N. 334 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 maggio 2009
Ordinanza del 2 maggio 2009 emessa dal Tribunale di Rovereto nel procedimento penale a carico di Stone Harlem . Straniero e apolide - Espulsione amministrativa - Delitto di trattenimento, senza giustificato motivo, nel territorio dello Stato, in violazione dell'ordine di allontanamento impartito dal questore - Arresto obbligatorio in flagranza di reato - Lesione dei principi di inviolabilita' della liberta' personale, della riserva di legge e della riserva di giurisdizione in materia di restrizione della liberta' personale - Violazione del principio di uguaglianza sotto diversi profili - Inosservanza del divieto di discriminazione tra cittadini e stranieri ex art. 14 della CEDU. - Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, comma 5-ter. - Costituzione, artt. 13, primo, secondo e terzo comma, 3 e 10, comma secondo, in relazione all'art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Straniero e apolide - Espulsione amministrativa - Delitto di trattenimento, senza giustificato motivo, nel territorio dello Stato, in violazione dell'ordine di allontanamento impartito dal questore - Rito direttissimo - Lesione del diritto di difesa - Disparita' di trattamento rispetto a imputati di reati anche piu' gravi - Inosservanza del divieto di discriminazione tra cittadini e stranieri ex art. 14 della CEDU - Violazione del principio di buon andamento dell'amministrazione giudiziaria. - Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, comma 5-quinquies. - Costituzione, artt. 24, comma secondo, 111, primo, secondo, terzo, quarto e quinto comma, 3 e 10, comma secondo, in relazione all'art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e 97.(GU n.44 del 3-11-2010 )
IL TRIBUNALE Harlem Stone, nato a Benin City (Nigeria), il 1º dicembre 1980 veniva tratto in arresto dai Carabinieri di Rovereto il 24 gennaio 2003 per il reato di cui all'art. 14, commi 5-bis e ter d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dall'art. 13 legge n. 189 del 2002 e quindi condotto dal p.m. all'udienza del 27 gennaio 2003 avanti questo Giudice per la convalida dell'arresto ed il conseguente giudizio direttissimo. Il p.m. chiedeva la convalida dell'arresto, pur prospettando la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 14, commi 5-ter e quinquies, nella parte in cui prevedono l'arresto obbligatorio ed il giudizio direttissimo. La difesa si associava all'eccezione di legittimita' costituzionale e si rimetteva sulla convalida dell'arresto. Prima della convalida questo Giudice ha pronunciato la presente ordinanza e, quindi, ha disposto l'immediata liberazione dell'imputato e la sua messa a disposizione del Questore di Trento per i provvedimenti di competenza, concedendo il nulla osta all'espulsione, previsto dall'art. 13, commi 3 e 3-bis d.lgs. n. 286 del 1998. 1. - La normativa denunziata. La legge 30 luglio 2002, n. 189 ha profondamente modificato il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero; di seguito t.u.), anche prevedendo nuore figure di reato ovvero diversamente disciplinando figure di reato gia' esistenti. In generale il legislatore ha inteso improntare a maggior rigore, anche dal punto di vista squisitamente repressivo, la lotta all'immigrazione clandestina, sulla base di una scelta di politica criminale in se' certamente legittima in quanto espressione del potere discrezionale che compete al Parlamento. Sennonche' il legislatore della novella non si e' troppo preoccupato di armonizzare le nuove disposizioni con quelle gia' in vigore e col sistema del codice di procedura penale, finendo cosi' col configurare una disciplina disarmonica e in piu' punti gravemente contraddittoria, perche' ispirata a diversi e per molti versi opposti principi di politica del diritto e, quel che e' peggio, difficilmente conciliabile coi principi costituzionali. Nel delineare il quadro legislativo che ne e' scaturito, nella parte che qui interessa, occorre partire dai principi generali de t.u. e, in particolare, dal riconoscimento allo straniero «comunque presente» nel territorio dello Stato - dunque anche al clandestino -, dei «diritti fondamentali della persona umana previsti», dalle norme di diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti» (art. 2, comma 1), oltre che «parita' di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (...)», sia pure «nei limiti e nei modi previsti dalla legge» (art., 2, comma 5). Questa norma e' assai importante perche' costituisce traduzione a livello di legislazione ordinaria e nella specifica materia della condizione dello straniero, del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., nell'interpretazione ormai assolutamente maggioritaria. E' noto, infatti, che la Corte costituzionale, con pronunce ormai risalenti, ha superato il dato formale del riferimento ai «cittadini» contenuto nell'art. 3 Cost., mediante una lettura sistematica con gli artt. 2 e 10, comma 2 Cost., affermando espressamente che il principio di uguaglianza vale anche per gli stranieri nel campo dei diritti inviolabili e delle liberta' fondamentali, sia pure ammettendo la possibilita' che «nelle situazioni concrete (..) possano presentarsi differenze di fatto che il legislatore puo' apprezzare e regolare nella sua discrezionalita'». (cfr. pronunce nn. 120/63, 104/69, 144/70, 244/74 e 54/79). Cosi', pur ribadendo in generale che il principio di uguaglianza non tollera discriminazioni tra cittadino e straniero quando venga riferito a diritti inviolabili, come la liberta' personale, la Corte costituzionale ha ritenuto legittima la norma che prevede l'espulsione dello straniero, come misura sostituiva della pena o della misura cautelare, perche' occorre valutare le posizioni messe a raffronto non gia' in astratto, bensi' in relazione alla concreta fattispecie oggetto della disciplina normativa contestata. Ora, sotto questo aspetto, la posizione dello straniero rispetto al territorio nazionale non puo' che essere diversa rispetto a quella del cittadino, perche' «la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale e' collegata alla ponderazione» - rimessa alla discrezionalita' del legislatore - «di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanita' pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione» (cfr. sentenza 62/1994). Con piu' specifico riferimento alle misure di contrasto all'immigrazione irregolare, a norma dell'art. 10 t.u. la polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza i requisiti richiesti per l'ingresso nel territorio dello Stato. L'art. 12 prevede poi due distinti delitti per chi compia atti diretti a procurare l'ingresso illegale nel territorio dello Stato e per chi compia lo stesso fatto ma con il fine di profitto (ovvero se commesso da piu' di tre persone, o utilizzando servizi internazionali di trasporto o documenti contraffatti), punito il primo con la pena fino a tre anni di reclusione e la multa fino ad € 15.000,00 (comma 1) ed il secondo addirittura con la pena della reclusione da quattro a dodici anni e con la multa di € 15.000,00 a persona (comma 3); le suddette pene vengono poi inasprite in presenza delle aggravanti ad effetto speciale di cui, ai commi 3-bis e 3-ter. Il successivo comma 4 prevede per entrambe le ipotesi sopra indicate sempre l'arresto obbligatorio in flagranza di reato nonche' - salva l'ipotesi che «siano necessarie speciali indagini» - il giudizio direttissimo. L'art. 13 disciplina l'espulsione amministrativa disposta, a seconda dei casi, dal Ministro dell'interno (comma 1) o dal Prefetto (comma 2), con decreto motivato e previo rilascio del nulla osta da parte dell'autorita' giudiziaria, qualora lo straniero sia sottoposto a procedimento penale (comma 3). Condizioni ostative al rilascio del nulla osta sono: a) lo stato di custodia cautelare in carcere, b) l'esistenza di inderogabili esigenze processuali non in assoluto, ma «in relazione all'accertamento della responsabilita' di eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, e all'interesse della persona offesa, c) la natura del reato contestato (comma 3-sexies). Nei casi in cui sia stato rilasciato il nulla osta, la prova dell'avvenuta espulsione impone al Giudice del procedimento penale a carico dello straniero di pronunciare sentenza di non luogo a procedere, «se non e' ancora stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio» (comma 3-quater), salva la ripresa del procedimento penale in caso di ulteriore ingresso illegale nel territorio dello Stato (comma 3-quinquies). Quanto alla concreta esecuzione dell'espulsione amministrativa, la novella del 2002 ha rovesciato il rapporto tra le due modalita' previste: intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro il termine di 15 giorni ed accompagnamento alla frontiera, perche' in precedenza la prima era considerata l'ipotesi generale e la seconda l'ipotesi speciale, applicabile ai casi tassativamente previsti, mentre ora e' l'inverso. Infatti l'attuale comma 4 dispone perentoriamente che «l'espulsione e' sempre eseguita dal Questore con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica ad eccezione dei casi di cui al comma 5», ossia nei confronti dello straniero con permesso di soggiorno scaduto di validita' da piu' di sessanta giorni che non abbia richiesto il rinnovo. Solo in questo residuo caso, ritenuto meno grave, l'espulsione avviene con l'intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro 15 giorni. Tuttavia, anche nell'ipotesi eccettuata, si procede con l'accompagnamento immediato alla frontiera, se il Prefetto rilevi il concreto pericolo che lo straniero si sottragga all'esecuzione del provvedimento (comma 5). Lo straniero espulso che rientri illegalmente nel territorio nel. territorio dello Stato e' punito con l'arresto da sei mesi ad un anno ed e' nuovamente espulso con accompagnamento alla frontiera (comma 13) ed in caso di nuova trasgressione (ovvero di reingresso a seguito dell'espulsione disposta dal Giudice) con la reclusione da uno a quattro anni (comma 13-bis): in entrambi i casi e' «consentito» l'arresto in flagranza di reato e, per l'ipotesi piu' grave di cui al comma 13-bis, anche il fermo (comma 13-ter). L'uso del termine «consentito» chiarisce si tratta di misure restrittive della liberta' personale facoltative e non obbligatorie. La norma prosegue affermando che si procede «in ogni caso (...) con rito direttissimo». Ulteriori disposizione riguardo all'esecuzione dell'espulsione sono dettate dall'art. 14 che prevede anzitutto che, quando non e' possibile eseguire l'espulsione immediatamente mediante accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, per la necessita' di prestare soccorso allo straniero o di procedere ad accertamenti; in ordine alla sua identita' o nazionalita', ovvero all'acquisizione dei documenti di viaggio, ovvero per l'indisponibilita' di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il Questore «dispone» che straniero sia trattenuto presso un centro di permanenza e assistenza piu' vicino «per il tempo strettamente necessario» (comma 1), che comunque non puo' eccedere i trenta giorni, prorogabile di ulteriori trenta giorni con provvedimento del Giudice (comma 5). La restrizione alla liberta' personale conseguente al provvedimento del Questore, innesca un meccanismo di convalida chiaramente ricalcato sul modello di cui all'art. 13 Cost. (richiesta del Questore nel termine di 48 ore e provvedimento dell'autorita' giudiziaria nelle 48 successive), che pero' si distingue nettamente da istituti propri del diritto penale, sia per le finalita' (anche di assistenza), sia per il regime, diverso da quello penitenziario sia, infine, per il rito regolato dagli artt. 737 ss. c.p.c. Inoltre, a differenza della convalida dell'arresto o del fermo, che si limita a legittimare ex post l'operato dell'autorita' di polizia giustificando la detenzione subita, senza consentire il protrarsi della stessa, eventualmente oggetto di un ulteriore ed autonomo provvedimento del Giudice fondato su diversi presupposti (gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari), la convalida del trattenimento, oltre alla funzione di legittimare l'atto coercitivo dell'autorita' di polizia, ha anche quella di fungere da titolo dell'ulteriore privazione della liberta' personale dello straniero, fino al limite massi di trenta giorni, con effetto pertanto rivolto anche al futuro (Corte cost., ord. n. 297 del 2001). I dubbi di costituzionalita' di questa anomala forma di privazione provvisoria della liberta' personale sono stati superati dalla fondamentale sentenza n. 105 del 2001 della Consulta, con riferimento alla disciplina precedente alla novella, sulla base della premessa interpretativa secondo la quale il giudizio di convalida rimesso all'autorita' giudiziaria costituisce «un controllo giurisdizionale pieno, e non un riscontro meramente esteriore», necessariamente esteso non solo al provvedimento del Questore che dispone il trattenimento ma anche al provvedimento di espulsione con accompagnamento disposto dal Prefetto, che del primo costituisce, ineludibile presupposto, tanto che in mancanza va negata la convalida, mentre il trattenimento finisce col costituire «(...) la modalita' organizzativa prescelta dal legislatore per rendere possibile, nei casi tassativamente previsti dall'art. 14, comma 1, che lo straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione, sia accompagnato alla frontiera ed allontanato dal territorio nazionale». Si deve infatti ricordare come l'originaria disciplina prevedesse il giudizio di convalida solo del provvedimento del Questore che disponeva il trattenimento del centro di permanenza temporanea ed assistenza piu' vicino, non anche del provvedimento di espulsione con accompagnamento. La citata sentenza della Corte costituzionale ha avuto il merito di chiarire come l'espulsione con accompagnamento alla frontiera presenta di per se' quel carattere di immediata coercizione che caratterizza le restrizioni della liberta' personali che, in quanto tali, non possono sottrarsi alle garanzie previste dall'art. 13 Cost., cosi' distinguendosi dalle misure incidenti solo sulla liberta' di circolazione. Sulla stessa linea sono del resto i precedenti che hanno affermato la natura di misura incidente sulla liberta' personale della traduzione del rimpatriando con foglio di via obbligatorio (sentenza n. 2/56), negandolo invece all'ordine di rimpatrio (sentenza n. 210/95), proprio muovendo dalla distinzione tra atti della pubblica autorita' obbligatori, la cui inosservanza espone il destinatario ad una sanzione, e coercitivi, la cui esecuzione, invece, viene fisicamente imposta incidendo in modo diretto sulla persona del destinatario. Sennonche' questa importante premessa di fondo, inevitabilmente fondava forti dubbi di legittimita' costituzionale con riferimento ai casi - estranei a quella decisione - in cui al provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera non facesse seguito una misura di trattenimento. In tali ipotesi, infatti, secondo la disciplina originaria, mancava totalmente un giudizio di convalida da parte dell'autorita' giudiziaria. Proprio per ovviare a questi pesanti dubbi di costituzionalita', non a caso subito sollevati, il legislatore e' corso ai ripari modificando l'art. 13 con l'aggiunta del comma 5-bis e la previsione di un autonomo giudizio di convalida del provvedimento di accompagnamento alla frontiera (cfr. art. 2 decreto-legge n. 51 del 2002, convertito con legge n. 106 del 2002 e Corte cost. ord. n. 16 del 2003, che ha disposto la trasmissione degli atti ai giudici remittenti per una nuova valutazione della rilevanza della questione proposta, alla luce delle sopravvenute modificazioni legislative). Attualmente, pertanto, i giudizi di convalida previsti sono due, uno per il provvedimento di accompagnamento alla frontiera (art. 13, comma 5-bis t.u.) ed uno per il provvedimento di trattenimento nei centri di permanenza temporanea ed assistenza (art. 14, commi 3 - 5 t.u.). Quando sia stato adottato un provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera, non sia possibile eseguirlo con immediatezza per i motivi gia' sopra indicati e non sia neppure possibile trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea, ovvero siano trascorsi i termini di permanenza senza essere riusciti ad eseguire l'espulsione, il Questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro 5 giorni, avvertendolo delle conseguenze penali in caso di trasgressione (comma 5-bis). In caso di trasgressione «senza giustificato motivo» lo straniero e' punito con l'arresto da sei mesi ad un anno e si procede a nuova espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica (comma 5-ter). Lo straniero che, espulso ai sensi del comma 5-ter, viene trovato in violazione delle norme del testo unico, nel territorio dello Stato, e' punito con la reclusione da uno a quattro anni (comma 5-quater). Per entrambi i reati e' previsto l'arresto obbligatorio «e si procede con rito direttissimo» (comma 5-quinquies). 2. - L'interpretazione della normativa denunziata. Prescindendo dai molti dubbi interpretativi che queste ultime disposizioni sollevano, non direttamente attinenti all'oggetto del presente giudizio, importante e' sottolineare la struttura di reato permanente del reato contravvenzionale, evidenziata dal fatto che la condotta punita e' descritta col termine «si trattiene», sicche' l'arresto obbligatorio previsto deve ritenersi, nonostante la legge taccia sul punto, un arresto in flagranza a tutti gli effetti. La precisazione e' importate perche' in riferimento al diverso reato contravvenzionale a struttura istantanea di cui all'art. 13, comma 13 t.u., previsto per il caso in cui lo straniero espulso rientri nel territorio dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro dell'interno, il legislatore ha sentito l'esigenza di precisare che e' consentito l'arresto «in flagranza», cosi' chiarendo che e' possibile solo quando lo straniero e' colto nell'atto dell'introduzione nello Stato ovvero nelle fasi immediatamente successive, non quando viene semplicemente trovato sul territorio dello Stato, magari a distanza di anni dal commesso reato di ingresso. Questa interpretazione appare del resto imposta dalla seconda parte dell'art. 13, comma ter t.u. che, per delitto di «ingresso» previsto dall'art. 13, comma 13-bis tu., consente il «fermo» cosi' confermando che l'arresto in flagranza non puo' essere adottato per lo straniero semplicemente rinvenuto nel territorio nazionale. L'univocita' degli indicati elementi testuali e' tale da far ritenere superata l'interpretazione giurisprudenziale, peraltro risalente e del tutto isolata, secondo la quale il reato previsto dall'art. 151 r.d. n. 773 del 1931 configurava un reato permanente (Cass. pen., 22 febbraio 1989, n. 2890). Infatti, se e' vero che i precetti delle due norme incriminatrici sono assai simili e' pur vero che mutato e' il sistema complessivo di riferimento riguardo, ad es., ai presupposti e alle modalita' di esecuzione dell'espulsione e, soprattutto, l'interpretazione della norma attualmente in vigore non puo' prescindere dalla previsione dell'arresto in flagranza e del fermo (quest'ultimo per il delitto che pero' ha identica struttura) di cui al comma 13-ter. Del resto la rilevanza del sistema normativo di riferimento e' confermata dalla stessa stringata motivazione di quel lontano precedente, che, prescindendo dalla sua correttezza, muoveva proprio dalla correlazione con l'art. 150 t.u.l.p.s., concernente l'allontanamento dagli stranieri condannati per delitto e l'espulsione per motivi di ordine pubblico, per argomentare come la condotta illecita non si esaurisse con il passaggio indebito dalla frontiera protraendosi per tutto il tempo in cui lo straniero risiedesse senza autorizzazione nel territorio dello Stato e, pertanto, la natura permanente del reato. Tornando al reato direttamente oggetto della presente questione, appare importante evidenziare due ulteriori note strutturali della contravvenzione prevista dall'art. 14, comma 5-ter t.u.: la prima e' che e' punibile anche a titolo di colpa, trattandosi di una semplice contravvenzione; la seconda e' che si tratta di un vero e proprio reato omissivo nonostante le incertezze determinate dall'imprecisa tecnica utilizzata per tipizzare la condotta. Infatti, l'espressione «si trattiene» solo in apparenza descrive una condotta attiva, perche' in realta' non viene punita la semplice permanenza illegale. nel territorio dello Stato bensi' la permanenza «in violazione dell'ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis», elemento questo che viene ad integrare il nucleo essenziale del reato rendendolo molto vicino, dal punto di vista strutturale, alla contravvenzione di cui all'art. 650 c.p. Ad essere qualificato illecito e' cioe' l'inottemperanza al comando dell'autorita' di lasciare il territorio dello Stato nel termine di 5 giorni, tanto e' vero che la sussistenza di «un giustificato motivo» esclude il reato nonostante una permanenza illegale, sotto il profilo amministrativo, nel territorio dello Stato. Tutto cio' chiarisce in modo evidente che non e' stato incriminato il semplice stato di clandestinita' dello straniero. Le caratteristiche di reato permanente, omissivo e colposo valgono a distinguere questa fattispecie dalla contravvenzione prevista dall'art. 13, comma 13 che e', al contrario, un reato istantaneo, commissivo e doloso, perche' si consuma al momento in cui lo straniero espulso faccia rientro nel territorio dello Stato e perche' non e' dubitabile, da un lato, che la condotta di ingresso nel territorio dello Stato sia una condotta attiva e, dall'altro, che richieda quale coefficiente psicologico minimo il dolo, nonostante la natura contravvenzionale del reato. L'affinita' tra le due fattispecie attiene, piuttosto, al bene giuridico protetto, essendo inserite nel medesimo corpo di norme finalizzato a contrastare l'immigrazione irregolare e alla valutazione legislativa di pari gravita', testimoniata dalla previsione di un'identica pena. Va inoltre sottolineato come l'intimo legame con la violazione dell'ordine impartito dal Questore di lasciare il territorio dello Stato entro 5 giorni rende il reato dipendente dagli ampi spazi di discrezionalita' attribuiti all'autorita' amministrativa in materia. In particolare presupposti dell'ordine del Questore sono: 1) un provvedimento di espulsione da eseguirsi con accompagnamento alla frontiera; 2) l'impossibilita' di eseguire l'espulsione mediante l'accompagnamento alla frontiera per i motivi precisati dal comma 1 dell'art. 14, che legittimano la misura del trattenimento nei centri di permanenza temporanea; 3) l'impossibilita' di disporre il trattenimento dello straniero presso un centro di permanenza temporanea ovvero scadenza senza esito dei termini di permanenza. Ebbene, appare evidente che mentre i presupposti sub 1) e 2) sono sufficientemente definiti dalla legge, quello sub 3) e' rimesso essenzialmente alla discrezionalita' dell'autorita' amministrativa almeno nel caso, nella prassi assolutamente prevalente, in cui l'ordine del Questore sia adottato sul presupposto dell'impossibilita' di trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea, perche' la legge non prevede i casi tassativi di tale impossibilita', sicche' si deve ritenere che anche la semplice indisponibilita' di posti presso i centri di permanenza o mere difficolta' pratico-organizzative dell'ufficio di p.s., purche' serie, siano in grado di giustificare l'emissione dell'ordine del Questore. Ulteriori e piu' gravi incertezze interpretative derivano dal mancato coordinamento dell'arresto obbligatorio con l'art. 121 disp. att. c.p.p., che impone al p.m. di porre immediatamente in liberta' l'arrestato o il fermato quando ritenga di non dovere richiedere l'applicazione di misure coercitive. Nella specie e' infatti certo che, trattandosi di contravvenzione e non sussistendo i limiti edittali, e' radicalmente esclusa la possibilita' stessa di applicazione di una qualsiasi misura cautelare coercitiva, sicche' il cit. art. 121' dovrebbe implicare l'obbligo e non solo la facolta' del p.m. di liberare immediatamente l'arrestato. Sennonche' l'immediata liberazione dell'arrestato ad opera del p.m., per quanto sembri imposta dal sistema, pone un grave problema operativo, connesso alla necessita' di rispettare la previsione del rito direttissimo, configurato dalla legge come obbligatorio e che, a questo punto, si svolgerebbe nei confronti di un imputato a piede libero. A fronte delle incertezze proprie del dato normativo le prassi interpretative seguite dai vari uffici di Procura e persino all'interno del medesimo ufficio si sono diversificate secondo tre diversi modelli, con tutte le conseguenze negative in termini di parita' di trattamento. Secondo la prima opzione, seguita nel presente caso, la previsione dell'arresto obbligatorio e del rito direttissimo, in quanto norma speciale, prevarrebbe sull'art. 121 disp. att., sicche' l'arrestato va sempre e obbligatoriamente condotto avanti al Giudice del dibattimento per la convalida ed il contestatile giudizio direttissimo. Si tratta di una soluzione che certamente ha il pregio di adeguarsi alla (presumibile) volonta' storica del legislatore del 2002 e di cercare di conferire una certa coerenza ad una normativa che non brilla per questo aspetto, ma poggia su una premessa - il rapporto tra art. 121 disp. att. c.p.p. e art. 14, comma 5-quinquies d.lgs. n. 286 del 1998 in termini di norma generale / norma speciale - che non puo' essere condivisa perche' le due norme non regolano, neppure in parte, la medesima materia, prevedendo la seconda una nuova ipotesi di arresto obbligatorio e regolando la prima l'attivita' successiva all'arresto (o al fermo), con la previsione dell'immediata liberazione nel caso in cui non si prospetti l'applicazione di una misura coercitiva. Secondo una diversa opzione, invece, piu' aderente al rilievo costituzionale della liberta' personale ed al favor libertatis, occorre applicare l'art. 121 disp. att. c.p.p. e, pertanto, l'arrestato deve essere sempre immediatamente posto in liberta' dal p.m. Ma all'interno di questa opzione, si apre un'ulteriore alternativa tra chi ritiene che, a causa dello stretto collegamento tra rito direttissimo e stato di arresto dell'unico sbocco processuale possibile resta quello del rito ordinario e chi invece ritiene di dar comunque luogo al rito direttissimo, anche se l'imputato e' a piede libero, sulla scorta del rilievo che si tratta di eventualita' ammessa dalla stessa disciplina generale (artt. 449, commi 2 e 5 e 450, comma 2 c.p.p.). La prima soluzione contrasta in tutta evidenza con la lettera della legge che impone per questi reati il rito direttissimo, perche' la generalizzata liberazione dell'imputato a norma dell'art. 121 disp. att. c.p.p. precluderebbe l'accesso al rito speciale in modo altrettanto generalizzato. La conclusione appare confermata dal collegamento sistematico con l'art. 13, comma 13-ter t.u. che, come si e' visto, rafforza la previsione del rito direttissimo obbligatorio con un «in ogni caso», che non lascia spazio a soluzioni alternative e a possibilita' di procedere per le vie ordinarie. L'espressione si giustifica in relazione alla previsione, in quel contesto, dell'arresto come meramente facoltativo e solo ne casi di flagranza, perche' serve a chiarire che il rito direttissimo deve essere instaurato anche nel caso l'arresto non sia stato effettuato e anche nell'ipotesi in cui non sia stato disposto neppure il fermo, per la mancanza del pericolo di fuga. Se cosi' e' non vi e' ragione per non adottare la medesima interpretazione anche in riferimento all'art. 14, comma 5-quinquies, in cui l'espressione «in ogni caso» manca semplicemente perche' la norma prevede un arresto obbligatorio e, pertanto, il legislatore ha dato per scontato che l'arresto fosse sempre eseguito da parte delle forze dell'ordine, sicche' non ha ritenuto necessario ribadire che il rito direttissimo dovesse essere instaurato «in ogni caso». Le indicazioni che precedono, unitamente al chiaro tenore testuale delle norme appena richiamate del t.u., portano alla conclusione che la forma atipica di rito direttissimo prevista non prevede affatto, quale presupposto ne' l'arresto ne' la sua convalida, sicche' il rito speciale e' obbligatoriamente instaurato, anche nel caso l'arresto non sia stato effettuato o, se effettuato, non venga convalidato. In effetti dalla lettura delle norme emerge che rito direttissimo e misure precautelari, arresto obbligatorio nel caso dell'art. 14 e arresto facoltativo o fermo nel caso dell'art. 13 t.u., sono previsioni poste una accanto all'altra, senza quella reciproca correlazione che caratterizza il rito direttissimo nella forma «tipica» (cfr. art. 449 e 558 c.p.p.). Controprova e', ancora, la previsione del rito direttissimo «in ogni caso», ossia anche nel caso in cui nessuna misura precautelare sia stata in concreto disposta, da parte dell'art. 13, comma 13-ter tu. e la totale assenza, anche nell'art. 14, comma 5-quinquies t.u., di qualsiasi previsione processuale in caso di mancata convalida della misura precautelare eventualmente disposta. D'altra parte, l'assoluta specialita' delle norme e «l'atipicita'» del rito direttissimo ivi previsto esclude che la lacuna possa essere colmata con l'applicazione delle norme generali proprie del rito direttissimo «tipico» previsto dal codice di rito, con la conseguenza che unico presupposto indefettibile che, residua per questa anomala forma di rito direttissimo e' costituito dal mero titolo di reato. Ne deriva, in conclusione, che anche l'immediata liberazione dell'imputato ad opera del p.m., in applicazione dell'art. 121 disp. att. c.p.p., non elimina affatto. l'obbligatorieta' del rito direttissimo che, a questo punto verra' instaurato con l'imputato a piede libero, come peraltro puo' ben accadere anche in caso di rito direttissimo «tipico» (cfr. art. 450, comma 2 c.p.p.). E' infatti notorio che il rito direttissimo presuppone non tanto lo stato di arresto dell'imputato, ma l'evidenza della prova, che rende inutile il protrarsi delle indagini e lo svolgimento procedimento penale secondo le cadenze ed i tempi usuali. Infatti, proprio dal «modello» generale di giudizio direttissimo, fondato sui presupposti alternativi dell'arresto «in flagranza» (art. 449, comma 1 c.p.p.) e della «confessione» (comma 5) dell'imputato, e' possibile desumere che la giustificazione di fondo del rito speciale risiede appunto nell'evidenza della prova, non nello stato di arresto dell'imputato. Piu' precisamente, il presupposto dell'arresto assume rilevanza non tanto quale misura restrittiva della liberta' personale, ma perche' rende evidente la penale responsabilita' dell'imputato, essendo stato eseguito «in flagranza», quale tipica situazione che rende evidente, nella generalita' dei casi, la penale responsabilita' dell'imputato tanto da giustificare la celebrazione del processo con forme, termini e modi particolarmente contratti e semplificati. E' sulla base delle indicazioni che precedono che si puo' comprendere perche' mai il fermo non consente in via generale l'instaurazione del rito direttissimo. Infatti il fermo, non essendo eseguito nella flagranza di reato, non puo' vantare quella situazione di «evidenza della prova», normalmente connessa all'arresto in flagranza di reato, ma su una situazione probatoria meno pregnante definita con la formula dei «gravi indizi di colpevolezza». Per terminare con riferimento al rito direttissimo «tipico» previsto dal codice di rito vale solo la pena di ricordare come l'instaurarsi del rito speciale, e' rimessa comunque ad una scelta discrezionale del p.m., al quale e' attribuito il potere di valutare l'evidenza, non sempre in concreto sussistente nonostante l'arresto in flagranza o la confessione dell'imputato. Comunque, va ricordato che nel caso in esame il p.m. non ha fatto applicazione dell'art. 121 disp. att. c.p.p. presentando a questo Giudice l'imputato ancora in stato di detenzione, per la convalida dell'arresto ed il contestuale giudizio direttissimo. Secondo il «diritto vivente», elaborato con riferimento. al rito direttissimo «tipico» ma che puo' essere esteso anche al caso in esame, lo stato di detenzione dell'imputato sino al termine dell'udienza di convalida e del contestuale giudizio direttissimo, trova valido titolo nell'arresto disposto dalla polizia giudiziaria, senza necessita' che il Giudice disponga una misura cautelare prima dello svolgimento del giudizio direttissimo (cfr. Cass. Sez. Un., 1º ottobre 1991, nr. 19, rv 188583), naturalmente a condizione che convalida e giudizio direttissimo trovino conclusione nella medesima udienza. Nel caso in esame, pero', l'evidente anomalia consiste nel fatto che all'esito dell'udienza l'imputato non potra' essere in alcun caso sottoposto ad alcuna misura cautelare coercitiva, per mancanza dei presupposti generali e dovra', pertanto, essere necessariamente liberato, anche nel caso in cui si sia pervenuti ad una sentenza di condanna alla pena massima consentita. Pertanto, l'applicabilita' o meno ad opera del p.m. della liberazione anticipata dell'imputato ai sensi dell'art. 121 disp. att. c.p.p., non assume rilevanza decisiva ai fini della presente decisione e, nella sostanza, comporta unicamente una contrazione della durata messima della restrizione alla liberta' personale conseguente all'arresto obbligatorio, che e' di 48 ore se si applica l'art. 121 disp..att. c.p.p: ed invece di 96 ore (48+48) in caso contrario. Inoltre, il semplice esercizio da parte dell'imputato del diritto di richiedere un termine a difesa (art. 451 u.c. e 558, comma 7 c.p.p.) ha come inevitabile conseguenza che il giudizio direttissimo si svolga, sempre e comunque, nel confronti di un imputato a piede libero, ancora per l'impossibilita' di disporre alcuna misura cautelare coercitiva e per il venir meno, a questo punto, dell'arresto come valido titolo di detenzione. Non solo, ma va anche sottolineato come la liberazione dell'imputato prima dello svolgimento del rito direttissimo, a norma dell'art. 121 disp. att. c.p.p. ovvero a seguito della richiesta di un termine a difesa, impone necessariamente il rilascio del nulla osta all'espulsione, a norma dell'art. 13, commi 3 e 3-bis t.u., salvo la sussistenza delle inderogabili esigenze processuali sopra indicate, sicche' se poi l'espulsione sia effettivamente eseguita mediante accompagnamento alla frontiera, evenienza che non puo' essere data per scontata perche' l'autorita' amministrativa competente potrebbe anche disporre il trattenimento in un centro di permanenza temporanea, il giudizio si svolgera' generalmente nella contumacia dell'imputato. In definitiva, si puo' affermare che la normativa in esame nel suo complesso risponde all'esigenza di assicurare in ogni caso la concreta esecuzione dell'espulsione nel modo piu' immediato possibile, anche al costo di pesanti sacrifici alla liberta' personale dello straniero clandestino, mediante l'accompagnamento alla frontiera ove possibile e, qualora non sia possibile, mediante restrizioni alla liberta' personale ancora piu' incisive, rappresentate alternativamente dal trattenimento nei centri di permanenza temporanea, che configura una sorta di detenzione amministrativa ovvero dalla previsione di autonomi reati per la violazione all'ordine del Questore a lasciare il territorio dello Stato nei 5 giorni. La ratio di fondo sembra essere quella di sollecitare la collaborazione dello straniero colpito dall'espulsione, rendendo comunque scarsamente appetibile la permanenza nel territorio dello Stato. 2. - Rilevanza. Inserite le disposizioni denunciate nel sistema al quale appartengono, la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale proposta appare evidente dal momento che il giudizio non puo' essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione. Infatti, e' certo che questo Giudice, in mancanza dei dubbi di costituzionalita' dell'art. 14, commi 5-ter e quinquies, nella parte in cui prevede l'arresto obbligatorio ed il rito direttissimo, avrebbe dovuto procedere al giudizio di convalida dell'arresto e al conseguente giudizio direttissimo, mentre nel caso in cui le disposizioni sospettate di incostituzionalita' venissero dichiarate illegittime, dovrebbe negare la convalida dell'arresto: conseguenza della caducazione con effetto retroattivo della disposizione in base alla quale l'arresto e' stato eseguito e disporre la trasmissione degli atti al p.m., affinche' proceda con rito ordinario. Inoltre, nell'ipotesi in cui venisse ritenuta legittima la previsione dell'arresto obbligatorio ma non la previsione del rito direttissimo, non si potrebbe negare al p.m. il potere discrezionale di decidere se procedere nelle forme del rito direttissimo o del rito ordinario, secondo la disciplina generale (art. 449, comma 1 c.p.p.). Ne' una diversa conclusione in punto di rilevanza puo' essere prospettata in ragione dell'immediata liberazione dell'imputato, disposta contestualmente alla presente ordinanza, perche' il giudizio di convalida dell'arresto, che e' stato sospeso, attiene non al protrarsi dello stato di privazione della liberta' personale, la quale semmai formera' oggetto di un distinto provvedimento di misura cautelare, ma alla privazione della liberta' personale gia' subita. Del resto, che l'interesse generale ad una pronuncia sulla legittimita' dell'arresto permanga anche dopo la liberazione dell'arrestato e' dimostrato dall'art. 121, comma 2 disp. att. stessa Corte costituzionale, con sentenza n. 54 del 1993, nel giudizio sulla legittimita' costituzionale dell'art. 380, comma 2, lett. e) c.p.p., nella parte in cui prevedeva l'arresto obbligatorio per il delitto di furto aggravato dalla violenza sulle cose anche nelle ipotesi di danno patrimoniale esiguo, ha ricosciuto la rilevanza della questione nonostante la gia' avvenuta liberazione, affermando che si tratta «di stabilire se la liberazione dell'arrestata debba considerarsi conseguente all'applicazione dell'art. 391, settimo comma, ovvero, piu' radicalmente, alla caducazione con effetto retroattivo della disposizione in base alla quale gli arresti furono eseguiti». Nel caso di specie, poi, la rilevanza appare avvalorata dall'impossibilita' di disporre un autonomo provvedimento di misura cautelare e dalla correlata necessita' di disporre la liberazione dell'arrestato, a prescindere dal giudizio di convalida dell'arresto e dalla previsione di cui all'art. 391, comma 7 c.p.p. Si tratta cioe', come si e' sopra gia' argomentato, di un esito inevitabile, che si sarebbe imposto anche dopo la Convalida dell'arresto ed il contestuale giudizio direttissimo. 4. - Non manifesta infondatezza: a) in riferimento alla previsione dell'arresto obbligatorio. Con riferimento alla previsione dell'arresto obbligatorio il parametro costituzionale di riferimento principale e' costituito dall'art. 13 Cost. che, com'e' noto, a presidio della liberta' personale qualificata come «inviolabile» (comma 1), pone una riserva di legge ed una riserva di giurisdizione (comma 2), prescrivendo che restrizioni alla liberta' personale sono possibili solo «per atto motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». Pertanto, la titolarita' del potere di adottare misure restrittive della liberta' personale spetta, in linea di principio, unicamente all'autorita' giudiziaria, mentre l'autorita' di pubblica sicurezza puo' adottare provvedimenti «provvisori» e solo «in casi eccezionali di necessita' e di urgenza, indicati tassativamente dalla legge» (comma 3). Che si tratti di un esercizio in via vicaria di un potere la cui titolarita' spetta comunque all'autorita' giudiziaria, e' confermato non solo dalla sottolineatura della natura provvisoria dei provvedimenti adottati dall'autorita' di p.s. ma anche dal fatto che in tali casi vige l'obbligo di comunicazione entro le 48 ore all'autorita' giudiziaria e dall'automatica revoca e perdita di ogni effetto in caso di mancata convalida entro le 48 ore successive. La norma costituzionale non precisa in via tassativa i casi in cui sia consentita la restrizione della liberta' personale ma la natura inviolabile del diritto alla liberta' personale, impone la conclusione che il suo sacrificio risponda ad esigenze di rilievo costituzionale, quali certamente devono considerarsi quelle connesse alla repressione dei reati, sulla base di un adeguato bilanciamento di contrapposti interessi. Piu' analitico, sotto questo punto di vista, e' l'art. 5 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con legge n. 848/1955 che ammette la privazione della liberta' personale solo in casi tassativi, tra i quali sono indicati, per cio' che qui interessa, quelli connessi alla repressione dei reati (cfr. lett. a, b e c) e l'ipotesi dell'arresto o della detenzione «di una persona per impedirle di entrare nel territorio clandestinamente o contro la quale e' in corso un procedimento di espulsione o di estradizione» (cfr. lett. f). Ora, nell'ambito dell'ordinamento processuale generale l'arresto, cosi' come il fermo, si' caratterizza come tipica misura disposta dalla polizia giudiziaria con funzione «precautelare», finalizzata cioe' a consentire l'adozione di una misura cautelare coercitiva da parte dell'autorita' giudiziaria. Ma le misure cautelari coercitive sono possibili, a norma dell'art. 280 c.p.p., solo per i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 3 anni (4 per la custodia in carcere), mentre gli indicati limiti di pena non si applicano, a norma dell'art. 391, comma 5 c.p.p., in caso di convalida dell'arresto per i delitti di cui all'art. 381, comma 2 c.p.p. ovvero per uno dei delitti per i quali e' consentito l'arresto anche fuori dai casi di flagranza (tipico il caso dell'evasione a norma degli artt. 385 c.p. e 3 d.l. nr. 152/1991). Del resto questa disciplina era imposta da una precisa direttiva contenuta nella legge delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, contenuta nel punto n. 59 dell'art. 2 che prevede una stretta correlazione tra gravita' del reato, secondo la valutazione astratta compiuta dal legislatore nel determinare i limiti edittali di pena, e possibilita' di applicazione delle misure cautelari coercitive. Non solo, ma gia' nel 1980 la Corte costituzionale, dopo aver sottolineato come la custodia preventiva debba rispondere ad esigenze cautelari e non possa risolversi in una anticipazione di pena, ha osservato come la formula legislativa allora in vigore, che faceva riferimento alle «esigenze di tutela della collettivita'», debba essere interpretata nel senso che si riferisca a reati di particolare gravita' per l'uso d'armi o di altri mezzi di violenza contro le persone, riferibilita' ad organizzazioni criminali comuni o politiche, direzione lesiva verso le condizioni di base della sicurezza collettiva o dell'ordine democratico (cfr. sentenza 1/80). Ne deriva, come gia' anticipato, che per la contravvenzione di cui all'art. 14, comma 5-quinquies t.u., punita con la pena dell'arresto da 6 mesi ad 1 anno, non puo' applicarsi alcun tipo di misura coercitiva, sicche' la finalita' «precautelare» del previsto arresto obbligatorio viene, per cosi' dire, meno in via normativa, sul piano generale ed astratto, sicche' l'arresto in questione finisce col trasformarsi in misura restrittiva della liberta' personale fine a se' stessa, priva di alcun nesso di strumentalita' col procedimento penale in cui e' inserita e, per di piu', disposta dall'autorita' di p.s. In queste condizioni il controllo da parte dell'autorita' giudiziaria in sede di convalida, pur previsto dalla legge, si riduce in un riscontro meramente esteriore di elementi puramente formali, quali il rispetto dei limiti temporali e la sussistenza del fumus del commesso reato, senza che vi sia quel controllo giurisdizionale pieno e di merito richiesto, come si e' visto, dalla giurisprudenza costituzionale per ritenere rispettata, nella sostanza e non solo nella forma, la riserva di giurisdizione prevista dall'art. 13, comma 2 Cost. (cfr. sentenza n. 105/2001). L'assoluta inutilita' del giudizio di convalida, ridotto in realta' ad un mero simulacro onde assicurare il rispetto formale della riserva di giurisdizione, emerge in tutta evidenza dal fatto che convalida o mancata convalida dell'arresto non hanno alcun concreto effetto in ordine alla restrizione della liberta' personale disposta dall'autorita' di p.s., perche' in entrambi i casi l'imputato deve essere obbligatoriamente messo in liberta', con sostanziale svuotamento della previsione costituzionale secondo la quale la mancata convalida da parte dell'autorita' giudiziaria nelle 48 ore successive dalla comunicazione del provvedimento dell'autorita' di p.s. comporta la revoca e la privazione di ogni effetto del provvedimento di restrizione, evidentemente sul presupposto che la convalida debba poter consentire la protrazione della restrizione alla liberta' personale, sulla base di un approfondito giudizio di merito compiuto dall'autorita' giudiziaria. Ne' sembra possibile individuare profili finalistici alternativi, in grado di porre al riparo la previsione dell'arresto obbligatorio da dubbi di legittimita' costituzionale. Rimanendo nell'ambito del sistema, processuale penale deve, in particolare, escludersi che l'arresto obbligatorio possa svolgere la funzione di rendere possibile il rito direttissimo, dal momento che, come gia' si e' sopra visto, da un lato in termini generali il rito direttissimo non presuppone necessariamente lo stato di detenzione dell'imputato, bensi' quella particolare evidenza della prova connessa allo stato di flagranza e, dall'altro, con riferimento alla forma «atipica» di rito direttissimo prevista dalla norma denunziata sono comunque enucleabili casi, di generale ricorrenza, in cui il giudizio debba obbligatoriamente svolgersi con l'imputato a piede libero, per effetto dell'anticipata liberazione da parte del p.m., a norma dell'art. 121 disp. att. c.p.p. ovvero della richiesta di termine a difesa avanzata dall'imputato condotto avanti al Giudice in stato di detenzione per la convalida dell'arresto, a norma dell'art. 558, comma 7 c.p.p. e cio', ancora una volta, a causa dell'impossibilita' di disporre una qualsiasi misura coercitiva. Si tratta, pertanto, di una misura del tutto slegata rispetto al fine prospettato e che tende a configurarsi come sanzione autonoma, emancipandosi dal contesto processuale al quale appartiene. D'altra parte sarebbe comunque dubbia la legittimita' costituzionale di un arresto obbligatorio previsto a fini puramente «processuali», ossia esclusivamente per giustificare la previsione di una forma anomala di rito speciale, senza alcuna connessione rispetto alla gravita' del reato commesso e ai profili di pericolosita' sociale del soggetto colpito. Sul piano concreto, poi, l'arresto in parola va eseguito dalla polizia giudiziaria a prescindere da qualsiasi valutazione sulla gravita' del fatto o sulla pericolosita' del soggetto che, l'art. 381, comma 4 c.p.p. prevede come presupposto esclusivamente per le ipotesi di arresto facoltativo. Escluso che la commissione del reato possa in qualsiasi modo fornire un'adeguata giustificazione all'arresto obbligatorio, si deve anche escludere sia possibile individuare un fine estraneo al sistema processuale penale. Infatti, a parte l'evidente anomalia,di una misura tipicamente pre-cautelare piegata ad una funzione estranea all'ordinamento penale, va rilevato che lo stato di irregolarita' sul territorio nazionale dello straniero extracomunitario tratto in arresto e, pertanto, la necessaria pendenza di un procedimento di espulsione, non puo' essere circostanza valorizzabile a tal fine, neppure nel limitato senso di consentire un'agevolazione di fatto all'esecuzione dell'espulsione dal territorio nazionale. Invero, nel sistema normativo di riferimento, sono previste autonome misure di restrizione della liberta' personale tipicamente strumentali a questo fine, quali l'accompagnamento coattivo alla frontiera ed il trattenimento presso i centri di permanenza temporanea e assistenza, mentre l'arresto obbligatorio per la contravvenzione prevista dall'art. 14, comma 5-quinquies t.u. non e' minimamente configurato come presupposto del procedimento di espulsione e, anzi, finisce col costituire, insieme col relativo procedimento penale, un ostacolo all'espulsione, alla cui rimozione appare infatti preordinato l'istituto del nulla osta da parte dell'autorita' giudiziaria (cfr. art. 13, comma 3 t.u.). Inoltre, sotto il profilo pratico, si tratterebbe di mezzo palesemente inadeguato rispetto al fine, perche' si tratta di misura che puo' estendere i propri effetti per un lasso temporale assai limitato, di 48 o 96 ore a seconda dell'interpretazione seguita dell'art. 121 disp. att. c.p.p., certamente insufficiente, per consentire la rimozione delle difficolta' materiali che si frappongono alla concreta esecuzione dell'espulsione. L'assenza di plausibili finalita' dell'arresto obbligatorio in esame, rende ragione del contrasto anche col principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., gia' sotto il profilo della grave razionalita' intrinseca e dell'intima contraddittorieta' della legge. Il legislatore, infatti, da un lato ha valutato il reato in termini di scarsa gravita', qualificandolo come contravvenzione e prevedendo la pena dell'arresto da 6 mesi ad 1 anno, tanto da imporre all'autorita' giudiziaria l'immediata liberazione dell'imputato e l'esclusione di qualsiasi misura cautelare e, dall'altro, ha compiuto una valutazione del tutto opposta, ritenendo il reato tanto grave da giustificare l'arresto obbligatorio ed imporre il rito direttissimo. La norma denunziata sembra violare il principio di uguaglianza anche sotto il profilo della disparita' di trattamento, anzitutto assumendo come termine di paragone la disciplina generale dell'arresto obbligatorio, perche' l'obliterazione della funzione pre-cautelare della misura con esclusivo riferimento ai reati in parola appare priva di qualsiasi possibile giustificazione, finendo col determinare un immotivato sacrificio del diritto inviolabile alla liberta' personale dello straniero. L'arresto obbligatorio nella disciplina generale si caratterizza, infatti, come misura pre-cautelare del tutto eccezionale, giustificata o dalla notevole gravita' del reato commesso o da «speciali esigenze di tutela della collettivita'», come si esprime il punto n. 32 dell'art. 2 delle legge delega per l'emanazione del nuovo codice di rito, tanto da indurre la Corte costituzionale a dichiarare l'illegittimita' della previsione dell'arresto obbligatorio in flagranza di reato per il furto aggravato ai sensi dell'art. 625, n. 2 prima ipotesi, nel caso ricorra l'attenuante di cui all'art. 62 n. 4 c.p. (cfr. sentenza n. 54/1993). Non si comprende quindi per quale motivo il legislatore abbia previsto la medesima misura per un reato di scarsa gravita', quale deve essere certamente ritenuta la contravvenzione di cui deve rispondere l'odierno imputato. L'irragionevole disparita' di trattamento non potrebbe essere piu' evidente. Analoga irragionevole disparita' di trattamento sembra doversi affermare anche assumendo come termine di paragone la disciplina generale di tutti gli altri reati contravvenzionali, anche ritenuti piu' gravi rispetto a quello in esame, che tuttavia non consentono l'arresto ne' obbligatorio ne' facoltativo. Unica eccezione risulta essere l'art. 6, comma 2 del d.l. nr. 122 del 1993 (misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) che prevede l'arresto facoltativo in flagranza di reato per le contravvenzioni previste in materia di armi dall'art. 4, commi 4 e 5 legge n. 110 del 1975 e, nel caso sussista l'aggravante della finalita' di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, anche di quelle previste dai commi 1 e 2 del medesimo art. 4. Sennonche', a parte il rilievo che ben potrebbe trattarsi di norma a sua volta illegittima, vanno evidenziate significative differenze rispetto alla norma denunziata in questa sede, sia perche' l'arresto previsto e' meramente facoltativo e, pertanto, verra' adottato solo in presenza di un fatto grave o di un soggetto pericoloso (cfr. art. 381, comma 4 c.p.p.), sia perche' la misura potrebbe trovare valida giustificazione, a differenza dell'ipotesi in esame, nella necessita' di interrompere una situazione di pericolo per l'ordine pubblico e l'incolumita' delle persone rappresentata dal porto in luogo pubblico di strumenti atti ad offendere, a maggior ragione se in riunioni pubbliche o per finalita' di odio etnico. Insomma, la misura potrebbe essere utilmente preordinata alla prevenzione di piu' gravi reati da parte delle persone che hanno portato fuori dalla propria abitazione strumenti atti ad offendere nelle situazioni e circostanze sopra riferite, considerando che questa condotta e' normalmente preordinata alla commissione di gravi reati contro la persona. Situazione che, invece, non ricorre in modo assoluto in riferimento alla contravvenzione oggetto del presente procedimento. Persino il raffronto con le altre norme del t.u. evidenziano irragionevoli disparita' di trattamento, perche' l'arresto obbligatorio previsto dall'art. 12, comma 4 t.u.. si riferisce ad un delitto, punito assai gravemente, mentre la contravvenzione cui all'art. 13, comma 13 t.u. che, benche' punita con la medesima pena prevista dall'art. 14, comma 5-ter t.u., integra certamente un'offesa piu' pregnante al bene giuridico protetto in relazione alle differenze strutturali gia' sopra evidenziate (di reato istantaneo, commissivo e doloso), legittima unicamente l'arresto facoltativo in flagranza di reato ovvero il fermo e, pertanto, misure che presuppongono la prima la gravita' del fatto o la pericolosita' del soggetto e, la seconda, il pericolo di fuga. Non si comprende allora perche' mai in caso di inottemperanza dell'ordine del Questore di lasciare il territorio nazionale nel termine di 5 giorni lo straniero, debba essere obbligatoriamente arrestato, a prescindere da quei presupposti. I dubbi di legittimita' costituzionale sopra esposti sembrano avvalorati: dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che ha gia' piu' volte dichiarato incostituzionale norme che prevedevano l'arresto ovvero misure cautelari coercitive per reati puniti con la sola pena pecuniaria (cfr. sentenze nn. 39/70, 42/73 e 215/83) ed ha anche di recente ribadito l'importanza della funzione pre-cautelare dell'arresto e del fermo, tanto da imporre la riparazione per ingiusta detenzione quando all'arresto sia seguita una sentenza di proscioglimento ovvero la mancata convalida (cfr. sentenza n. 109/1999). Anche quando la Corte ha riconosciuto la legittimita' di previsioni derogatorie rispetto alla disciplina codicistica, lo ha fatto precisando che la legittimita' dell'arresto, pur diversamente regolato, e' comunque assicurata laddove sia preservata la sua funzione pre-cautelare e sia, pertanto, in concreto disposto solo «sulla ragionevole prognosi di una sua trasformazione ope iudicis in una misura cautelare piu' stabile» (cfr. sentenza n. 305/1996 che ha riconosciuto la legittimita' dell'arresto facoltativo previsto dall'art. 189, comma 6 del codice della strada per il reato di chi non adempia all'obbligo di fermarsi in caso di incidente stradale con danni alle persone). Infine, la circostanza che il reato in esame, disciplinato in modo tanto anomalo e con un ingiustificato sacrificio del diritto inviolabile alla liberta personale dell'imputato, sia un reato proprio, in quanto puo' essere commessa solo da un cittadino extracomunitario, legittima anche il dubbio di legittimita' costituzionale fondato sulla violazione del divieto di discriminazione tra cittadini e stranieri, in riferimento sia all'art. 3 Cost. sia all'art. 10, comma 2 Cost. che, in collegamento con l'art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, impongono in modo forte che il godimento dei diritti e delle liberta' fondamentali devono essere garantiti senza alcuna distinzione fondata sulla razza o l'origine nazionale. 5. - Non manifesta infondatezza (segue): b) in riferimento alla previsione del rito direttissimo obbligatorio. Anche la previsione di un rito direttissimo obbligatorio, «atipico» e fortemente anomalo suscita seri dubbi di legittimita' costituzionale, per la possibile violazione, in particolare, degli artt. 24, comma 2 e 111 Cost. E' ben vero che l'ordinamento prevede diverse ipotesi di rito direttissimo «atipico» sia in via mediata che in leggi speciali, ma l'ipotesi in esame presenta delle particolarita' che la rendono piu' difficilmente compatibile coi principi costituzionali sopra indicati. Cosi' l'art. 3 del d.l. n. 152 del 1991 nel consentire l'arresto facoltativo per il reato di evasione anche fuori dai casi di flagranza, secondo la corrente interpretazione, consente lo svolgimento anche del rito direttissimo contestualmente alla convalida dell'arresto. Ma assai significativo e' il fatto che questa interpretazione sia fondata sulla «normale accertabilita' del reato con la stessa evidenza derivante dalla flagranza» (cfr. Cass., 10 giugno 1997, n. 2310 rv 209750). E' evidente quindi che in questa ipotesi la deviazione dalle regole proprie del rito direttissimo «tipico» e' minima perche' in entrambi i casi sussiste la giustificazione di fondo del rito speciale, ossia l'evidenza della prova connessa ad elementi oggettivi. Analogamente la Corte costituzionale nel respingere la questione di legittimita' dell'art. 21 legge n. 47/48, che prevedeva il rito direttissimo per i reati commessi a mezzo stampa ha osservato che l'immediata celebrazione del dibattimento puo' essere giustificata «dalla ragionevole valutazione, almeno in base all'id quod plerumque accidit, che la fattispecie in relazione alla quale si procede presenta una particolare evidenza», in ragione del mezzo usato per la commissione dei reati. Maggiori sono le deroghe allo schema codicistico presenti nei casi previsti da leggi speciali, quali l'art. 12-bis legge n. 356/92, in materia di armi ed esplosivi, l'art. 6, comma 5 d.l. n. 122/93 in materia di discriminazione e genocidio e lo stesso art. 12 t.u. in materia di immigrazione, i quali consentono lo svolgimento del giudizio direttissimo «anche fuori dai casi previsti dall'art. 449 codice di procedura penale» ovvero «comunque». Le norme citate si differenziano dallo schema codicistico del rito in parola, anzitutto per l'obbligatorieta' per il p.m. di esercitare l'azione penale nelle forme del rito speciale. In tutti i casi citati, tuttavia, e' inserita una clausola di salvaguardia, che preserva un residuo potere di discrezionalita' in capo al p.m. ordine all'attivazione del rito speciale, espressa dalla formula «salvo che siano necessarie speciali indagini». Infatti, poiche' la decisione sulla necessita' di svolgere speciali indagini spetta unicamente ed in via insindacabile al p.m., e' comunque consentito all'organo dell'accusa di decidere se esercitare l'azione penale nelle forme ordinarie ovvero nelle forme, altrimenti obbligatorie, del rito speciale. Ne deriva che il caso che obbliga il p.m. a procedere nelle forme speciali e' comunque riconducibile ad una situazione probatoria che, non necessitando di speciali indagini, si caratterizza come idonea a consentire un compiuto accertamento del fatto senza particolari difficolta' e, pertanto, pur non caratterizzandosi in termini di vera e propria evidenza probatoria, senz'altro configura un'ipotesi ad essa vicina. Secondo l'interpretazione corrente in giurisprudenza, che va considerata in questa sede quale «diritto vivente», la deroga ai «casi» previsti dall'art. 449 c.p.p. vale anche per i «termini», sicche' al p.m. sarebbe consentito di accedere al rito speciale anche oltre il termine di 15 giorni dall'arresto o dall'iscrizione dal reato, previsto dall'art. 449, commi 4 o 5 e.p.p. per il rito direttissimo «tipico» nei confronti dell'imputato il cui arresto sia gia' stato convalidato ovvero dell'imputato a piede libero (cfr. Cass., 23 marzo 2000, n. 2161, rv 216196; Cass., 21 marzo 2000, nr. 4978, rv 216224; Cass., 11 giugno 1996, nr. 4023, rv 205358; Cass., 19 febbraio 1990, nr. 401, rv 183660 e Cass., 4 dicembre 1989, nr. 5374, rv/ 184020). Questa interpretazione, se puo' essere confutata per i casi di giudizio direttissimo «atipico» sopra citati, e' pero' imposta per il giudizio direttissimo previsto dagli artt. 13 e 14 t.u., perche' la legge lo impone «in ogni caso», secondo la formula utilizzata dalla prima norma richiamata e, dunque, anche nel caso di scadenza dei termini ordinari. Va pero' subito aggiunto che, cosi' interpretata, la disciplina delle forme «atipiche» del rito direttissimo ha da sempre suscitato seri dubbi di legittimita' costituzionale, perche' configura una situazione di sperequazione delle armi a disposizione delle parti, consentendo al p.m. di svolgere indagini, anche complesse, che la difesa e' costretta a contrastare in termini temporali assai ristretti. In particolare, a risultare violato, sembra essere il precetto di cui all'art. 111, comma 3 Cost. che assicura nel processo penale alla persona accusata di un reato «del tempo e delle condizioni necessari per preparare la difesa». In simili condizioni il contraddittorio finisce col configurasi come garanzia meramente esteriore e formale, in quanto l'eccezionale contrazione dei tempi processuali, anche con riferimento a fatti complessi per il cui accertamento il p.m. ha svolto indagini approfondite, non consente un effettivo esercizio del diritto di difesa. E' fin troppo ovvio, infatti, osservare come il diritto di difesa, pur garantito nella sua pienezza nella fase dibattimentale, nasce come arma spuntata se non si assicura il tempo necessario per reperire le prove a discarico, eventualmente anche a mezzo di indagini difensive, e preparare un'adeguata strategia difensiva. Ed e' altrettanto ovvio osservare come il tempo necessario per preparare la difesa muta in relazione alla complessita' del fatto da accertare e delle indagini compiute dal p.m. Conferma viene proprio dai tempi scanditi nello schema codicistico del rito direttissimo, in cui ad indagini del p.m. protratte per non oltre 15 giorni dall'arresto o dall'iscrizione nel registri delle notizie di reato (cfr. art. 449, commi 4 e 5 c.p.p.), corrisponde la possibilita' di ottenere un termine per preparare la difesa «non superiore a dieci giorni». Come si vede, una situazione che garantisce una certa corrispondenza tra tempi concessi all'accusa per indagare e termini per preparare la difesa e, pertanto, una sostanziale parita' delle armi a disposizione delle parti in contesa. Lo stesso non puo' dirsi se si consente al p.m. di indagare anche per mesi, obbligando la difesa a controbattere in tempi tanto ristretti, come accade, in virtu' dell'interpretazione prevalente, nei c.d. riti direttissimi «atipici». Una simile disciplina non sembra garantire l'esercizio effettivo del diritto di difesa, anche sotto il particolare profilo della facolta' dell'imputato, garantita dall'art. 111, comma 3 Cost., di «ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore». Infatti, mentre l'accusa ha avuto mesi di tempo per reperire i testimoni e le prove a carico, la difesa e' costretta a ricercare le prove a discarico in un termine massimo di 10 giorni, che nel rito monocratico, applicabile al caso in esame, diviene 5 giorni (cfr. art. 558, comma 7 c.p.p.) e che spesso nella prassi e' ancora inferiore, dal momento che nulla vieta al Giudice di concedere termini inferiori a quelli massimi previsti dalla legge. Non e' del resto un caso che il n. 43 dell'art. 2 della legge delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale rivelasse il preciso intento di mantenere l'adozione del giudizio direttissimo entro confini nettamente circoscritti, poi trasfusi nell'art. 449 c.p.p., e comunque sempre fondato su una scelta discrezionale ad opera del p.m.. In adempimento di questa precisa direttiva l'art. 233 disp. att. c.p.p., al comma 1, ha abrogato «tutte le disposizioni di leggi o decreti che prevedono il giudizio direttissimo in casi, forme o termini diversi da quelli indicati nel codice». Viceversa il comma secondo, che faceva salvo il rito direttissimo «atipico» per i reati concernenti le armi e gli esplosivi e per i reati commessi a mezzo stampa, e' stato dichiarato incostituzionale per eccesso di delega (cfr. sentenza n. 68/91). La circostanza che poi leggi successive abbiano abbondato nel reintrodurre nel sistema varie ipotesi di rito direttissimo «atipico», non puo' comunque far dimenticare che si tratta di ipotesi, da un lato, difficilmente armonizzabili col sistema e le minime garanzie difensive. La norma qui denunziata presenta tre ulteriori elementi che la distinguono dalle ipotesi sopra illustrate di rito direttissimo «atipico» e che acuiscono i dubbi di legittimita' costituzionale sopra evidenziati. In primo luogo il rito direttissimo ivi previsto e' obbligatorio, come si e' visto, in senso assoluto, perche' dovra' essere instaurato, come si esprime l'art. 13, comma 13-ter t.u. «in ogni caso», ossia a prescindere dall'arresto, dalla sua convalida ovvero dalla successiva liberazione dell'imputato e, pertanto, senza alcun limite temporale da parte del p.m.. Nel caso in esame, infatti, manca la clausola di salvaguardia che consente di procedere nelle forme ordinarie nel caso di necessita' di «speciali indagini», ossia quando la situazione concreta presenti elementi di complessita' nell'accertamento del fatto. Ne deriva che mentre nelle altre ipotesi di rito direttissimo «atipico» la scelta del p.m. di procedere nelle forme del rito speciale, nonostante il compimento di speciali indagini e senza rispettare il termine di 15 giorni previsto dall'art. 449 c.p.p. potrebbe anche ritenersi come «patologica», per violazione della regola che vuole subordinato il rito speciale alla non necessita' di speciali indagini e cio' potrebbe indurre a rivedere l'interpretazione sopra citata ed assunta come «diritto vivente», nel caso in esame una prospettiva di questo tipo non puo' essere in alcun modo condivisa, alla luce del chiaro tenore testale della legge, che impone sempre e comunque il rito direttissimo, senza alcuna possibilita' di deroga. In secondo luogo, la contravvenzione prevista dall'art. 14, comma 5-ter t.u. presenta una complessita' strutturale tale da escludere quella «facile accertabilita'» affermata invece, come si e' visto, in tema di evasione. A dir meglio gli elementi a carico dell'imputato, ossia la sussistenza di un'espulsione eseguibile con l'immediato accompagnamento alla frontiera ed il conseguente ordine del Questore di allontanamento dal territorio nazionale nel termine di 5 giorni, rimasto inadempiuto sono: tutti elementi facilmente accertabili mediante la semplice richiesta di invio di copia alle autorita' emittenti, mentre la violazione dell'ordine al Questore e' attestata dal verbale di arresto e dalla presenza dell'imputato sul suolo nazionale. Sono invece i possibili elementi a discarico a richiedere tipicamente una complessa attivita' di ricerca, prima e di accertamento, poi. Vengono in rilievo, anzitutto, possibili vizi di legittimita' della procedura di espulsione per motivi «sostanziali», ossia non direttamente evincibili dal tenore letterale dei provvedimenti acquisiti, ad es., in relazione al diritto al congiungimento familiare ovvero ai casi di divieto di espulsione previsti dall'art. 19. t.u. Ma, soprattutto, viene in considerazione quell'autentico elemento negativo della fattispecie espresso dalla formula «senza giustificato motivo», che, da un lato, e' descritto in modo scarsamente. determinato e, dall'altro, va necessariamente interpretato in senso ampio, ossia nel senso che qualsiasi circostanza di fatto o di diritto che abbia reso impossibile o anche solo estremamente gravoso per lo straniero l'allontanamento dal territorio nazionale nel termine prescritto vale ad integrare quella giustificazione che esclude il reato. Il rinvio ad una categoria tanto ampia di situazioni fattuali, non prevedibili in astratto, richiede in modo ricorrente e non solo in via eccezionale, approfondimenti ed ampi spazi di accertamento ed elaborazione probatoria. Prima ancora, il diritto dell'imputato di difendersi, provando la sussistenza di un «giustificato motivo», imporrebbe un'attivita' di raccolta di elementi di prova per lo piu' preclusa in via di fatto dai ritmi serrati dello schema procedimentale imposto. D'altra parte la segnalata sperequazione, sotto il profilo dell'accertamento del fatto, tra elementi a carico e quelli a discarico, fa nascere il sospetto che la scelta del rito speciale, come modus procedendi obbligatorio ed inderogabile, risponda all'inconfessabile ratio di impedire o perlomeno ostacolare un'indagine approfondita e seria sugli elementi in grado di escludere la penale responsabilita', pur previsti dalla legge, in modo da giungere comunque ad una veloce condanna, sulla base di un giudizio sommario, per poi procedere all'espulsione dello straniero. In terzo luogo, un ulteriore grave ostacolo al concreto esercizio del diritto di difesa, e' rappresentato dalla necessaria pendenza, nel momento in cui si celebra il giudizio, del procedimento di espulsione dello straniero, che comporta che se l'imputato chiede termine a difesa, eventualmente proprio al fine di reperire quelle prove a discarico necessarie a dimostrare il giustificato motivo della mancata ottemperanza al provvedimento del Questore, in linea di principio lo straniero sara' immediatamente espulso mediante l'accompagnamento alla frontiera, con la conseguenza che il processo dovra' necessariamente svolgersi nella sua contumacia, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, per la difficolta' di ottenere l'autorizzazione all'ingresso a norma dell'art. 17 t.u. da parte di stranieri spesso in condizioni sociali estremamente disagiate. Stesso esito si ha nel caso in cui lo straniero sia liberato dal p.m. prima della convalida dell'arreso e' del giudizio direttissimo, a norma dell'art. 121 disp. att. c.p.p. Ne' si puo' sostenere che l'immediata espulsione puo' essere impedita dal mancato rilascio del nulla osta da parte dell'autorita' giudiziaria nel caso di procedimento penale pendente, perche' l'art. 13, comma 3 t.u. e' chiarissimo nel consentire il diniego di nulla osta solo a salvaguardia di esigenze processuali funzionali all'interesse dell'accusa, in riferimento alla sussistenza di concorrenti nel reato ovvero all'interesse della persona offesa, senza alcuna considerazione del diritto di difesa dell' imputato, di cui si occupa unicamente l'art. 17 t. u. Alla luce della sopra esposta disciplina legislativa, nel caso lo straniero venga portato in stato di detenzione avanti al Giudice per la convalida dell'arresto ed il contestuale giudizio direttissimo, ricorrente nella specie, si trova di fronte a questa stringente e gravosa alternativa: o rinuncia al pieno esercizio del proprio diritto di difesa provando, in particolare, il giustificato motivo alla mancata ottemperanza all'ordine del Questore, limitandosi sostanzialmente a difendersi con mere allegazioni in sede di interrogatorio per la convalida dell'arresto, ovvero fa richiesta di termine a difesa, al fine di reperire le prove a discarico o anche solo organizzare la strategia difensiva piu' opportuna, ed allora dovra' necessariamente essere immediatamente liberato ma anche espulso, con tutte le conseguenze negative, anche in via di puro fatto, sulla concreta esperibilita' dell'attivita' di raccolta delle prove a discarico. In ragione delle argomentazioni che precedono ritiene questo Giudice che la disciplina sopra indicata non si sottragga a dubbi di legittimita' costituzionale in riferimento ai sopra indicati parametri costituzionali (artt. 24, comma 2 e 111, commi da 1 a 5 Cost.). Peraltro viene in rilievo anche l'art. 3 Cost., per l'irragionevole disparita' di trattamento, con specifico riferimento alla limitazione del diritto fondamentale della difesa in un procedimento penale, che gli imputati di questi reati subiscono in confronto degli imputati di tutti gli altri reati, anche molto piu' gravi. Trattandosi poi di reati propri, che possono essere commessi solo da stranieri extracomunitari, appare fondato anche il sospetto della violazione del divieto di discriminazione per ragioni di razza o di origine nazionale, previsto ancora dall'art. 3 Cost. e dall'art. 10, comma 2 Cost. in collegamento con l'art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti.dell'uomo. Infine, viene in considerazione anche l'art. 97 Cost., in collegamento sistematico con l'art. 3 Cost., perche' la previsione generalizzata di un rito direttissimo per un reato ritenuto dallo stesso legislatore non grave ma che risulta essere assai frequente, ostacola l'organizzazione degli uffici giudiziari e, in particolare, l'ufficio del Giudice del dibattimento, in modo da garantire il buon andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione giudiziaria, obbligando a dare la precedenza, senza alcuna razionale giustificazione, ai reati in parola anziche' a reati assai piu' gravi per i quali si deve pero' procedere nelle forme ordinarie.
P.Q.M. Letto l'art. 23, legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 14, commi 5-ter e quinquies, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, introdotti dall'art. 13, legge 30 luglio 2002, n. 189, nella parte in cui . prevedono l'arresto obbligatorio in flagranza di reato nonche' il rito direttissimo in relazione agli artt. 3, comma 1, 13, commi da 1 a 3, 24, comma 2, 97, comma 1 e 111, commi da 1 a 5 della Costituzione, nei termini di cui in motivazione. Dispone l'immediata liberazione dell'imputato se non detenuto per altra causa e la sua messa a disposizione del Questore di Trento per i provvedimenti di competenza ai sensi dell'art. 14, commi 1 e 5-bis d.lgs. n. 286 del 1998. Sospende il presente procedimento ed ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale in Roma. Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata all'imputato, al difensore, al pubblico ministero in sede, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Rovereto, addi' 27 gennaio 2003 Il giudice: Dies