N. 293 ORDINANZA 4 - 8 ottobre 2010

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Espropriazione per pubblica utilita' - Utilizzazione sine  titulo  di
  un bene immobile, per scopi di interesse pubblico,  in  assenza  di
  provvedimento ablatorio - Prevista acquisizione del bene  da  parte
  della pubblica amministrazione, con obbligo di risarcire i danni al
  proprietario - Eccepita inammissibilita' per difetto  di  rilevanza
  delle  questioni  per  inapplicabilita'  ratione   temporis   della
  disposizione denunciata - Reiezione. 
- D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 43. 
- Costituzione, artt. 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, primo comma. 
Espropriazione per pubblica utilita' - Utilizzazione sine  titulo  di
  un bene immobile, per scopi di interesse pubblico,  in  assenza  di
  provvedimento ablatorio - Prevista acquisizione del bene  da  parte
  della pubblica amministrazione, con obbligo di risarcire i danni al
  proprietario   -   Introduzione   di   disciplina   sostanzialmente
  innovativa rispetto al sistema legislativo previgente - Conseguente
  violazione dei principi e criteri  direttivi  stabiliti  con  legge
  delega  di  mero  riordino  -   Illegittimita'   costituzionale   -
  Assorbimento delle questioni ulteriori. 
- D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 43. 
- Costituzione, art. 76 (artt. 3,  24,  42,  97,  113  e  117,  primo
  comma); legge 8 marzo 1999, n. 50. 
(GU n.41 del 13-10-2010 )
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
  QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano  SILVESTRI,  Sabino
  CASSESE,  Maria  Rita  SAULLE,  Giuseppe   TESAURO,   Paolo   Maria
  NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI; 
ha pronunciato la seguente 
 
                               Sentenza 
 
nei giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'articolo  43  del
decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327  (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari  in  materia  di
espropriazione  per  pubblica  utilita'),  promossi   dal   Tribunale
amministrativo regionale della Campania  con  due  ordinanze  del  28
ottobre e con una ordinanza del  18  novembre  2008,  rispettivamente
iscritte ai nn.  114,  115  e  116  del  registro  ordinanze  2009  e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, 1ª  serie
speciale, dell'anno 2009. 
    Visti gli atti di costituzione di N.D. ed  altri,  di  M.R.P.  ed
altri e del Comune di  Casapesenna  ed  altri  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica del 7 luglio 2010 il giudice relatore
Giuseppe Tesauro; 
    Uditi gli avvocati Francesco Guerriero e Antonio Sasso  per  N.D.
ed altri, Antonio Sasso per M.R.P. ed altri, Fabrizio Vittoria per il
Comune di Casapesenna e l'avvocato dello Stato Maurizio Borgo per  il
Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Il Tribunale amministrativo regionale per la  Campania,  con
tre ordinanze di identico tenore, pronunciate in altrettanti giudizi,
le prime due del 28 ottobre 2008 (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009) e la
terza del 18 novembre 2008 (r.o. n. 116 del 2009), ha  sollevato,  in
riferimento agli articoli 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, primo  comma,
della  Costituzione,   questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno
2001,  n.  327  (Testo  unico  delle   disposizioni   legislative   e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilita'). 
    1.1. - Le prime due ordinanze (r.o. n. 114 e n.  115  del  2009),
relative ad identiche fattispecie, espongono che  i  ricorrenti  sono
tutti proprietari di un fondo in Casapesenna,  oggetto  di  procedura
ablatoria, in  ordine  alla  quale  il  medesimo  TAR,  con  sentenze
rispettivamente n. 73 e n. 74 del  2008,  aveva  annullato  gli  atti
impugnati e condannato il  Comune  di  Casapesenna  a  restituire  il
terreno, previo ripristino dello stato dei luoghi.  Gli  attori,  con
distinti ricorsi, poi riuniti dal TAR,  hanno  proposto  ricorso  per
l'esecuzione del giudicato, chiedendo la restituzione del  fondo,  ed
hanno impugnato la delibera del Consiglio comunale con  la  quale  il
Comune  ha  disposto,  ex  art.  43,  comma  2,  del  citato  d.P.R.,
l'acquisizione al patrimonio indisponibile delle aree  in  questione,
corrispondendo una somma a titolo di risarcimento dei danni. 
    1.2. - I rimettenti premettono ancora, in fatto, che  la  vicenda
era stata oggetto di  una  prima  pronuncia  dello  stesso  tribunale
(sentenza 23 gennaio 2003, n. 387) con la quale era  stato  censurato
l'operato dell'amministrazione  in  ragione  del  mancato  compimento
dell'iter previsto per la formazione della  variante  urbanistica,  e
per violazione del contraddittorio con i  soggetti  interessati.  Nel
procedimento  di  cui  all'ordinanza  r.o.  n.  114  del  2009,   con
successive sentenze veniva poi  annullata  una  nota  del  comune  di
diniego di restituzione del suolo occupato e disposta la restituzione
dello stesso con ripristino dello stato dei luoghi (sentenza 5 giugno
2003, n. 7290), ed ancora veniva accolto il ricorso per  l'esecuzione
del relativo giudicato con nomina  di  un  commissario  ad  acta.  In
seguito il Consiglio di Stato, con sentenza 3 maggio 2005,  n.  2095,
dichiarava che sull'amministrazione gravava l'obbligo  di  restituire
l'area occupata. 
    Successivamente, con le gia' indicate sentenze del  medesimo  TAR
(n. 73 e n. 74 del 2008), erano stati annullati per incompetenza  gli
atti inerenti alla procedura ex art. 43 del d.P.R. n. 327  del  2001,
con  condanna  del  comune  alla  restituzione  del  terreno   previo
ripristino  dello  stato  dei  luoghi.  Infine,  era  intervenuto  il
provvedimento di acquisizione sanante ai sensi del citato art. 43. 
    1.3. - La terza ordinanza (r.o.  n.  116  del  2009)  espone,  in
fatto, che il ricorrente, proprietario di un fondo sito nel Comune di
San Giuseppe Vesuviano (Napoli), ne aveva subito da  parte  di  detto
comune l'occupazione, senza alcun procedimento espropriativo. 
    Dopo alterne vicende in punto di giurisdizione, il  Tribunale  di
Nola, ritenendo la propria giurisdizione, radicandola per  la  natura
usurpativa dell'occupazione, aveva, infine, negato  l'acquisto  della
proprieta' in capo alla pubblica amministrazione. 
    In seguito, era stato adottato  da  parte  del  responsabile  del
Servizio lavori pubblici ed urbanistica ed Ufficio espropriazioni del
Comune di San Giuseppe Vesuviano, il decreto n. prot.  2006  0020376,
impugnato nel giudizio  principale,  con  il  quale  veniva  disposta
l'acquisizione  coattiva   al   patrimonio   indisponibile   comunale
dell'area, prevedendo, altresi' in  favore  del  proprietario  «oltre
l'indennizzo, il risarcimento del  danno  nonche'  il  computo  degli
interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato
occupato senza titolo». 
    In particolare, il ricorrente deduceva la violazione degli  artt.
43  e  57,  comma  1,  del  d.P.R.  n.  327  del   2001,   lamentando
l'inapplicabilita' al caso di specie del procedimento ex art.  43  ed
invocando l'applicazione del regime transitorio ex art. 57, comma  1,
con obbligo di restituzione dell'immobile e risarcimento del danno ex
art. 2043 del codice civile per l'illegittima, ulteriore occupazione. 
    1.4. - Cio' posto, i giudici a quibus ricordano che, in  caso  di
annullamento giurisdizionale degli atti relativi  alla  procedura  di
espropriazione per pubblica utilita', il proprietario puo' chiedere -
mediante il giudizio di  ottemperanza  -  la  restituzione  del  bene
piuttosto che il risarcimento del danno  per  equivalente  monetario,
anche  se  l'area  sia   stata   irreversibilmente   trasformata   in
conseguenza dell'esecuzione  dell'opera  pubblica.  Inoltre,  l'unico
rimedio per evitare la restituzione dell'area sarebbe l'emanazione di
un provvedimento di acquisizione cosiddetto «sanante» ex art. 43  del
d.P.R. n. 327 del 2001, in assenza del  quale  l'amministrazione  non
puo' addurre la intervenuta realizzazione dell'opera  pubblica  quale
causa di impossibilita' oggettiva e, quindi,  come  impedimento  alla
restituzione. 
    1.5. - Il TAR Campania, dopo aver ricordato la giurisprudenza  di
legittimita' relativa alla  cosiddetta  occupazione  «appropriativa»,
assume che tale ricostruzione sarebbe incompatibile con la disciplina
normativa introdotta dal d.P.R. n. 327 del 2001 ed entrata in  vigore
il 30 giugno 2003, in quanto la disposizione oggi censurata subordina
all'adozione di apposito provvedimento discrezionale il trasferimento
di proprieta' dei beni immobili utilizzati  per  scopi  di  interesse
pubblico, a seguito di trasformazione, determinatasi in  assenza  del
valido ed efficace provvedimento espropriativo o  dichiarativo  della
pubblica utilita'. Inoltre, non  potrebbe  ritenersi  che  l'art.  43
disponga solo per il  futuro,  trattandosi  di  disposizione,  avente
natura processuale riferita  a  tutti  i  casi  di  occupazione  sine
titulo, anche gia' sussistenti alla data di  entrata  in  vigore  del
testo unico (a conforto, richiama: Cons. Stato, IV, 21  maggio  2007,
n. 2582; A.P., 29 aprile 2005, n. 2; TAR. Emilia-Romagna, Bologna, I,
27 ottobre 2003, n. 2160). 
    1.6. - I rimettenti,  quanto  alla  giurisdizione,  ritengono  di
doversi  conformare  al  consolidato  orientamento  giurisprudenziale
secondo  cui,  in  materia  di  procedimenti  di  espropriazione  per
pubblica utilita', sono devolute  alla  giurisdizione  esclusiva  del
giudice  amministrativo  le  controversie  nelle  quali   si   faccia
questione, anche a fini risarcitori, di attivita'  di  occupazione  e
trasformazione  di  un  bene  conseguenti  ad  una  dichiarazione  di
pubblica utilita' e con essa congruenti, anche in  presenza  di  atti
poi dichiarati illegittimi. 
    1.7. - Cio' posto, con riferimento alla delibera di  acquisizione
delle aree, il Tribunale richiama la giurisprudenza secondo cui  tale
atto persegue una finalita'  di  sanatoria  di  situazioni  prive  di
procedure legittime di esproprio, senza che  rilevi  la  causa  della
illegittimita' del comportamento: sia essa conseguente all'assenza di
una dichiarazione di pubblica utilita' od  all'annullamento  di  essa
oppure determinata da altre cause, risultando in proposito  rilevante
il  solo  fatto  che  l'interesse  pubblico   non   potrebbe   essere
soddisfatto se non con il mantenimento della situazione ablativa. 
    In punto di rilevanza i rimettenti assumono che, aderendo a  tale
orientamento, nella specie il ricorso in ottemperanza dovrebbe essere
dichiarato improcedibile, in virtu' dell'atto formale di acquisizione
sanante, mentre il ricorso avverso la  delibera  consiliare  dovrebbe
essere rigettato, perche' il provvedimento  oggetto  di  impugnazione
deve ritenersi conforme al modello astratto di cui al citato art. 43. 
    1.8. - Il  Tribunale  amministrativo  campano  dubita,  tuttavia,
della legittimita' costituzionale di tale norma, per violazione degli
artt. 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, Cost.. 
    In particolare, quanto agli artt. 3, 24, 42, 97 e 113  Cost.,  il
Tribunale evidenzia  come  l'esercizio  del  potere  autoritativo  di
acquisizione   dell'area,   attraverso   l'adozione   di   un    atto
amministrativo, che consente di evitare la restituzione del bene e di
sanare  la  pregressa  illegalita',  avrebbe  assunto  la  natura  di
strumento «ordinario», attraverso il quale «si legalizza l'illegale»,
rimuovendo l'illecito aquiliano attraverso l'atto di acquisizione. In
tal  modo  risulterebbe  capovolta  la  garanzia  costituzionale  del
diritto di proprieta' di cui all'art. 42, Cost., nella misura in  cui
la   norma   «consente   alla   pubblica    amministrazione,    anche
deliberatamente, [...] di eludere gli obblighi  procedimentali  della
instaurazione del contraddittorio, delle tre fasi progettuali e della
verifica delle norme  di  conformita'  urbanistica»,  norme  peraltro
imposte non soltanto dall'autorita'  comunale,  ma  anche  da  quelle
preposte alla tutela di ulteriori e distinti vincoli. 
    L'abuso  di  tale  strumento  imporrebbe,  invece,  una   lettura
restrittiva della disposizione, dal  momento  che  ben  difficilmente
nella  pratica  sarebbe   possibile   immaginare   ipotesi   in   cui
l'Amministrazione non possa giustificare il proprio operato,  con  la
necessita' di perseguire uno scopo pubblico. 
    Per altro verso, a  giudizio  dei  rimettenti,  non  si  potrebbe
prescindere dai principi costituzionali e dalla  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.
848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma  il  4
novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla  Convenzione  stessa,
firmato a Parigi il 20 marzo 1952), (infra: anche CEDU o  Convenzione
europea), in base ai quali il diritto di proprieta'  potrebbe  essere
acquistato dall'Amministrazione soltanto attraverso  l'emanazione  di
un formale provvedimento amministrativo. 
    Inoltre, si precisa, la questione di legittimita'  costituzionale
viene appunto sollevata, prendendo atto che, di  fatto,  la  sentenza
che ha dichiarato l'illegittimita' della procedura si pone come  «una
sorta di atto presupposto del  procedimento  che  si  perfeziona  con
l'atto di acquisizione», con conseguente «grave lesione del principio
generale  dell'intangibilita'  del  giudicato  amministrativo»  [...]
sostanzialmente «vanificato da un atto amministrativo di acquisizione
per utilizzazione senza titolo di un  bene  per  scopi  di  interesse
pubblico». Del resto, andrebbe pure  considerato  che  l'acquisizione
sanante ben potrebbe essere «reiterata all'infinito»,  divenendo  non
piu' uno  strumento  straordinario,  ma  ordinario,  con  conseguente
«vanificazione dei principi di certezza giuridica e di  tutela  delle
posizioni giuridiche». 
    In questo contesto,  il  Tribunale  specifica  di  aver  esperito
inutilmente ogni tentativo di interpretazione  adeguatrice,  al  fine
attribuire alla norma un significato costituzionalmente corretto. 
    1.9. - Con riferimento, poi, all'art. 117, primo comma, Cost., il
Tribunale, dopo aver richiamato la sentenza di questa  Corte  n.  349
del 2007, con riguardo al rapporto  fra  norma  statale  ed  obblighi
derivanti dalla CEDU, assume  che  la  norma  censurata  non  sarebbe
conforme ai principi della Convenzione europea ed all'art. 6 (F)  del
Trattato di Maastricht (modificato dal  Trattato  di  Amsterdam),  in
base al quale «l'Unione rispetta i diritti  fondamentali  quali  sono
garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali,  [...]  in  quanto  principi
generali del diritto comunitario».  In  questo  senso  deporrebbe  la
costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (20
aprile 2006; 15 novembre 2005; 17 maggio 2005), la quale avrebbe piu'
volte affermato  la  non  conformita'  all'art.  1,  prot.  1,  della
Convenzione,   della   prassi   sulla   cosiddetta    «espropriazione
indiretta», secondo cui l'amministrazione  diventerebbe  proprietaria
del bene in assenza di un atto ablatorio. 
    1.10. - Infine,  i  rimettenti  censurano  l'art.  43  anche  con
riferimento all'art. 76, Cost., in quanto l'art. 7, comma 2,  lettera
d) della legge-delega 8 marzo 1999, n. 50  (Delegificazione  e  testi
unici di norme concernenti procedimenti  amministrativi  -  Legge  di
semplificazione  1998)  avrebbe   delegato   al   Governo   il   mero
«coordinamento  formale  del  testo   delle   disposizioni   vigenti,
apportando,  nei  limiti  di  detto   coordinamento,   le   modifiche
necessarie per garantire  la  coerenza  logica  e  sistematica  della
normativa anche al fine di  adeguare  e  semplificare  il  linguaggio
normativo».  La  norma   in   questione,   invece,   non   troverebbe
«riferimento o principi e criteri direttivi in  norme  preesistenti»,
non potendosi sostenere che l'acquisizione sanante fosse una modifica
necessaria per garantire  la  coerenza  logica  e  sistematica  della
normativa. 
    2. - Nel  giudizio  innanzi  alla  Corte  si  sono  costituiti  i
ricorrenti  dei   giudizi   principali   (N.D.   ed   altri,   quanto
all'ordinanza r.o.  n.  114  del  2009  e  M.R.P.  ed  altri,  quanto
all'ordinanza r.o. n. 115 del 2009), con atti di identico  tenore  in
diritto, chiedendo che la questione sia accolta. 
    2.1. - La difesa delle parti private,  dopo  aver  ripercorso  le
motivazioni sottese all'ordinanza di  rimessione,  assume,  in  primo
luogo, che l'atto acquisitivo previsto dalla disposizione  impugnata,
in quanto finalizzato a «sanare» un'attivita' posta in  essere  dalla
pubblica amministrazione contra ius, determinando  la  perdita  della
proprieta', violerebbe  gli  artt.  3,  24,  42,  97  e  117,  Cost.,
conducendo  a  «legalizzare»   l'illegale,   consentendo   l'illecito
aquiliano. 
    I ricorrenti, riportando peraltro ampi brani  di  sentenze  della
Corte  di  cassazione  sul  fenomeno  dell'occupazione   acquisitiva,
ritengono che il censurato art.  43  si  porrebbe  al  di  fuori  dei
«canoni di legittimita' costituzionale», dal momento che  attribuisce
alla pubblica amministrazione il potere  di  disporre  l'acquisizione
del  bene,  anche  nell'ipotesi  in  cui  non  vi  sia  stata  alcuna
preventiva dichiarazione di pubblica  utilita',  o  la  medesima  sia
stata annullata o resa inefficace ex tunc. 
    In definitiva, la norma censurata determinerebbe uno  squilibrato
vantaggio per il soggetto pubblico,  pregiudicando  la  certezza  dei
rapporti giuridici e sacrificando l'affidamento  dei  soggetti  nella
possibilita'  di  far  valere  le  proprie  ragioni  sulla  base   di
condizioni  normative  «operanti  nell'ordinamento  vigente   in   un
determinato periodo storico». 
    2.2. - Quanto alla violazione dell'art. 117, primo comma,  Cost.,
le parti assumono che la  norma  si  porrebbe  in  conflitto  «con  i
principi che sorreggono la Convenzione europea su  diritti  dell'uomo
(CEDU), aventi diretta rilevanza  nell'ordinamento  interno,  nonche'
con l'articolo 6 del Trattato di Maastricht, modificato dal  Trattato
di Amsterdam». 
    Tale  contrasto  sarebbe  evidente,  alla   luce   del   costante
orientamento della Corte Europea dei diritti dell'uomo in materia  di
espropriazione cosiddetta «indiretta». 
    In particolare, si ricordano alcune  decisioni  di  quella  Corte
nelle quali e' stato affermato che l'espropriazione indiretta tende a
stabilizzare una situazione  di  fatto  derivante  dalle  illegalita'
commesse dall'amministrazione e che, «sia in virtu' di  un  principio
giurisprudenziale o di un testo di legge come  l'art.  43  del  testo
unico, l'espropriazione indiretta non dovrebbe  costituire  un  mezzo
alternativo all'«espropriazione operata in forma corretta». 
    I ricorrenti ricordano altresi', come «l'anomalia italiana» abbia
formato oggetto anche di  una  risoluzione  interinale,  in  data  14
febbraio 2007, da parte  del  Comitato  dei  ministri  del  Consiglio
d'Europa, con cui le Autorita' nazionali  sono  state  «incoraggiate»
«... a proseguire i loro sforzi e ad adottare  rapidamente  tutte  le
misure  necessarie  addizionali  al  fine  di  rimediare  in  maniera
definitiva alla pratica della "espropriazione indiretta"». 
    In tale contesto europeo, poi, le Autorita' governative  italiane
avrebbero expressis verbis ammesso che la norma dettata dall'art.  43
t.u. in materia di espropriazione per pubblica utilita' e' ex se  non
coerente con i principi  della  Convenzione,  tant'e'  che  ne  viene
suggerita un'applicazione ed interpretazione «correttiva». 
    2.3. - Infine, le parti private, citando giurisprudenza di questa
Corte, aderiscono alla censura formulata con  riguardo  all'art.  76,
Cost., in quanto l'ipotesi dell'acquisizione, introdotta dall'art. 43
d.P.R. n. 327 del 2001, sarebbe «priva di addentellati con la vigente
normativa»,  nel  mentre  il  legislatore  delegato  non  era   stato
autorizzato ad integrare  o  correggere  le  previsioni  vigenti,  ma
semplicemente  a  riordinarle,  attraverso  un  intervento  di   mero
coordinamento. 
    3. - Nel giudizio relativo alle ordinanze r.o. n. 114  e  n.  115
del 2009, si e' costituito il Comune di  Casapesenna,  criticando  le
argomentazioni sottese ai provvedimenti del giudice a quo.  In  primo
luogo, il Tribunale campano, affermando che l'istituto  in  questione
«nelle  intenzioni  del  legislatore  doveva  conservare  una  natura
eccezionale», nel mentre avrebbe  «assunto  la  natura  di  strumento
ordinario», confonderebbe l'ipotetica applicazione «scorretta»  della
norma  in  questione,  con  la  sua  illegittimita'   costituzionale.
Inoltre,  non  sarebbe  neppure  corretto  affermare  che  l'art.  43
consentirebbe l'illecito aquiliano, in quanto, al contrario, la norma
in questione  avrebbe  proprio  escluso  in  radice  che  l'eventuale
illecito  aquiliano  possa  in  se'  determinare,  come  accadeva  in
passato,  l'acquisto  della  proprieta'  da  parte   della   pubblica
amministrazione. 
    Il giudice a quo non coglierebbe nel segno neppure  con  riguardo
alla pretesa elusione degli obblighi  procedimentali,  in  quanto  il
provvedimento di acquisizione deve dare  conto  specificamente  degli
interessi  in  conflitto,  compiendo  un'esaustiva  comparazione  dei
medesimi,  attraverso  una  congrua  motivazione  della  «sussistenza
attuale di un interesse pubblico specifico  e  concreto».  In  questo
senso, dunque, lo stringente obbligo di motivazione consente, proprio
al   giudice   amministrativo,   di   valutarne   la   «logicita'   e
ragionevolezza». 
    3.1. -  Quanto,  poi,  al  contrasto  con  la  giurisprudenza  di
Strasburgo, il Comune di Casapesenna  ritiene  che,  diversamente  da
quanto opinato dai rimettenti, gli arresti della CEDU non hanno avuto
ad oggetto l'applicazione dell'art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, ma
la pratica dell'accessione invertita, della quale proprio  l'art.  43
costituirebbe la soluzione legislativa. 
    3.2. - Infondata  sarebbe  pure  la  censura  di  violazione  del
giudicato amministrativo, in quanto la norma in esame non sarebbe  in
grado  di  mettere  in  discussione  ne'  l'annullamento  degli  atti
preordinati all'esproprio, ne' il diritto al risarcimento del privato
illegittimamente spossessato, limitandosi piuttosto a consentire alla
pubblica amministrazione di optare  per  il  risarcimento  monetario,
piuttosto che per quello in forma specifica. Anzi, il citato art. 43,
piuttosto che ledere il precedente  giudicato,  ne  garantirebbe  una
piu' piena esecuzione, in quanto limiterebbe a singoli casi  ed  alla
ricorrenza  di  specifici  presupposti  la  facolta'  della  pubblica
amministrazione di optare per il risarcimento monetario, in luogo  di
quello in forma specifica. 
    3.3. - Da ultimo, con riferimento alla  violazione  dell'art.  76
Cost., si rileva che il t.u. sulle espropriazioni, in quanto volto al
riordino normativo ed alla semplificazione delle norme procedurali ed
organizzative, avrebbe natura innovativa e non meramente compilativa,
potendo  apportare,  in  sede  di  coordinamento  delle  disposizioni
vigenti, «le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica  e
sistematica della normativa». 
    4. - In tutti i giudizi promossi e' intervenuto il Presidente del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale  dello  Stato,  che,  nei  distinti   atti,   di   contenuto
sostanzialmente identico, ha chiesto che la questione sia  dichiarata
inammissibile ed infondata. 
    4.1.  -  La  difesa  dello  Stato  eccepisce,  in  primo   luogo,
l'inammissibilita'  della  questione  per   difetto   di   rilevanza,
ricordando che questa Corte, nella  sentenza  n.  191  del  2006,  ha
espressamente escluso che la norma censurata abbia  valore  di  norma
processuale, sicche' i rimettenti avrebbero dovuto chiedersi se  essa
fosse  o  meno  applicabile  alla  fattispecie  concreta.   Il   tema
dell'applicabilita'   dell'art.   43   del   t.u.   in   materia   di
espropriazioni alle occupazioni  sine  titulo,  perfezionatesi  prima
dell'entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001,  rappresenterebbe,
infatti,  uno  dei  temi  piu'  dibattuti  sia  in  dottrina  che  in
giurisprudenza. Oltre all'orientamento richiamato  dall'ordinanza  di
rimessione, infatti, sarebbe dato riscontrare, in senso contrario, in
primo luogo quello della Corte di cassazione che, con le sentenze  22
settembre 2008, n. 23943 e 19 dicembre 2007, n. 26732, ne ha  escluso
l'applicabilita' in considerazione del fatto che l'art. 57 del d.P.R.
n. 327  del  2001,  nel  disciplinare  l'applicabilita'  della  nuova
disciplina (e non soltanto delle norme  di  natura  sostanziale),  ha
introdotto un criterio fondato esclusivamente sul dato temporale  del
primo atto del procedimento espropriativo, a  prescindere  dalle  sue
successive vicende e dai successivi provvedimenti che  l'espropriante
potesse emanare. 
    Inoltre, lo  stesso  Consiglio  di  Stato,  con  la  sentenza  26
settembre 2008 n. 4660, avrebbe negato l'applicazione del citato art.
43 ad una fattispecie perfezionatasi,  come  quella  in  esame  oggi,
anteriormente all'entrata in vigore del t.u. 
    4.2. - La questione  sarebbe,  ancora,  inammissibile  perche'  i
rimettenti    non    avrebbero    sperimentato     un'interpretazione
costituzionale della norme censurata. Cio'  in  quanto  il  Tribunale
muoverebbe da  un'applicazione  della  disposizione  da  parte  delle
amministrazioni e da parte del diritto vivente, che  a  suo  giudizio
avrebbe  condotto  a  risultati  abnormi,   quali   quello   relativo
all'operativita' dell'art. 43 in sede di  ottemperanza,  suscettibile
di caducare l'accertamento del diritto alla restituzione del fondo  e
di travolgere la forza del giudicato. 
    Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato,  tuttavia,  nulla  avrebbe
impedito  ai  giudici  rimettenti  di  valutare   alla   stregua   di
un'interpretazione  costituzionalmente   orientata   l'illegittimita'
dell'atto acquisitivo, nel corso del giudizio di ottemperanza, per le
medesime ragioni che sono state poste a sostegno della  questione  di
costituzionalita'. 
    4.3. - Nel merito, la difesa dello Stato precisa in  primo  luogo
che  lo  strumento  della  cosiddetta  acquisizione  sanante,   lungi
dall'essere uno strumento ordinario, si  sostanzierebbe  invece  come
una  «legale  via  d'uscita»   dalle   situazioni   di   illegalita',
verificatesi nel corso degli anni. 
    Quanto,  poi,  al  rapporto  con  il  giudicato   relativo   alla
restituzione del fondo, si sottolinea che la  disposizione  in  esame
non costituisce, di per se', uno strumento di elusione del giudicato,
ma  sarebbe  semmai  l'uso  non  funzionale  della  norma  da   parte
dell'Amministrazione,  che  potrebbe  determinare  tale  conseguenza.
Sarebbe, quindi, compito del giudice  amministrativo  verificare  con
rigore quella comparazione di  interessi  sottesa  al  provvedimento,
secondo i criteri della ragionevolezza e proporzionalita'. 
    Il Presidente del Consiglio dei ministri evidenzia, poi, come nel
caso di specie il giudice ben avrebbe  potuto  dichiarare,  ai  sensi
dell'art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241  (Nuove  norme
in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso  ai
documenti  amministrativi),  la   nullita'   del   provvedimento   di
acquisizione adottato dall'amministrazione comunale,  per  violazione
del giudicato. 
    4.4.  -  In  ordine  alla  questione  relativa  alla   violazione
dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  per  violazione  della  CEDU,
l'Avvocatura  dello  Stato,  nonostante  i  dubbi   di   legittimita'
costituzionale  paventati  da  alcune  decisioni   della   Corte   di
cassazione (sentenza n.  26732  del  2007,  cit.),  premette  che  la
questione della compatibilita' dell'art. 43  non  sarebbe  mai  stata
affrontata  dalla  Corte  di  Strasburgo.  Cio'  posto,  il   giudice
rimettente  avrebbe  potuto,  comunque  praticare  un'interpretazione
conforme ai «canoni CEDU», prima ancora di sollevare la questione  di
legittimita'   costituzionale.   Del    resto    la    giurisprudenza
amministrativa si sarebbe piu' volte espressa nel senso  della  piena
compatibilita'  dell'art.  43  con   le   disposizioni   CEDU,   come
interpretate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    4.5. - Infine, con riferimento al denunciato vizio di eccesso  di
delega, il Presidente del Consiglio dei ministri ricorda, ancora,  la
giurisprudenza del  giudice  amministrativo  che  avrebbe  negato  la
sussistenza di tale vizio. 
    4.6.  -  Da  ultimo  l'Avvocatura  dello  Stato  sottolinea  come
l'eventuale  «caducazione»  della  norma   impugnata   avrebbe   come
inevitabile conseguenza  il  «ritorno  in  auge»  degli  istituti  di
creazione pretoria dell'occupazione  «acquisitiva»  ed  «usurpativa»,
che esporrebbero lo Stato ad ulteriori e  numerosissime  condanne  da
parte della Corte di Strasburgo. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.  -  Le  questioni  sollevate  dal   Tribunale   amministrativo
regionale per la Campania, con tre distinte ordinanze di contenuto in
larga misura coincidente (r.o. n. 114, n. 115 e  n.  116  del  2009),
riguardano l'articolo 43 del decreto del Presidente della Repubbica 8
giugno 2001, n. 327 (Testo unico  delle  disposizioni  legislative  e
regolamentari in materia di espropriazione  per  pubblica  utilita'),
con il quale viene disciplinata la «Utilizzazione senza titolo di  un
bene per scopi di interesse pubblico». 
    1.1. - I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata  con
riferimento agli stessi parametri, sotto gli stessi profili e in gran
parte con le stesse argomentazioni;  ponendo,  pertanto,  un'identica
questione, vanno riuniti e decisi con un'unica pronuncia. 
    2.  -  La  norma  censurata   ha   ad   oggetto   la   disciplina
dell'utilizzazione senza titolo di un bene  per  scopi  di  interesse
pubblico e consente all'autorita' che abbia utilizzato a  detti  fini
un bene immobile in assenza di un valido ed efficace provvedimento di
esproprio  o  dichiarativo  della  pubblica  utilita',  di   disporne
l'acquisizione al suo  patrimonio  indisponibile,  con  l'obbligo  di
risarcire i danni al proprietario. La disposizione  regola,  inoltre,
tempo e  contenuto  dell'atto  di  acquisizione,  l'impugnazione  del
medesimo, la facolta' della pubblica amministrazione di chiedere  che
il giudice amministrativo «disponga la condanna al  risarcimento  del
danno, con esclusione della restituzione del  bene  senza  limiti  di
tempo», fissando i criteri per la  quantificazione  del  risarcimento
del danno. 
    Secondo  il  Tribunale  rimettente,  in   punto   di   rilevanza,
l'applicazione  della  disciplina  di   cui   al   citato   art.   43
determinerebbe l'improcedibilita' dei  ricorsi  in  ottemperanza,  in
considerazione  dell'atto  formale  di  acquisizione  sanante;  nello
stesso  tempo,  i  ricorsi  avverso  la  delibera   di   acquisizione
dovrebbero essere rigettati,  perche'  il  provvedimento  oggetto  di
impugnazione  dovrebbe  ritenersi  conforme   al   modello   astratto
disegnato dall'intera disposizione, nonostante, in questo caso, fosse
gia' intervenuta una pronuncia di restituzione  (in  particolare  nei
giudizi iscritti al r.o.  n.  114  e  n.  115  del  2009,  a  seguito
dell'annullamento gli atti inerenti alla procedura ex art. 43). 
    La norma si porrebbe in contrasto anzitutto con gli  articoli  3,
24, 42, 97 e 113 della Costituzione, in  quanto  essa  consentirebbe,
secondo l'interpretazione assunta come diritto vivente, la  sanatoria
di  espropriazioni  illegittime,  a  causa   della   mancanza   della
dichiarazione di  pubblica  utilita',  dell'annullamento  degli  atti
ovvero per altra causa. In tal modo, sarebbe prefigurato  l'esercizio
di un potere autoritativo di acquisizione dell'area  che  impedirebbe
la restituzione del bene, rimuovendo  l'illecito  aquiliano  anche  a
dispetto di un giudicato amministrativo, consentendo  «alla  pubblica
amministrazione, anche deliberatamente, ... di eludere  gli  obblighi
procedimentali della instaurazione  del  contraddittorio,  delle  tre
fasi  progettuali  e  della  verifica  delle  norme  di   conformita'
urbanistica»   con   «grave   lesione    del    principio    generale
dell'intangibilita' del  giudicato  amministrativo»,  sostanzialmente
«vanificato  da  un   atto   amministrativo   di   acquisizione   per
utilizzazione  senza  titolo  di  un  bene  per  scopi  di  interesse
pubblico». 
    3. - Ad avviso del TAR, la norma impugnata si porrebbe,  inoltre,
in contrasto con l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in  quanto  non
sarebbe conforme ai principi della Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo, come  interpretati  dalla  Corte  di  Strasburgo,  che  ha
ritenuto in  contrasto  con  l'art.  1,  prot.  1,  la  prassi  della
cosiddetta «espropriazione indiretta»; violando peraltro anche l'art.
6  (F)  del  Trattato  di  Maastricht  (modificato  dal  Trattato  di
Amsterdam),  in  base  al  quale   «l'Unione   rispetta   i   diritti
fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
[...] in quanto principi generali del diritto comunitario». 
    4. - I rimettenti,  infine,  ritengono  che  il  citato  art.  43
impugnato recherebbe vulnus all'art. 76,  Cost.,  in  quanto  sarebbe
stato emanato in violazione dei criteri della  legge-delega  8  marzo
1999, n. 50 (Delegificazione  e  testi  unici  di  norme  concernenti
procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998). 
    5. - L'Avvocatura  dello  Stato  ha  eccepito  l'inammissibilita'
delle questioni, per difetto di rilevanza  nel  giudizio  a  quo,  in
quanto questa Corte, la Corte di cassazione ed il Consiglio di  Stato
avrebbero  escluso  l'applicabilita'  del   citato   art.   43   alle
occupazioni appropriative verificatesi prima del 30 giugno 2003, data
di entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001. 
    5.1.   -   L'eccezione   non    e'    fondata.    La    questione
dell'applicabilita' della norma in esame non e' stata risolta in modo
univoco  dalla  giurisprudenza.  La  Corte  di  cassazione   esclude,
infatti,  l'ammissibilita'  dell'adozione  di  un  provvedimento   di
acquisizione  sanante  ex  art.  43  con  riguardo  alle  occupazioni
appropriative verificatesi prima dell'entrata in vigore del d.P.R. n.
327 del 2001 (sentenze 22 settembre 2008, n. 23943, 28 luglio 2008 n.
20543,   19   dicembre   2007,   n.   26732).   Diversamente,   nella
giurisprudenza  del  Consiglio  di  Stato  e'  ormai  prevalente   il
principio secondo cui «la procedura di acquisizione in  sanatoria  di
un'area occupata sine titulo, descritta dal citato articolo 43, trova
una generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate
prima dell'entrata in vigore della norma» (Cons. Stato, Sez.  IV,  26
marzo 2010, n. 1762, Sez. IV, 8 giugno 2009, n.  3509,  inoltre:  Ad.
Plen. 29 aprile 2005, n. 2; Sez.  IV,  16  novembre  2007,  n.  5830,
esaminata senza rilievi sulla  giurisdizione  da  Cass.,  SS.UU.,  16
aprile 2009, n. 9001). 
    In presenza di tale contrasto, le ordinanze di  rimessione  hanno
motivato in maniera non  implausibile  in  ordine  all'applicabilita'
della norma, richiamando la giurisprudenza  assolutamente  prevalente
ed il «diritto vivente» del Consiglio di Stato. 
    6. - Nel merito, vanno esaminate in via  preliminare  le  censure
riferite all'art. 76, della Costituzione. Spetta, infatti,  a  questa
Corte «valutare  il  complesso  delle  eccezioni  e  delle  questioni
costituenti il thema decidendum devoluto al suo esame» e  «stabilire,
anche per economia di giudizio, l'ordine con  cui  affrontarle  nella
sentenza e dichiarare assorbite le altre» (da ultimo, sentenze n. 181
del 2010 e n. 262 del 2009), quando si e' in presenza  di  «questioni
tra   loro   autonome   per   l'insussistenza   di   un   nesso    di
pregiudizialita'» (sentenza n. 262 del 2009). 
    Nella specie,  e'  palese  la  pregiudizialita'  logico-giuridica
delle censure riferite all'art. 76 Cost., giacche' esse investono  il
corretto esercizio della funzione  legislativa  e,  quindi,  la  loro
eventuale fondatezza eliderebbe in radice ogni questione in ordine al
contenuto precettivo della norma in esame. 
    6.1. - I rimettenti denunciano la violazione dell'art. 76  Cost.,
deducendo che l'art. 43 non  troverebbe  «riferimento  o  principi  e
criteri direttivi in norme preesistenti», in quanto  la  legge-delega
n. 50 del 1999 prevedeva il  mero  coordinamento  formale  del  testo
delle  disposizioni  vigenti,  e  consentiva,  nei  limiti  di   tale
coordinamento, le sole modifiche necessarie per garantire la coerenza
logica e sistematica della normativa, anche al  fine  di  adeguare  e
semplificare il linguaggio. 
    7. - La questione e' fondata. 
    8. - La norma impugnata disciplina  l'istituto  cosiddetto  della
«acquisizione sanante». In particolare essa dispone, fra l'altro,  al
comma 1, che, «valutati gli interessi in conflitto,  l'autorita'  che
utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato
in assenza del  valido  ed  efficace  provvedimento  di  esproprio  o
dichiarativo della pubblica utilita', puo'  disporre  che  esso  vada
acquisito al suo  patrimonio  indisponibile  e  che  al  proprietario
vadano risarciti i danni». Viene, poi, precisato,  al  comma  2,  che
l'atto di acquisizione «...a) puo' essere emanato  anche  quando  sia
stato annullato l'atto  da  cui  sia  sorto  il  vincolo  preordinato
all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la  pubblica  utilita'  di
un'opera o il decreto di esproprio;». 
    Si tratta, dunque, della  possibilita'  di  acquisire  alla  mano
pubblica un bene privato, in precedenza occupato e modificato per  la
realizzazione di un'opera di interesse pubblico, anche  nel  caso  in
cui l'efficacia della dichiarazione di pubblica utilita'  sia  venuta
meno, con effetto retroattivo, in conseguenza del suo annullamento  o
per  altra  causa,  o  anche  in   difetto   assoluto   di   siffatta
dichiarazione («assenza  del  valido  ed  efficace  provvedimento  di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilita'»). 
    8.1. - La norma  censurata  e'  contenuta  nel  testo  unico,  in
materia di espropriazioni, redatto in attuazione della  legge  n.  50
del 1999, a sua volta collegata  alla  legge  15  marzo  1997  n.  59
(Delega al Governo per il conferimento di  funzioni  e  compiti  alle
regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione
e per la  semplificazione  amministrativa),  che  aveva  previsto  un
generale   strumento   permanente    di    semplificazione    e    di
delegificazione. 
    In particolare, la delega riguardava il  «riordino»  delle  norme
elencate nell'allegato I  alla  legge  n.  59  del  1997  (nel  testo
risultante a seguito dell'art. 1, legge 24 novembre 2000,  n.  340  -
Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione
di procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1999),  che
contemplava, quale oggetto, il «procedimento  di  espropriazione  per
causa di pubblica utilita'  e  altre  procedure  connesse:  legge  25
giugno 1865, n. 2359; legge 22 ottobre 1971, n. 865». 
    8.2. - Il chiaro tenore delle norme richiamate rende  palese  che
la delega oggetto delle medesime concerneva esplicitamente il tessuto
normativo costituito dalle leggi n. 2359 del 1865 e n. 865 del 1971. 
    Il sistema dell'espropriazione per pubblica  utilita'  risultante
da dette leggi era articolato, in sintesi,  in  un  procedimento  che
presupponeva il provvedimento dichiarativo  della  pubblica  utilita'
dell'opera e la fissazione di termini, con la connessa disciplina dei
casi di indifferibilita' ed urgenza. In seguito, la legge n. 865  del
1971 aveva previsto la concentrazione del  procedimento  in  un'unica
fase, ricollegando la dichiarazione di pubblica utilita',  unitamente
alla  dichiarazione  di  indifferibilita'  ed  urgenza  delle   opere
pubbliche, all'approvazione dei progetti delle opere da  parte  degli
organi competenti. 
    Successivamente, ed in presenza di una nutrita serie di patologie
dei  procedimenti  amministrativi  di   espropriazione,   consistenti
nell'accertamento  dell'occupazione  sine  titulo  da   parte   della
pubblica amministrazione, la  giurisprudenza  di  legittimita'  aveva
elaborato   gli   istituti   dell'occupazione   «appropriativa»    ed
«usurpativa». 
    In sintesi, la prima  era  caratterizzata  da  una  anomalia  del
procedimento espropriativo, a causa della sua mancata conclusione con
un formale atto  ablativo,  mentre  la  seconda  era  collegata  alla
trasformazione  del  fondo  di  proprieta'  privata,  in  assenza  di
dichiarazione di pubblica utilita'. Nel primo caso  (il  cui  leading
case si rinviene nella sentenza delle Sezioni Unite 26 febbraio 1983,
n. 1464), l'acquisto della  proprieta'  conseguiva  ad  un'inversione
della fattispecie civilistica dell'accessione di cui agli  artt.  935
ss. cod. civ., in considerazione della  trasformazione  irreversibile
del   fondo.   Secondo   questa   ricostruzione,   la    destinazione
irreversibile del suolo privato illegittimamente occupato  comportava
l'acquisto a titolo originario, da parte  dell'ente  pubblico,  della
proprieta' del suolo e  la  contestuale  estinzione  del  diritto  di
proprieta' del privato. La successiva sentenza delle Sezioni Unite 10
giugno 1988, n. 3940,  preciso'  poi  la  figura  della  «occupazione
acquisitiva», limitandola al caso in cui si riscontrasse  una  valida
dichiarazione di pubblica utilita' che permetteva  di  far  prevalere
l'interesse pubblico su quello privato. 
    L'«occupazione   usurpativa»,   invece,   non   accompagnata   da
dichiarazione  di  pubblica  utilita',  ab  initio  o   per   effetto
dell'intervenuto annullamento del relativo atto o  per  scadenza  dei
relativi termini, in quanto tale  non  determinava  dunque  l'effetto
acquisitivo a favore della pubblica amministrazione. 
    8.3. - E' questo, in sostanza, il contesto normativo  in  cui  e'
stato inserito il citato art. 43,  comprensivo  anche  dei  ricordati
istituti di  origine  giurisprudenziale,  i  quali  hanno  nel  tempo
disciplinato la materia. 
    Nella redazione del  testo  unico  il  legislatore  delegato  era
tenuto  ad  osservare  i  seguenti  principi  e  criteri   direttivi,
contenuti nell'art. 7, comma 2, della citata legge n. 50: la puntuale
individuazione del testo vigente delle norme (lettera b) dell'art.  7
cit.); l'indicazione delle norme abrogate, anche  implicitamente,  da
successive disposizioni (lettera c); il coordinamento  «formale»  del
testo delle disposizioni vigenti, apportando,  nei  limiti  di  detto
coordinamento, le modifiche  necessarie  per  garantire  la  coerenza
logica e sistematica della normativa, anche al  fine  di  adeguare  e
semplificare il linguaggio normativo (lettera d). 
    La legge-delega imponeva, poi, l'indicazione delle  disposizioni,
non inserite nel  testo  unico,  che  restavano  comunque  in  vigore
(lettera  e)  e  l'esplicita  abrogazione  di  tutte   le   rimanenti
disposizioni, non richiamate, che regolavano la  materia  oggetto  di
delegificazione, con espressa indicazione delle  stesse  in  apposito
allegato al testo unico (lettera f). 
    8.4. - Occorre verificare, pertanto, se il  legislatore  delegato
abbia osservato i suindicati principi e criteri direttivi. 
    Secondo  la  consolidata  giurisprudenza  di  questa  Corte,   il
sindacato di costituzionalita' sulla delega  legislativa  si  esplica
attraverso un confronto tra gli esiti  di  due  processi  ermeneutici
paralleli. Il primo riguarda le norme che  determinano  l'oggetto,  i
principi e i criteri direttivi indicati dalla delega,  tenendo  conto
del  complessivo  contesto  di  norme  in  cui  si  collocano  e   si
individuano le ragioni e le finalita' poste a fondamento della  legge
di delegazione. Il secondo riguarda le norme  poste  dal  legislatore
delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi
ed i criteri direttivi della delega (ex plurimis, sentenze n. 230 del
2010, n. 98 del 2008, n. 54 del 2007, n. 280 del  2004,  n.  199  del
2003). 
    Pertanto, da un lato, deve farsi  riferimento  alla  ratio  della
delega; dall'altro, occorre tenere conto della  possibilita',  insita
nello strumento della  delega,  di  introdurre  norme  che  siano  un
coerente sviluppo dei  principi  fissati  dal  legislatore  delegato;
dall'altro  ancora,  sebbene  rientri  nella   discrezionalita'   del
legislatore delegato emanare  norme  che  rappresentino  un  coerente
sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse
dal legislatore (sentenza n. 199  del  2003;  ordinanza  n.  213  del
2005),  e'  nondimeno  necessario  che  detta  discrezionalita'   sia
esercitata nell'ambito dei limiti stabiliti dai  principi  e  criteri
direttivi. 
    Inoltre, secondo la  costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,
qualora la delega abbia ad oggetto, come nella specie, la  revisione,
il riordino ed il riassetto di norme preesistenti,  queste  finalita'
giustificano  un  adeguamento  della  disciplina  al   nuovo   quadro
normativo complessivo, conseguito  dal  sovrapporsi,  nel  tempo,  di
disposizioni emanate in  vista  di  situazioni  ed  assetti  diversi.
L'introduzione di soluzioni sostanzialmente  innovative  rispetto  al
sistema legislativo previgente e', tuttavia, ammissibile soltanto nel
caso in cui siano stabiliti principi e  criteri  direttivi  idonei  a
circoscrivere la discrezionalita' del legislatore delegato  (sentenza
n. 170 del 2007 e n. 239 del 2003). 
    8.5. - Alla luce di questi principi, risulta chiara la fondatezza
delle censure svolte dai giudici rimettenti. 
    La  legge-delega  aveva  conferito,  sul  punto,  al  legislatore
delegato  il  potere  di  provvedere  soltanto  ad  un  coordinamento
«formale» relativo a disposizioni «vigenti».  L'istituto  previsto  e
disciplinato  dalla  norma  impugnata,  viceversa,  e'  connotato  da
numerosi  aspetti  di   novita',   rispetto   sia   alla   disciplina
espropriativa oggetto delle  disposizioni  espressamente  contemplate
dalla legge-delega, sia  agli  istituti  di  matrice  prevalentemente
giurisprudenziale. 
    In primo luogo, non e' dato ravvisare nelle  leggi  indicate  nel
citato allegato I, alla legge  n.  59  del  1997,  alcuna  norma  che
potesse giustificare un intervento della pubblica amministrazione, in
via di sanatoria, sulle procedure ablatorie previste. 
    Inoltre,  neppure  puo'  farsi  riferimento  al  contesto   degli
orientamenti  giurisprudenziali  sopra  richiamati,  in  quanto  piu'
profili  della  cosiddetta   «acquisizione   sanante»,   cosi'   come
disciplinata dalla norma censurata, eccedono con tutta evidenza dagli
istituti  della  occupazione  appropriativa   e   della   occupazione
usurpativa, cosi' come delineati da quegli orientamenti. 
    Il citato art.  43,  infatti,  ha  anzitutto  assimilato  le  due
figure, introducendo la possibilita' per l'amministrazione e per  chi
utilizza il bene di chiedere al giudice amministrativo, in ogni  caso
e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento in  luogo  della
restituzione. Peraltro,  esso  estende  tale  disciplina  anche  alle
servitu',  rispetto  alle  quali  la  giurisprudenza  aveva   escluso
l'applicabilita'   della   cosiddetta   occupazione    appropriativa,
trattandosi di fattispecie non applicabile all'acquisto di un diritto
reale  in  re  aliena,  in   quanto   difetta   la   non   emendabile
trasformazione del suolo  in  una  componente  essenziale  dell'opera
pubblica. 
    Infine, la norma censurata differisce  il  prodursi  dell'effetto
traslativo al momento dell'atto di acquisizione. 
    Si tratta di elementi di sicuro rilievo e qualificanti,  i  quali
dimostrano che la norma in esame non solo e' marcatamente  innovativa
rispetto al contesto normativo positivo di cui era consentito un mero
riordino,  ma  neppure  e'  coerente  con  quegli   orientamenti   di
giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre  un
certo  rimedio  ad  alcune  gravi  patologie  emerse  nel  corso  dei
procedimenti espropriativi. Siffatto carattere della norma  impugnata
trova  conferma  significativa  nella  circostanza  che,  secondo  la
giurisprudenza di legittimita', in materia di occupazione di urgenza,
la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere
un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali
dell'ente  pubblico  o  dai  suoi  poteri  autoritativi.  Nel  regime
risultante dalla norma impugnata, invece, si prevede un generalizzato
potere di sanatoria, attribuito alla stessa  amministrazione  che  ha
commesso l'illecito, a  dispetto  di  un  giudicato  che  dispone  il
ristoro in forma specifica del diritto di proprieta' violato. 
    Il legislatore delegato, in definitiva, non poteva  innovare  del
tutto ed al di fuori di ogni vincolo  alla  propria  discrezionalita'
esplicitamente individuato dalla legge-delega.  Questa  Corte  ha  in
proposito  affermato,  infatti,  che,  per  quanta   ampiezza   possa
riconoscersi al potere di riempimento del legislatore  delegato,  «il
libero  apprezzamento»  del  medesimo  «non  puo'  mai  assurgere   a
principio od a criterio direttivo, in quanto  agli  antipodi  di  una
legislazione vincolata, quale e', per definizione, la legislazione su
delega» (sentenze n. 340 del 2007 e n. 68 del 1991). 
    In contrario, non giova dedurre, come  sostenuto  dall'Avvocatura
dello Stato, che il legislatore delegato abbia  inteso  tenere  conto
delle censure mosse dalla giurisprudenza di Strasburgo  alla  pratica
delle espropriazioni «indirette». 
    Indipendentemente sia da ogni considerazione  relativa  al  fatto
che cio' non era contemplato nei principi e criteri direttivi di  cui
al piu' volte citato art. 7 della legge  n.  50  del  1999,  sia  dal
legittimo dubbio quanto alla idoneita' della scelta realizzata con la
norma di garantire il rispetto dei principi della CEDU, che in questa
sede non e'  possibile  sciogliere,  quella  prefigurata  costituisce
soltanto una delle molteplici  soluzioni  possibili.  Il  legislatore
avrebbe potuto conseguire  tale  obiettivo  e  disciplinare  in  modi
diversi la materia, ed anche espungere del tutto la  possibilita'  di
acquisto connesso esclusivamente a fatti  occupatori,  garantendo  la
restituzione del bene al privato, in analogia con  altri  ordinamenti
europei. E neppure e' mancato qualche rilievo in questo  senso  della
Corte di Strasburgo, la quale, infatti, sia pure incidentalmente,  ha
precisato che l'espropriazione indiretta si pone  in  violazione  del
principio di legalita', perche' non e'  in  grado  di  assicurare  un
sufficiente grado  di  certezza  e  permette  all'amministrazione  di
utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto  derivante  da
«azioni illegali», e cio' sia allorche' essa costituisca  conseguenza
di un'interpretazione giurisprudenziale, sia allorche' derivi da  una
legge -  con  espresso  riferimento  all'articolo  43  del  t.u.  qui
censurato -, in quanto tale forma di espropriazione non puo' comunque
costituire  un'alternativa  ad  un'espropriazione  adottata   secondo
«buona e debita forma» (Causa Sciarrotta ed altri c. Italia  -  Terza
Sezione - sentenza 12 gennaio 2006 - ricorso n. 14793/02). 
    Anche considerando la giurisprudenza di Strasburgo, pertanto, non
e' affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un  istituto,
in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze
dell'espropriazione indiretta, sia sufficiente di per se' a risolvere
il grave vulnus al principio di legalita'. 
    Alla stregua dei rilievi svolti, va  dichiarata  l'illegittimita'
costituzionale dell'intero art.  43  del  d.P.R.  n.  327  del  2001,
poiche'  la  disciplina  inerente  all'acquisizione  del  diritto  di
servitu',  di  cui   al   comma   6-bis,   appare   strettamente   ed
inscindibilmente connessa con  gli  altri  commi,  sia  per  espresso
rinvio alle norme fatte oggetto di censura, sia perche' ne presuppone
l'applicazione e ne disciplina ulteriori sviluppi  applicativi  (cfr.
sentenza n. 18 del 2009). 
    9.  -  La  pronuncia   di   illegittimita'   costituzionale   con
riferimento  all'art.  76  Cost.,  determina   l'assorbimento   delle
questioni poste con riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 113 e  117,
primo comma, Cost. 
 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    Dichiara l'illegittimita'  costituzionale  dell'articolo  43  del
decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327  (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari  in  materia  di
espropriazione per pubblica utilita'). 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. 
 
                       Il Presidente: Amirante 
 
 
                        Il redattore: Tesauro 
 
 
                      Il cancelliere: Di Paola 
 
    Depositata in cancelleria l'8 ottobre 2010. 
 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola