N. 311 SENTENZA 16 - 26 novembre 2009

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Giudizio di legittimita' costituzionale in via  incidentale  -  Thema
  decidendum - Questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata
  solo dalle parti del giudizio principale - Inammissibilita'. 
- Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 218. 
- Costituzione, artt. 10 e 111. 
Costituzione e leggi costituzionali - Potesta' legislativa  -  Limite
  del rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento  comunitario  e
  dagli obblighi internazionali (art.  117,  primo  comma,  Cost.)  -
  Obblighi  derivanti  dalla  Convenzione  europea  per   i   diritti
  dell'uomo (CEDU) - Eventuale contrasto  di  norma  interna  con  la
  norma internazionale -  Impossibilita'  di  interpretare  la  norma
  interna  in  modo  conforme  alla  disposizione   convenzionale   -
  Necessita'  di  proposizione  della   questione   di   legittimita'
  costituzionale in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. 
- Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 218. 
- Costituzione, art. 117, primo comma;  Convenzione  europea  per  la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali,
  art. 6. 
Impiego pubblico - Personale degli enti locali trasferito  nei  ruoli
  del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario statale (ATA) -
  Trattamento economico - Previsione, con  legge  di  interpretazione
  autentica, dell'inquadramento nelle  qualifiche  funzionali  e  nei
  profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla  base
  del trattamento economico complessivo  in  godimento  all'atto  del
  trasferimento - Dedotta violazione  degli  obblighi  internazionali
  derivanti dall'art. 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte  di
  Strasburgo, per indebita interferenza su  controversie  giudiziarie
  pendenti - Esclusione - Non fondatezza delle questioni. 
- Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 218. 
- Costituzione, art. 117, primo comma;  Convenzione  europea  per  la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali,
  art. 6. 
(GU n.48 del 2-12-2009 )
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
  QUARANTA, Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI,  Sabino  CASSESE,  Maria
  Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO,  Paolo  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe
  FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI; 
ha pronunciato la seguente 
 
                              Sentenza 
 
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art.  1,  comma  218,
della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la  formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello  Stato -  Legge  finanziaria
2006), promossi  dalla  Corte  di  cassazione  con  ordinanza  del  4
settembre 2008 e dalla Corte d'appello di Ancona con n.  5  ordinanze
del 26 settembre 2008, rispettivamente iscritte  ai  numeri  400  del
registro ordinanze 2008, 15, 16, 17, 18 e 19 del  registro  ordinanze
2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  numeri
52, 1ª serie  speciale,  dell'anno  2008  e  5,  1ª  serie  speciale,
dell'anno 2009. 
    Visti l'atto di  costituzione  di  N.  P.  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica del 3 novembre 2009 e nella Camera di
consiglio del 4 novembre 2009 il giudice relatore Giuseppe Tesauro; 
    Uditi gli  avvocati  Isacco  Sullam,  Nicola  Zampieri  e  Arturo
Salerni per N. P. e l'avvocato dello Stato  Giuseppe  Fiengo  per  il
Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - La Corte di cassazione, con ordinanza del 4  settembre  2008
(r.o. n. 400 del 2008), ha sollevato, in  riferimento  agli  articoli
117, primo comma, della Costituzione e 6  della  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali  (infra,  anche  CEDU  o  Convenzione   europea),   resa
esecutiva  con  la  legge  4  agosto  1955,  n.  848,  questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 218,  della  legge  23
dicembre 2005 n. 266 (Disposizioni per  la  formazione  del  bilancio
annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006), il quale
ha stabilito, tra l'altro, che il comma 2 dell'articolo 8 della legge
3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia  di  personale
scolastico), si interpreta nel senso  che  il  personale  degli  enti
locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico  ed
ausiliario (denominato ATA e d'ora in poi cosi' indicato) statale  e'
inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei  profili  professionali
dei  corrispondenti  ruoli  statali,  sulla  base   del   trattamento
economico complessivo in godimento all'atto del trasferimento. 
    2. - La Corte rimettente premette in  fatto  che  la  ricorrente,
appartenente al personale ATA,  gia'  dipendente  di  ente  locale  e
passata alle dipendenze dell'amministrazione  scolastica  statale  ai
sensi dell'art. 8 della legge n. 124 del  1999,  aveva  chiesto,  con
ricorso al Tribunale di Venezia  del  27  marzo  2003,  proposto  nei
confronti del Ministero  dell'istruzione,  dell'universita'  e  della
ricerca, di accertare il proprio diritto al riconoscimento  integrale
dell'anzianita' di servizio maturata al tempo del  trasferimento  del
rapporto di lavoro,  con  condanna  dell'amministrazione  statale  al
pagamento delle conseguenti differenze  retributive  dal  1°  gennaio
2000, oltre interessi e rivalutazione monetaria. 
    Il Tribunale, con la sentenza di cui e'  chiesta  la  cassazione,
aveva accertato «l'invalidita' e la  conseguente  inefficacia»  della
disposizione  contenuta  nell'art.  3,  comma  1,  dell'accordo   tra
l'Agenzia   per   la   rappresentanza   negoziale   delle   pubbliche
amministrazioni  (d'ora  in  poi  ARAN)  ed  i  rappresentanti  delle
organizzazioni e confederazioni sindacali in  data  20  luglio  2000,
recepito nel decreto ministeriale 5 aprile 2001,  per  contrasto  con
quanto stabilito dal combinato disposto dei commi 2 e 3  dell'art.  8
della legge n. 124 del 1999. 
    La  Corte  di  cassazione  espone   che   l'amministrazione,   in
prossimita' dell'udienza, ha invocato la sopravvenuta interpretazione
autentica dell'art. 8 citato, ad opera dell'art. 1, comma 218,  della
legge 23 dicembre 2005, n. 266. 
    2.1. - A giudizio della Corte rimettente tale  norma  possiede  i
requisiti essenziali delle norme interpretative, in quanto procede  a
riscrivere una regola destinata ad operare in termini generali per le
controversie in corso e  per  quelle  future.  Il  citato  comma  218
avrebbe l'espresso intento di precisare e chiarire la  portata  della
norma  interpretata,  limitandosi   ad   intervenire,   con   effetti
retroattivi, soltanto su quei suoi profili  applicativi  che  avevano
originato un contenzioso. Il contenuto normativo  della  disposizione
corrisponderebbe ad uno dei possibili  significati  ascrivibili  alla
disposizione interpretata, in quanto il  legislatore  avrebbe  optato
per una lettura restrittiva del  sintagma  «anzianita'  giuridica  ed
economica» di cui al comma 2 dell'art. 8 della legge n. 124 del 1999. 
    Cio'  posto,  in  punto  di  rilevanza  il   giudice   rimettente
sottolinea la necessita' di dover dare applicazione, nel  giudizio  a
quo, allo ius superveniens, mediante accoglimento del ricorso, con la
conseguenza di dover, peraltro, operare un revirement  rispetto  alle
conclusioni cui era pervenuta, in ordine al senso da attribuire  alla
disposizione del comma 2 dell'art. 8 della legge n. 124 del 1999.  La
Corte di cassazione, infatti, sia  pure  con  percorsi  argomentativi
diversi, aveva affermato «che la garanzia del riconoscimento ai  fini
giuridici, oltreche' economici, dell'anzianita' maturata  presso  gli
enti locali, in favore dei dipendenti  coinvolti  nel  passaggio  dai
ruoli di tali  enti  in  quelli  del  personale  statale,  in  quanto
apprestata dalla legge, non potesse essere ridotta, in forza di norme
di rango inferiore, alla sola garanzia del  riconoscimento  economico
dell'anzianita', e risolversi  nell'attribuzione  al  dipendente  del
c.d. maturato economico, cosi' come disposto nel d.m. 5  aprile  2001
conformemente ai contenuti dell'Accordo 20 luglio 2000 fra  l'ARAN  e
le OO.SS.». 
    Ancora,  a  giudizio  della  Corte  i   dubbi   di   legittimita'
costituzionale della norma interpretativa, peraltro sollecitati dalla
controricorrente, in relazione alla violazione dell'art. 6, comma  1,
della Convenzione europea per la protezione  dei  diritti  dell'uomo,
investono la norma di legge della quale dovrebbe  farsi  applicazione
per la decisione del ricorso. 
    Non sarebbe, invece, configurabile una  questione  pregiudiziale,
ai  sensi  dell'art.  234  del  Trattato  CE,  per  stabilire  se  la
fattispecie a  giudizio  sia  riconducibile  o  meno  alla  direttiva
77/187/CEE  (modificata  dalla  direttiva  98/50/CE),  in  quanto  la
vicenda del trasferimento, previsto dalla  legge  n.  124  del  1999,
sarebbe estranea al campo di applicazione delle direttive comunitarie
in materia di trasferimento d'azienda. 
    2.2. - La ritenuta rilevanza della questione nel giudizio  a  quo
conduce  la  rimettente  a  sottoporre  il  dubbio  di   legittimita'
costituzionale allo scrutinio di non manifesta infondatezza. 
    La Corte di cassazione ricorda, in proposito, che sebbene gia' in
precedenza, con la sentenza 16  gennaio  2008  n.  677,  essa  avesse
concluso nel senso  della  manifesta  infondatezza  della  questione,
nuove  argomentazioni,  anche  addotte  dalla  parte,  impongono   di
affrontare  nuovamente  la   questione,   in   quanto   la   funzione
nomofilattica del giudice di  legittimita'  si  atteggia  in  maniera
diversa  a  seconda  che  la  Corte  sia  chiamata   a   pronunciarsi
sull'esatta osservanza della legge, ovvero a  valutare  la  manifesta
infondatezza di un dubbio di legittimita' costituzionale della stessa
legge. Cio', in  quanto  in  tal  caso  si  tratterebbe  soltanto  di
ritenere o meno manifestamente infondato «un dubbio», formula questa,
che impone  al  giudice  il  dovere  di  sollevare  la  questione  di
costituzionalita', tutte le volte in cui, esclusa  un'interpretazione
costituzionalmente   orientata,   residui   un   «non    implausibile
argomento», che deponga in senso contrario. 
    Tanto premesso, la Corte procede quindi a valutare se  l'art.  1,
comma 218, della legge n. 266 del  2005  contrasti  con  l'art.  117,
primo  comma,  Cost.,  per  violazione  dell'obbligo   internazionale
assunto  dall'Italia  con  la  CEDU,  che,  all'art.  6,   comma   1,
prescrivendo il diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale
indipendente ed imparziale, imporrebbe al potere legislativo  di  non
intromettersi  nell'amministrazione  della   giustizia   allo   scopo
d'influire sulla singola causa o su di una determinata  categoria  di
controversie. 
    Ad avviso della rimettente, occorre verificare se la disposizione
in esame violi l'obbligo dello Stato italiano di rispettare l'art. 6,
comma 1, CEDU, cosi' come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che
fornisce concretezza e contenuto al parametro costituzionale invocato
del rispetto degli obblighi internazionali. 
    Il giudice di  legittimita'  sottolinea  come  in  precedenza  la
sentenza n. 677 del 2008 aveva negato che l'art. 1, comma 218,  della
legge n. 266 del 2005 violasse l'obbligo imposto dall'art.  6,  comma
1, della Convenzione, dal momento che non  sarebbe  sussistito  alcun
elemento che inducesse a  ritenere  la  disposizione  nazionale  come
esclusivamente diretta  ad  influire  sulle  controversie  in  corso.
Piuttosto, risultava  che  il  legislatore  aveva  provveduto  ad  un
complessivo riassetto organizzativo, nell'ambito del  quale  dovevano
ritenersi sussistenti «pressanti ragioni di interesse  generale»  che
rendevano quindi legittimo l'intervento retroattivo. 
    Diversamente, la  Corte  di  cassazione,  nell'odierna  ordinanza
osserva che, sebbene sia vero  che  la  sentenza  sul  caso  Scordino
contro Italia, n. 36813/1997, ed  i  precedenti  in  essa  richiamati
affermino che il divieto di leggi  retroattive  riguarda  l'ingerenza
del  potere   legislativo   nell'amministrazione   della   giustizia,
finalizzata ad una determinata soluzione delle controversie in corso,
altrettanto vero e' che tale giurisprudenza non richiede anche che la
disposizione retroattiva  sia  «esclusivamente  diretta  ad  influire
sulla soluzione delle controversie in corso», ne' che tale scopo  sia
comunque enunciato. Cio', in particolare si desumerebbe dal fatto che
in tali precedenti «la conclusione che l'intervento legislativo volta
a volta esaminato costituisse una non consentita ingerenza del potere
legislativo sull'esercizio della giurisdizione viene raggiunta  sulla
scorta, da una parte, dell'esame del risultato che, nel  procedimento
in  relazione  al  quale  viene  lamentata  l'ingerenza,   ha   avuto
l'applicazione della disposizione  denunciata  e,  dall'altra,  della
considerazione che lo Stato legislatore era, al tempo  stesso,  parte
di quel procedimento e la disposizione interpretativa assegnava  alla
disposizione interpretata un significato vantaggioso per  lo  Stato -
parte»,   come   peraltro   reso   manifesto   dalla   piu'   recente
giurisprudenza della Corte europea (sentenza SCM Scanner  de  l'Ouest
Lyonnais e altri contro Francia,  del  21  giugno  2007,  ricorso  n.
12106/03). 
    A  giudizio  della  Corte  rimettente,  proprio  tali  condizioni
ricorrerebbero nel caso in esame, in quanto il  notevole  contenzioso
in  atto,  inerente  alla  norma  di  interpretazione  autentica,  in
relazione alla quale piu' volte la medesima Corte ha gia' avuto  modo
di pronunciarsi, unitamente al rilevante numero di  ricorsi  pendenti
aventi ad  oggetto  proprio  l'interpretazione  di  detta  normativa,
indurrebbero ragionevolmente a ritenere che la  definizione  di  tale
contenzioso  «nel  senso,  favorevole  allo  Stato   amministrazione,
imposto dalla norma interpretativa, rientrasse certo tra le finalita'
perseguite dal legislatore con l'introduzione di quest'ultima norma». 
    Non solo, ma l'esigenza di «governare una operazione di riassetto
organizzativo» non potrebbe comunque integrare le «imperiose  ragioni
d'interesse generale», richieste dalla giurisprudenza  di  Strasburgo
come condizione per superare il divieto d'ingerenza. Del  resto,  nel
procedimento legislativo non vi sarebbe traccia  alcuna  di  siffatta
esigenza  o  di  altre  ragioni  «imperiose  o  meno»,  come  sarebbe
dimostrato dal fatto che tale  comma,  non  presente  nell'originario
disegno di legge governativo, risulta inserito dalla relatrice  nella
seduta  della  V  Commissione  e  votato  nei  successivi   passaggi,
caratterizzati dal voto «di fiducia». 
    Tale  conclusione  non  potrebbe  essere  esclusa  neppure  dalla
considerazione che il legislatore sarebbe comunque libero di  emanare
norme interpretative che incidano,  in  materia  civile,  su  diritti
attribuiti dalle leggi in vigore, poiche' nel caso in  esame  non  si
tratterebbe di cio', quanto piuttosto  dell'intervento,  a  mezzo  di
leggi retroattive,  sui  giudizi  pendenti  dei  quali  e'  parte  lo
Stato-amministrazione. Infatti, il senso della  giurisprudenza  della
Corte europea e' che «la  parita'  delle  parti  dinanzi  al  giudice
implica la necessita' che il potere  legislativo  non  si  intrometta
nell'amministrazione della  giustizia  allo  scopo  d'influire  sulla
risoluzione della controversia o  di  una  determinata  categoria  di
controversie», scopo questo desunto «dall'incidenza oggettiva che  la
norma denunciata ha  sull'esito  di  controversie  pendenti  e  dalla
qualita' di parte dello Stato-amministrazione in tali controversie». 
    Del  resto,  a  giudizio  della  rimettente,  il  fatto  che   la
retroattivita'  sia   coessenziale   alle   norme   d'interpretazione
autentica  non  sarebbe  di  ostacolo  al  rispetto  del  vincolo  in
questione,  in  quanto  tale  vincolo  esigerebbe  soltanto  che  «il
legislatore  escluda  dall'ambito   di   applicazione   della   norma
interpretativa  o,  piu'  in   generale,   della   norma   dichiarata
retroattiva i processi in corso alla data di entrata in vigore  della
norma, secondo uno schema che il legislatore nazionale ben conosce ed
ha piu' volte praticato». 
    A nulla varrebbe la possibile obiezione secondo  cui  una  simile
tecnica  legislativa  provocherebbe   un   proliferare   d'iniziative
giudiziarie  volto  a  rendere  immodificabile  una   situazione   di
vantaggio,   in    quanto    cio'    sembrerebbe    postulare    «uno
Stato-legislatore  che,  in  rapporti   di   cui   sia   parte   come
Stato-amministrazione, accordi una situazione di  vantaggio  per  non
adempiere l'obbligazione che  su  di  esso  Stato-amministrazione  ne
deriva, riservandosi poi d'intervenire con legge interpretativa». 
    Da ultimo, la Corte di cassazione  evidenzia  come  la  manifesta
infondatezza della  questione  non  avrebbe  potuto  comunque  essere
motivata sulla base della  sentenza  n.  234  del  2007  della  Corte
costituzionale, che aveva dichiarato non  fondata  la  questione,  in
quanto relativa a parametri di costituzionalita'  diversi  da  quello
oggi evocato. 
    3. - Con atto depositato il 30 dicembre 2008, si e' costituita in
giudizio la  parte  privata,  N.  P.,  chiedendo  che  la  norma  sia
dichiarata incostituzionale. A suo giudizio, infatti, la disposizione
in esame deve  ritenersi  costituzionalmente  illegittima  in  quanto
incompatibile con le disposizioni della CEDU, norme  interposte  atte
ad integrare il parametro  costituzionale,  cosi'  come  interpretate
dalla Corte europea, e dunque in contrasto con gli artt.  10,  117  e
111 Cost. 
    La norma sarebbe illegittima per violazione  dei  principi  della
«parita' delle armi», di certezza del diritto e di  indipendenza  del
giudice,  desunti  dall'interpretazione  fornita   dalla   Corte   di
Strasburgo al diritto all'equo processo, contenuto nell'art. 6  della
CEDU. 
    La Corte  di  Strasburgo,  infatti,  avrebbe  in  piu'  occasioni
sottolineato come  lo  Stato  non  possa  introdurre  slealmente  una
interpretazione normativa a suo favore della norma  sub  iudice,  nei
giudizi iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi o
giurisprudenziali. L'applicazione  dello  ius  superveniens  potrebbe
ritenersi lecita soltanto in presenza di «imperieux motifs  d'interet
general», non ravvisabili in «mere  esigenze  di  natura  finanziaria
connesse al rischio derivante dalla soccombenza nei  giudizi  avviati
nei confronti dello Stato amministrazione». 
    La parte privata, inoltre, precisa come in  contrario  non  possa
richiamarsi la circostanza che il principio  del  maturato  economico
fosse gia' contenuto nell'accordo del 20 luglio  2001,  poiche'  tale
atto sarebbe «intervenuto nell'ambito del quadro normativo  tracciato
dall'art. 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428  (Disposizioni  per
l'adempimento di  obblighi  derivanti  dall'appartenenza  dell'Italia
alle Comunita' europee - Legge comunitaria per il 1990), commi da 1 a
4,  che  contempla  esclusivamente  obblighi  di  informazione  e  di
consultazione»,  ed  anche  perche'  esso  risulterebbe  inteso   dal
Ministero dell'istruzione,  dell'universita'  e  della  ricerca  come
contratto derogatorio rispetto all'art. 8  della  legge  n.  124  del
1999, ritenuto ammissibile in forza  della  pretesa  riconducibilita'
della fattispecie in esame  all'art.  2  del  decreto  legislativo  3
febbraio 1993, n.  29  (Razionalizzazione  dell'organizzazione  delle
amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia  di
pubblico impiego, a norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992
n. 421). 
    Qualunque legge interpretativa che interferisca sulle  iniziative
giudiziarie promosse  nei  confronti  dello  Stato  sarebbe,  dunque,
lesiva dell'autonomia della  funzione  giurisdizionale  e  del  ruolo
nomofilattico della  Corte  di  cassazione,  poiche',  anche  qualora
sussistano situazioni di incertezza nell'applicazione del  diritto  o
siano insorti  contrasti  giurisprudenziali,  esclusivamente  a  tale
Corte competerebbe risolvere tali contrasti. 
    Ancora, si aggiunge, il  rapporto  tra  la  normativa  interna  e
quella   della   Convenzione   europea,   come   interpretata   dalla
giurisprudenza  della   Corte,   e'   regolato   dal   principio   di
sussidiarieta' dell'intervento della Corte di Strasburgo,  desumibile
dagli articoli 1 e 13, nonche' dagli artt. 19, 34 e 35 della medesima
Convenzione, che affidano alla giurisdizione del giudice  interno  il
compito di  primo  tutore  dei  diritti  dell'uomo,  con  conseguente
obbligo di disapplicare la disciplina interna non conforme. 
    Nel caso di specie la  legge  finanziaria  per  il  2006  avrebbe
certamente violato l'art. 6 della Convenzione europea, atteso che non
solo la norma sarebbe contenuta in una legge normalmente deputata  «a
far   cassa»,   ma   sarebbe   stata   anche    inserita    con    un
«super-emendamento» governativo ed approvata ricorrendo  al  voto  di
fiducia. 
    Tale soluzione interpretativa,  inoltre,  in  quanto  intervenuta
dopo quasi sei anni dall'entrata in vigore della norma  interpretata,
avrebbe inciso  sul  «diritto  vivente»  formatosi  in  relazione  al
computo dell'anzianita' maturata nel comparto enti locali. 
    A giudizio della parte, non varrebbe in contrario  richiamare  la
sentenza della Corte costituzionale n. 234 del 2007 poiche'  in  tale
decisione si darebbe comunque atto che «la disposizione dell'art.  8,
comma 2, della legge n. 124 del 1999,  rappresentava  una  deroga  al
principio generale vigente all'epoca della  sua  entrata  in  vigore,
rispetto  alla  quale  la  norma  ora  censurata  si  presenta   come
ripristino della regola generale». La Corte  costituzionale  avrebbe,
dunque, riconosciuto, con una sentenza  «aspramente  criticata»,  che
l'interpretazione autentica fornita  dalla  legge  finanziaria  aveva
carattere   innovativo,   salvo   sostenere   poi   la   legittimita'
dell'efficacia retroattiva dell'interpretazione in  quanto  in  linea
con il  principio  del  maturato  economico  introdotto  con  valenza
generale dalla legge 11 luglio 1980, n. 312. Norma  questa,  che  non
avrebbe nulla a che vedere con la fattispecie del  trasferimento  del
personale ATA, in quanto disposizione disciplinante la sola mobilita'
compartimentale e neppure in vigore al  momento  dell'adozione  della
citata legge n. 124 del 1999. 
    La parte privata,  inoltre,  sottolinea  come  non  ci  si  trovi
affatto in presenza di un'esigenza di  governare  una  operazione  di
riassetto  organizzativo  di  ampia  portata,  non  solo  perche'  il
passaggio del personale risale al 1° gennaio 2000, ma  anche  perche'
nel caso di specie non vi sarebbe  stata  alcuna  «riorganizzazione»,
poiche' i bidelli passati  nei  ruoli  ministeriali  gia'  lavoravano
nelle scuole statali  e  hanno  continuato  a  svolgere  le  medesime
mansioni. 
    Si  afferma,  poi,  che  anche  il  presunto  danno   finanziario
quantificato dall'Avvocatura dello Stato in alcuni milioni  di  euro,
non potrebbe integrare gli «imperieux motifs d'interet  general»,  in
quanto la Corte di Strasburgo avrebbe con chiarezza precisato che  un
motivo  finanziario  non  consentirebbe,  di   per   se'   solo,   di
giustificare un intervento legislativo di questo tipo. 
    Quanto alla violazione dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  si
riconosce che la Corte costituzionale  ha  gia'  avuto  occasione  di
evidenziare che «le disposizioni della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo, nell'interpretazione che ad  esse
attribuisce la Corte europea dei diritti  dell'uomo,  integrando  uno
degli  obblighi  internazionali,  cui  si   riferisce   il   precetto
costituzionale, possono assumere il rango di  fonte  integrativa  del
parametro di costituzionalita' di  cui  all'art.  117,  primo  comma,
Cost., determinando l'incostituzionalita' della legge  ordinaria  con
essa contrastante». Tuttavia, come  riconosciuto  dal  Governo  nella
relazione sullo  stato  di  esecuzione  delle  pronunce  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo nei confronti dello Stato italiano  per
l'anno 2007, la giurisprudenza della Corte non avrebbe risolto in via
definitiva la problematica dei  rapporti  fra  le  norme  CEDU  e  la
normativa costituzionale e ordinaria, in quanto la posizione espressa
dalla Corte costituzionale non «appare in sintonia con  quella  nella
quale si pone la stessa Corte europea, nelle  sue  sentenze  e  nelle
dichiarazioni del suo Presidente». 
    Dal  confronto  tra  i  due  regimi  contrattuali   risulterebbe,
inoltre, evidente che il Ministero, per effetto dell'inserimento  nei
propri ruoli del personale ATA prima dipendente  dagli  enti  locali,
avrebbe  beneficiato  di  ingenti   risparmi   nel   monte   stipendi
complessivo,  derivanti  dalla  mancata  erogazione  di  tutti   quei
compensi individuali accessori previsti dai soli contratti collettivi
del comparto enti locali e coperti solo in parte dal maggiore salario
tabellare. 
    Da ultimo, la parte privata  assume  che  la  questione  comporta
profili di valutazione costituzionale e  di  conformita'  del  nostro
ordinamento con quello comunitario, in  quanto  i  diritti  garantiti
dall'art.   6   della    Convenzione    europea    sarebbero    stati
«comunitarizzati» dall'art. 6, paragrafo 2, del Trattato  sull'Unione
europea (al quale fa  rinvio  il  successivo  art.  46  del  Trattato
stesso), nonche' dal Trattato di Lisbona, ratificato dall'Italia  con
la legge 2 agosto 2008, n. 130, recante il  recepimento  della  CEDU,
quale norma fondamentale di diritto comunitario. 
    Del resto, la stessa Corte di giustizia avrebbe statuito  che  il
diritto  ad  un  equo  processo,  come  si  desume,  in  particolare,
dall'art. 6 della  CEDU,  costituisce  un  diritto  fondamentale  che
l'Unione europea rispetta  in  quanto  principio  generale  in  forza
dell'art. 6, paragrafo 2, TUE. Sicche', la mancata declaratoria della
incostituzionalita' della norma in esame si concretizzerebbe  in  una
violazione dell'art. 6 del Trattato e dell'art. 6, paragrafo 1, della
Convenzione. 
    4. - Il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
giudizio con atto depositato il 5 gennaio 2009 ed ha chiesto  che  la
questione sia dichiarata inammissibile o non fondata. 
    La difesa erariale, richiamando  la  sentenza  resa  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo nella causa Scordino contro  Italia  n.
36813/1997, ritiene che l'interpretazione di tale decisione sostenuta
nell'ordinanza di rimessione sia forzata e ricorda che  la  Corte  di
cassazione, con la sentenza n.  677  del  2008,  ha  gia'  dichiarato
manifestamente  infondata  la  medesima  questione.  In  quest'ultima
decisione, prosegue ancora il Presidente del Consiglio dei  ministri,
i giudici di legittimita' hanno affermato che «emerge  con  chiarezza
che il legislatore nazionale e' restato entro i limiti  consentitigli
dalla Convenzione europea», non essendovi alcun elemento che induca a
ritenere la disposizione nazionale  come  esclusivamente  diretta  ad
influire sulla soluzione delle  controversie  in  corso,  rivelandosi
piuttosto   l'esigenza   di   «armonizzare   situazioni    lavorative
differenziate all'origine ma bisognose di regole unitarie, una  volta
determinatasi la confluenza dei lavoratori in un unico  comparto,  in
conformita', del resto, al principio di  parita'  di  trattamento  di
situazioni analoghe nella disciplina dei rapporti di lavoro pubblico,
dove tale principio ha un notevole rilievo  teorico  e  pratico».  In
altri termini, secondo la Corte di cassazione, con la norma in  esame
il legislatore avrebbe provveduto  a  «governare  una  operazione  di
riassetto organizzativo di  ampia  portata»  cosi'  da  far  ritenere
«palesemente ravvisabili, nel caso di specie, le pressanti ragioni di
interesse generale che abilitano, secondo  la  Corte  europea,  anche
interventi retroattivi,  tanto  piu'  quando  questi  non  comportino
vanificazione pressoche' totale di crediti gia' sorti  ma  implichino
una rimodulazione del diritto in  una  delle  direzioni  in  astratto
plausibili anche secondo la legge precedente». 
    Sulla base di tali indicazioni  la  difesa  erariale  puntualizza
che, nel caso in esame, non puo'  ritenersi  violato  il  divieto  di
ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia
allo  scopo  di  influenzare   la   conclusione   giudiziaria   della
controversia desumibile dalla sentenza cosiddetta  Scordino,  poiche'
«scopo dell'intervento legislativo non era affatto, in via  primaria,
[...] quello di  influenzare  l'esito  di  una  controversia,  bensi'
quello [...] di regolamentare una volta per tutte,  esprimendo  quale
fosse  l'originario  ed  autentico  intento  del   legislatore,   una
complessa vicenda di passaggio di personale dagli  enti  locali  allo
Stato». Tale scopo e' stato perseguito -  ad  avviso  dell'Avvocatura
generale dello Stato - mediante una legge interpretativa, con cui  si
e' puntualizzato quale  fosse  il  reale  significato  da  attribuire
all'art. 8, comma 2, della legge  n.  124  del  1999,  in  linea  con
l'orientamento espresso  dalle  parti  sociali  nell'accordo  del  20
luglio 2000 oltre  che  da  parte  della  giurisprudenza.  La  difesa
erariale sottolinea, altresi', come nella specie siano ravvisabili le
ragioni  di  interesse  generale   corrispondenti   all'esigenza   di
assicurare che il trasferimento del personale  ATA  dipendente  degli
enti locali nei ruoli dello Stato, pur avvenendo senza maggiori oneri
per le finanze dello Stato, consenta il mantenimento delle  posizioni
giuridiche spettanti al personale nell'ambito dell'ordinamento  degli
enti locali, salvaguardando il livello  retributivo  del  dipendente.
Infatti, proprio in  considerazione  della  diversa  struttura  della
retribuzione, l'una, quella di provenienza, calcolata  in  base  alle
funzioni  e  ai  compiti  realmente  svolti,   l'altra,   quella   di
destinazione,  commisurata  in  base  all'anzianita'   di   servizio,
occorreva prevedere una precisa regolamentazione idonea a  garantire,
senza maggiori oneri per lo Stato, uniformita' di trattamento. 
    5. - In prossimita' dell'udienza pubblica sia  la  parte  privata
che   l'Avvocatura   dello   Stato    hanno    depositato    memorie,
rispettivamente  in  data  12  ottobre  2009  e  13   ottobre   2009,
confermando  le  conclusioni   gia'   formulate,   e   ribadendo   le
argomentazioni svolte a sostegno delle proprie ragioni. 
    6. - Analoghe questioni di legittimita' costituzionale  dell'art.
1, comma 218, della legge n. 266 del 2005 sono state  sollevate,  con
cinque distinte ordinanze (reg. ord. nn. 15, 16,  17,  18  e  19  del
2009), di identico contenuto, adottate il  26  settembre  2008  dalla
Corte d'appello di Ancona, per la trattazione delle quali la Corte e'
stata convocata in camera di consiglio. 
    Il giudice rimettente premette, in fatto,  che  il  Tribunale  di
Ascoli Piceno aveva respinto la domanda di alcuni  dipendenti  di  un
ente locale, transitati nei ruoli dell'amministrazione dello Stato ex
art. 8 della legge n. 124 del 1999,  di  riconoscimento  del  diritto
alla attribuzione della anzianita' prestata presso l'ente  locale  di
provenienza, ai fini della progressione economica e  stipendiale  nel
comparto  scuola,  e  di  corresponsione  delle  relative  differenze
economiche. Avverso tale sentenza i  dipendenti  proponevano  appello
dinanzi all'odierno rimettente, censurando l'interpretazione data dal
giudice di primo grado  alla  norma  predetta  nonche'  agli  accordi
sindacali ed ai decreti ministeriali successivamente  intervenuti  in
materia   ed   insistendo   per   l'accoglimento    della    domanda.
L'amministrazione  appellata  invocava  l'applicazione  dell'art.  1,
comma 218, della legge n. 266 del 2005, di interpretazione  autentica
dell'art. 8 della legge n. 124 del 1999, e  richiamava  la  pronunzia
della Corte  costituzionale  n.  234  del  2007  che  aveva  respinto
l'eccezione di  illegittimita'  costituzionale  della  citata  norma,
mentre le parti appellanti prospettavano  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 218, della legge n. 266  del  2005,
sotto il profilo del contrasto con l'art. 6 della CEDU. 
    Il rimettente,  pronunciandosi  sulla  prospettata  questione  ed
argomentatane la rilevanza, osserva che il dubbio di contrasto  della
norma denunciata con la Costituzione deriva dal  rilievo  che  l'art.
117, primo comma, Cost. impone allo  Stato  legislatore  il  rispetto
dell'obbligo internazionale assunto con la sottoscrizione e  ratifica
della CEDU, il cui art. 6, comma 1,  prescrive  il  diritto  di  ogni
persona ad un giusto processo dinanzi ad un giudice  indipendente  ed
imparziale, con conseguente obbligo del  potere  legislativo  di  non
ingerirsi  nella  amministrazione  della   giustizia   per   influire
sull'esito di una controversia o di una categoria di esse. 
    Il rimettente ricorda che l'art. 6, comma  1,  della  CEDU,  come
interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo
nella causa Scordino contro Italia n. 36813/1997, nel prescrivere  il
diritto al giusto processo, se da un lato non assicura  nel  processo
civile  l'immutabilita'  della  norma  da  applicare  per   tutti   i
procedimenti in corso, obbliga dall'altro lo Stato a  non  esercitare
un'ingerenza  normativa  finalizzata  ad  ottenere  una   determinata
soluzione  delle  controversie  in  corso,  salvo  che   l'intervento
retroattivo  sia  giustificato  da  «motivi  imperiosi  di  carattere
generale». 
    7. - Anche in questi giudizi, con atto depositato il 23  febbraio
2009, e'  intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. 
    La difesa erariale, ricordando che  analoga  questione  e'  stata
sollevata dalla Corte  di  cassazione,  fa  integrale  richiamo  alle
argomentazioni svolte nell'atto di intervento gia' spiegato in quella
sede, atte a confutare la fondatezza della questione di  legittimita'
costituzionale anche nel caso in esame.  Aggiunge,  inoltre,  che  la
medesima norma di  legge  e'  stata  gia'  oggetto  di  controllo  di
costituzionalita' per diverse, ma connesse motivazioni  (sentenza  n.
234 del 2007 ed ordinanza n. 400 del 2007) e che la stessa  Corte  di
cassazione,  con  la  sentenza  n.  677  del  2008,   ha   dichiarato
manifestamente  infondata  la  medesima  questione.  In  quest'ultima
sentenza, ribadisce ancora il Presidente del Consiglio dei  ministri,
la Corte ha affermato come non risulti alcun elemento  che  induca  a
ritenere la disposizione nazionale  come  esclusivamente  diretta  ad
influire sulla soluzione delle  controversie  in  corso,  rivelandosi
piuttosto   l'esigenza   di   armonizzare    situazioni    lavorative
differenziate all'origine, ma bisognose di regole unitarie. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Vengono all'esame della Corte piu' ordinanze di rimessione -
la prima trattata all'udienza pubblica del 3 novembre 2009 e le altre
nella camera di consiglio del successivo 4 novembre - con le quali la
Corte di cassazione (r.o. n. 400 del 2008) e la Corte di  appello  di
Ancona (r.o. nn. 15, 16, 17,  18  e  19  del  2009)  hanno  sollevato
questioni di legittimita'  costituzionale  dell'art.  1,  comma  218,
della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la  formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato  -  Legge  finanziaria
2006). 
    1.1. - In virtu'  dell'identita'  delle  questioni  sollevate  va
disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un'unica pronuncia. 
    2. - La norma censurata interpreta l'art. 8, comma 2, della legge
3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia  di  personale
scolastico), che, nel disciplinare il trasferimento di dipendenti  di
enti locali nei ruoli statali del personale amministrativo, tecnico e
ausiliario (ATA) del settore  scuola,  ne  prevedeva  l'inquadramento
nelle   qualifiche   funzionali   e   nei    profili    professionali
corrispondenti, consentendo l'opzione  per  l'ente  di  appartenenza,
qualora  le   qualifiche   e   i   profili   non   avessero   trovato
corrispondenza.  La  norma  aveva  stabilito -  questo  e'  il  punto
controverso -  che  a  detto  personale  e'  riconosciuta  «ai   fini
giuridici ed economici l'anzianita' maturata presso l'ente locale  di
provenienza». Successivamente, un accordo tra l'ARAN (Agenzia per  la
rappresentanza  negoziale  delle  pubbliche  amministrazioni)  e   le
organizzazioni sindacali, recepito da uno dei decreti ministeriali di
attuazione della legge n. 124 del 1999 (decreto  del  Ministro  della
pubblica istruzione, di concerto con  i  Ministri  dell'interno,  del
bilancio e della funzione pubblica del 5 aprile 2001),  ai  fini  del
primo inquadramento, aveva  considerato  il  principio  del  maturato
economico in luogo di quello della complessiva anzianita' conseguita.
Sul tema si era aperto un diffuso contenzioso e la  stessa  Corte  di
cassazione  aveva  in  piu'  occasioni  negato  che  il  diritto   al
riconoscimento  dell'anzianita'  «ai  fini  giuridici  ed  economici»
attribuito dalla legge n. 124  del  1999  potesse  essere  ridotto  a
quello del maturato economico da una disciplina di rango inferiore. 
    E' su questo specifico quadro normativo e  giurisprudenziale  che
ha inteso intervenire il legislatore con la norma interpretativa  qui
censurata. Tale disposizione, infatti, allo  scopo  di  ribadire  con
legge ordinaria quanto  gia'  prefigurato  dal  decreto  ministeriale
sulla base della posizione espressa dalle  organizzazioni  sindacali,
stabilisce: «il comma 2 dell'articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n.
124, si interpreta nel senso  che  il  personale  degli  enti  locali
trasferito  nei  ruoli  del  personale  amministrativo,  tecnico   ed
ausiliario (ATA) statale e' inquadrato, nelle qualifiche funzionali e
nei profili professionali dei  corrispondenti  ruoli  statali,  sulla
base del trattamento economico complessivo in godimento all'atto  del
trasferimento, con  l'attribuzione  della  posizione  stipendiale  di
importo pari o  immediatamente  inferiore  al  trattamento  annuo  in
godimento al 31  dicembre  1999  costituito  dallo  stipendio,  dalla
retribuzione  individuale  di   anzianita'   nonche'   da   eventuali
indennita',  ove  spettanti,  previste   dai   contratti   collettivi
nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data
dell'inquadramento.  L'eventuale  differenza  tra   l'importo   della
posizione stipendiale di inquadramento  e  il  trattamento  annuo  in
godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, viene corrisposta
ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini  del
conseguimento della successiva posizione stipendiale. E' fatta  salva
l'esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata  in  vigore
della presente legge». 
    3. - La Corte di cassazione, e  cosi'  anche  gli  altri  giudici
rimettenti,  dubitano   della   legittimita'   costituzionale   della
disposizione di legge interpretativa, per violazione  dell'art.  117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della Convenzione europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955,
n. 848 (infra, anche CEDU o Convenzione europea). 
    Tale norma internazionale, che sancisce il principio del  diritto
ad un  giusto  processo  dinanzi  ad  un  tribunale  indipendente  ed
imparziale,  imporrebbe  al  legislatore  di  uno  Stato  contraente,
nell'interpretazione della Corte europea  dei  diritti  dell'uomo  di
Strasburgo, di non interferire nell'amministrazione  della  giustizia
allo scopo d'influire sulla singola causa o  su  di  una  determinata
categoria  di  controversie,  attraverso  norme  interpretative   che
assegnino alla disposizione interpretata un  significato  vantaggioso
per lo Stato parte  del  procedimento,  salvo  il  caso  di  «ragioni
imperative d'interesse generale». 
    Ad  avviso  dei  rimettenti,  il  legislatore  nazionale  avrebbe
emanato  una  norma  interpretativa  in  presenza  di   un   notevole
contenzioso  e  di  un  orientamento  della   Corte   di   cassazione
sfavorevole allo Stato, in tal modo violando il principio di «parita'
delle armi»,  non  essendo  l'invocata  esigenza  di  «governare  una
operazione  di  riassetto  organizzativo»  del  settore   interessato
dell'amministrazione  pubblica  sufficiente   ad   integrare   quelle
«ragioni imperative  d'interesse  generale»  che  permetterebbero  di
escludere la violazione del divieto d'ingerenza. 
    4. - Le questioni  vanno  esaminate  entro  i  limiti  del  thema
decidendum individuato dalle ordinanze  di  rimessione,  non  potendo
essere prese in considerazione, secondo la giurisprudenza  di  questa
Corte, le censure svolte solo dalle  parti  del  giudizio  principale
(per tutte, sentenze n. 310 e n. 234 del 2006, n. 349 del 2007). 
    Sono pertanto inammissibili le questioni  sollevate  dalla  parte
privata costituitasi nel giudizio di cui  all'ordinanza  n.  400  del
2008, con riferimento agli  artt.  10  e  111  Cost.,  parametri  non
invocati dai giudici rimettenti. 
    5. - Nel merito la questione non e' fondata. 
    6. - Il contenuto delle censure impone, in linea preliminare,  di
ricordare quale sia, secondo la giurisprudenza di  questa  Corte,  il
rango  e  l'efficacia  delle  norme   della   CEDU   ed   il   ruolo,
rispettivamente, dei giudici nazionali e della Corte  di  Strasburgo,
nell'interpretazione ed applicazione della Convenzione europea. 
    Siffatta questione e' stata  affrontata  e  decisa,  di  recente,
dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le quali hanno rilevato  che
l'art. 117, primo  comma,  Cost.,  ed  in  particolare  l'espressione
«obblighi internazionali» in esso contenuta, si riferisce alle  norme
internazionali convenzionali anche diverse da quelle  comprese  nella
previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Cosi' interpretato, l'art.  117,
primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto  alle
norme che a livello costituzionale  garantiscono  l'osservanza  degli
obblighi internazionali pattizi. La conseguenza e' che  il  contrasto
di una norma nazionale con una norma  convenzionale,  in  particolare
della CEDU, si traduce in una violazione dell'art. 117, primo  comma,
Cost. 
    Questa Corte ha, inoltre, precisato nelle predette  pronunce  che
al giudice nazionale, in quanto  giudice  comune  della  Convenzione,
spetta   il    compito    di    applicare    le    relative    norme,
nell'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla  quale
questa competenza  e'  stata  espressamente  attribuita  dagli  Stati
contraenti. 
    Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma  interna  e
una norma della Convenzione  europea,  il  giudice  nazionale  comune
deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme
a quella convenzionale, fino a dove cio'  sia  consentito  dal  testo
delle disposizioni a confronto  e  avvalendosi  di  tutti  i  normali
strumenti di ermeneutica giuridica. Beninteso, l'apprezzamento  della
giurisprudenza  europea  consolidatasi  sulla  norma  conferente   va
operato in modo da rispettare la sostanza di  quella  giurisprudenza,
secondo un criterio gia' adottato dal giudice comune  e  dalla  Corte
europea (Cass. 20 maggio 2009, n. 10415;  Corte  eur.  dir.  uomo  31
marzo 2009, Simaldone contro Italia, ric. n. 22644/03). 
    Solo quando ritiene che non sia possibile comporre  il  contrasto
in via interpretativa, il giudice comune, il quale non puo' procedere
all'applicazione della norma della CEDU (allo stato, a differenza  di
quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo  di  quella
interna contrastante, tanto  meno  fare  applicazione  di  una  norma
interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con  la  CEDU,  e
pertanto  con  la  Costituzione,  deve  sollevare  la  questione   di
costituzionalita' (anche sentenza n. 239 del 2009),  con  riferimento
al  parametro  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  ovvero   anche
dell'art. 10,  primo  comma,  Cost.,  ove  si  tratti  di  una  norma
convenzionale ricognitiva di una  norma  del  diritto  internazionale
generalmente riconosciuta. La clausola del  necessario  rispetto  dei
vincoli derivanti dagli obblighi  internazionali,  dettata  dall'art.
117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo  di  rinvio  mobile
del diritto interno alle norme internazionali pattizie  di  volta  in
volta rilevanti, impone infatti il  controllo  di  costituzionalita',
qualora il giudice comune ritenga lo  strumento  dell'interpretazione
insufficiente ad eliminare il contrasto. 
    Sollevata la questione di legittimita' costituzionale,  spetta  a
questa Corte il compito anzitutto  di  verificare  che  il  contrasto
sussista  e  che  sia  effettivamente   insanabile   attraverso   una
interpretazione plausibile, anche sistematica,  della  norma  interna
rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane  dalla  Corte
di Strasburgo. La Corte dovra' anche, ovviamente, verificare  che  il
contrasto sia determinato da un tasso di tutela della norma nazionale
inferiore a quello garantito dalla norma CEDU,  dal  momento  che  la
diversa ipotesi e' considerata espressamente compatibile dalla stessa
Convenzione europea all'art. 53. 
    In caso di contrasto, dovra' essere  dichiarata  l'illegittimita'
costituzionale della disposizione interna  per  violazione  dell'art.
117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma della CEDU. 
    Questa Corte ha anche affermato, e qui intende ribadirlo, che  ad
essa e' precluso di  sindacare  l'interpretazione  della  Convenzione
europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione e' stata
attribuita dal nostro Paese senza  apporre  riserve;  ma  alla  Corte
costituzionale compete, questo si', di verificare se la  norma  della
CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga  in
conflitto con altre norme conferenti della  nostra  Costituzione.  Il
verificarsi di tale ipotesi, pure eccezionale, esclude l'operativita'
del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua  idoneita'  ad
integrare il parametro dell'art. 117,  primo  comma,  Cost.;  e,  non
potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimita',  comporta  -
allo stato - l'illegittimita', per quanto di ragione, della legge  di
adattamento (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007). 
    7. - Posta questa premessa, occorre  individuare  la  natura,  la
portata e gli obiettivi perseguiti  dalla  norma  censurata,  tenendo
conto che la disciplina del trasferimento del personale  ATA  di  cui
alla legge n. 124  del  1999  e  la  norma  che  ha  interpretato  la
disposizione qui rilevante hanno gia' formato oggetto di scrutinio da
parte  di  questa  Corte,  sia  pure   in   relazione   a   parametri
costituzionali  diversi  dall'art.  117,  primo  comma,  Cost.,   qui
invocato. La sentenza n. 234 del 2007 e le ordinanze n. 400 del  2007
e n. 212 del 2008 hanno, rispettivamente, dichiarato  non  fondate  e
manifestamente infondate  le  questioni  di  costituzionalita'  della
predetta norma interpretativa sollevate in riferimento agli artt.  3,
24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113 Cost. 
    Per quanto qui interessa,  la  disciplina  dettata  dall'art.  8,
comma  2,  della  legge  n.  124  del  1999,  e'   stata   ricondotta
all'esigenza di armonizzare, con una normativa transitoria  di  primo
inquadramento, «il passaggio del personale in questione da un sistema
retributivo disciplinato a regime ad  un  altro  sistema  retributivo
ugualmente disciplinato a regime, salvaguardando, proprio per  quanto
attiene al  profilo  economico,  i  livelli  retributivi  maturati  e
attribuendo agli interessati, a partire dal  nuovo  inquadramento,  i
diritti riconosciuti al personale ATA statale. Tutto cio' allo  scopo
di rendere, almeno tendenzialmente, omogeneo il  sistema  retributivo
di tutti i dipendenti ATA, al di la' delle rispettive provenienze  e,
comunque,  salvaguardando  il  diritto  di  opzione  per  l'ente   di
appartenenza nel caso  di  mancata  corrispondenza  di  qualifiche  e
profili» (sentenza n. 234 del 2007). 
    In  tale  contesto,   secondo   questa   Corte,   l'inquadramento
stipendiale nei ruoli statali del personale ATA, in ragione del  solo
cosiddetto maturato  economico,  costituiva  una  delle  possibili  e
plausibili varianti di lettura della norma, avallata, tra l'altro, in
sede di accordo siglato tra l'Agenzia per la rappresentanza negoziale
delle pubbliche  amministrazioni  (ARAN)  e  i  rappresentanti  delle
organizzazioni e confederazioni dei dipendenti. Cio', in particolare,
considerando che tale principio era  stato  introdotto,  con  valenza
generale, gia' dalla legge 11 luglio 1980,  n.  312,  recante  «Nuovo
assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare  dello
Stato». 
    Le pronunce sopra richiamate hanno escluso la sussistenza  di  un
legittimo affidamento  con  riferimento  al  trattamento  retributivo
derivante  dalla  valutazione,  ai  fini  giuridici   ed   economici,
dell'intera anzianita' maturata presso gli enti  di  provenienza,  in
considerazione sia del tipo di interpretazione adottata  in  sede  di
contrattazione collettiva, pressoche' contestualmente all'entrata  in
vigore della citata legge, sia del richiamo, espresso,  al  principio
dell'invarianza della  spesa  in  sede  di  primo  inquadramento  del
personale proveniente dagli enti locali. 
    Questa Corte ha dunque negato,  come  anche  in  precedenti  piu'
remoti (sentenze n. 618 del 1987 e n. 296 del 1984), che  si  potesse
postulare l'illegittimita' di qualsiasi regolamentazione  transitoria
che non si limitasse «alla conservazione del  trattamento  precedente
"ad esaurimento" o alla pura e semplice applicazione  illimitatamente
retroattiva del trattamento nuovo: soluzioni,  certo,  possibili,  ma
non imposte dal precetto costituzionale in argomento». 
    Infine, la sentenza n. 234 del  2007  ha  anche  escluso  che  la
disposizione interpretativa censurata desse luogo ad  una  disparita'
di trattamento fra coloro che, all'entrata  in  vigore  della  norma,
avessero  gia'  ottenuto  un  giudicato  favorevole   rispetto   alla
disciplina applicabile e coloro che fossero soltanto in attesa  della
formazione del giudicato sulla loro pretesa. 
    8. - Occorre ora verificare in che modo la  Corte  europea  abbia
applicato l'art. 6 della CEDU,  in  relazione  alle  norme  nazionali
interpretative concernenti disposizioni oggetto di  procedimenti  nei
quali e' parte lo Stato. 
    I rimettenti ricordano, fra l'altro,  la  decisione  relativa  al
caso Scanner de L'Ouest Lyonnais  e  altri  contro  Francia,  del  21
giugno del 2007. In tale occasione la Corte europea ha ribadito  che,
mentre, in  linea  di  principio,  al  legislatore  non  e'  precluso
intervenire in materia civile, con nuove disposizioni retroattive, su
diritti sorti in base alle leggi vigenti, il principio dello Stato di
diritto e la nozione di processo equo sancito dall'articolo  6  della
CEDU  vietano  l'interferenza  del  legislatore  nell'amministrazione
della giustizia destinata a influenzare l'esito  della  controversia,
fatta eccezione che  per  motivi  imperativi  di  interesse  generale
(«imperieux motifs d'interet general»). La stessa  Corte  europea  ha
ricordato,  inoltre,  che  il  requisito  della  parita'  delle  armi
comporta l'obbligo di dare alle parti una ragionevole possibilita' di
perseguire le proprie  azioni  giudiziarie,  senza  essere  poste  in
condizione di sostanziale svantaggio rispetto agli avversari. 
    Tale  orientamento,  che  trova  i  suoi  precedenti   nei   casi
Raffineries Grecques Stran e Stratis Andreadis contro  Grecia  del  9
dicembre 1994, e Zielinski e altri contro  Francia,  del  28  ottobre
1999, censura la prassi di interventi legislativi  sopravvenuti,  che
modifichino retroattivamente in senso sfavorevole per gli interessati
le disposizioni di legge attributive di diritti, la cui lesione abbia
dato luogo ad azioni  giudiziarie  ancora  pendenti  all'epoca  della
modifica. 
    Questa  prassi  puo'  essere  suscettibile  di   comportare   una
violazione  dell'art.  6  della  CEDU,  risolvendosi  in  un'indebita
ingerenza   del   potere   legislativo   sull'amministrazione   della
giustizia. Nel caso Zielinski e altri contro Francia, in  particolare
(come prima nel caso Papageorgiou  contro  Grecia,  sentenza  del  22
ottobre 1997), si e' riaffermato il principio che nega ogni  indebita
interferenza del legislatore, fatta salva la sussistenza  di  «motivi
imperativi di interesse generale». La  Corte  europea,  tuttavia,  ha
precisato che siffatti motivi non ricorrevano nella specie, in quanto
il mero rischio finanziario, denunciato dal Governo ed  espressamente
indicato dalla Corte costituzionale, non consentiva di per se' che il
legislatore  si  sostituisse  alle  parti   sociali   del   contratto
collettivo, oggetto del contenzioso. La Corte, quindi, verificata  la
sussistenza   di   orientamenti   giurisprudenziali   favorevoli   ai
ricorrenti, ha censurato la norma interpretativa che era sopravvenuta
retroattivamente, nonostante gli accordi  collettivi  intervenuti  in
senso contrario. 
    Cio' posto, occorre rilevare che la Corte di  Strasburgo  non  ha
inteso enunciare un divieto assoluto d'ingerenza del legislatore, dal
momento che in varie occasioni ha ritenuto non  contrari  all'art.  6
della Convenzione  europea  particolari  interventi  retroattivi  dei
legislatori nazionali. 
    La legittimita' di simili interventi e'  stata  riconosciuta,  in
primo luogo, allorche' ricorrevano ragioni storiche epocali, come nel
caso della  riunificazione  tedesca  (caso  Forrer-Niederthal  contro
Germania, sentenza del 20 febbraio 2003). 
    In questo caso, la Corte europea, di  fronte  ad  una  norma  che
faceva salvi con effetto retroattivo i trasferimenti  di  proprieta',
senza indennizzo, in «proprieta' del  popolo»  della  ex  D.D.R.,  ha
concluso  per  la  compatibilita'  dell'intervento   con   la   norma
convenzionale; cio' non soltanto per il motivo  «epocale»  del  nuovo
riassetto dei conflitti patrimoniali conseguenti alla riunificazione,
ma anche in considerazione della sussistenza effettiva di un  sistema
che aveva garantito alle parti, che  contestavano  le  modalita'  del
riassetto, l'accesso a, e lo  svolgimento  di,  un  processo  equo  e
garantito.   In   particolare,   a   seguito   della   denuncia    di
incostituzionalita' della norma, il Tribunale costituzionale  tedesco
si era pronunciato nel senso della compatibilita' della  disposizione
in questione con la Legge Fondamentale. Tale specifica evenienza, che
mostra un'innegabile analogia con la vicenda oggi qui  in  esame,  e'
stata considerata come «punto chiave della  controversia».  La  Corte
europea ha riconosciuto che  il  ricorrente  aveva  avuto  accesso  a
tribunali indipendenti avvicendatisi nei vari  gradi,  e  soprattutto
all'organo di giustizia costituzionale, sicche' ha osservato che «nel
suo complesso»,  il  procedimento  in  questione  aveva  rivestito  i
caratteri di equita', conformi al dettato dell'art. 6,  paragrafo  1,
della CEDU. 
    In altri casi, nel definire e verificare la  sussistenza  o  meno
dei motivi imperativi d'interesse generale, la Corte di Strasburgo ha
ritenuto  legittimo  l'intervento  del  legislatore  che,  per  porre
rimedio ad una imperfezione tecnica della legge  interpretata,  aveva
inteso con la legge retroattiva ristabilire  un'interpretazione  piu'
aderente all'originaria volonta' del legislatore. 
    Si tratta, in primo luogo, della sentenza 23  ottobre  1997,  nel
caso National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building
Society e Yorkshire Building Society contro Regno  Unito  (utilizzata
mutatis  mutandis  anche  nella  citata  pronuncia  Forrer-Niederthal
contro Germania), nella quale e' stato ritenuto che l'adozione di una
disposizione  interpretativa  puo'  essere  considerata  giustificata
allorche' lo Stato, nella logica di interesse generale  di  garantire
il pagamento delle imposte, abbia inteso porre rimedio al rischio che
l'intenzione  originaria  del  legislatore  fosse,  in   quel   caso,
sovvertita da disposizioni fissate in circolari. 
    Nello stesso solco si  pone  la  sentenza  del  27  maggio  2004,
Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri
contro Francia, in cui le circostanze del caso di  specie  non  erano
identiche a quelle del caso  Zielinski  del  1999.  La  pronuncia  ha
affermato che l'intervento del legislatore non aveva inteso sostenere
la posizione assunta  dall'amministrazione  dinanzi  ai  giudici,  ma
porre rimedio ad un errore tecnico di diritto, al fine  di  garantire
la  conformita'  all'intenzione  originaria  del   legislatore,   nel
rispetto di un principio di perequazione. 
    Il caso viene, quindi, assimilato a quello National &  Provincial
Building Society del 1997,  dove  l'intervento  del  legislatore  era
giustificato  dall'obiettivo   finale   di   «riaffermare   l'intento
originale del Parlamento». La Corte  ha  ritenuto  che  la  finalita'
dell'intervento legislativo  fosse  quindi  quella  di  garantire  la
conformita' all'intenzione originaria del legislatore a  sostegno  di
un  principio  di  perequazione,  aggiungendo  che  gli  attori   non
avrebbero  potuto  validamente  invocare  un  «diritto»  tecnicamente
errato o carente, e dolersi quindi  dell'intervento  del  legislatore
teso a chiarire i requisiti ed i limiti  che  la  legge  interpretata
contemplava. 
    9. -  In  considerazione  dei  principi  enunciati  dalla   Corte
europea, nonche' della ricostruzione della portata e degli  obiettivi
della norma qui censurata, gia' operata da questa Corte con la citata
sentenza n. 234 del 2007, il  contrasto  denunciato  dalla  Corte  di
cassazione e dagli altri giudici rimettenti non sussiste. 
    Deve infatti escludersi l'esistenza di un principio  secondo  cui
la necessaria incidenza delle norme retroattive sui  procedimenti  in
corso si porrebbe automaticamente in  contrasto  con  la  Convenzione
europea, come peraltro riconosciuto da una parte della giurisprudenza
di legittimita' (Cass. 16 gennaio 2008 n. 677). Dal confronto  fra  i
principi espressi dalla Corte europea e  le  condizioni  e  finalita'
dell'art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, emerge  come  il
legislatore nazionale non abbia travalicato i  limiti  fissati  dalla
Convenzione europea. La vicenda  normativa  in  esame  non  solo  non
determina  una  reformatio  in  malam  partem   di   una   situazione
patrimoniale in precedenza  acquisita,  dal  momento  che  i  livelli
retributivi gia' raggiunti vengono oggettivamente  salvaguardati,  ma
si  dimostra  coerente  con  l'esigenza  di  armonizzare   situazioni
lavorative  tra  loro  differenziate  all'origine,  conformemente  al
principio di parita' di  trattamento  di  situazioni  analoghe  nella
disciplina dei rapporti di lavoro pubblico. 
    Va dunque ribadito che  la  legge  n.  124  del  1999  ha  inteso
governare  una  particolare  operazione  di  riassetto  organizzativo
riguardante un ampio numero di soggetti.  La  disposizione  di  legge
censurata  ha  contribuito  a  soddisfare  l'indiscutibile  interesse
generale a rendere tendenzialmente omogeneo il sistema retributivo di
tutti i dipendenti del ruolo statale,  al  di  la'  delle  rispettive
provenienze,  impedendo  che  una  diversa  interpretazione   potesse
determinare, non  solo  una  smentita  dell'originario  principio  di
«invarianza della spesa», ma  anche  e  soprattutto  un  assetto  che
rischiava, esso si' irragionevolmente, di creare un potenziale vulnus
al principio  di  parita'  di  trattamento,  che  le  amministrazioni
pubbliche devono garantire. In tal modo, nella specie ricorrono  piu'
di una tra quelle «ragioni  imperative  di  interesse  generale»  che
consentono, nel rispetto dell'art. 6 della Convenzione europea e  nei
limiti   evidenziati   dalla   Corte   di   Strasburgo,    interventi
interpretativi e retroattivi. 
    In primo  luogo,  emerge  nella  norma  censurata  l'esigenza  di
«ristabilire»   una   delle   possibili   direzioni   dell'originaria
intenzione  del  legislatore.  Tale   direzione   aveva   determinato
l'interpretazione ad essa conforme delle parti sociali, negli accordi
stipulati per il primo inquadramento (al contrario di quanto accaduto
nel caso Zielinski), poi recepita dalle norme di  attuazione  fin  da
tale fase, sia pure nella forma del decreto ministeriale poi ritenuta
inadeguata da una parte della giurisprudenza. 
    In  secondo  luogo,  puo'  ricordarsi   come   l'intervento   del
legislatore non  abbia  vanificato  del  tutto  i  diritti  sorti  ed
acquisiti sulla  base  della  legge  interpretata,  restando  intatti
quelli al trattamento migliore conseguito  dopo  l'inquadramento  nel
nuovo ruolo, mediante la conservazione di un assegno personale. 
    Inoltre, risulta evidente  soprattutto  la  conformita'  di  tale
interpretazione  con  la  finalita'   di   garantire   una   generale
perequazione di tutti i lavoratori del comparto scuola, come peraltro
gia' ritenuto da questa Corte nella piu' volte ricordata sentenza  n.
234 del 2007, nel senso di garantire che a tutti i dipendenti di quel
ruolo sia attribuita una medesima progressione retributiva, al di la'
delle rispettive provenienze. 
    Pertanto, assume rilievo la  sussistenza  di  una  «imperfezione»
tecnica, nel contesto normativo originario, consistente nel  ritenere
comunque delegabile all'autonomia delle parti  e  ad  una  disciplina
regolamentare la fissazione di un criterio rispettoso  del  principio
dell'invarianza di spesa,  in  aderenza  all'art.  2,  comma  2,  del
decreto  legislativo  30  marzo  2001,   n.   165   (Norme   generali
sull'ordinamento del lavoro  alle  dipendenze  delle  amministrazioni
pubbliche), delega poi ritenuta insussistente dalla giurisprudenza di
legittimita'. 
    Non solo,  ma,  a  conforto  della  ritenuta  sussistenza  di  un
dibattito giurisprudenziale irrisolto, il «diritto vivente» nel  2005
non poteva ritenersi formato sul punto, giacche' la questione  vedeva
fronteggiarsi alcune pronunce  di  legittimita',  assunte  a  sezioni
semplici,  che  avevano  ricostruito  il  fenomeno  nel  senso  della
necessita' di atti di inquadramento rispettosi dei  principi  dettati
dall'art. 2112 del codice civile, con altre pronunce che  risolvevano
la questione sul piano dell'efficacia normativa o  meno  dell'accordo
del 20 luglio 2000, recepito nel  successivo,  gia'  citato,  decreto
ministeriale del 5 aprile 2001. 
    Da ultimo, ed in piena coerenza  con  la  giurisprudenza  europea
prima  ricordata   (Forrer-Niederthal   contro   Germania),   risulta
determinante il fatto che il procedimento relativo alla  vicenda  del
trasferimento dei dipendenti  ATA  abbia  avuto  la  garanzia  di  un
processo equo,  anche  attraverso  l'incidente  di  costituzionalita'
conclusosi con una dichiarazione  di  infondatezza  della  questione,
rispetto  a  parametri   costituzionali   coerenti   con   la   norma
convenzionale, pienamente compatibile,  cosi'  interpretata,  con  il
quadro costituzionale italiano. 
    In definitiva, in aderenza con la  ricostruzione  normativa  gia'
operata da questa Corte in altre occasioni, risulta con chiarezza  la
compatibilita'  della   norma   interpretativa   censurata   con   la
giurisprudenza  qui  rilevante  della   Corte   di   Strasburgo,   in
particolare  relativa  ai  casi  Forrer-Niederthal  contro  Germania,
Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri
contro Francia  e  National  &  Provincial  Building  Society,  Leeds
Permanent Building Society e Yorkshire Building Society contro  Regno
Unito. 
    Nell'intervento  retroattivo  in  questione  e'  dato,   infatti,
riscontrare gli elementi valorizzati dalla Corte europea per ritenere
ammissibili le  disposizioni  interpretative,  tenendo  conto  che  i
principi in materia richiamati dalla giurisprudenza  di  quest'ultima
costituiscono espressione di quegli stessi principi  di  uguaglianza,
in  particolare  sotto  il  profilo  della  parita'  delle  armi  nel
processo, ragionevolezza, tutela del legittimo  affidamento  e  della
certezza delle situazioni giuridiche, che  questa  Corte  ha  escluso
siano stati vulnerati dalla norma qui censurata. 
    Peraltro, fare salvi i «motivi imperativi  d'interesse  generale»
che suggeriscono al legislatore nazionale  interventi  interpretativi
nelle situazioni che qui rilevano non puo' non  lasciare  ai  singoli
Stati contraenti quanto meno una parte del compito  e  dell'onere  di
identificarli, in quanto nella  posizione  migliore  per  assolverlo,
trattandosi,  tra  l'altro,  degli  interessi  che  sono  alla   base
dell'esercizio del potere legislativo. Le decisioni in  questo  campo
implicano,  infatti,   una   valutazione   sistematica   di   profili
costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali che  la
Convenzione europea lascia alla competenza  degli  Stati  contraenti,
come e' stato riconosciuto, ad esempio, con la formula del margine di
apprezzamento, nel caso  di  elaborazione  di  politiche  in  materia
fiscale, salva la ragionevolezza delle soluzioni  normative  adottate
(come nella sentenza National & Provincial  Building  Society,  Leeds
Permanent Building Society e Yorkshire Building Society contro  Regno
Unito, del 23 ottobre 1997). 
    10. - In  conclusione,  il  denunciato  contrasto  fra  la  norma
impugnata e l'art. 6 della CEDU, quindi la violazione dell'art.  117,
primo comma, Cost., non sussiste. 
 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    Riuniti i giudizi, 
    Dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art. 1,  comma  218,  della  legge  23  dicembre  2005,  n.  266
(Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato - Legge  finanziaria  2006),  sollevate,  in  riferimento
all'art. 117, primo comma, della Costituzione, ed  all'art.  6  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955,  n.
848, dalla Corte di cassazione e dalla Corte di appello di Ancona con
le ordinanze indicate in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 novembre 2009. 
 
                       Il Presidente: Amirante 
 
 
                        Il redattore: Tesauro 
 
 
                      Il cancelliere: Di Paola 
 
    Depositata in cancelleria il 26 novembre 2009. 
 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola