N. 62 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 gennaio 2011

Ordinanza del 28 gennaio 2011 emessa dalla Corte  di  cassazione  nel
procedimento civile promosso da Poste Italiane S.p.a. contro  Caprili
Carlo. 
 
Lavoro e occupazione - Contratto di  lavoro  a  tempo  determinato  -
  Conversione  in   contratto   a   tempo   indeterminato   a   causa
  dell'illegittima apposizione del termine - Condanna del  datore  di
  lavoro  al  risarcimento  in  favore  del  lavoratore  -   Prevista
  liquidazione   da   parte   del   giudice   di    una    indennita'
  onnicomprensiva, determinata tra un minimo di 2,5 ed un massimo  di
  12 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto - Contrasto
  con i principi di ragionevolezza e  di  effettivita'  della  tutela
  giurisdizionale,  nonche'  lesione  del   diritto   al   lavoro   -
  Sproporzione tra l'indennita' e il danno effettivo,  crescente  con
  il   perdurare   dell'illecito   -   Violazione   degli    obblighi
  internazionali derivanti dalla CEDU (e, in specie, dal  diritto  di
  ogni persona al giusto processo) - Contrasto con  l'interpretazione
  data dalla giurisprudenza comunitaria all'Accordo quadro sul lavoro
  a tempo determinato, allegato alla direttiva 1999/70/CE. 
- Legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5. 
- Costituzione, artt. 3, comma secondo, 4, 24, 111, comma secondo,  e
  117, primo comma, in  relazione  all'art.  6,  primo  comma,  della
  Convenzione per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  (CEDU),
  sottoscritta dall'Italia il 4 novembre 1950 e  resa  esecutiva  con
  legge 4 agosto 1955, n. 848; Accordo  quadro  sul  lavoro  a  tempo
  determinato  concluso  fra  le  organizzazioni  intercategoriali  a
  carattere generale (CES, UNICE e CEEP) il 18 marzo 1999 ed allegato
  alla direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999; sentenze della  Corte
  di giustizia comunitaria in cause C-212/04,  C-378/07,  C-379/07  e
  C-380/07. 
Lavoro e occupazione - Contratto di  lavoro  a  tempo  determinato  -
  Conversione in contratto  a  tempo  indeterminato  per  illegittima
  apposizione  del  termine  -  Condanna  del  datore  di  lavoro  al
  risarcimento   in   favore   del    lavoratore    -    Liquidazione
  dell'indennita' onnicomprensiva da parte  del  giudice  -  Prevista
  dimidiazione del limite massimo in presenza di contratti o  accordi
  collettivi che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato,
  di lavoratori gia' occupati con contratto a termine nell'ambito  di
  specifiche graduatorie - Contrasto con i principi di ragionevolezza
  e di effettivita' della tutela giurisdizionale, nonche' lesione del
  diritto al lavoro  -  Sproporzione  tra  l'indennita'  e  il  danno
  effettivo, crescente con il perdurare  dell'illecito  -  Violazione
  degli obblighi internazionali derivanti dalla CEDU (e,  in  specie,
  dal diritto di ogni persona al giusto  processo)  -  Contrasto  con
  l'interpretazione data dalla giurisprudenza comunitaria all'Accordo
  quadro sul lavoro a  tempo  determinato,  allegato  alla  direttiva
  1999/70/CE. 
- Legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 6. 
- Costituzione, artt. 3, comma secondo, 4, 24, 111, comma secondo,  e
  117, primo comma, in  relazione  all'art.  6,  primo  comma,  della
  Convenzione per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  (CEDU),
  sottoscritta dall'Italia il 4 novembre 1950 e  resa  esecutiva  con
  legge 4 agosto 1955, n. 848; Accordo  quadro  sul  lavoro  a  tempo
  determinato  concluso  fra  le  organizzazioni  intercategoriali  a
  carattere generale (CES, UNICE e CEEP) il 18 marzo 1999 ed allegato
  alla direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999; sentenze della  Corte
  di giustizia comunitaria in cause C-212/04,  C-378/07,  C-379/07  e
  C-380/07. 
(GU n.16 del 13-4-2011 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso
5938-2007 proposto da: Poste Italiane S.p.a., in persona  del  legale
rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in  Roma,  Viale
Europa n. 175, presso lo  studio  dell'avvocato  Anna  Maria  Ursino,
(Direzione affari  legali  Poste  Italiane),  che  la  rappresenta  e
difende giusta delega in atti; ricorrente; 
    Contro Caprili Carlo,  elettivamente  domiciliato  in  Roma,  via
Flaminia, 195, presso lo studio dell'avvocato Vacirca Sergio, che  lo
rappresenta e difende unitamente all'avvocato Lalli  Claudio,  giusta
delega in atti; contro ricorrente; 
    Avverso la sentenza n. 172/2006 della Corte D'appello di Firenze,
depositata il 9 febbraio 2006 R.G.N. n. 509/2004; 
    Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza  del
2 dicembre 2010 dal Consigliere dott. Pietro Zappia; 
    Udito l'avvocato Fiorillo Luigi per  delega  Anna  Maria  Rosaria
Ursino; 
    Udito l'avvocato Galleano Sergio Natale Edoardo per delega Sergio
Vacirca; 
    Udito il p.m. in persona del sostituto Procuratore Generale dott.
Massimo Fedeli che ha concluso per  l'accoglimento  del  ricorso  per
quanto di ragione. 
 
                      Svolgimento del processo 
 
    1. Con ricorso al  Tribunale  di  Pisa  Carlo  Caprili  affermava
l'illegittimita' del termine di durata apposto al  contratto  del  17
agosto 2000, con cui la S.p.a. Poste Italiane  lo  aveva  assunto  al
lavoro, e la conseguente conversione del negozio in contratto a tempo
indeterminato. Egli chiedeva percio' che  la  societa',  che  si  era
avvalsa  del  termine  e  l'aveva  estromesso   dall'azienda,   fosse
condannata a riammetterlo in servizio ed a risarcirgli  il  danno  da
sospensione del rapporto di lavoro. 
    Il tribunale rigettava la domanda ma  la  Corte  di  Firenze,  in
accoglimento dell'appello del Caprili, accertava il contratto a tempo
indeterminato e condannava la societa' a riammettere il lavoratore in
servizio ed a  risarcirgli  il  danno,  pari  alle  retribuzioni  con
accessori, a partire dal 26 settembre 2002, ossia dal giorno  in  cui
egli   aveva   offerto   le   proprie   prestazioni   attraverso   la
comunicazione, anche alla datrice  di  lavoro,  della  richiesta  del
tentativo di conciliazione obbligatoria  di  cui  all'art.  410  cod.
proc. civ. 
    Contro questa sentenza la S.p.a. Poste Italiane proponeva ricorso
per «cassazione mentre il Caprili, resisteva con controricorso. 
    Col primo motivo la ricorrente lamentava la violazione  dell'art.
23 legge 28 febbraio 1987 n. 56;  col  secondo  la  violazione  degli
artt. 1362 e segg. cod. civ.; col terzo  la  violazione  degli  artt.
1217 e 1223 cod.  civ.  In  sintesi,  essa  rilevava  come  la  Corte
territoriale, dopo aver riconosciuto che il contratto a  termine  era
stato concluso in base all'art. 8 c. c. n. 1. del 1994, a  sua  volta
stipulato  ex  legge  n.  56  del  1987,  avesse  ritenuto   tuttavia
illegittimo il termine poiche' l'autorizzazione della  contrattazione
collettiva all'apposizione era valida fino al 30 aprile 1998. In  tal
modo, osservava la ricorrente, la Corte non aveva tenuto conto che la
citata legge aveva delegato le parti sociali ad  individuare  ipotesi
ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge per la  stipulazione
di contratti di lavoro temporanei e che tale delega era stata attuata
dalla serie di contratti collettivi stipulati dal 1994 al 2001. 
    La  ricorrente  deduceva  in  subordine  che  in  ogni  caso   il
lavoratore  aveva  mostrato  tacitamente  di  voler   sciogliere   il
contratto, avendo  lasciato  trascorrere  circa  due  anni  prima  di
chiederne il mantenimento. Erroneamente, per di  piu',  la  Corte  di
merito non aveva sottratto all'ammontare del danno  quanto  percepito
da lui per effetto del lavoro prestato nel frattempo per altro datore
di lavoro. 
Rilevanza delle questioni di legittimita' costituzionale 
    2. I motivi ora detti di  ricorso  per  cassazione  non  appaiono
fondati. Le relative argomentazioni sono state piu'  volte  rigettate
da questa Corte,  la  quale  ha  notato  come  l'autorizzazione  alla
stipula di contratti di lavoro temporanei fosse stata espressa  dalle
parti sociali, sulla base dell'art. 23 legge n. 56 del 1987,  con  c.
c. n. 1 del 1994, integrato dall'accordo  16  gennaio  1998,  che  ha
posto un termine ultimo al 30 aprile  1998.  Il  termine  apposto  ai
contratti  individuali  conclusi  dopo  questa  data   deve   percio'
considerarsi illegittimo ed il  rapporto  di  lavoro  opera  a  tempo
indeterminato (ex multis Cass. n. 15331 del 2004). Nel caso di specie
pertanto il lavoratore estromesso dall'azienda per  la,  erroneamente
ritenuta, operativita' del termine ha  diritto  al  risarcimento  del
danno da perdita delle retribuzioni, da calcolare secondo  le  regole
di diritto comune, come ha esattamente ritenuto  la  Corte  d'appello
sulla base delle norme vigenti nel momento  di  emissione  della  sua
pronuncia. 
    Incensurabile e' poi  la  valutazione  di  fatto  espressa  dalla
stessa Corte, la quale ha negato gli elementi idonei a  ravvisare  la
tacita manifestazione della volonta' di risolvere il contratto. 
    Esattamente, infine, la Corte ha escluso l'aliunde perceptum  per
genericita' del motivo di gravame e per difetto di prova. 
    3. Tuttavia la sentenza di  condanna  da  essa  emanata  dovrebbe
essere calata. Infatti durante il giudizio di cassazione  e'  entrato
in vigore l'art. 32 legge 4 novembre  2010  n.  183,  che  innova  in
materia di contratto di  lavoro  a  tempo  determinato.  Il  comma  5
stabilisce che, nei casi in cui questo si  converta  in  contratto  a
tempo indeterminato a causa dell'illegittima apposizione del termine,
il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento in favore del
lavoratore stabilendo un'indennita'  «onnicomprensiva»  nella  misura
compresa tra  un  minimo  di  2,5  e  un  massimo  di  12  mensilita'
dell'ultima retribuzione globale di fatto. 
    Il comma 6 dimezza questa indennita'  in  presenza  di  contratti
ovvero accordi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con  le
organizzazioni sindacali comparativamente  piu'  rappresentative  sul
piano  nazionale,  che  prevedano   l'assunzione,   anche   a   tempo
indeterminato, di lavoratori gia' occupati con  contratto  a  termine
nell'ambito specifiche graduatorie. 
    Il comma 7 precisa doversi applicare i commi ora detti a «tutti i
giudizi, compresi quelli pendenti alla  data  di  entrata  in  vigore
della legge» (24 novembre 2010). Seguono disposizioni per  eventuali,
ulteriori accertamenti di fatto nella fase di merito. 
    4. Ritiene questo collegio che la sopra riportata espressione del
comma 7 debba essere riferita  altresi'  ai  giudizi  di  cassazione,
anche se le disposizioni si riferiscono espressamente al giudizio  di
merito. 
    Infatti la soluzione negativa, ossia l'esclusione della  fase  di
cassazione dall'ambito di  previsione  della  norma,  equivarrebbe  a
discriminare tra situazioni diverse in  base  alla  circostanza,  del
tutto accidentale, di una pendenza della lite giudiziaria (in una  od
altra fase) tra le parti del rapporto di lavoro.  Piu'  precisamente,
la situazione sostanziale dei lavoratori sarebbe assoggettata  ad  un
regime risarcitorio diverso, a seconda che  i  processi  pendano  nel
merito oppure in  cassazione.  Discriminazione  ritenuta  illegittima
dalla Corte cost. con sent. n. 214  del  2009,  e  tanto  piu'  grave
quando si pensi  che  i  lavoratori  destinatari  della  nuova  legge
potrebbero dover restituire  le  retribuzioni  percepite  sulla  base
della sentenza  di  merito  provvisoriamente  eseguita,  nella  parte
eccedente il massimo dell'indennita' spettante. 
    5. Cio' comporta che la sentenza qui  impugnata  dovrebbe  essere
cassata con rinvio affinche'  il  giudice  di  merito,  esercitati  i
poteri  istruttori  di  cui  al  comma  7,   determini   l'indennita'
spettante, certamente in misura inferiore a quella  dovuta  ai  sensi
della normativa previgente, ossia dal 26  settembre  2002  fino  alla
riammissione al lavoro, che nella specie non risulta essere avvenuta. 
    Appare  pertanto   rilevante   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dei I suddetti commi 5 e 6, in riferimento agli  artt.
3, 4, 24, 111 e 117 Cost., per Cost., per ragioni che di  seguito  si
espongono. 
Non manifesta infondatezza delle questioni 
    6.  Sembra  doversi  anzitutto  cosi'   ricostruire   gli   scopi
perseguiti dal legislatore. 
    A) E' orientamento consolidato  nella  giurisprudenza  di  questa
Corte che, nel caso in cui il datore di lavoro si sia avvalso  di  un
termine  illegittimamente  apposto  al  contratto  ed  abbia  percio'
allontanato il dipendente  dal  posto  di  lavoro,  cosi'  rendendosi
inadempiente agli obblighi assunti con lo stesso  contratto,  non  si
applica la tutela reale di cui all'art. 18 legge n. 300 del 1970.  Il
comportamento del datore non incide sulla continuita'  del  rapporto,
che rimane idoneo  alla  produzione  dei  propri  effetti.  Tuttavia,
trattandosi  di  contratto  a  prestazioni  corrispettive,  cio'  non
comporta  il  diritto  del  lavoratore  alla   corresponsione   delle
retribuzioni  che  sarebbero  maturate  dall'inizio  del  periodo  di
inattivita'  ma  solo  il  diritto  al  risarcimento  del  danno,  da
determinarsi in base alle regole  generali  sull'inadempimento  delle
obbligazioni contrattuali,  senza  che  sia  necessaria  una  formale
costituzione in mora del datore, occorrendo tuttavia e pur sempre che
il lavoratore non abbia tenuto  una  condotta  incompatibile  con  la
volonta' di proseguire il rapporto  ed  abbia  messo  a  disposizione
della controparte le proprie prestazioni lavorative (Cass. sez. un. 8
ottobre 2002 n. 14381, sez. lav. 18 febbraio 2003 n. 2392, 18  maggio
2006 n. 11670). 
    B) Quanto alla determinazione quantitativa  del  danno  derivante
dall'inadempimento di un contratto di durata, essa dipende da  scelte
discrezionali dei giudici  di  merito  nell'applicazione  degli  arti
1223, 1224, 1226, 1227 cod. civ. 
    In particolare, nel contratto di  lavoro  subordinato,  il  danno
sopportato dal lavoratore, che non ha percepito la  retribuzione  per
essere stato (illegittimamente privato dal datore della  possibilita'
di eseguire  la  prestazione  lavorativa  e  non  gode  della  tutela
dell'art. 18 stat. lav., dev'essere liquidato: 
        a) attenendosi ai criteri dell'art. 1223 cit., che  prescrive
di comprendere nel danno la perdita  delle  retribuzioni,  sottraendo
pero' quanto il lavoratore abbia frattanto ed eventualmente percepito
per avere eseguito un altro lavoro, in posizione di subordinazione  o
di autonomia (c.d. aliunde perceptum). La  prova  dell'esecuzione  di
quest'altro lavoro e' a carico del datore, tenuto al risarcimento. 
        b) Essendo il danno pari alle retribuzioni non percepite, per
le parti di retribuzione legate a prestazioni effettive  e  meramente
eventuali   (ad   es.   per   prestazioni   saltuarie,   per   lavoro
straordinario, ecc.), il danno, solamente  ipotetico,  non  puo'  che
essere limitato alla perdita della possibilita' di guadagno (perte de
chance), da liquidare con valutazione equitativa (art. 1226  cit.)  e
percio' variabile a seconda dei giudici. 
        c) Il danno e'  dovuto  a  partire  dal  momento  in  cui  il
lavoratore abbia posto a disposizione del datore le  proprie  energie
lavorative ossia dal momento in  cui  abbia  offerto  formalmente  la
propria prestazione, potendo  nascere  incertezze  interpretative  in
ordine alla concreta idoneita' della forma. 
        d) Trattandosi di azione di nullita' del termine  apposto  al
contratto  di  lavoro  e  quindi  di  azione   imprescrittibile,   il
lavoratore, prima dell'entrata in vigore dell'art. 32 cit., comma  3,
lett. d., poteva prolungare sine die il tempo dell'azione di nullita'
e  per  dieci  anni  (art.  2946  cod.   civ.)   quello   dell'azione
risarcitoria; dopo la entrata in vigore del comma 3 ora  cit.,  entro
il termine di decadenza ivi previsto. Egli puo'  cosi'  aumentare  la
misura del danno, esponendosi bensi' all'eccezione  di  concorso  del
creditore nel fatto  colposo  (art.  1227  cit.),  il  cui  ammontare
verrebbe  pero'  ad  essere  ridotto  dal  giudice  secondo   criteri
discrezionali e percio', ancora una volta, variabili. Tutto cio' puo'
dar luogo, per l'impresa obbligata a centinaia  di  risarcimenti,  ad
esborsi di misura non prevedibile e percio' ad incertezza sui bilanci
preventivi, che si traduce in un grave  pregiudizio  patrimoniale.  A
questa incertezza sembra aver voluto porre rimedio il legislatore del
2010, unificando il criterio di  liquidazione  del  danno  dovuto  ai
lavoratori. Ancora, la legge sembra destinata, come altre  precedenti
nella materia, ad arginare l'eccessivo ampliamento di organico  delle
imprese, dovuto alla conversione a tempo  indeterminato  di  numerosi
contratti di lavoro a termine. 
    7. Considerate queste rationes legis, non pare potersi seguire la
tesi, proposta da una parte della dottrina, secondo cui  l'indennita'
in questione non escluderebbe il (ma anzi  dovrebbe  aggiungersi  al)
risarcimento del danno, sopportato dal datore e da liquidare  secondo
le  sopra  dette  regole  di  diritto  comune.  Anche   l'espressione
«onnicomprensiva») adoperata dal  legislatore,  acquista  significato
solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore,  indennitario
o risarcitorio. 
    8. E' ancora da premettere che la liquidazione  di  un'indennita'
contenuta in poche mensilita' retributive non sembra contrastare  con
l'art. 3, primo comma, Cost.  a  causa  del  trattamento  sfavorevole
riservato al lavoratore precario, unico  contraente  spogliato  della
pienezza dei rimedi previsti dalla disciplina generale dei contratti.
Le sopra  dette  ragioni  dell'intervento  legislativo  in  questione
bastano  a  giustificare  la  diversita'  di  trattamento  ossia   il
sacrificio imposto alla parte del contratto a termine. Il comma 5  in
questione non contrasta neppure con l'art.  36,  primo  comma,  Cost.
poiche'  esso  ha  per  oggetto  un'indennita',  sia  pure   misurata
sull'ammontare  della  retribuzione,  ma  non  una  retribuzione   da
corrispondere per lavoro effettivamente prestato. 
    9. Non e', per contro,  manifestamente  infondato  il  dubbio  di
contrasto fra i commi 5 e 6 dell'art.  32  legge  n.  183/2010  ed  i
principi  di  ragionevolezza  nonche'  di  effettivita'  del  rimedio
giurisdizionale, espressi negli artt. 3,  secondo  comma,  24  e  111
Cost. Le dette disposizioni delle  legge  sembrano  anche  ledere  il
diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dall'art. 4 Cost. 
    Il  danno  sopportato  dal   prestatore   di   lavoro   a   causa
dell'illegittima apposizione del termine al contratto e' pari  almeno
alle retribuzioni perdute  dal  momento  dell'inutile  offerta  delle
proprie prestazioni e fino al momento dell'effettiva riammissione  in
servizio. Fino a questo momento, spesso futuro ed incerto durante  lo
svolgimento del processo e non certo neppure quando viene  emessa  la
sentenza di condanna, il danno  aumenta  col  decorso  del  tempo  ed
appare di dimensioni anch'esse non esattamente prevedibili. 
    Il rimedio apprestato dall'art. 32, commi 5 e 6, in questione non
puo' essere assimilato all'indennita' prevista dall'art. 8  legge  15
luglio 1966  n.  604  ed  alternativa  all'obbligo  di  riassunzione.
L'ipotesi dell'art. 8 non riguarda il ristoro di un  danno  derivante
dalla non attuazione di un rapporto di durata, ossia di un  danno  di
un ammontare che aumenta  col  trascorrere  del  tempo,  giacche'  il
diritto  all'indennita'  esclude  il  diritto  al  mantenimento   del
rapporto. 
    La liquidazione di un'indennita' eventualmente sproporzionata per
difetto rispetto all'ammontare del danno puo' indurre  il  datore  di
lavoro a persistere  nell'inadempimento,  eventualmente  tentando  di
prolungare  il  processo  oppure  sottraendosi  all'esecuzione  della
sentenza di condanna, non  suscettibile  di  realizzazione  in  forma
specifica.  Ne'  verrebbe  risarcito  il  danno  derivante   da   una
sopravvenuta impossibilita' della prestazione lavorativa, causata dal
rifiuto del datore. 
    Tutto cio' vanifica il diritto del cittadino al  lavoro  (art.  4
Cost.) e nuoce all'effettivita'  della  tutela  giurisdizionale,  con
danno che aumenta con la durata del processo,  in  contrasto  con  il
principio affermato da quasi secolare dottrina  processualista,  oggi
espresso dagli artt. 24 e 111, secondo  comma,  Cost.,  e  che  esige
l'esatta, per quanto materialmente possibile, corrispondenza  tra  la
perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo ed il  rimedio
ottenibile in sede giudiziale. 
    10. Sembra altresi', sussistere  un  contrasto  con  l'art.  117,
primo comma, Cost. per violazione dell'obbligo internazionale assunto
dall'Italia  con  la  sottoscrizione  e  ratifica  della  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo, il cui art. 6, primo comma, nel volere
il diritto di ogni persona  al  giusto  processo,  impone  al  potere
legislativo di non intromettersi nell'amministrazione della giustizia
allo scopo di influire sulla decisione di una singola controversia  o
su un gruppo di esse. 
    La Corte costituzionale con sent. n. 311 del 2009 ha escluso  che
l'incidenza di una norma retroattiva su processi in  corso  si  ponga
automaticamente in contrasto con la Convenzione cit. 
    Tuttavia nella medesima sentenza la  Corte  ha  precisato,  sulla
base della giurisprudenza della Corte EDU, che detta  incidenza  puo'
ritenersi  giustificata  solo  da  ragioni  imperative  di  interesse
generale. Cio' avviene quando il legislatore  nazionale  sia  indotto
all'emanazione di una norma di interpretazione  autentica  e  percio'
retroattiva, destinata ad  operare  anche  nei  processi  pendenti  e
dettata  dall'esigenza  di  accertare  l'originaria  intenzione   del
legislatore; oppure dalla necessita' di  ristabilire  la  parita'  di
trattamento di situazioni analoghe nei rapporti di lavoro pubblico; o
ancora,  di  rimediare  ad  un'imperfezione   tecnica   della   legge
interpretata (vedi anche Corte cost. cent. n. 1 del 2011). 
    A questo collegio sembra, anche in considerazione delle  rationes
legis qui indicate nel par. 6, che le  disposizioni  legislative  ora
impugnate possano bensi' ritenersi dettate da motivi di  opportunita'
economica, ma non da ragioni «imperative» di interesse generale.  Ne'
vi sono necessita' parificatrici  in  rapporti  di  lavoro  pubblico,
giacche' le disposizioni sono  di  applicazione  generale  in  ambito
privatistico.  Non  erano  infine   di   dubbia   interpretazione   o
tecnicamente imperfette  le  norme  di  diritto  comune  in  tema  di
risarcimento del danno  subito  dal  lavoratore,  come  costantemente
interpretate dalla giurisprudenza lavoristica. 
    E' vero che alcune delle imprese private, come quella attualmente
in causa, possono rendere  un  servizio  di  interesse  generale,  ma
rimane dubbio che perdite economiche  derivate  da  un  comportamento
illegittimo   dell'imprenditore   possano    essere    legittimamente
concentrate sui lavoratori dipendenti. 
    11. Il contrasto delle disposizioni legislative in questione  col
diritto del cittadino al lavoro, di cui all'art.  4  Cost.,  e'  reso
manifesto anche  dalla  non  aderenza  di  esse  alla  giurisprudenza
comunitaria. La sproporzione fra la tenue indennita' ed il danno, che
aumenta con la permanenza del comportamento illecito  del  datore  di
lavoro, sembra contravvenire all'accordo quadro sul  lavoro  a  tempo
determinato, concluso il 18 marzo 1999  ed  allegato  alla  direttiva
1999/70, che impone agli Stati  membri  di  «prevenire  efficacemente
l'utilizzazione abusiva di contratti o rapporti  di  lavoro  a  tempo
determinato ... ossia misure che devono rivestire  un  carattere  non
soltanto  proporzionato,  ma  anche  sufficientemente   effettivo   e
dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme  adottate  in
attuazione dell'accordo quadro» (Corte CE sent. c. 212/04,  Adeneler)
«Ne consegue che, qualora si sia  verificato  un  ricorso  abusivo  a
contratti di lavoro a tempo determinato  successivi,  si  deve  poter
applicare una misura che presenti garanzie effettive  ed  equivalenti
di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso
ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto comunitario»
(Corte CE sent. da C 378/07 a C 380/07, Angelidaki). 
    12. A rafforzamento degli argomenti sopra svolti sembra opportuno
ricordare che l'art. 614-bis cod. proc. civ. - che  sanziona  la  non
attuazione  degli  obblighi  di  fare  infungibile  o  di  non   fare
giudizialmente accertati attraverso una condanna al pagamento di  una
somma  di  denaro,  dovuta  per  ogni  violazione  o  in   osservanza
successiva ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del  provvedimento
giudiziale - e' stato  assai  severamente  criticato  dalla  dottrina
nella parte in cui esso e' dichiarato espressamente  non  applicabile
alle  controversie  di  lavoro,  ed  alle  critiche  si   e'   potuto
contrapporre da altra dottrina solamente il regime  di  tutela  reale
disposto dall'art. 18 legge 20 maggio  1970  n.  300,  sufficiente  a
tutelare il lavoratore che abbia ottenuto una sentenza di condanna ad
un fare infungibile, a carico del datore di lavoro.  Ivi  e'  infatti
prevista, in conseguenza della  dichiarazione  di  inefficacia  o  di
nullita', oppure di annullamento, del licenziamento, la condanna  del
datore alla reintegrazione del  lavoratore  ed  al  risarcimento  del
danno attraverso  un'indennita'  commisurata  alla  retribuzione  dal
giorno   del   licenziamento   fino   «al   momento    dell'effettiva
reintegrazione». 
    Ebbene, i commi 5 e 6 i questione escludono ogni tutela  reale  e
lasciano cosi' la possibile,  grave  sproporzione  fra  indennita'  e
danno effettivo, connesso al perdurare dell'illecito. 
    3. Con riferimento alla controversia qui in esame, facente  parte
di una nutrita serie, la limitazione dell'indennita' a dodici mesi  o
meno (vedi comma 6), non sembra  poter  trovare  giustificazione  nel
fine, perseguito dal legislatore, di evitare la perdita  patrimoniale
che deriverebbe all'impresa dal risarcimento  di  danni  di  notevole
entita'  a  numerosi  lavoratori.  L'entita'  del  danno   dev'essere
imputata  alla  stessa  impresa,  che   avrebbe   potuto   attenuarlo
attraverso l'esecuzione delle sentenze di condanna ai sensi dell'art.
431 cod. proc. civ. e, nei casi in cui era  possibile  con  la  prova
dell'aliunde perceptum. 
    Nei casi, poi, in cui il  lavoratore  non  abbia  potuto  trovare
un'altra occupazione, ossia  un'altra  fonte  di  reddito,  il  danno
personale e familiare, tanto piu' grave, non appare  suscettibile  di
bilanciamento. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Dichiara   non   manifestamente   infondate   le   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art.  32,  commi  5  e  6,  legge  4
novembre 2010 n. ????, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117
Cost. 
    Dispone la trasmissione degli atti alla  Corte  costituzionale  e
sospende il giudizio in corso. 
    Dispone che la presente ordinanza sia notificata alle  parti,  al
Presidente del Consiglio dei ministri ed ai Presidenti  della  Camera
dei deputati e del Senato della Repubblica. 
    Cosi' deciso in Roma il 20 gennaio 2011. 
 
                       Il Presidente: Roselli