N. 25 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 ottobre 2009
Ordinanza . Responsabilita' amministrativa e contabile - Esercizio dell'azione per danno all'immagine da parte della Procura della Corte dei conti limitato ai casi e modi previsti dall'art. 7 della legge n. 97/2001 (rilevanza penale dell'illecito amministrativo) - Prevista sospensione del termine di prescrizione fino alla conclusione del procedimento penale - Prevista nullita' di qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere, in violazione delle predette disposizioni, subordinata all'azione di chiunque vi abbia interesse - Lesione del principio di uguaglianza, del diritto di azione e del principio del giudice naturale - Violazione dei principi di copertura finanziaria, di buon andamento della pubblica amministrazione e di riserva alla Corte dei conti delle questioni relative alla responsabilita' contabile ed amministrativa - Violazione del principio di tutela giurisdizionale. - Decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 30-ter, inserito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, modificato dall'art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito, con modificazioni, nella legge 3 ottobre 2009, n. 141. - Costituzione, artt. 2, primo comma, 3, primo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, 81, comma quarto, 97, primo comma, 103, comma secondo, e 113, primo comma.(GU n.7 del 17-2-2010 )
LA CORTE DEI CONTI Ha pronunciato la seguente ordinanza nel giudizio di responsabilita' promosso dal Procuratore regionale nei confronti di Sandro Nicola D'Alessandro, Antonio Luciano e Fernando Capone. Visto l'atto introduttivo del giudizio iscritto al n. 58353 del registro di segreteria. Visti gli altri atti e documenti di causa. Udito nella pubblica udienza del 29 settembre 2009, il consigliere relatore prof. Michael Sciascia. Uditi altresi' nella medesima udienza l'avv. Pietro Palma, per i convenuti, nonche' il vice procuratore generale dott. Maurizio Stanco. Ritenuto in fatto Con citazione depositata in data 16 giugno 2008 a firma del vice procuratore generale dott. Maurizio Stanco, il procuratore regionale presso questa sezione giurisdizionale ha chiamato a giudizio Sandro Nicola D'Alessandro, Antonio Luciano e Fernando Capone, esponenti del Comune di Benevento, per il risarcimento di danni subiti dallo Stato, dalla Regione Campania e dal Comune di Benevento. Il requirente, dopo aver descritto puntualmente il quadro amministrativo nel Comune di' Benevento e di quello normativo del settore dello smaltimento dei rifiuti in Campania, ritiene che i predetti siano responsabili per aver determinato con il loro comportamento gravemente colposo i seguenti danni conseguenti al «mancato rispetto degli obblighi inerenti il mancato raggiungimento delle percentuali minime di raccolta differenziata» per gli esercizi 2003, 2004 e 2005, di cui chiede il risarcimento con utilizzazione del potere di valutazione equitativa: Quanto ai convenuti Sandro Nicola D'alessandro e Fernando Capone: danno di euro 405.322,25 al Comune di Benevento in ragione dell'onere indebitamente sostenuto per l'attivazione del servizio di raccolta differenziata, nonche' nel mancato introito derivante dalla cessione del materiale recuperato; danno di euro 45.077,80 allo Stato calcolato sempre in via equitativa con riferimento al costo per il trasporto dei rifiuti indifferenziati al fine del loro smaltimento fuori regione; danno di euro 43.038,00 alla Regione per le spese necessarie al ripristino del pregiudizio all'immagine dell'ente. Quanto ai convenuti Sandro Nicola D'Alessandro, Antonio Luciano e Fernando Capone: danno di euro 199.439,17 al Comune di Benevento in ragione dell'onere indebitamente sostenuto per l'attivazione del servizio di raccolta differenziata, nonche' nel mancato introito derivante dalla cessione del materiale recuperato; danno di euro 36.705,77 allo Stato calcolato sempre in via equitativa con riferimento al costo per il trasporto dei rifiuti indifferenziati al fine del loro smaltimento fuori regione; danno di euro 26.746,66 alla Regione per le spese necessarie al ripristino del pregiudizio all'immagine dell'ente. L'individuazione dei soggetti causalmente responsabili dei pregiudizi de quibus e' realizzata dal requirente con riferimento esclusivo alla delibera della giunta comunale di Benevento n. 242 datata 28 ottobre 2004, con cui si e' contribuito «a non assicurare, pur riscosso il finanziamento commissariale, l'ineludibile obbligo di raccolta differenziata ed il raggiungimento dei relativi minimi percentuali per il periodo che parte dall'approvazione dell'atto e prosegue per almeno l'anno 2005». In particolare secondo la prospettazione di parte attorea, la condotta «risulta gravemente colposa per gli amministratori che, in relazione alla materia in trattazione, avevano una specifica competenza e diretta conoscenza della problematica progettuale, quale l'assessore al ramo geom.Antonio Luciano, oltre al Sindaco dr. Sandro Nicola D'Alessandro, ai quali e' da aggiungere .... il dirigente ing. Fernando Capone che ha espresso il relativo parere di regolarita' tecnica». «Al Sindaco dott. Sandro Nicola D'Alessandro, pertanto, e' addebitabile, unitamente al dirigente ing. Fernando Capone, per colpa grave e per quote, il danno prodottosi nel 2003 e nei primi dieci mesi del 2004, mentre agli stessi, unitamente all'assessore Antonio Luciano sopra individuato, il danno relativo agli ultimi due mesi del 2004 e quello del 2005». Si sono costituiti in giudizio i convenuti per ministero dell'avv. Pietro Palma, con separate comparse depositate tutte in data 7 settembre 2008, con cui hanno sostenuto nel merito che la situazione drammatica nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani non e' loro imputabile, essendo invero il frutto di una «incapacita' di un intero sistema con responsabilita' diffuse e difficilmente cristallizzabili ...»; inoltre «per il periodo in contestazione, non v'e' alcuna specifica norma che ponga direttamente a carico dei comuni l'obbligo del conseguimento delle percentuali di raccolta differenziata, ponendolo invece a carico di organismi di ambito territoriale quali l'ATO, i consorzi, ecc.»; quanto poi all'elemento soggettivo «non vi e' mai stata inequivoca consapevolezza che gli obblighi di raggiungimento delle percentuali di raccolta differenziata, fossero a carico dei comuni e non fossero obblighi di sistema o di ambito»; infine «la necessita' di rimodulazione dell'originario progetto scaturi' dall'impossibilita' di dare attuazione a tale progettualita' sia per la carenza delle attrezzature e dei mezzi che dovevano essere forniti dal Commissariato di governo al consorzio, sia per le modifiche normative succedutesi con frequenza che resero inattuale l'originario progetto ed ancora qualsiasi diversa operativita' necessitava di consistenti risorse finanziarie che non rientravano nella disponibilita' comunale». Sulle loro specifiche posizioni, i convenuti sostengono di aver svolto diligentemente le attribuzioni ed i compiti loro rimessi; piu' particolarmente l'assessore Luciano contesta di essere stato destinatario di delega sul settore de quo, in quanto «il servizio era affidato all'ASIA, il cui controllo, quale azienda partecipata dal Comune, rientrava tra le competenze e le attribuzioni dell'Assessorato alle Finanze». Nella pubblica udienza del 29 settembre 2009 sono intervenuti nel dibattimento l'avv. Pietro Palma, che ha insistito per l'assoluzione dei convenuti, nonche' il vice procuratore generale dott. Maurizio Stanco, che ha confermato la richiesta di condanna ed in via subordinata ha sollevato eccezione di legittimita' costituzionale della disposizione di cui all'art. 30-ter, periodi 2 e 3, legge n. 102/2009 di conversione decreto-legge n. 78/2009, modif. da art.1, comma 1, lett. c del decreto-legge n. 103/2009, convertito nella legge n. 141 /2009. Considerato in diritto 1. - La disposizione di cui all'art. 17, comma 30-ter, della legge 3 agosto 2009, n. 102, di conversione del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, modificata dall'art. 1, comma 1, lett. c del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito nella legge 3 ottobre 2009, n. 141, ha chiaramente inteso porre precisi limiti all'azione inquirente e requirente delle procure regionali della Corte dei conti, con previsione di una sanzione di nullita' e di una specifica azione tendente al suo accertamento al riguardo degli atti istruttori e processuali adottati in violazione di essi. Va rilevata preliminarmente una differenza ontologica tra le due fattispecie introdotte da tale testo legislativo . Infatti quella di cui al 1° periodo, cosi' come modificato dall'art. 1, comma 1, lett. c del decreto-legge n. 103/2009, convertito nella legge. n. 141/2009, nel prevedere che «Le procure della Corte dei conti possono iniziare l'attivita' istruttoria ai fini dell'esercizio dell'azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge», si presenta palesemente come una limitazione meramente procedurale alle modalita' di esercizio da parte del procuratore regionale delle sue prerogative istruttorie e processuali, peraltro sulla scia gia' delineata in giurisprudenza dalla Corte costituzionale con la nota sentenza 22 febbraio-9 marzo 1989, n. 104. La disposizione di cui ai successivi periodi 2° e 3° del medesimo articolo, invece, nel prevedere che «Le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e' sospeso fino alla conclusione del procedimento penale», ha invero introdotto un limite alla stessa giurisdizione della Corte dei conti, ancorche' apparentemente diretto solamente all'ufficio requirente contabile. Infatti, la limitazione della legittimazione attiva dell'unico soggetto, quale il procuratore regionale, abilitato ad agire innanzi alla Corte dei conti in sede di giudizi di responsabilita', ridonda direttamente a riduzione della sfera «sostanziale» della responsabilita' gestoria di tipo amministrativo ed a restrizione «formale» ed oggettiva dell'ambito cognitivo del giudice contabile, che poi e' l'unico a poter conoscere - ai sensi dell'art.103 della Costituzione - di tali ipotesi dannose. Il risultato della riferita operazione legislativa, costituita da una sorta di «contraddittoria» e sofferta formazione progressiva della norma finale, e' stata un'apparente estensione alla fattispecie concernente il danno all'immagine del meccanismo della nullita' inizialmente non previsto, come era ed e' nella logica del sistema. Infatti la valutazione sulla «regolarita'» di atti di esercizio, stragiudiziale e giudiziale, dell'actio damni in materia di lesione all'immagine di amministrazione pubblica si risolve nell'accertamento della sussistenza, nella concreta ipotesi, della giurisdizione contabile, talche' la pronuncia assume la veste formale di declaratoria di affermazione o difetto di giurisdizione della Corte dei conti, nonche' di qualunque altro ordine giudiziario, con le conseguenze di legge. Ne consegue che il descritto meccanismo della nullita', peraltro relativa ai sensi dell'art. 157 del c.p.c., degli atti istruttori e processuali del procuratore regionale non incide, ne' lo potrebbe, sul potere di accertamento pregiudiziale della propria giurisdizione spettante ad ogni giudice. 2. - Peraltro l'art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97, richiamato dalla disposizione in discorso, prevede l'obbligo di comunicazione della sentenza irrevocabile pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 (ossia dipendenti di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica) per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale al competente procuratore regionale della Corte dei conti «affinche' promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilita' per danno erariale nei confronti del condannato» con salvezza di «quanto disposto dall'articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271» . Tale ultima disposizione a sua volta richiamata prevede, al comma 3° e 3-bis, obblighi notiziali di carattere generale a carico del pubblico ministero penale, allorche' eserciti l'azione di sua competenza per un reato che ha cagionato un danno per l'erario ovvero anche quando taluno dei soggetti indicati nei commi 1 e 2 sia stato arrestato o fermato ovvero si trovi in stato di custodia cautelare. Con tale complesso meccanismo il legislatore del 2009 ha voluto limitare il danno all'immagine di una amministrazione pubblica alle sole ipotesi di sua connessione ad un delitto, peraltro accertato con giudicato, contro la stessa P.A., eliminando dalla sfera dell'illiceita' le restanti ipotesi di un siffatto pregiudizio, individuate dalla giurisprudenza, allorche' si prescinde dal rilievo penale. 3. - Sulla compatibilita' della citata disposizione con la Costituzione il Collegio - ritenendo piu' che fondate le preoccupazioni manifestate in udienza dal procuratore regionale peraltro confortate dalla non opposizione della difesa del convenuto - nutre forti dubbi, di cui ritiene di investire la Corte costituzionale per una pronuncia risolutrice. Prima di affrontare la questione nei suoi numerosi aspetti, occorre valutare preliminarmente la rilevanza della medesima in relazione al giudizio in corso. In particolare va verificato se detta disposizione sia immediatamente applicabile ai giudizi in corso o limitatamente a quelli che saranno instaurati successivamente all'entrata in vigore della novella, in quanto la sussunzione nella previsione legislativa de qua della fattispecie in esame, per quanto riguarda la domanda di risarcimento del danno all'immagine, appare indiscutibile. La norma contestata - oltre che influire sui presupposti sostanziali dell'illecito de quo, cioe' sulla sua stessa configurabilita' nella fattispecie - incide direttamente sulla stessa legittimazione processuale dell'Ufficio requirente contabile ad agire a tutela delle finanze pubbliche lese da un comportamento illecito di dipendenti pubblici che ne abbiano leso l'immagine. Pertanto si configura quale norma di carattere processuale, come tale immediatamente applicabile a tutti i giudizi in corso e tra di essi al presente, tanto piu' che l'abolizione di una forma di accesso alla tutela giurisdizionale in una determinata materia - come si approfondira' in seguito - ridonda a esclusione della giurisdizione stessa sulla gran parte delle ipotesi dannose del genere. La Corte dei conti, investita di un giudizio del genere, in applicazione della disposizione di cui al 2° e 3° periodo del citato comma 30-ter, dovrebbe dichiarare preliminarmente inammissibile per difetto di giurisdizione la domanda introduttiva del processo, a prescindere dall'eccezione di nullita', proposta eventualmente dal convenuto nel suo interesse esclusivo, nei confronti degli atti istruttori e processuali compiuti al riguardo dal procuratore regionale. Di qui l'evidente rilevanza e pregiudizialita' della questione di legittimita' costituzionale nel giudizio in corso, tanto piu' - e senza peraltro che abbia alcun rilievo ai fini de quibus - che i convenuti non hanno eccepito la nullita' della domanda avente ad oggetto il risarcimento dell'allegato danno all'immagine. La disposizione di legge in discorso appare invero contrastante nell'ordine con l'art. 2 comma 1, l'art. 3 comma 1, l'art. 24, comma 1, l'art. 25, comma 1, l'art. 81, comma 4, l'art. 97, comma 1, l'art. 103, comma 2 e l'art. 113, comma 1 e 2 della Costituzione. 4. - Il piu' evidente contrasto del citato comma 30-ter, periodi secondo e terzo, si presenta con l'art. 2 della Costituzione, che costituisce la fondamentale base giuridica della stessa tutela del diritto all'immagine di qualunque soggetto, tra cui la pubblica amministrazione. La contestata novella pone un incomprensibile limite alla piena protezione di tale valore costituzionalmente garantito proprio in riferimento al settore pubblico, che e' maggiormente esposto socialmente. E' noto che il danno all'immagine ha subito un'evoluzione in parallelo alla formazione di una maggiore sensibilita' sociale sviluppatasi in ordine alla tutela di valori spirituali, che solo indirettamente provocano pregiudizi patrimoniali. L'art. 2059 del codice civile prevede il risarcimento dei danni non patrimoniali, pur limitatamente ai casi previsti dalla legge. La norma non si riferisce solo all'art. 185 del codice penale, che disciplina i casi di coincidenza di illeciti civili e penali - come comunemente si riteneva sino ad un recente passato in una visione restrittiva della figura, sostanzialmente limitata al danno morale a rilievo eminentemente soggettivo, cioe' alla c.d. pecunia doloris -, bensi' fa rinvio anche alle disposizioni costituzionali precettive, e non semplicemente programmatiche, che riconoscono e tutelano i diritti di rango costituzionale; trattasi evidentemente di danni inerenti alla persona, che non si risolvono in pregiudizi di natura meramente emotiva ed interiore, bensi' sono oggettivamente accertabili, ancorche' provocati sul fare areddituale del soggetto. Una lettura costituzionalmente orientata consente quindi il risarcimento dei danni non patrimoniali, considerati in tale ampia accezione, a prescindere dal fatto che ricorra un'ipotesi di reato, ogni volta che sia stata lesa una posizione giuridica soggettiva tutelata a livello costituzionale. In tal senso e' il diritto vivente, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 11 luglio 2003, n. 233 e dalla Corte suprema di cassazione SS.UU.CC. nella sentenza 11 novembre 2008, n. 26972. Orbene la Costituzione nell'art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita', e quindi, tra di essi, il diritto all'immagine sia delle persone fisiche che di quelle giuridiche, private e pubbliche. E' stata cosi' riconosciuta la risarcibilita' del danno non patrimoniale anche a favore della persona giuridica e del soggetto collettivo per diretta derivazione costituzionale dall'art. 2, identificandolo non come c.d. danno-evento - rappresentato dal fatto in se' della stessa lesione - bensi' come danno-conseguenza, cioe' un accadimento collegato alla lesione antigiuridica della situazione protetta sulla base di un nesso di causalita'. In tal senso la Corte suprema di cassazione nella sentenza 4 giugno 2007, n. 12929, proprio con riferimento alle persone giuridiche. Ne consegue la piena risarcibilita' del danno all'immagine anche della pubblica amministrazione, ai sensi del combinato disposto dell'art. 2 della Costituzione e dell'art. 2059 del codice civile, a prescindere da un nesso di conseguenzialita' con un illecito penale specie a seguito dell'accertamento di esso con giudicato penale. Infatti la reputazione di una pubblica amministrazione e' un bene rilevantissimo per la funzione sociale svolta dalla stessa, che ha anche un immediato riflesso finanziario, non fosse altro che per le spese necessarie al ripristino dell'immagine offuscata dal comportamento illecito di funzionari pubblici. Orbene la su citata disposizione di cui all'art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, della legge 3 agosto 2009, n. 102, di conversione del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, modificata dall'art. 1, comma 1, lett. c del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito nella legge 3 ottobre 2009, n. 141, ha posto un evidente «irragionevole» restrizione alla tutela risarcitoria del diritto all'immagine della pubblica amministrazione, limitandola ai casi di effettiva condanna penale irrevocabile per l'eventuale connesso reato. In tal modo solo il danno all'immagine della pubblica amministrazione viene discutibilmente degradato da figura autonoma di danno-conseguenza, cosi' come le restanti ipotesi dannose del genere non patrimoniale, ad una marginale figura dipendente di danno-evento da delitto. 5. - Sotto altro profilo la disposizione di cui al comma 30-ter, periodi 2° e 3°, indubbiamente determina una diffusa disparita' di trattamento tra soggetti che versano nella medesima situazione giuridica, in dispregio a quanto previsto dall'art. 3 della Costituzione. Ai fini del presente giudizio, intercorrente tra il procuratore regionale, quale sostituto processuale dell'ente leso - titolare del rapporto sostanziale di credito -, e soggetti legati ad esso da rapporti di servizio di diversa natura (professionale ed onoraria), si evidenzia una disparita' di trattamento tra il pubblico dipendente citato in giudizio - e quindi tutti quelli versanti nella stessa condizione - e gli amministratori non destinatari della disposizione. Infatti quest'ultima consente alle procure della Corte dei conti di esercitare «l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001, n. 97», che contiene nell'intitolazione «Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche». Appare evidente che il combinato disposto di cui al piu' volte citato comma 30-ter, periodi 2° e 3°, ed all'art. 7 dalla legge n. 97/2001 si rivolge esclusivamente ai dipendenti pubblici, con esclusione degli amministratori ed in genere di coloro che sono legati all'ente da un mero rapporto di servizio. L'irragionevolezza di tale distinzione risulta di tutta evidenza ove si ponga mente alla circostanza che sono proprio gli amministratori, che rappresentano nei rapporti giuridici e politici gli enti pubblici, a porre maggiormente in pericolo il prestigio degli enti stessi, piuttosto che i dipendenti pubblici legati a tali enti da un mero rapporto lavorativo. In ordine a tali censure, va approfondita la questione della loro non manifesta infondatezza. Certamente l'art. 3 della Costituzione impone al legislatore di garantire - come condizione essenziale di un ordinato svolgimento della vita sociale nei suoi vari aspetti - la «par condicio» tra tutti i soggetti dell'ordinamento giuridico, talche' nessuno di essi possa venirsi a trovare - senza una valida giustificazione fondata su presupposti logici obiettivi, i quali ragionevolmente ne giustifichino l'adozione (Corte costituzionale sentenza 16 febbraio 1963, n. 7) - in posizione deteriore o privilegiata rispetto agli altri. Se sulla posizione svantaggiata e' evidente la «ratio» della norma costituzionale, lo e' allo stesso modo in ordine ai privilegi ingiustificati; talche' al beneficio degli uni corrisponde generalmente il pregiudizio, diretto o comunque diffuso, di altri, sussistendo sempre una correlazione tra posizioni giuridiche, a volte collegate in veri e propri rapporti giuridici. E tale uguaglianza - al di la' dell'atecnica terminologia costituzionale, che menziona «tutti i cittadini», - si riferisce a tutti i soggetti dell'ordinamento giuridico, sia persone fisiche che giuridiche, siano esse private o pubbliche. Cio' conduce a ritenere che sembra costituzionalmente inammissibile, non ricorrendo alcuna valida ragione giustificatrice, il privilegio «perpetuo» dell'irresponsabilita' per il compimento di atti che sono risultati e che risulteranno in futuro certamente dannosi per l'immagine di un ente pubblico. All'uopo non e' dato comprendere le ragioni di tale scelta del legislatore, il quale non collega il «favor» ad alcuna fondata circostanza, peraltro nemmeno ben individuata temporalmente, talche' essa «legittima» anche per il futuro e a tempo indeterminato la violazione di una normativa di immediata attuazione costituzionale e di eccezionale rilievo sociale, anche indirettamente finanziario, diretta a tutelare il prestigio delle istituzioni pubbliche. Ne' il legislatore del 2009 tiene assolutamente in conto l'impatto sugli enti gia' in difficolta' finanziarie ne' specifica con la dovuta chiarezza il momento temporale cui riferirsi, talche'. In tal modo la disposizione in discorso viene a costituire un vero e proprio immotivato «privilegio» processuale di «irresponsabilita' perpetua» per illeciti non direttamente patrimoniali. Infatti pone tutti i dipendenti pubblici - e tra di essi quello convenuto nel presente giudizio - in posizione di vantaggio rispetto agli amministratori degli enti locali (che possono essere perseguiti per fattispecie analoghe), che all'amministrazione danneggiata, che viene a trovarsi correlativamente in una situazione di «soggezione», dovendo necessariamente subire gli effetti pregiudizievoli di un comportamento tenuto da suoi dipendenti in violazione della legge e quindi per ipostasi degli interessi stessi dell'Ente pubblico. Conclusivamente, nello stesso momento, la disposizione censurata ha attribuito, per i motivi sopra illustrati, al convenuto dipendente pubblico una ingiustificata posizione di privilegio nei confronti degli amministratori degli enti locali e non, e particolarmente di quello interessato alla vicenda in esame, nonche' a quest'ultimo ente un'ingiustificata posizione di svantaggio nei confronti del dipendente medesime e di quelli che seguiranno. Un ulteriore profilo di irragionevole disparita' di trattamento, e quindi di conflitto tra la contestata disposizione e l'art. 3 della Costituzione, si configura tra la pubblica amministrazione e i restanti soggetti dell'ordinamento, in quanto il deterioramento dell'immagine della prima non e' sanzionata se non in casi-limite dipendenti dalla commissione di gravi delitti, mentre quello dei secondi e' ben tutelata in tutti i casi di commissione di illecito anche di non rilievo penale. Cosi' avviene che la pubblica amministrazione puo' essere condannata per aver leso l'altrui immagine anche al di fuori dell'illiceita' penale, ma non potrebbe ottenere lo stesso trattamento risarcitorio a suo favore. Come si e' in precedenza osservato, il prestigio dell'ente pubblico riveste anzi un ruolo fondamentale nel rapporto tra istituzioni e cittadini, con un coinvolgimento anche maggiore dell'opinione pubblica. Non e' quindi dato di comprendere i motivi di una sottovalutazione dell'immagine di una pubblica amministrazione. 6. - Altrettanto pregnante appare poi la censura di illegittimita' costituzionale del citato comma 30-ter, periodi secondo e terzo, in relazione all'art. 97, comma 1 della Costituzione. La somma Carta si occupa specificatamente della Pubblica Amministrazione agli articoli 97 e 98, fissando inderogabilmente principi fondamentali di organizzazione e funzionamento di essa. Il citato art. 97 in particolare, come ha notato la dottrina costituzionalistica, appartiene a quel numeroso gruppo di norme costituzionali, aventi ad oggetto la posizione di principi intesi a regolare l'attivita' statuale e, segnatamente quella legislativa, obbligandola ad indirizzarsi in un certo senso o ad astenersi dal rivolgersi in altro, e comunque ponendole dei limiti. In particolare, quando la Costituzione detta alcuni criteri a cui si deve conformare la legge, questa e' senz'altro anticostituzionale se non dispone nel modo e nei limiti voluti dalla Somma Carta. Esaminando in tale prospettazione le disposizioni costituzionali sull'organizzazione della Pubblica Amministrazione, si deve osservare che l'articolo 97 rappresenta il limite della discrezionalita' del legislatore in tale materia. E' innegabile che il comma 30-ter, periodi secondo e terzo, piu' volte citato si ponga in contrasto con il criterio del buon andamento, in quanto determina un'alterazione della funzionalita' degli enti pubblici sotto il delicato profilo della reputazione e della conseguente fiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni, nonche' di impedire comunque il risarcimento dei danni provocati da funzionari alle amministrazioni di appartenenza, salvo che assuma una tale gravita' da comportare una condanna penale irrevocabile al riguardo. In aggiunta, la disposizione contestata contraddice l'altro criterio in parola, cioe' quello dell'imparzialita', che si risolve essenzialmente nel rispetto della giustizia sostanziale. Pertanto la scelta del legislatore nel porre tale contestata disposizione altresi' appare, nella sua palese irrazionalita' ed irragionevolezza, una violazione dell'art. 97, comma 1, della Costituzione. 7. - A rafforzare la convinzione che il legislatore abbia ecceduto nella sua discrezionalita', cadendo in una manifesta irragionevolezza e violando nel contempo l'art. 3, comma 1, e l'art. 97, comma 1, della Costituzione, va considerato che il denunciato comma 30-ter e' stato introdotto dalla legge di conversione del decreto-legge n. 78 del 2009, senza che nel corso della brevissima discussione sulla norma ne siano state valutate a pieno la portata e le conseguenze. Anzi l'emendamento contenente la contestata norma e' stato approvato - insieme alle altre disposizioni sotto la spinta della preoccupazione per la scadenza del decreto, non disgiunta dall'esigenza di modificarne il testo, almeno per alcune parti palesemente incostituzionali, attraverso una ulteriore decretazione d'urgenza emanata senza soluzione di continuita', ossia il decreto-legge n. 103/2009, convertito nella legge n. 141/2009. Questa situazione invero ha introdotto una norma di breve formulazione, ma di estesa portata, determinando una sorta di rinuncia a priori al risarcimento di tutti i rilevanti danni che sono stati, e che lo saranno nel futuro «indeterminato», inferti alla reputazione degli enti pubblici, al di fuori del ristretto ambito penale, contraddicendo e vanificando nel concreto i principi generali posti dalla legge n. 142/1990 e dalle successive modificazioni ed integrazioni in tema di rilancio della funzionalita' della pubblica amministrazione. L'aspetto piu' interessante della vicenda e' rappresentato dall'introduzione di un principio - palesemente collidente con quello di legalita', cui e' informato lo Stato di diritto - quanto mai preoccupante nella sua originalita', cioe' una sofisticata sanatoria (quasi un invito!) per le future violazioni del prestigio del settore pubblico sempreche' non si concreti in un'ipotesi delittuosa contro ia pubblica amministrazione. Come ha in un recente passato osservato piu' volte la Corte costituzionale (sentenze n. 236/1992 e n. 659/1994) l'ampia discrezionalita' del legislatore nella valutazione del rapporto di compatibilita' tra azione amministrativa e principio di buon andamento trova un insuperabile limite nel pubblico interesse; e cio' specie sul problema delle ricorrenti sanatorie legislative, le quali sono state ritenute ammissibili solo quando costituivano applicazioni proprio del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, essendo basate sulla comparazione di esse con altri valori presenti nella fattispecie. Ma tale comparazione di valori deve sempre essere conforme al criterio fondamentale del pubblico interesse, cui e' tenuta costantemente a conformarsi l'azione amministrativa, e che e' stato clamorosamente contraddetto dalla scelta di privilegiare l'interesse degli amministratori «infedeli» di non rispondere del loro comportamento lesivo dell'immagine della struttura pubblica di fronte al giudice naturale della contabilita' pubblica. E' stato introdotto senza alcuna valida giustificazione logica nel sistema un precetto in piena e palese collisione con i principi che regolano la materia. Tale disposizione neppure trova una giustificazione di ordine generale e d'interesse nazionale ne' appare motivata da esigenze di natura economica o finanziaria. Anzi essa viene ad aggravare la crisi di carattere etico, con le evidenti ricadute d'ordine finanziario, spesso presente negli enti pubblici, e comunque ad incidere sulle autonome scelte delle istituzioni pubbliche specie locali, le quali sono altresi' costrette ad destinare i pochi fondi a disposizione al fine di riabilitare il loro prestigio; talche' la perdita di tali somme senza possibilita' di recupero impedisce di perseguire finalita' di immediato interesse per le comunita' rappresentate. La previsione contenuta nel citato comma 30-ter, periodi 2 e 3, appare cosi' viziata da indeterminatezza temporale ed oggettiva, tanto da prescindere da una qualsiasi ratio che non sia quella della sanatoria di per se stessa. Il solo elemento richiesto per l'applicabilita' del privilegio dell'irresponsabilita' - nonostante l'aver mantenuto un comportamento contra legem in danno dell'amministrazione di appartenenza - e' la mancanza di un giudicato formatosi nell'ambito della giurisdizione penale. La norma si pone cosi' come una negazione, non solo del buon andamento, ma anche di una razionale e coerente attivita' di amministrazione; tanto da non avere l'idoneita' a soddisfare i requisiti che la Corte costituzionale richiede in materia (sentenza n. 94/1995). Tale riconoscimento ad effetto premiale di una generale irresponsabilita', anche per il futuro, di «infedeli» amministratori della cosa pubblica in ordine ad una materia tanto delicata, costituisce certamente un esempio di «diseducazione civile» come rilevato in casi analoghi dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 16/1992), specie in un momento storico come l'attuale dove da un lato e' evidente la crisi di fiducia nei confronti delle Istituzioni da parte dei cittadini, cui viene richiesto in aggiunta uno sforzo eccezionale per contribuire al risanamento delle finanze pubbliche devastate proprio dal comportamento a dir poco «disinvolto» di amministratori pubblici, specie locali. I suddetti principi e le argomentazioni utilizzate in questa sede sono ricavati da un'importante pronuncia della stessa Corte costituzionale (sentenza n. 1/1996), che - su iniziativa della stessa Corte dei conti - ha fatto giustizia di altro grave tentativo di sanatoria legislativa, priva di alcuna valida giustificazione. D'altronde, se il legislatore avesse inteso sanare «razionalmente» le situazioni del genere, avrebbe dovuto, agendo sul piano sostanziale, quanto meno eliminare espressamente l'antigiuridicita' del comportamento in via retroattiva, affermando la liceita' delle lesioni all'immagine della pubblica amministrazione. Invece agisce «irragionevolmente», nel modo criticato, sulla legittimazione dell'Ufficio requirente contabile ad agire in giudizio, quasi che vi siano altri soggetti legittimati ad introdurre un giudizio risarcitorio del genere a favore dell'ente danneggiato: il che non e', ponendo la legge una riserva assoluta a favore del procuratore regionale della Corte dei conti! E' da dedurre che la formula utilizzata mira ad evitare il disfavore che sarebbe stato suscitato nell'opinione pubblica da una sanatoria (di natura sostanziale) in senso proprio. 8. - Inoltre l'ente interessato alla vicenda in esame - cosi' come tutti le altre amministrazioni, i cui esponenti sono destinatari della norma contestata -, sono stati privati della possibilita' di tutelarsi giudizialmente, anche in violazione degli artt. 24, comma 1 e 113, primo e secondo comma della Costituzione. L'art. 24, comma 1 citato afferma infatti che tutti possono agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, mentre il successivo art.113 ai commi 1 e 2 non consente alcuna limitazione alla tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi in materia di funzione amministrativa. A tale proposito e' indubbio che anche gli enti pubblici - e segnatamente quelli interessati alla vicenda in esame - sono titolari di diritti ed interessi legittimi da far valere di fronte ai competenti organi di giurisdizione. Nella specie gli enti pubblici tutelano la loro immagine e le loro finanze nei confronti di dipendenti asseritamente «infedeli» innanzi al giudice contabile per il tramite del loro sostituto processuale «naturale», cioe' il competente procuratore regionale o generale della Corte dei conti, per ottenere dalla suprema giurisdizione contabile il risarcimento del danno perpetrato alla propria immagine e indirettamente alle loro finanze. 9. - La norma fondamentale, di cui al comma 4 dell'art. 81 della Costituzione, poi, impone al legislatore di prevedere, allorche' dispone una spesa - cui e' da equiparare una minore entrata per esclusione del risarcimento da danno all'immagine -, i mezzi per far fronte ad essa. E cio' anche se viene imposta una spesa o una minore entrata a carico dei bilanci degli enti locali, i quali sono privi, nel vigente sistema pubblico - salvo marginali eccezioni -, di potesta' tributaria, dipendendo la finanza locale, per la quasi totalita', dai trasferimenti disposti dallo Stato sulla base di leggi generali, per cui il peso economico effettivo viene a gravare in tutto o in parte sul bilancio statale. Occorre quindi anche in questi casi l'individuazione di mezzi finanziari aggiuntivi rispetto a quelli gia' previsti, facendoli derivare da nuove o maggiori entrate ovvero da minori spese nell'ambito del bilancio statale di trasferimento. Altrimenti sarebbe consentito al legislatore statale, disponendo spese o minori entrate tramite il sistema del trasferimento di risorse - peraltro finanziariamente inesistenti in termini di cassa - ad enti pubblici e segnatamente a quelli locali, di sfuggire al dovere costituzionale di cui al citato art. 81, comma 4, con la conseguenza di gravare ulteriormente la finanza statale - in relazione alla quale la spesa consiste nel «trasferimento» di fondi - e la c.d. «finanza pubblica allargata» di oneri aggiuntivi tra l'altro imposti autoritativamente agli enti medesimi. Al contrario va quantificata l'incidenza di ogni disposizione di legge a carico della finanza statale - sia pure sotto la forma di ulteriori trasferimenti di fondi a favore degli enti pubblici - e vanno previsti adeguati strumenti di copertura dei flussi finanziari. Orbene il piu' volte citato comma 30-ter non trova nel corpo del provvedimento legislativo complessivamente approvato una previsione di copertura finanziaria della minor entrata imposta agli enti pubblici a causa del mancato recupero dei danni provocati alle loro finanze di natura derivata. 10. - Per completezza vanno affrontate le ultime due censure fondatamente formulabili alla disposizione di cui al criticato comma 30-ter, periodi secondo e terzo, ossia il contrasto palese con l'art. 103, comma 2, e con l'art. 25, comma 1, della Costituzione, che attribuisce alla Corte dei conti la giurisdizione nelle materie di contabilita' pubblica. Infatti, come gia' precedentemente si e' osservato, la cancellazione di ogni potere di azione, al di fuori dell'ipotesi di giudicato penale per delitti contro la P.A., relativa alla responsabilita' gestoria in materia di danno all'immagine ridonda a esclusione della giurisdizione di questa Corte, peraltro in via generale attribuita alla Corte dei conti. L'intervento del legislatore in attuazione dell'art. 103, secondo comma della Costituzione (la c.d. interpositio legislatoris) non puo' spingersi fino ad escludere apoditticamente la giurisdizione della Corte dei conti con riferimento ad ipotesi specifiche di responsabilita' rientranti tradizionalmente e genericamente nella materia della contabilita' pubblica ovvero, ancora peggio, a distinguere nell'ambito della stessa tipologia di danno (nella specie all'immagine) inferto ad ente pubblico, tra ipotesi conoscibili dal loro «giudice naturale» e quelle non, senza peraltro un criterio discretivo razionale e ragionevole. Altrimenti la suddetta disposizione costituzionale non avrebbe alcuna funzione, rimettendosi ogni aspetto alla discrezionalita' del legislatore, che nella circostanza peraltro urta contro il principio della ragionevolezza, costituendo un'inammissibile area di impunita' in un delicato settore delle gestioni pubbliche. L'assunto viene rafforzato con riferimento all'art. 25 primo comma della stessa Costituzione, secondo cui «nessuno puo' essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge». Questa norma impedisce qualunque sottrazione di sfera giurisdizionale successivamente al verificarsi del fatto generatore, sia nel senso di attribuzione ad altro organo giudiziario che di esclusione di ogni forma di giurisdizione. La questione sollevata con la presente ordinanza appare rilevante ai fini della procedibilita' e quindi della definizione della causa in esame, nonche' non manifestamente infondata per i motivi in precedenza illustrati.
P. Q. M. Visti gli articoli 134 della Costituzione e 23 comma 3° della legge 11 marzo 1953, n. 87, preliminarmente giudica rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli articoli 2, comma 1, 3 comma 1, 24 comma 1, 25 comma 1, 81 comma 4, 97 comma 1, 103 comma 2 e 113 comma 1 della Costituzione, della disposizione di cui all'art. 17 comma 30-ter della legge 3 agosto 2009 n. 102 di conversione del decreto-legge 1° luglio 2009 n. 78, modificata dall'art. 1 comma 1 lett. c del decreto-legge 3 agosto 2009 n. 103, convertito nella legge 3 ottobre 2009 n. 141, limitatamente ai periodi secondo e terzo, in cui recita. «Le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e' sospeso fino alla conclusione del procedimento penale»; Sospende pertanto il giudizio e, riservatasi ogni altra pronuncia in rito ed in merito, dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' sia comunicata ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati. Spese riservate al merito. Cosi' disposto in Napoli nella Camera di Consiglio del 29 settembre 2009. Il Presidente: Gustapane L'estensore: Sciascia