N. 184 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 aprile 2011
Ordinanza del 21 aprile 2011 emessa dal Tribunale di Torino nel procedimento civile promosso da Cooper Stephan contro l'Universita' degli studi di Torino ed altro. Universita' - Norme in materia di organizzazione delle universita', di personale accademico e reclutamento - Lettori di scambio - Trattamento economico corrispondente a quello di ricercatore confermato a tempo definito, in esecuzione della sentenza della Corte di Giustizia CE 26 giugno 2001, nella causa C-212/99 - Previsione dell'estinzione dei giudizi in materia, in corso alla data di entrata in vigore della legge censurata - Violazione del principio di uguaglianza - Lesione del diritto di azione e di difesa in giudizio - Violazione del principio di ragionevole durata del processo - Violazione degli obblighi internazionali derivanti dalla CEDU. - Legge 30 dicembre 2010, n. 240, art. 26, comma 3, ultimo periodo. - Costituzione, artt. 3, 24, 111 e 117; Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 6.(GU n.39 del 14-9-2011 )
IL TRIBUNALE Con la presente ordinanza si intende promuovere giudizio incidentale di costituzionalita' in merito all'ultimo periodo dell'articolo 26, comma 3, legge n. 240/2010 il quale testualmente recita «sono estinti i giudizi in materia in corso alla data di entrata in vigore della presente legge». Tale periodo si colloca al termine di una norma definita di interpretazione autentica, con la quale il legislatore si e' inteso pronunciare in merito alla questione dei collaboratori esperti linguistici delle Universita' italiane. La prima parte di tale articolo e' infatti dedicata a disciplinare il trattamento economico di tali soggetti; l'ultimo periodo, come sopra riportato, e' invece una norma che non puo' essere considerata, per ovvi motivi logici, di natura interpretativa del decreto-legge n. 2/2004, articolo 1, comma 1: infatti tale disposizione prevede l'estinzione dei giudizi in corso alla data di entrata in vigore della «presente legge», laddove pare ovvio che si faccia riferimento alla legge del 2010 e non, com'e' evidente, al decreto-legge del 2004. I fatti di causa Il procedimento da cui trae origine la presente ordinanza e' la richiesta, da parte di un collaboratore esperto linguistico, assunto presso l'Universita' degli studi di Torino, di ottenere l'equiparazione del proprio trattamento economico a quello del ricercatore assunto a tempo definito, con conseguente condanna dell'Universita' convenuta al pagamento delle differenze retributive per il passato e all'adeguamento del trattamento economico per il futuro. Nelle more del giudizio e' entrata in vigore la legge di cui oggi si tratta; durante la discussione orale, le parti hanno preso posizione in merito all'effettiva natura interpretativa o meno di tale norma nonche' in merito ai profili di eventuale incostituzionalita' della medesima: in particolare, parte ricorrente ha ritenuto che, qualora la norma fosse dichiarata interpretativa (e quindi con effetto retroattivo), vi sarebbero degli evidenti profili di illegittimita' costituzionale per contrasto con gli articoli 3, 24 e 117 (con riferimento alle pronunce della Corte di Giustizia dell'Unione europea intervenute in merito) della Costituzione; per quanto riguarda l'ultimo periodo, parte ricorrente ha manifestato chiaramente i propri dubbi sulla costituzionalita' di tale previsione che imporrebbe per via legislativa di estinguere immediatamente il processo in corso, impedendo quindi alla parte di ottenere una pronuncia nei merito, esistendo inoltre dei dubbi sul regime impugnatorio cui un tale provvedimento giudiziale dovrebbe essere sottoposto. In merito alla rilevanza La rilevanza della norma e' del tutto palese: infatti la novella legislativa e' senz'altro applicabile ai giudizi in corso e la controversia de quo dovrebbe essere necessariamente decisa (o meglio dovrebbe essere immediatamente estinta) sulla base dell'articolo 26, comma 3, legge 240/2010. Non vi e' infatti spazio per il giudice poiche' tale previsione, nella sua sinteticita' («sono estinti i giudizi in materia in corso alla data di entrata in vigore della presente legge»), e' chiarissima nell'imporre all'organo giudicante di pronunciare l'estinzione del processo: e' pacifico che, essendo la pronuncia di estinzione una definizione della causa in mero rito, quindi preliminarmente ad ogni esame nel merito, preclude alle parti la possibilita' di ottenere una sentenza definitiva. Senza dubbio, quindi, qualora non si decidesse di rimettere gli atti alla Corte costituzionale, lo scrivente dovrebbe necessariamente applicare tale norma di legge ed estinguere immediatamente il processo. In merito alla non manifesta infondatezza I plurimi rilievi in merito alla incostituzionalita' della norma contenuta nell'ultimo periodo dell'articolo 26, comma 3, legge 240/2010, appaiono non manifestamente infondati: tale disposizione che impone al giudice di estinguere immediatamente i processi in corso alla data di entrata in vigore della legge, appare essere in contrasto con diversi articoli della Costituzione italiana. Lo scrivente, peraltro, non ritiene possibile fornire un'interpretazione costituzionalmente orientata alla disposizione suddetta, la quale e' assolutamente stringente e, prevedendo un'ipotesi extra ordinem di estinzione del processo, impedisce ogni possibile ulteriore azione al giudice diversa dalla ordinanza dichiarativa, appunto, dell'estinzione. Le norme costituzionali che si possono ritenere violate dalla disposizione di legge indicata sono, in particolare: articolo 24: «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa e' diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». Il profilo di contrasto della norma di cui si chiede l'esame alla Consulta appare evidente: con l'applicazione della norma richiamata, la parte privata vedrebbe definire il procedimento dalla medesima iniziata per tutelare il proprio asserito diritto mediante una pronuncia di mero rito, che non prende in esame la fondatezza della propria pretesa ma che si limita a estinguere il processo. Le possibili conseguenze sarebbero quindi che o il soggetto privato desista dalla propria pretesa; oppure depositi un nuovo ricorso giudiziale, con evidente compressione del suo diritto ad ottenere una pronuncia in tempi ragionevoli, in quanto egli dovrebbe iniziare l'iter giudiziario dal principio; oppure impugnare la pronuncia di estinzione (e non e' chiaro neppure sotto quale profilo, perche' la norma non lascia discrezionalita' al giudice), decisione che, nella migliore delle ipotesi (cioe' che il giudice di grado superiore ritenga errato tale provvedimento), porta nuovamente e inevitabilmente ad un ulteriore prolungamento dei tempi di giudizio. Pertanto il contrasto di tale norma con l'articolo 24 della Costituzione non appare manifestamente infondato, perche' gli esiti dell'applicazione di tale norma sarebbero o la negazione al cittadino (mediante una pronuncia che definisce il processo senza esaminare la pretesa sostanziale) della possibilita' di tutela del proprio diritto in via giudiziale oppure, nella migliore delle ipotesi, una dilatazione notevole dei tempi per poter arrivare ad un esame e ad una pronuncia di merito. Qualunque soluzione consegua all'applicazione della norma di cui si chiede l'esame, si riflette in una lesione del diritto di difesa che l'art. 24 Cost. definisce, al contrario, «inviolabile». articolo 111: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». I profili di contrasto della disposizione di cui si tratta con tale principio costituzionale sono due: la violazione del «giusto processo» per disparita' delle parti e il prolungamento irragionevole della durata del processo. Sotto il primo profilo, si deve sottolineare come una delle parti in causa sia pubblica: che lo Stato decida di intervenire, con una sua legge, definendo (o meglio chiudendo) in via autoritativa mediante l'estinzione i procedimenti giudiziari nei quali le Universita' sono coinvolte, appare una chiara manifestazione della violazione del principio di parita' delle parti, poiche' una delle due utilizza un mezzo inaccessibile all'altra parte, posteriore all'inizio del procedimento nonche' isolato nel nostro sistema giuridico, per ottenere l'assoluzione dalle pretese avanzate nel giudizio. Sotto il secondo profilo, si e' gia' sottolineato che, sia che il ricorrente decida di presentare un nuovo ricorso, sia che decida di impugnare il provvedimento che dichiara l'estinzione del giudizio, vi e' un'evidente e inevitabile prolungamento dei tempi processuali, senza che vi sia alcuna ragione effettiva a giustificarlo. Appare quindi che, con la presente disposizione, la legge intervenga non per assicurare la ragionevole durata del processo ma in senso del tutto contrario a questo principio costituzionale. articolo 117: «La potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» in relazione all'articolo 6 della Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo: «1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale decidera' sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta (...)». Le critiche sollevate nei confronti della norma di cui si chiede l'esame, in base al combinato disposto di tali due articoli, sono sostanzialmente analoghe a quanto riportato al punto precedente: infatti l'articolo 6 della CEDU contiene sia il principio di parita' delle parti nel processo, sia della ragionevole durata del medesimo. Inoltre la Corte europea dei Diritti dell'Uomo ha ormai stabilito, con un orientamento che appare consolidato, che l'ingerirsi dello Stato, qualora sia parte del processo ed il medesimo sia gia' instaurato (come nel caso di specie), mediante provvedimenti legislativi o regolamentari che mirino a tutelare la parte pubblica introducendo una disparita' di condizioni con quella privata, viola tale articolo della Convenzione (cfr. ex multis CEDU 10 giugno 2008 Grande Camera, Bortesi e altri contro Italia: «La Corte ha stabilito che, se in linea di principio non e' vietato al potere legislativo regolamentare la materia civile con nuove disposizioni aventi effetto retroattivo, i diritti derivanti dalle leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo di cui all'articolo 6 della Convenzione si oppongono, salvo ragioni imperiose di interesse generale, all'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la conclusione giudiziaria della controversia»). articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignita' sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». La disposizione esaminata presenta profili di contrasto, di cui si ritiene la non manifesta infondatezza, anche con tale articolo della Costituzione sia sotto il profilo della uguaglianza dei cittadini sia sotto profilo della ragionevolezza della legge. Dal primo punto di vista, infatti, non si puo' che rilevare che la norma di cui si chiede l'esame alla Corte preveda l'effetto estintivo dei processi solo per le cause in corso alla data di entrate in vigore della legge. Non appaiono quindi manifestamente infondati i rilievi che si possono muovere in merito alla disparita' di trattamento riservata ai soggetti che hanno iniziato una controversia relativa al trattamento economico dei collaboratori esperti linguistici in base al mero dato temporale della definizione del processo prima o dopo l'entrata in vigore di tale legge; i primi avranno potuto ottenere una sentenza di merito che dichiarasse fondata o infondata la propria pretesa, mentre i secondi necessariamente vedrebbero estinto il processo. Si noti, oltretutto, che tale effetto estintivo non si verifica nei confronti di coloro che abbiano promosso una controversia successivamente alla data di entrata in vigore di tale legge. E' quindi evidente che, estinguendo solo i giudizi in corso, la disposizione introduce una disparita' di trattamento tra i cittadini che non appare giustificata da alcuna ragione comprensibile, perche' si basa su un mero dato temporale (la pendenza del processo) sul quale oltretutto i privati non possono influire piu' di tanto, in quanto dipende sia dalla celerita' o meno della trattazione della causa, sia da un dato totalmente casuale e cioe' il momento del deposito dell'atto introduttivo. Dal secondo punto di vista, non e' chiaro a quale esigenza di tutela risponda la norma che impone di estinguere i processi in corso, ne' quale correlazione vi sia tra la pronuncia di estinzione e la volonta' del legislatore di fornire un'interpretazione autentica dell'articolo 1, comma 1, decreto-legge n. 2/2004, convertito dalla legge n. 63/2004. E' infatti del tutto pacifico che l'estinzione e' un istituto processuale che ha precise finalita' e fondamentalmente mira a una definizione in rito a seguito dell'inerzia, del disinteresse o del mancato adempimento delle parti rispetto a un ordine del giudice: tale istituto e' sostanzialmente una sanzione processuale che risponde all'interesse generale di non portare avanti procedimenti ove gli attori abbiano manifestato, in maniera espressa (ad esempio con la rinuncia) o in maniera implicita (con la loro inerzia), di non voler proseguire nella controversia: l'utilizzo di tale istituto ope legis, per paralizzare le azioni in corso, e' sicuramente singolare e non trova analogie nel nostro ordinamento giuridico: E' evidente che il legislatore, intervenendo con la legge n. 240/2010, abbia voluto intervenire in una controversia ormai dilagante: che tale intervento si sia poi tradotto in una norma di interpretazione autentica o in una disposizione nuova, e compito dell'interprete definirlo; l'imposizione al giudice di estinguere il processo che riguarda la materia in oggetto, e' pero' una previsione che appare ultronea rispetto allo scopo della legge quale reso manifesto dall'incipit del comma 3, articolo 26 («l'articolo 1, comma 1, del decreto-legge 14 gennaio 2004, numero 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2004, n. 63, si interpreta nel senso che [...]»). Per quanto finora esposto, le critiche in merito all'incostituzionalita' della norma non appaiono manifestamente infondate e quindi e' necessario che la questione sia rimessa alla Corte costituzionale.
P.Q.M. Visto l'art. 23, legge n. 53/1987; Accertata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata, sospende il giudizio e rimette gli atti alla Corte costituzionale affinche' la stessa si pronunci, adottando i provvedimenti di competenza, in merito alla costituzionalita' dell'ultimo periodo dell'art. 26, comma 3, legge 30 dicembre 2010 n. 240 per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117 della Costituzione (quest'ultimo con riferimento all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo); Manda alla cancelleria di notificare il presente provvedimento alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri nonche' di comunicarlo ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Torino, addi' 21 aprile 2011 Il Giudice: Mollo