N. 93 SENTENZA 8 - 12 marzo 2010

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Costituzione e leggi costituzionali - Potesta' legislativa  -  Limite
  del rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento  comunitario  e
  dagli obblighi internazionali (art.  117,  primo  comma,  Cost.)  -
  Obblighi  derivanti  dalla  Convenzione  europea  per   i   diritti
  dell'uomo (CEDU) - Eventuale contrasto di norma interna  con  norma
  CEDU - Impossibilita' di interpretare  la  norma  interna  in  modo
  conforme  alla   disposizione   convenzionale   -   Necessita'   di
  proposizione della  questione  di  legittimita'  costituzionale  in
  riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. 
- Legge 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4; legge 31 maggio  1965,  n.
  575, art. 2-ter. 
- Costituzione,  artt.  111,  primo  comma,  e  117,   primo   comma;
  Convenzione europea per la salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e
  delle liberta' fondamentali, art. 6, par. 1. 
Misure di prevenzione - Procedimento per l'applicazione delle  misure
  di prevenzione - Gradi di merito - Svolgimento,  su  istanza  degli
  interessati, nelle forme  dell'udienza  pubblica  -  Preclusione  -
  Violazione del principio di pubblicita' delle  udienze  giudiziarie
  garantito dall'art. 6 della CEDU,  come  interpretato  dalla  Corte
  europea dei diritti dell'uomo -  Illegittimita'  costituzionale  in
  parte qua - Assorbimento dell'ulteriore motivo di censura. 
- Legge 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4; legge 31 maggio  1965,  n.
  575, art. 2-ter. 
- Costituzione, art. 117, primo comma;  Convenzione  europea  per  la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali,
  art. 6, par. 1; (Costituzione, art. 111, primo comma). 
(GU n.11 del 17-3-2010 )
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
  QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano  SILVESTRI,  Sabino
  CASSESE,  Maria  Rita  SAULLE,  Giuseppe   TESAURO,   Paolo   Maria
  NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI; 
ha pronunciato la seguente 
 
                              Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 4  della  legge
27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti  delle
persone pericolose per la sicurezza e per la  pubblica  moralita')  e
dell'art. 2-ter della legge 31  maggio  1965,  n.  575  (Disposizioni
contro la mafia), promosso dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere nel
procedimento di prevenzione relativo a  S.V.  con  ordinanza  del  18
dicembre 2008, iscritta al n.  176  del  registro  ordinanze  2009  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, 1ª  serie
speciale, dell'anno 2009. 
    Visti l'atto di costituzione di S.V. nonche' l'atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza  pubblica  del  12  gennaio  2010  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo; 
    Uditi l'avvocato Andrea R. Castaldo per S.V. e  l'avvocato  dello
Stato Massimo Bachetti per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con ordinanza del 18 dicembre 2008, il Tribunale di S. Maria
Capua Vetere ha promosso, in riferimento agli artt. 111, primo comma,
e 117, primo comma, della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 4 della legge  27  dicembre  1956,  n.  1423
(Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per  la
sicurezza e per la pubblica moralita') e dell'art. 2-ter della  legge
31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nella parte in
cui «non consentono che la procedura di applicazione delle misure  di
prevenzione si svolga, su  istanza  degli  interessati,  nelle  forme
dell'udienza pubblica». 
    Il giudice a quo premette di essere  investito  del  procedimento
per  l'applicazione  di  una  misura  di  prevenzione   personale   e
patrimoniale, nel corso  del  quale  era  stato  disposto,  ai  sensi
dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, il sequestro di un ampio
complesso di beni (partecipazioni societarie, impianti di carburante,
immobili, conti correnti e libretti  di  risparmio),  ritenuti  nella
disponibilita' della persona nei cui confronti era stata proposta  la
misura. Riferisce altresi' che, in udienza, il difensore del proposto
aveva chiesto che la procedura  fosse  trattata  in  forma  pubblica,
eccependo l'illegittimita' costituzionale delle disposizioni  che  ne
prevedono lo svolgimento in camera di consiglio. 
    A tale riguardo, il rimettente osserva che, in forza dell'art. 4,
sesto comma, della legge n. 1423  del  1956,  il  tribunale  provvede
sulle proposte di applicazione delle misure di prevenzione «in camera
di  consiglio,  [...]   osservando,   in   quanto   applicabili,   le
disposizioni degli articoli 636 e 637 del codice di procedura penale»
(il richiamo si  riferiva  al  codice  del  1930,  vigente  al  tempo
dell'entrata in vigore di detta legge). A  sua  volta,  l'art.  2-ter
della legge n. 575 del 1965, nel  disciplinare  l'applicazione  delle
misure di prevenzione patrimoniali nei confronti degli  indiziati  di
appartenenza ad associazioni  di  tipo  mafioso,  opera  un  espresso
riferimento al procedimento previsto dalla legge n.  1423  del  1956,
statuendo, inoltre, al quinto  comma,  che  ove  i  beni  oggetto  di
sequestro adottato in via cautelare appartengano a terzi, questi sono
chiamati dal tribunale ad intervenire nel  procedimento  e  «possono,
anche con l'assistenza di un difensore, [...] svolgere in  camera  di
consiglio le loro deduzioni». 
    Il dettato normativo  risulterebbe,  pertanto,  inequivoco  nello
stabilire che il procedimento  per  l'applicazione  delle  misure  di
prevenzione, tanto personali che patrimoniali, abbia luogo «in camera
di consiglio»: formula che - alla luce di un consolidato orientamento
della giurisprudenza di legittimita' - implicherebbe  attualmente  un
rinvio alla disciplina generale  dettata  dall'art.  127  cod.  proc.
pen., il quale prevede espressamente, al comma 6,  che  l'udienza  in
camera di consiglio - e, dunque, anche quella  del  procedimento  che
interessa - si svolge «senza la presenza del pubblico». 
    Cio' premesso, il rimettente rileva che, con due recenti pronunce
- la sentenza 13 novembre 2007, emessa nella causa Bocellari e  Rizza
contro Italia, e la sentenza 8 luglio 2008, emessa nella causa Pierre
ed altri contro Italia - la Corte europea dei  diritti  dell'uomo  ha
affermato  che  la  procedura  di  applicazione   delle   misure   di
prevenzione prevista dall'ordinamento italiano si pone in  contrasto,
sotto il profilo  considerato,  con  l'art.  6,  paragrafo  1,  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il  4  novembre  1950  e
resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Richiamando la propria giurisprudenza, la Corte di Strasburgo  ha
nell'occasione  ribadito   che   la   pubblicita'   delle   procedure
giudiziarie, garantita dalla citata norma della  Convenzione,  tutela
le  persone  soggette  ad  una  giurisdizione  contro  una  giustizia
segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce uno  dei
mezzi idonei per preservare la fiducia nei giudici.  Con  particolare
riguardo ai procedimenti in  discussione,  la  Corte  non  ha  negato
validita' ai rilievi svolti, nelle sue difese, dal Governo  italiano,
per giustificare la deroga alla pubblicita' delle udienze: e,  cioe',
che le procedure per l'applicazione delle misure di prevenzione -  in
specie  patrimoniali  -  possono  assumere  un  carattere   altamente
tecnico, in quanto basate  essenzialmente  su  documenti  e  indagini
finanziarie, e  possono  implicare,  al  tempo  stesso,  esigenze  di
protezione  della  vita  privata  di  terze  persone,  anche  minori,
coinvolte quali intestatari formali dei beni.  La  Corte  europea  ha
rilevato, tuttavia, che e' necessario tener  conto  della  «posta  in
gioco» nelle procedure in esame, le quali  mirano  alla  confisca  di
«beni e capitali», nonche' degli effetti che  esse  possono  produrre
sulle persone coinvolte:  in  questa  prospettiva  non  e'  possibile
affermare  che  il  controllo  del  pubblico  non   rappresenti   una
condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato.  Di
conseguenza, ha giudicato «essenziale»,  ai  fini  del  rispetto  del
citato art.  6,  paragrafo  1,  della  Convenzione,  che  i  soggetti
coinvolti  nelle  procedure  stesse  «si  vedano  almeno  offrire  la
possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni
specializzate dei tribunali e delle corti d'appello». 
    Dalle affermazioni  ora  ricordate  si  dovrebbe  necessariamente
dedurre - ad avviso del rimettente - che le norme censurate  violino,
in parte qua, l'art. 117, primo comma, Cost., che,  nel  nuovo  testo
introdotto  dalla  legge  costituzionale  18  ottobre  2001,   n.   3
(Modifiche al titolo  V  della  parte  seconda  della  Costituzione),
impone  al  legislatore  il  rispetto  dei  vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali: parametro rispetto al quale - secondo quanto
chiarito dalle sentenze  n.  348  e  n.  349  del  2007  della  Corte
costituzionale - le  disposizioni  della  CEDU,  nell'interpretazione
datane dalla  Corte  di  Strasburgo,  assumono  il  ruolo  di  «norme
interposte». 
    Contrariamente a quanto  sostenuto  dal  pubblico  ministero  nel
procedimento  a  quo,   non   sarebbe   possibile,   d'altra   parte,
interpretare le norme sottoposte a scrutinio in senso  conforme  alla
Convenzione tramite l'applicazione analogica dell'art. 441, comma  3,
cod. proc. pen., il quale, nel prevedere che il  giudizio  abbreviato
si svolge di regola in camera di consiglio, stabilisce, tuttavia, che
esso viene trattato in udienza pubblica «quando  ne  fanno  richiesta
tutti gli imputati». Mancherebbero, infatti, i presupposti  per  tale
operazione  ermeneutica,  sia  perche'  il  ricorso  all'analogia  e'
consentito solo in presenza di una lacuna normativa, nella specie non
ravvisabile; sia in ragione della diversita' strutturale e funzionale
tra il giudizio abbreviato e il procedimento di prevenzione:  essendo
il primo volto all'accertamento della  responsabilita'  dell'imputato
per un determinato «fatto-reato» e il secondo, invece, alla  verifica
della sussistenza di indizi di appartenenza ad associazioni criminali
del soggetto proposto per l'applicazione della misura, nonche'  della
riconducibilita' dei beni, di cui il  proposto  medesimo  dispone,  a
fenomeni di reimpiego dei proventi di attivita' illecite. 
    Il giudice comune, d'altronde - sempre alla luce dei dicta  delle
citate sentenze n. 348 e n.  349  del  2007  -  non  e'  abilitato  a
disapplicare  la   disciplina   interna   contrastante   con   quella
convenzionale: onde  non  resterebbe  altra  via,  per  rimuovere  il
rilevato contrasto, che quella di sollevare questione di legittimita'
costituzionale. 
    Le  ricordate  affermazioni  della  Corte  europea  dei   diritti
dell'uomo inducono, per altro verso, il rimettente a  dubitare  della
legittimita'  costituzionale  delle   norme   censurate   anche   con
riferimento all'art. 111, primo comma, Cost., in forza del  quale  la
giurisdizione si attua mediante il  giusto  processo  regolato  dalla
legge. 
    Sebbene, infatti, il procedimento  disciplinato  dalle  leggi  n.
1423 del 1956 e n. 575 del 1965 appaia strutturato, nel complesso, in
maniera tale da assicurare l'effettivita' del diritto di  difesa,  la
previsione del suo svolgimento nella forma dell'udienza camerale  non
garantirebbe    un    controllo     sull'esercizio     dell'attivita'
giurisdizionale adeguato alla gravita' dei provvedimenti  adottabili,
idonei ad incidere in modo definitivo sul diritto di  proprieta'  «di
beni  e  di  capitali».  In   tale   prospettiva,   anche   ai   fini
dell'attuazione di un «processo equo», dovrebbe  essere  prevista  la
possibilita' di svolgere il procedimento in forma pubblica almeno  su
richiesta degli interessati. 
    Quanto, infine, alla rilevanza della questione, essa risulterebbe
indubbia, giacche' il difensore del soggetto proposto, nel  formulare
l'eccezione di incostituzionalita', ha espressamente chiesto  che  il
procedimento prosegua in pubblica udienza. 
    2.  -  Nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto   il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, con un atto  nel  quale  si  e'
limitato a chiedere che la questione sia dichiarata  inammissibile  o
infondata. 
    Con una successiva memoria, la difesa erariale ha,  poi,  esposto
le proprie argomentazioni, rilevando - circa la censura di violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost. -  che,  secondo  quanto  precisato
dalle sentenze n.  348  e  n.  349  del  2007  e  n.  317  del  2009,
l'attitudine delle norme della CEDU, come  interpretate  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo, ad integrare il citato  parametro  non
comporta una loro «sovraordinazione» sul piano della gerarchia  delle
fonti. Di conseguenza, benche'  la  Corte  costituzionale  non  possa
sostituire la propria interpretazione di una disposizione della  CEDU
a quella della Corte di Strasburgo, e'  comunque  tenuta  a  valutare
come  tale  interpretazione  si  inserisca  -  anche  in  termini  di
«bilanciamento» di valori - nell'ordinamento costituzionale italiano,
avuto riguardo, soprattutto, al complesso dei diritti fondamentali. 
    Nella specie, la previsione, per l'applicazione delle  misure  di
prevenzione, di una procedura in camera di consiglio  senza  presenza
del pubblico troverebbe la sua ratio nelle esigenze  di  celerita'  e
nelle finalita' di sicurezza,  e  di  conseguente  riservatezza,  che
caratterizzano  i  procedimenti  in   questione,   i   quali   spesso
coinvolgono forme di criminalita' ad «alto tasso  di  pericolosita'».
Ne', d'altro canto,  cio'  comporterebbe  pregiudizi  al  diritto  di
difesa, come sarebbe reso palese dal fatto che essa risulta parimenti
prevista  dal  codice  di  procedura  penale   per   lo   svolgimento
dell'udienza  preliminare,  del  giudizio  abbreviato  e  per  alcune
categorie di giudizi in appello e dinanzi alla Corte  di  cassazione,
senza  che  cio'  abbia  mai  dato  adito  a  dubbi  di  legittimita'
costituzionale. 
    Quanto, poi, alla censura  di  violazione  dell'art.  111,  primo
comma, Cost.,  essa  sarebbe  palesemente  infondata,  in  quanto  la
nozione costituzionale  di  «giusto  processo»  non  ricomprenderebbe
anche la garanzia della partecipazione del pubblico alle udienze. 
    3. - Si e' costituito, altresi', S. V., persona nei cui confronti
e' stata proposta la misura di prevenzione nel  procedimento  a  quo,
chiedendo che la questione venga accolta. 
    Nell'aderire  alle  argomentazioni   svolte   nell'ordinanza   di
rimessione, la difesa della parte privata ribadisce, in  particolare,
che, se e'  vero  che  il  legislatore  deve  ritenersi  abilitato  a
prevedere, in relazione all'oggetto della causa e alle  diverse  fasi
dei procedimenti, differenti forme processuali, proprio  la  gravita'
dei  provvedimenti  che  l'autorita'  giudiziaria  puo'  adottare  in
materia  di  prevenzione  patrimoniale  imporrebbe   la   pubblicita'
dell'udienza,  soprattutto  se  richiesta  dagli  interessati,  quale
garanzia di trasparenza e di attuazione di un processo equo. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.  -  Il  Tribunale  di  S.  Maria  Capua  Vetere  dubita  della
legittimita' costituzionale dell'art. 4 della legge 27 dicembre 1956,
n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose
per la sicurezza e per la pubblica moralita') e dell'art. 2-ter della
legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro  la  mafia),  nella
parte in cui «non consentono che la procedura per  l'applicazione  di
una misura di prevenzione si svolga, su  istanza  degli  interessati,
nelle forme dell'udienza pubblica». 
    Ad avviso del giudice a quo, le norme censurate - prevedendo  che
le procedure per l'applicazione di misure di prevenzione personali  e
patrimoniali si  svolgano,  senza  alcuna  eccezione,  in  camera  di
consiglio  e,  dunque,  senza  la  partecipazione  del   pubblico   -
violerebbero l'art. 117, primo comma, della  Costituzione,  ponendosi
in  contrasto  con  il  principio  di  pubblicita'  dei  procedimenti
giudiziari, sancito  dall'art.  6,  paragrafo  1,  della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali (CEDU), cosi' come interpretato dalla Corte europea  dei
diritti dell'uomo proprio con specifico riferimento  ai  procedimenti
in esame. Secondo la Corte di Strasburgo,  infatti  -  pur  a  fronte
dell'elevato grado di tecnicismo proprio di tali procedimenti e delle
esigenze, in esse sovente presenti, di protezione della vita  privata
di  terzi  indirettamente  interessati  da  controlli  finanziari   -
l'entita' della «posta in gioco»  e  gli  effetti  che  le  procedure
stesse possono produrre impongono di ritenere che  il  controllo  del
pubblico   sull'esercizio   della   giurisdizione   rappresenti   una
condizione necessaria ai fini del rispetto dei diritti  dei  soggetti
coinvolti, onde  dovrebbe  essere  offerta  ai  medesimi  «almeno  la
possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni
specializzate dei tribunali e delle corti d'appello» competenti. 
    Le norme sottoposte a  scrutinio  lederebbero,  altresi',  l'art.
111, primo comma, Cost., in quanto - a  causa  della  gravita'  delle
misure  adottabili  dall'autorita'  giudiziaria   a   seguito   delle
procedure  considerate  -  l'attribuzione  agli   interessati   della
facolta'  di  richiederne  la   trattazione   in   udienza   pubblica
risulterebbe indispensabile  ai  fini  dell'attuazione  di  un  «equo
processo». 
    2. - In via preliminare, va rilevato che,  malgrado  la  generica
formulazione del quesito, il dubbio di  costituzionalita'  sottoposto
all'esame  della  Corte  deve  ritenersi  circoscritto  alla  mancata
previsione della possibilita' di trattazione in udienza pubblica  dei
procedimenti di prevenzione nei gradi di  merito  (prima  istanza  ed
appello). 
    A  questi  soltanto  risulta,  infatti,  riferito  il   principio
affermato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo  nelle  decisioni
poste a fondamento delle censure; ne',  d'altro  canto,  si  rinviene
nell'ordinanza di rimessione alcuna argomentazione a sostegno di  una
loro eventuale estensione al  giudizio  di  cassazione  (aspetto  che
resterebbe, peraltro, irrilevante nel procedimento a quo). 
    3. - Cosi' definita, la questione, in riferimento  all'art.  117,
primo comma, Cost., e' fondata. 
    4. - A partire dalle sentenze n.  348  e  n.  349  del  2007,  la
giurisprudenza di questa Corte e' costante nel ritenere che le  norme
della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per  dare   ad   esse
interpretazione  ed  applicazione  (art.  32,  paragrafo   1,   della
Convenzione) - integrano,  quali  «norme  interposte»,  il  parametro
costituzionale espresso dall'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  nella
parte in cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai
vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317  e
n. 311 del 2009, n. 39 del 2008). 
    Nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra  una  norma
interna e una norma della CEDU, il  giudice  nazionale  comune  deve,
quindi,  preventivamente  verificare   la   praticabilita'   di   una
interpretazione  della  prima  conforme  alla  norma   convenzionale,
ricorrendo a tutti  i  normali  strumenti  di  ermeneutica  giuridica
(sentenza  n.  239  del  2009),  e,  ove   tale   soluzione   risulti
impercorribile  (non  potendo  egli  disapplicare  la  norma  interna
contrastante),   deve   denunciare   la   rilevata   incompatibilita'
proponendo questione di legittimita' costituzionale in riferimento al
parametro dianzi indicato. 
    A sua volta,  nel  procedere  al  relativo  scrutinio,  la  Corte
costituzionale, pur non  potendo  sindacare  l'interpretazione  della
CEDU data dalla Corte di Strasburgo, resta legittimata  a  verificare
se la norma della Convenzione, come da quella  Corte  interpretata  -
norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale - si
ponga eventualmente in conflitto con altre norme della  Costituzione:
ipotesi eccezionale nella quale dovra' essere  esclusa  la  idoneita'
della  norma  convenzionale  a  integrare  il  parametro  considerato
(sentenze n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007). 
    5. - Nella specie, il giudice rimettente  muove  da  una  lettura
della disciplina censurata adeguata al vigente quadro normativo,  dal
quale emerge con chiarezza che  il  procedimento  per  l'applicazione
delle misure di prevenzione, personali e  patrimoniali  -  del  quale
questa Corte ha avuto modo di rimarcare il carattere  giurisdizionale
(tra le altre, sentenza n. 77 del 1995) -  si  svolge  in  camera  di
consiglio, senza la partecipazione del pubblico. 
    La  trattazione  della  procedura  in  camera  di  consiglio  e',
infatti, espressamente prevista - con riguardo,  rispettivamente,  al
primo  grado  e  al  giudizio  di  impugnazione  davanti  alla  corte
d'appello - dal sesto e dall'undicesimo comma dell'art. 4 della legge
n. 1423 del 1956. Tale disciplina,  relativa  all'applicazione  delle
misure di prevenzione personali, opera, d'altronde, anche in rapporto
a quelle patrimoniali nei confronti degli indiziati  di  appartenenza
ad associazioni di tipo mafioso previste dalla legge n. 575 del 1965,
il cui  art.  2-ter  richiama  specificamente,  al  primo  comma,  il
procedimento previsto dalla legge del 1956 e,  al  quinto  comma,  fa
ulteriore riferimento alla trattazione in camera  di  consiglio,  nel
regolare  il  diritto  di  intervento  riconosciuto  ai   terzi   cui
eventualmente appartengano i beni sequestrati. 
    La  previsione  per  cui  la  procedura  si  svolge  «in   camera
consiglio» comporta, per altro verso - in conformita' ad un indirizzo
interpretativo avallato anche dalle  sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione (sentenza 28 maggio  2003-18  giugno  2003,  n.  26156)  -
l'operativita',  ove  non  diversamente  disposto,  della  disciplina
generale in materia di «procedimento in Camera di consiglio»  dettata
dall'art. 127 cod. proc. pen.: e, dunque - in mancanza di  previsioni
derogatorie sul punto - anche della disposizione del comma 6 di  tale
articolo, in forza della quale «l'udienza si svolge senza la presenza
del pubblico». 
    6.  -  Tale  assetto  ha  indotto,  tuttavia,  a  dubitare  della
compatibilita' della disciplina italiana del procedimento applicativo
delle misure di prevenzione con l'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, il
quale stabilisce - per la parte conferente -  che  «ogni  persona  ha
diritto che la sua causa sia esaminata [...], pubblicamente e  in  un
tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente e imparziale
[...]»,  soggiungendo,  altresi',  che  «il  giudizio   deve   essere
pubblico, ma l'ingresso nella sala di  udienza  puo'  essere  vietato
alla stampa  e  al  pubblico  durante  tutto  o  parte  del  processo
nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o  della  sicurezza
nazionale  in  una  societa'  democratica,  quando  lo  esigono   gli
interessi dei minori o la protezione della vita privata  delle  parti
in causa,  o  nella  misura  giudicata  strettamente  necessaria  dal
tribunale,  quando  in  circostanze  speciali  la  pubblicita'   puo'
pregiudicare gli interessi della giustizia». 
    Sullo specifico tema, la Corte europea dei diritti  dell'uomo  si
e' espressa in  maniera  uniforme  -  tanto  da  potersi  parlare  di
indirizzo consolidato - oltre che  nelle  due  pronunce  diffusamente
richiamate nell'ordinanza di  rimessione  (la  sentenza  13  novembre
2007, nella causa Bocellari e Rizza contro Italia, e  la  sentenza  8
luglio 2008, nella causa Pierre ed altri contro Italia), anche  nella
successiva sentenza 5 gennaio  2010,  nella  causa  Bongiorno  contro
Italia. 
    Ravvisando una violazione della citata norma  della  Convenzione,
la Corte di Strasburgo ha ritenuto, in specie, «essenziale», ai  fini
della realizzazione della garanzia prefigurata  dalla  norma  stessa,
«che le persone [...] coinvolte in un  procedimento  di  applicazione
delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la  possibilita'
di  sollecitare   una   pubblica   udienza   davanti   alle   sezioni
specializzate dei tribunali e delle corti d'appello». 
    A tale conclusione la Corte europea e' pervenuta richiamando,  in
via preliminare, la propria giurisprudenza, in forza della  quale  la
pubblicita' delle procedure giudiziarie tutela  le  persone  soggette
alla giurisdizione  contro  una  giustizia  segreta,  che  sfugge  al
controllo  del  pubblico  e  costituisce  anche  uno  strumento   per
preservare la fiducia nei giudici (tra le altre, sentenza 14 novembre
2000, nella causa Riepan contro Austria). Con la trasparenza che essa
conferisce all'amministrazione della giustizia, contribuisce, quindi,
a realizzare lo scopo dell'art. 6, paragrafo  1,  della  CEDU:  ossia
l'equo processo (ex plurimis, sentenza 25 luglio  2000,  nella  causa
Tierce e altri contro San Marino). 
    Come attestano le eccezioni previste dalla  seconda  parte  della
norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorita'  giudiziarie
di derogare al principio di  pubblicita'  dell'udienza,  in  rapporto
alle particolarita'  della  vicenda  sottoposta  al  loro  esame:  ma
l'udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata, deve essere
comunque «strettamente imposta dalle  circostanze  della  causa».  La
stessa Corte europea ha ritenuto, in effetti, che alcune  circostanze
eccezionali, attinenti alla natura  delle  questioni  da  trattare  -
quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso -
possano giustificare che si faccia a meno di un'udienza pubblica.  Ma
nella maggior parte dei casi in cui la  Corte  e'  pervenuta  a  tale
conclusione  in  rapporto  a  procedimenti   davanti   ad   autorita'
giudiziarie «civili» chiamate a decidere nel  merito,  il  ricorrente
aveva avuto, comunque, la possibilita' di sollecitare  che  la  causa
fosse trattata in udienza pubblica. 
    La situazione -  ha  osservato  la  Corte  di  Strasburgo  -  e',
tuttavia, diversa quando, sia in primo  grado  che  in  appello,  una
procedura «sul merito» si svolge a porte  chiuse  in  virtu'  di  una
norma generale ed  assoluta,  senza  che  la  persona  soggetta  alla
giurisdizione fruisca di quella facolta'. Una procedura siffatta  non
puo' essere, invero, considerata conforme all'art.  6,  paragrafo  1,
della CEDU, giacche', salvi casi del tutto eccezionali, l'interessato
deve  avere  almeno  la  possibilita'  di  chiedere  un  dibattimento
pubblico;  richiesta  che  potra'  essere  eventualmente   disattesa,
qualora lo svolgimento a porte  chiuse  risulti  giustificato  «dalle
circostanze  della  causa  e  per  i  motivi  sopra  richiamati»  (al
riguardo, sentenza  12  aprile  2006,  nella  causa  Martinie  contro
Francia). 
    Con particolare  riguardo  alla  fattispecie  sottoposta  al  suo
esame, la Corte europea non ha contestato  che  il  procedimento  per
l'applicazione delle misure di prevenzione - di cui, come  detto,  e'
previsto lo svolgimento in camera di consiglio tanto in  primo  grado
che in appello (art. 4 della legge n. 1423 del 1956), senza che  alle
parti sia riconosciuta la facolta' di chiedere l'udienza  pubblica  -
possa presentare «un elevato grado di tecnicita'», in quanto tendente
(nel caso di misure patrimoniali) al controllo «delle finanze  e  dei
movimenti  di  capitali»;   ovvero   possa   coinvolgere   «interessi
superiori, quali la protezione della vita  privata  di  minori  o  di
terze persone indirettamente interessate dal controllo finanziario». 
    Non e', tuttavia, possibile - secondo  la  Corte  europea  -  non
considerare l'entita' della  «posta  in  gioco»  nelle  procedure  di
prevenzione, le quali mirano alla  confisca  di  «beni  e  capitali»,
coinvolgendo cosi'  direttamente  la  situazione  patrimoniale  della
persona soggetta  a  giurisdizione,  nonche'  gli  effetti  che  esse
possono produrre sulle persone: situazione, questa,  a  fronte  della
quale «non si puo' affermare che il controllo del pubblico» -  almeno
su sollecitazione del soggetto coinvolto - «non  sia  una  condizione
necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato». 
    7. - Da quanto precede si deve trarre la  necessaria  conseguenza
che le norme censurate violano,  in  parte  qua,  l'art.  117,  primo
comma, Cost. 
    Al riguardo, va senz'altro escluso che  la  norma  internazionale
convenzionale, cosi' come interpretata dalla Corte europea, contrasti
con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione. 
    L'assenza di un esplicito richiamo in Costituzione non scalfisce,
in effetti, il valore costituzionale  del  principio  di  pubblicita'
delle udienze giudiziarie: principio che - consacrato anche in  altri
strumenti   internazionali,   quale,   in   particolare,   il   Patto
internazionale di New York relativo ai  diritti  civili  e  politici,
adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con  legge  25  ottobre
1977, n. 881 (art. 14) - trova oggi ulteriore conferma nell'art.  47,
paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
(cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall'art. 6, paragrafo  1,  del
Trattato sull'Unione europea, nella  versione  consolidata  derivante
dalle modifiche ad esso apportate dal  Trattato  di  Lisbona  del  13
dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009. 
    Questa Corte ha avuto modo, in  effetti,  di  affermare  in  piu'
occasioni che la pubblicita' del giudizio, specie di  quello  penale,
costituisce  principio  connaturato  ad  un  ordinamento  democratico
fondato   sulla   sovranita'   popolare,   cui    deve    conformarsi
l'amministrazione della giustizia, la quale - in forza dell'art. 101,
primo comma, Cost. - trova in quella sovranita' la sua legittimazione
(sentenze n. 373 del 1992; n. 69 del 1991; n. 50 del 1989; n. 212 del
1986; n. 17 e 16 del 1981; n. 12 del 1971  e  n.  65  del  1965).  Il
principio non ha valore  assoluto,  potendo  cedere  in  presenza  di
particolari ragioni giustificative, purche',  tuttavia,  obiettive  e
razionali (sentenza n. 212 del 1986), e, nel  caso  del  dibattimento
penale,  collegate  ad  esigenze  di  tutela  di  beni  a   rilevanza
costituzionale (sentenza n. 12 del 1971). 
    Le osservazioni della Corte di Strasburgo colgono, d'altro canto,
le specifiche  peculiarita'  del  procedimento  di  prevenzione,  che
valgono a differenziarlo da un complesso di altre procedure camerali.
Si tratta, cioe', di un procedimento all'esito del quale  il  giudice
e' chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in
modo  diretto,  definitivo  e  sostanziale  su  beni   dell'individuo
costituzionalmente tutelati, quali la liberta'  personale  (art.  13,
primo comma, Cost.)  e  il  patrimonio  (quest'ultimo,  tra  l'altro,
aggredito  in  modo  normalmente  «massiccio»  e  in  componenti   di
particolare rilievo, come del resto nel procedimento a quo),  nonche'
la stessa liberta' di iniziativa economica, incisa dalle misure anche
gravemente «inabilitanti» previste  a  carico  del  soggetto  cui  e'
applicata la misura di  prevenzione  (in  particolare,  dall'art.  10
della legge n. 575 del 1965). Il  che  conferisce  specifico  risalto
alle esigenze alla cui  soddisfazione  il  principio  di  pubblicita'
delle udienze e' preordinato. 
    8. - Sotto diverso profilo, il giudice  a  quo  ha  correttamente
escluso che sia possibile  allineare  la  disciplina  censurata  alle
pronunce  della  Corte  europea   per   via   d'interpretazione.   In
particolare, ha escluso che a tale risultato si possa  pervenire  per
il  tramite  dell'applicazione  analogica  -   al   procedimento   di
prevenzione - dell'art. 441, comma  3,  cod.  proc.  pen.,  il  quale
prevede che il giudizio abbreviato - normalmente trattato  in  camera
di consiglio  -  si  svolga  in  udienza  pubblica  quando  ne  fanno
richiesta tutti gli imputati. 
    Il rimettente ha rilevato, infatti, che difettano  le  condizioni
legittimanti tale operazione  ermeneutica,  sia  perche'  il  ricorso
all'analogia presuppone il riconoscimento di un vuoto normativo,  qui
non ravvisabile in presenza di una specifica  disposizione  contraria
(il citato art. 127, comma 6, cod. proc. pen.); sia  a  fronte  delle
marcate differenze  strutturali  e  funzionali  dei  procedimenti  in
questione (giudizio abbreviato e procedimento di prevenzione). 
    9. - Le censure relative all'art. 111, primo comma, Cost. restano
assorbite. 
    10. - Gli artt. 4 della legge n. 1423  del  1956  e  2-ter  della
legge  n.  575  del  1965   devono   essere,   pertanto,   dichiarati
costituzionalmente illegittimi per violazione  dell'art.  117,  primo
comma, della Costituzione nella parte in cui non consentono  che,  su
istanza degli interessati, il procedimento per  l'applicazione  delle
misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale  e  alla  corte
d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica. 
    In conformita' alle indicazioni della Corte europea  dei  diritti
dell'uomo, resta fermo il potere  del  giudice  di  disporre  che  si
proceda in tutto o  in  parte  senza  la  presenza  del  pubblico  in
rapporto a particolarita' del caso concreto,  che  facciano  emergere
esigenze di tutela di valori contrapposti, nei limiti in cui, a norma
dell'art. 472 cod. proc. pen.,  e'  legittimato  lo  svolgimento  del
dibattimento penale a porte chiuse. 
 
                          Per questi motivi 
 
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    Dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4 della  legge
27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti  delle
persone pericolose per la sicurezza e per la  pubblica  moralita')  e
dell'art. 2-ter della legge 31  maggio  1965,  n.  575  (Disposizioni
contro la mafia), nella parte in cui non consentono che,  su  istanza
degli interessati, il procedimento per l'applicazione delle misure di
prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla  corte  d'appello,
nelle forme dell'udienza pubblica. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 marzo 2010. 
 
                       Il Presidente: Amirante 
 
 
                         Il redattore: Frigo 
 
 
                      Il cancelliere: Di Paola 
 
    Depositata in cancelleria il 12 marzo 2010. 
 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola