N. 280 ORDINANZA 19 - 29 ottobre 2009

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo   penale -    Dibattimento -    Assunzione    delle    prove
  dichiarative - Impossibilita' per il giudice di decidere  le  forme
  in  cui  assumere  il  dichiarante -  Denunciata   irragionevolezza
  nonche' violazione dei principi  del  giusto  processo -  Questione
  sollevata sulla base  di  premesse  interpretative  intrinsecamente
  contraddittorie - Manifesta inammissibilita'. 
- Cod. proc. pen., art. 210. 
- Costituzione, artt. 3 e 111. 
(GU n.44 del 4-11-2009 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
  QUARANTA, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE,  Maria
  Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO,  Paolo  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe
  FRIGO, Alessandro CRISCUOLO; 
ha pronunciato la seguente 
                              Ordinanza 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 210 del  codice
di  procedura  penale,  promosso  dal  Tribunale  di   Verbania   nel
procedimento penale a carico di P.V. ed altra  con  ordinanza  del  6
giugno 2008, iscritta  al  n.  402  del  registro  ordinanze  2008  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, 1ª  serie
speciale, dell'anno 2008. 
    Visto l' atto di intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella Camera di consiglio del 7  ottobre  2009  il  giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
    Ritenuto che, con ordinanza emessa il 6 giugno 2008, il Tribunale
di  Verbania,  in  composizione   monocratica,   ha   sollevato,   in
riferimento agli artt. 3  e  111  della  Costituzione,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 210  del  codice  di  procedura
penale, «nella parte in cui non consente al giudice del  dibattimento
di decidere le forme in cui assumere il dichiarante»; 
        che  -  secondo  quanto  viene  riferito  nell'ordinanza   di
rimessione - il giudice a quo procede, in  sede  dibattimentale,  nei
confronti di due agenti di pubblica sicurezza, imputati del reato  di
lesioni personali gravi ed aggravate ai sensi  dell'art.  61,  numero
9), del codice  penale,  conseguenti  alle  percosse  inferte  ad  un
arrestato; 
        che,  dopo  l'escussione  dei  testi  a  carico  -   le   cui
deposizioni avrebbero avvalorato l'ipotesi accusatoria  -  e  l'esame
degli imputati, dovrebbe procedersi all'audizione, quali testi  della
difesa, di  alcuni  agenti  di  pubblica  sicurezza,  colleghi  degli
imputati; 
        che il rimettente osserva,  peraltro,  come  sia  «pacifica»,
alla luce delle risultanze processuali, la presenza di  detti  agenti
«nei sotterranei della Questura» al momento  del  fatto:  circostanza
che - secondo  il  giudice  a  quo  -  avrebbe  imposto  al  pubblico
ministero di iscriverli nel registro delle  notizie  di  reato  e  di
sottoporli ad indagini in procedimenti connessi o  collegati,  aventi
ad oggetto le ipotesi alternative di concorso morale o materiale  nel
delitto per cui si procede, omessa denuncia di reato (art.  361  cod.
pen.), omissione di atti d'ufficio o lesioni colpose; 
        che  la  mancata  attivazione  in  tali   sensi   dell'organo
dell'accusa avrebbe fatto si'  che  detti  soggetti  fossero  addotti
dalla difesa come testimoni: donde la rilevanza della questione; 
        che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo
deduce che, per costante giurisprudenza, in assenza di una  pregressa
iscrizione della persona da esaminare nel registro  di  cui  all'art.
335 cod. proc. pen., non e' consentito al  giudice  del  dibattimento
stabilire che la stessa debba essere sentita  nelle  forme  dell'art.
210 cod. proc. pen. (che regola l'esame di  persona  imputata  in  un
procedimento connesso o di un reato collegato); 
        che il conseguente dubbio di legittimita' costituzionale  non
potrebbe essere, d'altro canto, superato dall'applicazione  dell'art.
63 cod. proc. pen.; 
        che tale disposizione prevede, al comma 1 -  in  ossequio  al
principio nemo tenetur se detegere - che, ove  una  persona,  sentita
come testimone (in dibattimento) o come persona informata  sui  fatti
(nelle indagini preliminari)  renda  dichiarazioni  da  cui  emergano
indizi  di  reita'  a  suo  carico,  l'autorita'  interrogante  debba
sospendere l'esame e  proseguirlo  in  «forme  assistite»,  sancendo,
altresi', l'inutilizzabilita' delle dichiarazioni rese dall'esaminato
contra se; 
        che il successivo  comma  2  regola,  per  contro,  l'ipotesi
«patologica» in cui l'autorita' esamini senza le  garanzie  difensive
una persona che, sin dall'inizio, avrebbe dovuto  essere  sentita  in
qualita' di imputato o di persona sottoposta alle  indagini:  ipotesi
nella  quale  viene  sancita  l'inutilizzabilita'  erga  omnes  delle
dichiarazioni rese, quale  «deterrente  contro  la  prassi  [...]  di
ignorare  indizi  di  reita'  a   carico   dell'escusso   per   avere
dichiarazioni negoziate o compiacenti»; 
        che il rimettente ricorda, altresi', come sia controverso  in
giurisprudenza se -  ai  fini  della  sanzione  di  inutilizzabilita'
prevista dal citato comma 2 dell'art. 63 cod. proc. pen.  -  occorra,
oltre al «dato sostanziale»,  anche  quello  «formale»  dell'avvenuta
iscrizione (anche successiva)  del  dichiarante  nel  registro  delle
notizie di reato; 
        che, in ogni caso, la norma si  limiterebbe  a  sanzionare  a
posteriori  una  violazione,  ma  non  permetterebbe  al  giudice  di
stabilire, ex ante, le forme in cui assumere il dichiarante, in  modo
«da  garantire  comunque  il  diritto  all'assunzione  di  una  prova
legalmente idonea»; 
        che da cio' deriverebbe la lesione dei principi  del  «giusto
processo» (art. 111 Cost.), sotto un triplice profilo; 
        che risulterebbe compromessa,  anzitutto,  la  terzieta'  del
giudice,   giacche'    quest'ultimo    si    troverebbe    vincolato,
nell'espletamento  della   propria   funzione,   «dal   comportamento
patologico di una  parte»:  il  giudice  sarebbe  infatti  costretto,
«contrariamente a quel che ritiene», a violare sia il principio  nemo
tenetur se detegere che  quello  della  incapacita'  a  testimoniare,
facendo «giurare un dichiarante che,  per  la  sua  valutazione,  non
dovrebbe giurare»; 
        che verrebbe lesa,  altresi',  la  parita'  delle  parti,  in
quanto la disciplina censurata attribuirebbe al  pubblico  ministero,
nella fase dibattimentale, un potere non riconosciuto,  invece,  alla
difesa ed il cui uso patologico quest'ultima  non  potrebbe  comunque
contrastare; 
        che sarebbe violato, ancora, il diritto dell'imputato  a  far
interrogare le persone a sua difesa: tale diritto sarebbe  garantito,
difatti, solo formalmente dal «meccanismo» censurato,  a  fronte  del
quale  il  giudice  sarebbe  costretto  al  rispetto  di  «qualifiche
formali» della persona  da  esaminare  derivanti  «dal  comportamento
patologico della  parte  pubblica»,  salvo  poi  a  dover  dichiarare
l'inutilizzabilita'  delle  dichiarazioni  rese  al   momento   della
decisione; 
        che la norma denunciata si porrebbe, da ultimo, in  contrasto
con l'art. 3 Cost., per difetto di ragionevolezza; 
        che, secondo quanto affermato dalle sezioni unite della Corte
di cassazione (viene citata la sentenza 29 novembre 2007-14  febbraio
2008, n. 7208), il  coimputato  che  venga  sentito  come  testimone,
anziche' nelle forme dell'art. 210 cod. proc. pen., non  e'  punibile
per la falsa testimonianza, ai sensi dell'art.  384,  secondo  comma,
cod. pen., indipendentemente dalla ragione per cui ha  dichiarato  il
falso; 
        che da cio' si desumerebbe non soltanto che, ove  il  giudice
dichiari inutilizzabile la testimonianza, il riconoscimento  ex  post
della qualita' di coimputato comporta la non punibilita' per la falsa
testimonianza del dichiarante, ma anche «che  la  qualita'  di  teste
debba essere assunta esclusivamente da chi comunque ha  l'obbligo  di
dire la verita»; 
        che sarebbe pertanto irragionevole che non spetti al  giudice
che   sovraintende   alla   formazione   della    prova    stabilire,
nell'esercizio del suo potere di direzione del dibattimento, in quale
veste assumere il dichiarante: e cio' conformemente ai canoni  di  un
processo accusatorio, nel quale primo compito del giudice e' dirimere
il  confronto  probatorio  delle  parti  ed  evitare  che  gli  esiti
dibattimentali siano «deviati extra legem»; 
        che nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, il  quale  ha  chiesto  che  la
questione sia dichiarata manifestamente infondata. 
    Considerato  che  il   Tribunale   di   Verbania   dubita   della
legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 111  della
Costituzione, dell'art. 210 del codice di  procedura  penale,  «nella
parte in cui non consente al giudice del dibattimento di decidere  le
forme in cui assumere il  dichiarante»:  se,  cioe',  nelle  forme  -
regolate dalla norma censurata - dell'esame della persona imputata in
un procedimento connesso o  di  un  reato  collegato,  anziche'  come
testimone; 
        che il  giudice  a  quo  pone  a  fondamento  del  dubbio  di
costituzionalita'     premesse     interpretative     intrinsecamente
contraddittorie; 
        che il rimettente da' atto che in ordine  ai  presupposti  di
applicabilita' dell'art. 63, comma 2, cod. proc. pen. - che  sancisce
l'inutilizzabilita' erga omnes delle dichiarazioni  rese  da  persona
che avrebbe dovuto essere sentita, sin dall'inizio,  in  qualita'  di
imputato  o  di  persona  sottoposta  alle  indagini  -  sussiste  un
contrasto giurisprudenziale; 
        che nella giurisprudenza  di  legittimita'  e',  in  effetti,
ricorrente l'affermazione per cui, ai suddetti fini, non occorre che,
al momento delle dichiarazioni, il soggetto  abbia  gia'  assunto  la
posizione formale di imputato o di indagato (con l'iscrizione del suo
nome nel registro delle notizie di reato): quello  che  conta  e'  la
situazione sostanziale, ossia  che  egli  si  trovi  di  fatto  nella
relativa condizione, a fronte  degli  indizi  di  reita'  da  cui  e'
colpito; 
        che secondo la tesi  prevalente,  nondimeno,  il  divieto  di
utilizzazione non puo' comunque  colpire  le  dichiarazioni  rese  al
giudice  da  un  soggetto  che  non  abbia  mai  acquisito,   neppure
successivamente, la qualita' di imputato o di indagato,  dal  momento
che il  giudice,  a  differenza  del  pubblico  ministero,  non  puo'
attribuire ad alcuno, di propria iniziativa, l'anzidetta qualita'; 
        che  vi  e',  pero',  anche  un  indirizzo  giurisprudenziale
contrario, stando al quale la sanzione prevista dall'art.  63,  comma
2,  cod.   proc.   pen.   prescinderebbe   dall'adempimento   postumo
dell'iscrizione del dichiarante nel registro delle notizie di  reato:
si tratterebbe, infatti, di adempimento non previsto dalla norma, che
finirebbe per far dipendere l'inutilizzabilita'  delle  dichiarazioni
irritualmente  assunte  dalla  «resipiscenza»   tardiva   dell'organo
inquirente, col risultato di avallare proprio la  prassi  illegittima
che la disposizione vorrebbe contrastare (quella, cioe', di barattare
l'impunita' del dichiarante -  attribuendogli  la  veste  formale  di
testimone, anziche' di indagato - con compiacenti accuse a carico  di
terzi); 
        che, nel  ricordare  tale  contrasto  di  giurisprudenza,  il
rimettente mostra, in concreto, di aderire al  secondo  orientamento:
le censure di costituzionalita' si imperniano, difatti, sull'asserita
assenza di strumenti che, nella situazione considerata, consentano al
giudice di assumere «una prova legalmente idonea»; 
        che, in particolare,  il  giudice  a  quo  basa  la  supposta
violazione tanto del diritto dell'imputato di interrogare le  persone
a sua difesa (art. 111, secondo comma,  Cost.),  quanto  dell'art.  3
Cost., sull'assunto che - sentendo come testi  persone  raggiunte  da
indizi di reita', ma non formalmente indagate -  il  giudice  sarebbe
poi costretto, in sede di decisione,  a  ritenere  inutilizzabili  le
loro  dichiarazioni  (con   conseguente   vanificazione   del   mezzo
istruttorio); 
        che, in pari tempo, pero', il rimettente solleva la questione
sul presupposto che, per «diritto vivente», la  disciplina  dell'art.
210 cod. proc. pen. - a differenza di quella dell'art. 63,  comma  2,
dello stesso codice  -  possa  applicarsi  solo  ove  la  persona  da
esaminare abbia formalmente assunto la  qualita'  di  imputato  o  di
indagato; 
        che, in tal modo, il  giudice  a  quo  non  tiene  conto  del
collegamento sistematico esistente tra l'art.  63,  comma  2,  e  gli
artt. 197, comma 1, lettere a) e b), e 210 cod. proc. pen.; 
        che, come reiteratamente affermato dalla Corte di cassazione,
difatti, l'art. 63,  comma  2,  cod.  proc.  pen.  attua  una  tutela
anticipata delle incompatibilita' con l'ufficio di testimone previste
dall'art. 197, comma  1,  lettere  a)  e  b),  cod.  proc.  pen.  nei
confronti dell'imputato in un procedimento connesso  o  di  un  reato
collegato: incompatibilita' che, a loro volta, impongono che  l'esame
del soggetto avvenga nelle forme dell'art. 210; 
        che, in questa prospettiva, ove si reputi -  come  mostra  di
fare il rimettente - che la sanzione  di  inutilizzabilita'  prevista
dall'art. 63, comma 2, cod. proc. pen.  intervenga  anche  quando  il
dichiarante non e' mai stato iscritto nel registro delle  notizie  di
reato, se ne deve trarre un  logico  corollario:  e,  cioe',  che  il
giudice, una volta delibata la sussistenza a carico del  soggetto  di
indizi di reita', non solo puo', ma  deve  astenersi  dall'esaminarlo
nella veste di testimone, giacche' altrimenti darebbe  adito  proprio
alla  «patologia»  che  la  norma  mira  ad  evitare   (una   precisa
indicazione in tal senso si rinviene nella sentenza  della  Corte  di
cassazione 24 aprile 2007-6  luglio  2007,  n.  26258,  citata  dallo
stesso giudice a quo); 
        che, se cosi'  e',  peraltro  -  escluso  che  il  contributo
all'accertamento  del  fatto  che  il  soggetto   puo'   dare   resti
completamente «neutralizzato» - detto soggetto  non  potrebbe  essere
sentito altrimenti che nelle forme dell'art.  210:  dovrebbe  valere,
cioe', la medesima soluzione applicabile nel caso in  cui  il  teste,
non gia' attinto in precedenza da indizi di reita', renda, nel  corso
dell'esame dibattimentale, dichiarazioni «auto  indizianti»  (ipotesi
regolata  dal  comma  1  dell'art.  63,  verificandosi  la  quale  il
dichiarante andrebbe assunto, per l'appunto,  nelle  forme  dell'art.
210); 
        che, in conclusione, delle due l'una: o  si  ritiene  che  la
sanzione di inutilizzabilita' di cui all'art. 63, comma 2, cod. proc.
pen. colpisca anche le dichiarazioni rese al giudice del dibattimento
da chi non e' mai stato formalmente imputato o  indagato,  ma  allora
bisogna concludere che il giudice ha gia' il potere-dovere di sentire
tale  soggetto  nelle  forme  dell'art.  210,  piuttosto   che   come
testimone; oppure si nega al giudice tale  potere-dovere,  ma  allora
bisogna ritenere - con la giurisprudenza dominante  -  che  anche  la
sanzione di inutilizzabilita' prevista dall'art. 63,  comma  2,  cod.
proc. pen. non  possa  prescindere  dalla  formale  assunzione  delle
qualita' in discorso: conclusione che farebbe peraltro cadere uno dei
presupposti fondanti delle censure di costituzionalita' formulate dal
rimettente; 
        che la combinazione,  operata  dal  giudice  a  quo,  dell'un
assunto con l'altro rende, per converso, contraddittorie le  premesse
ermeneutiche  della  questione  sollevata,  la  quale   va   pertanto
dichiarata    manifestamente    inammissibile    (sulla     manifesta
inammissibilita' della questione sollevata in termini contraddittori,
si vedano, ex plurimis, le ordinanze n. 127 del 2009, n. 427 e n. 218
del 2008). 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale. 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
    Dichiara  la  manifesta  inammissibilita'  della   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 210  del  codice  di  procedura
penale,  sollevata,  in  riferimento  agli  artt.  3  e   111   della
Costituzione, dal Tribunale di Verbania con l'ordinanza  indicata  in
epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009. 
                       Il Presidente: Amirante 
                         Il redattore: Frigo 
                      Il cancelliere: Di Paola 
    Depositata in cancelleria il 29 ottobre 2009. 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola