, in
concreto, di lesioni delle posizioni soggettive di  singoli  detenuti
derivanti da atti  della  stessa  amministrazione»,  sicche',  «visto
l'attuale assetto normativo  in  materia  penitenziaria,  il  rischio
potrebbe essere  quello  che  il  magistrato  di  sorveglianza  possa
essere, nella specifica ipotesi, giudice di se stesso»; c)  eventuali
provvedimenti  del  detto  magistrato,  ancorche'  assunti   con   la
procedura  di  cui  agli   artt.   14-ter   e   71   dell'ordinamento
penitenziario,    non    avrebbero    carattere    vincolante     per
l'amministrazione  e  sarebbero  privi  di  effettivita',   dovendosi
escludere  che  l'atto  amministrativo   illegittimo   possa   essere
annullato con provvedimento del  giudice  ordinario,  in  assenza  di
espressa previsione normativa (art. 113, terzo comma, Cost.),  oppure
che il magistrato di sorveglianza, in caso d'inerzia, possa  nominare
un commissario ad  acta,  mentre  anche  l'eventuale  disapplicazione
dell'atto illegittimo sarebbe destinata a restare priva di efficacia,
in quanto tutto il trattamento del detenuto si svolge attraverso atti
dell'amministrazione penitenziaria; d) con  riferimento  all'art.  6,
paragrafo 1,  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e  delle  liberta'  fondamentali,  per  le  ragioni
esposte deve ritenersi che l'assetto normativo vigente non garantisca
al reclamante e all'amministrazione controinteressata la possibilita'
di rivolgersi ad un giudice terzo, il  quale,  attraverso  un  giusto
processo  svolto  in  contraddittorio  tra  le  parti,  «assuma   una
decisione che della giurisdizione non abbia solo il nome e  la  forma
ma anche la sostanza e la forza vincolante». 
    Pertanto, ad avviso del giudice a quo, l'unica via per assicurare
al reclamante  e  all'amministrazione  controinteressata  una  tutela
conforme ai principi costituzionali e' quella  di  adire  il  Giudice
delle leggi, «affinche'  vengano  accolti  i  dubbi  di  legittimita'
costituzionale con riferimento alla disposizione di cui  all'art.  35
dell'ordinamento  penitenziario  nell'accezione  e  con  la  funzione
venutesi a delineare a seguito della giurisprudenza e dei principi di
diritto stabiliti dalla Corte di cassazione». 
    6.1. - Orbene, un primo profilo d'inammissibilita' si ravvisa nel
fatto che entrambe le ordinanze di rimessione omettono  di  formulare
un petitum specifico, lasciando cosi' indeterminato l'intervento  che
questa Corte dovrebbe  compiere  e  trascurando  d'indicare  se  esso
dovrebbe essere di tipo caducatorio o additivo. 
    Per costante giurisprudenza, il difetto di un petitum specifico o
determinato  rende  inammissibile  la   questione   di   legittimita'
costituzionale (ex plurimis: ordinanze n. 117 del  2009;  n.  98  del
2009; n. 70 del 2009; n. 380 del 2008; n. 58 del  2008;  n.  393  del
2007 e n. 279 del 2007). 
    6.2. - Sotto altro aspetto, dalle ordinanze di rimessione  emerge
in modo pressoche' testuale che il giudice a quo, pur  formulando  le
sue censure con riferimento alle tre norme indicate in  epigrafe,  in
realta' mette in discussione il ruolo complessivo del  magistrato  di
sorveglianza e la posizione nella quale tale organo viene a  trovarsi
nei rapporti con l'amministrazione penitenziaria.  Cio'  risulta  con
chiarezza dalla parte in cui egli  ritiene  «fondatamente  dubitabile
che il magistrato di sorveglianza possa essere giudice  terzo  quando
sia   chiamato   a    decidere    della    legittimita'    dell'agire
dell'amministrazione penitenziaria e della sussistenza, in  concreto,
di lesioni delle posizioni soggettive di singoli  detenuti  derivanti
da atti della stessa amministrazione»; dalla parte in cui egli dubita
dell'efficacia    dei    propri    provvedimenti    nei     confronti
dell'amministrazione  (ed  anzi  sembra  escluderla),  in  quanto  il
trattamento  rieducativo  «per  quel  che  attiene  alla   sua   fase
intramuraria (quella che non si esplica con la concessione di  misure
premiali e/o misure alternative)  si  svolge  tutto  attraverso  atti
dell'Amministrazione penitenziaria, emanati  ed  applicati  dai  suoi
stessi organi ai vari livelli»; ed ancor piu' dalla parte in  cui,  a
suo avviso,  si  deve  ritenere  che  «l'assetto  normativo  vigente,
venutosi a  delineare  attraverso  le  decisioni  interpretative  dei
giudici di merito e di legittimita', non garantisca al  reclamante  e
alla amministrazione controinteressata la possibilita' di  rivolgersi
ad un giudice terzo». 
    A  prescindere  dal  carattere  astratto  di  tali  proposizioni,
risulta palese che il rimettente auspica in  sostanza  un  intervento
non precisato, ma comunque diretto  a  realizzare  una  modifica  non
costituzionalmente obbligata, in  quanto  idoneo  ad  introdurre  una
diversa disciplina della magistratura di  sorveglianza  e  della  sua
posizione nel contesto dell'ordinamento penitenziario, o  addirittura
una  diversa  ripartizione  delle  competenze  giurisdizionali,  come
sembrerebbe desumibile dall'affermazione  secondo  cui  la  questione
sarebbe rilevante in quanto attinente (tra l'altro) «alla sussistenza
della  giurisdizione  del  Giudice  remittente  nel  procedimento  in
corso». 
    Ma  tale  intervento  postula  scelte  normative   discrezionali,
rientranti nella competenza esclusiva del legislatore, sicche'  esula
dalla sfera dei poteri di questa Corte. 
    Ne deriva un autonomo motivo d'inammissibilita'  della  questione
(ex plurimis: sentenze n. 175 del 2004 e n. 228 del  1999;  ordinanze
n. 83 del 2007, n. 254 del 2005 e n. 305 del 2001). 
    6.3. - Infine, sotto un terzo profilo, il giudice a quo ha omesso
di verificare  se  le  norme  censurate  siano  suscettibili  di  una
interpretazione conforme a Costituzione. 
    In particolare: a) in ordine al rilievo che gli artt. 14-ter e 71
dell'ordinamento penitenziario non  prevedono  la  partecipazione  al
procedimento dell'amministrazione, alla quale e'  riservato  soltanto
il potere di presentare  memorie,  il  rimettente  ha  trascurato  di
considerare che il procedimento di cui alla  prima  delle  norme  ora
citate stabilisce che  esso  si  svolga  con  la  partecipazione  del
difensore  e  del  pubblico   ministero,   mentre   l'interessato   e
l'amministrazione penitenziaria possono presentare memorie. Pertanto,
e' rimasta non esplorata la possibilita' che le  posizioni  di  detta
amministrazione  siano  rappresentate  per  l'appunto  dal   pubblico
ministero nel contraddittorio col difensore del reclamante; b)  sulla
posizione del magistrato di sorveglianza nell'ambito dell'ordinamento
penitenziario, a parte quanto rilevato nel  paragrafo  precedente  in
termini generali, il rimettente non ha considerato  che,  a  garanzia
del principio costituzionale circa l'imparzialita' del giudice  nelle
fattispecie concrete, sono contemplati gli istituti dell'astensione e
della ricusazione, aventi un ampio  ambito  di  applicazione  che  si
estende  a  tutti  i  tipi  di   procedimento   giurisdizionale   (e,
tendenzialmente, anche  ai  provvedimenti  non  giurisdizionali);  c)
quanto al presunto carattere non vincolante per l'amministrazione dei
provvedimenti del magistrato di sorveglianza, il rimettente, pur  non
ignorando l'art.  69  dell'ordinamento  penitenziario  (peraltro  non
oggetto di censure), ritiene tuttavia che l'ordinanza del  magistrato
di sorveglianza, che dovesse dichiarare non legittima  l'assegnazione
del detenuto al circuito E. I. V., avrebbe efficacia analoga a quella
di una segnalazione ai sensi del  citato  art.  69,  primo  e  quarto
comma. 
    Ma questa lettura non considera che la norma dispone, nel  quinto
comma  (ultimo  periodo),   che   il   magistrato   di   sorveglianza
«impartisce, inoltre, nel corso del trattamento, disposizioni dirette
ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e  degli
internati».  La  parola  «disposizioni»,  nel  contesto  in  cui   e'
inserita, non significa segnalazioni (tanto piu' che questa modalita'
d'intervento forma oggetto di apposita  previsione  nel  primo  comma
dell'art. 69), ma prescrizioni od ordini, il cui carattere vincolante
per l'amministrazione penitenziaria e' intrinseco alle  finalita'  di
tutela che la norma stessa persegue. 
    Il rimettente non ha motivato in modo sufficiente in ordine  alle
ragioni  che  gli  impedirebbero  di  adottare  una   interpretazione
costituzionalmente corretta della normativa de qua, cosi'  incorrendo
in un ulteriore profilo di inammissibilita' (ex  plurimis:  ordinanze
n. 341 del 2008, n. 268 del 2008 e n. 193 del 2008). 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
    Riuniti i giudizi, 
    Dichiara   inammissibile    la    questione    di    legittimita'
costituzionale degli articoli 35, 14-ter e 71 della legge  26  luglio
1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e  sull'esecuzione
delle misure privative e limitative della  liberta'),  sollevata,  in
riferimento agli articoli 3, 24, primo comma, 27,  terzo  comma,  97,
primo comma, 111, primo e secondo comma, e  113  della  Costituzione,
«ed ai principi generali  sulla  giurisdizione»,  dal  Magistrato  di
sorveglianza di Nuoro con le ordinanze indicate in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2009. 
                       Il Presidente: Amirante 
                       Il redattore: Criscuolo 
                      Il cancelliere: Di Paola 
    Depositata in cancelleria il 23 ottobre 2009. 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola