N. 275 SENTENZA 19 - 29 ottobre 2009

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Lavoro e occupazione - Lavoratrici - Proseguimento nel  lavoro  oltre
  il sessantesimo anno  di  eta'  -  Previsione  dell'onere  di  dare
  tempestiva comunicazione della  propria  intenzione  al  datore  di
  lavoro,  da  effettuarsi  almeno  tre  mesi  prima  della  data  di
  perfezionamento  del   diritto   alla   pensione   di   vecchiaia -
  Applicazione al rapporto di lavoro  della  tutela  accordata  dalla
  legge sui licenziamenti individuali subordinata all'adempimento del
  detto  onere  -  Ingiustificata  disparita'  di   trattamento   tra
  lavoratori in base al sesso - Lesione del principio di  parita'  di
  trattamento   delle   lavoratrici    rispetto    ai    lavoratori -
  Illegittimita' costituzionale in  parte  qua  - Assorbimento  degli
  ulteriori motivi di censura. 
- D.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, art. 30 
- Costituzione, artt. 3, 37, (4 e 35) 
(GU n.44 del 4-11-2009 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
  QUARANTA, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE,  Maria
  Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO,  Paolo  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe
  FRIGO, Alessandro CRISCUOLO; 
ha pronunciato la seguente 
                              Sentenza 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 30 del  decreto
legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice  delle  pari  opportunita'
tra uomo e donna), promosso dal Tribunale di Milano nel  procedimento
vertente tra Caterina Giovinazzo e la Manutencoop Facility Management
S.p.A., con ordinanza del 1° dicembre 2008, iscritta  al  n.  91  del
registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 13, 1ª serie speciale, dell'anno 2009. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella Camera di consiglio del 7  ottobre  2009  il  giudice
relatore Luigi Mazzella. 
                          Ritenuto in fatto 
    1. - Con ordinanza emessa il 1° dicembre 2008,  il  Tribunale  di
Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'articolo
30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle  pari
opportunita' tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a  carico
della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre
il sessantesimo anno di eta' - a differenza di quanto previsto per il
lavoratore  di  sesso  maschile  -   l'onere   di   dare   tempestiva
comunicazione della  propria  intenzione  al  datore  di  lavoro,  da
effettuarsi almeno tre mesi prima della data di  perfezionamento  del
diritto dalla pensione di vecchiaia, pena la recedibilita'  ad  nutum
di quest'ultimo dal rapporto di lavoro. 
    Riferisce il rimettente che, con ricorso ex art. 414  c.p.c.,  la
signora Caterina Giovinazzo aveva  convenuto  in  giudizio  l'impresa
Manutencoop   Facility   Management   S.p.A.,   per   impugnare    il
licenziamento a lei intimato in data 9  maggio  2007.  La  ricorrente
aveva esposto di essere stata licenziata in data 9  maggio  del  2007
per  avere  raggiunto  l'eta'  pensionabile,  senza   anticipatamente
manifestare la propria intenzione di volere proseguire  nel  rapporto
di  lavoro.  La  difesa   di   parte   ricorrente,   insistendo   per
l'accertamento della  illegittimita'  del  recesso,  aveva  sollevato
eccezione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli artt.
3, 4, 27 e 35 della Carta costituzionale, della disposizione  di  cui
all'art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198, che, a suo dire,  aveva
reintrodotto  lo  stesso  onere  di  comunicazione  gia'   dichiarato
incostituzionale   con   ripetuti    pronunciamenti    della    Corte
costituzionale (sentenze n. 138 del 1986, n. 498 del 1988  e  n.  256
del 2002). 
    Il  rimettente  ricorda  che  la   Corte   costituzionale   aveva
dichiarato  dapprima  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  11
della legge  n.  604  del  1966  e  di  altre  disposizioni  connesse
(sentenza n.  137  del  1986),  «nella  parte  in  cui  prevedono  il
conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento
della  donna  lavoratrice  per  questo  motivo,  al  compimento   del
cinquantacinquesimo  anno  d'eta',   anziche'   al   compimento   del
sessantesimo anno come per  l'uomo»,  giudicando  ormai  venute  meno
quelle ragioni e condizioni che in precedenza  potevano  giustificare
una differenza di trattamento della donna rispetto  all'uomo,  e,  di
riflesso,  illegittima  qualsiasi  disposizione  che   differenziasse
l'applicazione dei  diritti  di  tutela  del  posto  di  lavoro  alla
condizione di essere lavoratore uomo, ovvero lavoratrice donna. 
    In seguito, anche l'onere, introdotto dall'art. 4 della  legge  9
dicembre 1977, n. 903 (Parita' di trattamento tra uomini e  donne  in
materia di lavoro), di comunicare anticipatamente al datore di lavoro
la propria intenzione di  proseguire  a  lavorare  fino  agli  stessi
limiti di eta' fissati per gli uomini, era stato parimenti dichiarato
incostituzionale. 
    Detti   principi,   prosegue   il   rimettente,   venivano    poi
ulteriormente ribaditi dalla pronunzia n. 256 del  2002,  laddove  si
afferma, in sintesi, che «i precetti costituzionali di cui agli artt.
3 e 37, primo comma, non consentono  di  regolare  l'eta'  lavorativa
della donna in modo difforme da quello previsto per gli  uomini,  non
soltanto per quanto concerne il limite  massimo  di  eta',  ma  anche
riguardo alle condizioni per raggiungerlo». 
    Sennonche', riferisce il Tribunale  di  Milano,  il  legislatore,
tramite l'art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198 (Codice delle pari
opportunita' tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della legge 28
novembre 2005, n. 246), nel ribadire il  pieno  diritto  delle  donne
lavoratrici di continuare a lavorare fino agli stessi limiti di  eta'
fissati per gli uomini, di fatto ha reintrodotto le  disposizioni  in
materia di preventiva dichiarazione di opzione al datore  di  lavoro,
nel senso di subordinare il  diritto  della  donna  lavoratrice  alla
stabilita' del rapporto di lavoro fino al sessantacinquesimo anno  di
eta', ad una esplicita e preventiva manifestazione di volonta'. 
    Tanto premesso,  il  Tribunale  rimettente  dubita  che  la  pure
constatata esistenza di una normativa di carattere previdenziale piu'
favorevole per le donne, possa essere tale da giustificare una tutela
differenziata in materia di licenziamenti. 
    Infatti, le argomentazioni che avevano gia' in passato indotto la
Corte costituzionale a dichiarare illegittima e priva di  una  logica
giustificatrice l'introduzione  di  un  obbligo  per  le  lavoratrici
donne,  quale  condizione  per  rendere  applicabile   la   normativa
vincolistica sui licenziamenti, non solo appaiono  al  rimettente  di
rinnovata attualita', ma addirittura  rafforzate  proprio  alla  luce
delle penetranti modifiche che  si  sono  venute  a  determinare  nel
mercato del lavoro e nella  struttura  della  societa'  italiana  (ed
europea),  che  sempre  piu'  valuta  come   radicalmente   inattuale
qualsiasi differenziazione di norme e/o di  trattamenti  in  funzione
del sesso. 
    Nella  fattispecie,  quindi,   siccome   la   richiesta   opzione
discrimina la donna rispetto  all'uomo  per  quanto  riguarda  l'eta'
massima di durata del rapporto di  lavoro  e,  quindi,  la  diminuita
tutela della lavoratrice in tema di licenziamento,  sussisterebbe  la
violazione dell'art. 3 Cost., non  avendo  la  detta  opzione  alcuna
ragionevole giustificazione, e dell'art. 37 Cost., risultando leso il
principio della parita' uomo-donna in materia di lavoro. 
    2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato
ed ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata. 
    Secondo la difesa erariale, la circostanza che la facolta'  della
donna di restare in servizio sino all'eta' massima prevista  per  gli
uomini sia subordinata, dall'art. 30 del d.lgs. 11  aprile  2006,  n.
198, all'onere di una preventiva comunicazione al  datore  di  lavoro
non sarebbe discriminatoria rispetto all'uomo ne'  sotto  il  profilo
della violazione  dell'art.  3  Cost.  ne'  sotto  il  profilo  della
violazione dell'art. 37 Cost., essendo mutato il quadro normativo  di
riferimento rispetto alla sentenza n. 498 del 1988. 
    Essendo, infatti, facolta' della  lavoratrice  avvalersi  o  meno
della possibilita' di prolungare il rapporto di lavoro fino al limite
massimo di 65 anni, subordinare la continuazione del rapporto ad  una
tempestiva comunicazione al datore di lavoro,  afferma  l'Avvocatura,
si giustifica perfettamente con le esigenze organizzative di questo e
la necessita' per lo stesso di conoscere per tempo le  determinazioni
del proprio dipendente in proposito. 
    Parimenti infondato, per il  Presidente  del  Consiglio,  sarebbe
anche l'ulteriore parametro costituzionale invocato a sostegno  della
denunciata incostituzionalita' della norma e basato su  una  presunta
discriminazione delle donne lavoratrici  in  assenza  di  un  analogo
obbligo per i lavoratori. Infatti, la previsione  dell'obbligo  della
comunicazione per  le  sole  donne  si  giustificherebbe  sempre  con
l'originaria diversa disciplina in materia di eta' pensionabile. 
    Secondo il Presidente del Consiglio, poiche' e' riconosciuta solo
alle lavoratrici donne la possibilita'  prolungare  la  propria  eta'
lavorativa fino a quella prevista per gli  uomini,  in  un'ottica  di
parificazione totale tra i due sessi, ma nella salvaguardia di vecchi
principi e diritti, e non  prevedendosi  un'analoga  possibilita'  di
prolungamento del rapporto di lavoro per gli uomini, come tali tenuti
ad andare in pensione al raggiungimento dei 65 anni, l'obbligo  della
comunicazione non potrebbe che essere imposto alla  sole  donne,  non
essendo concepibile un obbligo di comunicazione per una facolta'  non
riconosciuta. 
                       Considerato in diritto 
    1. - Il Tribunale di Milano dubita, con riferimento agli articoli
3, 4, 35 e 37 della Costituzione, della  legittimita'  costituzionale
dell'articolo 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari
opportunita' tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a  carico
della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre
il sessantesimo anno di eta' - a differenza di quanto previsto per il
lavoratore  di  sesso  maschile  -   l'onere   di   dare   tempestiva
comunicazione della  propria  intenzione  al  datore  di  lavoro,  da
effettuarsi almeno tre mesi prima della data di  perfezionamento  del
diritto dalla pensione di vecchiaia, pena la recedibilita'  ad  nutum
da parte di quest'ultimo dal rapporto di lavoro. 
    2. - Nella legislazione precedente, il principio di cui  all'art.
11 della legge  15  luglio  1966  n.  604  (Norme  sui  licenziamenti
individuali), che sanciva la radicale inapplicabilita'  della  tutela
contro i  licenziamenti  illegittimi  alle  lavoratrici  che  fossero
rimaste  in  servizio  oltre  il  raggiungimento  della   loro   eta'
pensionabile (allora  prevista  in  55  anni),  era  stato  temperato
successivamente dall'art. 4 della  legge  9  dicembre  1977,  n.  903
(Parita' di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro),  in
base al quale,  alla  maturazione  di  detta  eta'  pensionabile,  le
lavoratrici ben potevano restare in servizio fino  al  raggiungimento
dell'eta' lavorativa massima prevista per gli  uomini  (all'epoca  60
anni), a condizione che comunicassero tale loro opzione al datore  di
lavoro tre mesi prima del raggiungimento dell'eta' pensionabile. 
    Le ora riportate disposizioni  avevano  formato  oggetto  di  due
successivi interventi da parte di questa Corte. Con  la  sentenza  n.
137 del 1986, sul presupposto che l'avvento  di  nuove  tecnologie  e
metodi di produzione e di riforme intervenute nel campo  del  diritto
del lavoro aveva reso  il  lavoro  femminile  meno  usurante  e  piu'
sicuro, era stato dichiarato illegittimo, in riferimento  agli  artt.
3, 4, 35 e 37 Cost., l'art. 11 della legge n.  604  del  1966,  nella
parte in cui prevedeva il conseguimento della pensione  di  vecchiaia
e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per detto motivo,
al compimento  del  cinquantacinquesimo  anno  di  eta'  anziche'  al
compimento del sessantesimo anno come per l'uomo. In  altri  termini,
si riconosceva,  alla  medesima  lavoratrice,  la  scelta  se  essere
collocata a riposo alla stessa  eta'  degli  uomini,  conservando  la
piena tutela contro il licenziamento ingiustificato, o se  andare  in
pensione anticipatamente. 
    Restava tuttavia in vigore la previsione, contenuta  nell'art.  4
della legge n. 903 del 1977, dell'onere, per la donna che  scegliesse
di restare in servizio oltre l'eta' pensionistica, di  comunicare  al
datore di lavoro tale opzione tre mesi prima della data di  scadenza,
pena  la  perdita  da  parte  della  stessa  della  tutela  contro  i
licenziamenti ingiustificati. Ebbene, anche tale previsione, in tutto
corrispondente  a  quella  oggetto  dell'odierna  questione,   veniva
dichiarata illegittima, in  riferimento  agli  artt.  3  e  37  della
Costituzione, con la sentenza n. 498 del 1998, «nella  parte  in  cui
subordina il diritto delle lavoratrici, in possesso dei requisiti per
la pensione di vecchiaia, di continuare a prestare la loro opera fino
agli stessi limiti di eta' previsti per gli  uomini  da  disposizioni
legislative,   regolamentari   e   contrattuali,   all'esercizio   di
un'opzione in tal senso, da comunicare al datore di lavoro non  oltre
la  data  di  maturazione  dei  predetti  requisiti».  Nella   citata
pronuncia, la Corte affermava che anche la previsione  di  un  simile
onere discrimina «la donna  rispetto  all'uomo  per  quanto  riguarda
l'eta' massima di durata del rapporto di lavoro stabilita  da  leggi,
regolamenti e contratti,  e,  quindi,  la  protrazione  del  rapporto
[...],   non   avendo   la   detta   opzione    alcuna    ragionevole
giustificazione, e [...] risultando leso il principio  della  parita'
uomo-donna in materia di lavoro», e ribadiva che  «l'eta'  lavorativa
deve essere eguale per la donna e per l'uomo, mentre rimane fermo  il
diritto  della  donna  a  conseguire  la  pensione  di  vecchiaia  al
cinquantacinquesimo anno di  eta',  onde  poter  soddisfare  esigenze
peculiari  della  donna  medesima,  il  che  non  contrasta  con   il
fondamentale principio di parita',  il  quale  non  esclude  speciali
profili,  dettati  dalla  stessa  posizione  della  lavoratrice,  che
meritano una particolare regolamentazione». 
    3. - La questione sottoposta ora all'esame della Corte e' fondata
in  relazione  ai  medesimi  parametri  degli  artt.  3  e  37  della
Costituzione. 
    Nessuna  delle  disposizioni  di  legge  intervenute  in  materia
nell'arco  temporale  intercorso  tra  le   disposizioni   dichiarate
illegittime   da   questa   Corte   e    l'odierna    questione    di
costituzionalita' ha in alcun modo alterato i termini del problema. 
    Nel  periodo  indicato,  ben  vero,  si  e'  realizzato,  a  piu'
scaglioni,   un   complessivo   spostamento   in   avanti   dell'eta'
pensionistica di uomini e donne. L'art.  1  del  d.lgs.  30  dicembre
1992, n. 503 (Norme per il riordinamento  del  sistema  previdenziale
dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'art. 3 della legge 23
ottobre 1992, n. 421), emesso in attuazione di tale legge, ha infatti
disposto, secondo quanto indicato in una tabella allegata al  decreto
stesso poi sostituita dall'art. 11 della legge 23 dicembre  1994,  n.
724 (Misure di razionalizzazione  della  finanza  pubblica),  per  il
periodo compreso tra il primo gennaio 1994 e il 31 dicembre 1999, una
elevazione graduale dei limiti di eta' rispettivamente  previsti  per
gli uomini e per le donne (compresa, per i primi, tra i sessantuno  e
i sessantaquattro anni  e  per  le  donne  tra  i  cinquantasei  e  i
cinquantanove anni) fino a pervenire, con la disciplina  «a  regime»,
decorrente dal 1° gennaio  2000,  alla  introduzione  del  limite  di
sessantacinque anni di eta' per gli uomini e  sessanta  anni  per  le
donne. 
    Tali interventi  normativi,  tuttavia,  non  hanno  inciso  sulla
persistente validita' delle precedenti statuizioni di  questa  Corte,
in quanto non hanno determinato alcuna alterazione  della  portata  e
dell'incidenza della disposizione oggi censurata, identica  a  quella
gia' dichiarata incostituzionale. 
    Infatti, come questa Corte ha gia' chiarito nella sentenza n. 256
del 2002, «le innovazioni  introdotte  [...]  non  hanno  violato  il
principio costituzionale della parita'  tra  uomo  e  donna  riguardo
all'eta' lavorativa, piu' volte affermato da questa Corte  in  quanto
sancito dagli artt. 3 e 37 della  Costituzione.  Infatti,  mentre  le
diverse disposizioni che hanno in vario modo ampliato la possibilita'
di fare ricorso al pensionamento  c.d.  posticipato,  originariamente
introdotto  dall'art.  6  del  d.l.  22   dicembre   1981,   n.   791
(Disposizioni in  materia  previdenziale),  convertito  in  legge  26
febbraio 1982, n. 54, non contengono alcuna diversita' di  disciplina
tra  i  lavoratori  dei  due  sessi,  le  altre  disposizioni   hanno
esclusivamente innalzato i limiti della eta' pensionabile perpetuando
in riferimento a tale eta', sia pure con uno spostamento  in  avanti,
la differenza gia' esistente tra uomini e donne, la quale continua  a
costituire un giustificato beneficio per queste ultime, ma non  hanno
in alcun modo reintrodotto per le  donne  la  correlazione  tra  eta'
pensionabile ed eta' lavorativa.». 
    4.  -  La  disposizione  censurata  con  l'odierno  incidente  di
costituzionalita', ha dunque introdotto, in un contesto normativo non
alterato, per quanto  rileva  in  questa  sede,  dalle  pur  numerose
novita' legislative  apportate,  una  norma  dal  medesimo  contenuto
precettivo  dell'art.  4  della  legge  n.  903  del  1977,  la   cui
illegittimita' costituzionale e' stata dichiarata da questa Corte con
la  citata  sentenza  n.  498  del  1998.  Tale   disposizione,   nel
subordinare il riconoscimento della tutela  contro  il  licenziamento
ingiustificato al rispetto di un onere di comunicazione perfettamente
coincidente con quello gia' dichiarato illegittimo da  questa  Corte,
realizza la medesima discriminazione tra  lavoro  maschile  e  lavoro
femminile gia' stigmatizzata in tale occasione. 
    Anche nella disposizione oggi censurata, l'onere di comunicazione
posto a carico della lavoratrice, infatti, condizionando  il  diritto
di quest'ultima di lavorare fino  al  compimento  della  stessa  eta'
prevista per il lavoratore ad  un  adempimento  -  e,  dunque,  a  un
possibile rischio - che, nei  fatti,  non  e'  previsto  per  l'uomo,
compromette ed indebolisce la piena ed  effettiva  realizzazione  del
principio di parita' tra l'uomo e la donna, in violazione dell'art. 3
Cost.,   non   avendo   la   detta   opzione    alcuna    ragionevole
giustificazione, e dell'art. 37 Cost., risultando nuovamente leso  il
principio della parita' uomo-donna in materia di lavoro. 
    Ne'  la  reintroduzione  di  un  istituto,   quale   l'onere   di
comunicazione, gia'  dichiarato  illegittimo  da  questa  Corte  puo'
essere   ritenuta   giustificata   in   ragione   di   una   maggiore
considerazione delle esigenze organizzative  del  datore  di  lavoro,
dato  che,  proprio  per  effetto   dell'invocata   declaratoria   di
illegittimita'  costituzionale,  quest'ultimo,  nell'organizzare   il
proprio personale dovra' considerare come normale  la  permanenza  in
servizio della donna  oltre  l'eta'  pensionabile  e  come  meramente
eventuale la scelta del pensionamento anticipato, nella  prospettiva,
gia' indicata da questa Corte, della  tendenziale  uniformazione  del
lavoro femminile a quello maschile. 
    5. - Va dunque dichiarata, in riferimento agli artt. 3 e 37 della
Costituzione, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 30 del d.lgs.
11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari  opportunita'  tra  uomo  e
donna), nella parte in cui prevede, a carico  della  lavoratrice  che
intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo  anno
di eta', l'onere  di  dare  tempestiva  comunicazione  della  propria
intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi  prima
della  data  di  perfezionamento  del  diritto  dalla   pensione   di
vecchiaia, e nella parte in cui  fa  dipendere  da  tale  adempimento
l'applicazione al rapporto di lavoro  della  tutela  accordata  dalla
legge sui licenziamenti individuali. 
    6. - Le questioni relative agli artt. 4 e 35  della  Costituzione
restano assorbite. 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
    Dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 30 del decreto
legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice  delle  pari  opportunita'
tra uomo e donna),  nella  parte  in  cui  prevede,  a  carico  della
lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di  lavoro  oltre  il
sessantesimo anno di eta', l'onere di dare  tempestiva  comunicazione
della propria intenzione al datore di lavoro, da  effettuarsi  almeno
tre mesi prima  della  data  di  perfezionamento  del  diritto  dalla
pensione di vecchiaia, e nella parte in  cui  fa  dipendere  da  tale
adempimento  l'applicazione  al  rapporto  di  lavoro  della   tutela
accordata dalla legge sui licenziamenti individuali. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009. 
                       Il Presidente: Amirante 
                       Il redattore: Mazzella 
                      Il cancelliere: Di Paola 
    Depositata in cancelleria il 29 ottobre 2009. 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola