N. 186 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 maggio 2011

Ordinanza del 3 maggio 2011 del Tribunale di Venezia nel procedimento
penale a carico di Costa Paolo ed altri.. 
 
Reati e  pene  -  Sequestro  di  persona  a  scopo  di  estorsione  -
  Trattamento sanzionatorio - Pena  minima  di  venticinque  anni  di
  reclusione - Mancata previsione, in  relazione  a  fatti  di  lieve
  entita', di una circostanza attenuante speciale, analoga  a  quella
  prevista dall'art. 311 cod. pen. per il  delitto  di  sequestro  di
  persona a scopo di terrorismo o di  eversione  (art.  289-bis  cod.
  pen.)  -  Violazione   dei   principi   di   ragionevolezza   nella
  determinazione della pena, della finalita' rieducativa della pena e
  della responsabilita' penale personale. 
- Codice penale, art. 630, primo comma. 
- Costituzione, artt. 3, primo comma, e 27, commi primo e terzo. 
(GU n.39 del 14-9-2011 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Premesso che il 16. 9. 2010 il Gip del Tribunale  di  Venezia  ha
emesso decreto di giudizio immediato nei confronti  di  Costa  Paolo,
Hadir Jamal e Idridssi Aattouf,  con  imputazione  di  "sequestro  di
persona a scopo di estorsione" (art. 630 comma e che in  relazione  a
tale accusa, gli interessati,  sottoposti  a  custodia  cautelare  in
carcere, hanno chiesto e ottenuto che la le')ro posizione processuale
fosse definita nelle forme del giudizio abbreviato; 
    Dato atto che la discussione si e'  svolta  all'udienza  di  data
8.4.2011 e che nel prendere le loro  conclusioni  i  difensori  hanno
posto questione di legittimita' costituzionale dell'art. 630 c.p.; 
    Rilevato che ad ore 15,30 del  17  giugno  2010  l'offeso  Chigri
Monir e' stato indotto con un pretesto a recarsi a casa  di  Idridssi
Aattouf, sita ad Albignasego di Padova, dove, privato della  liberta'
personale, e'  stato  trattenuto  con  la  forza  e  manomesso,  fino
all'intervento degli inquirenti, riusciti a liberarlo ad ore 19.50 di
quello stesso 17 giugno 2010; 
    Rilevato che tale iniziativa delittuosa e' stata posta in  essere
dagli imputati allo scopo di sostenere l'ingiunzione volta a ottenere
la restituzione del denaro  consegnato  immediatamente  prima  a  uno
spacciatore, dileguatosi senza corrispondere  loro  la  fornitura  di
hashish attesa, nonostante il fatto che, avendo gestito la mediazione
nella illecita transazione, l'offeso Chigri Monir fosse  rimasto  con
gli acquirenti a fare da "garante" del comune "dante causa"; 
    Rilevato che per questo motivo, indotto con un pretesto a recarsi
a casa di uno degli imputati,  privato  della  liberta'  personale  e
percosso, l'offeso Chigri Monir e' stato costretto a contattare  suoi
parenti  (taluno  dei  quali  al  corrente  dei  pregressi   rapporti
illeciti),  tramite  telefono  -  per  buona   sorte   sottoposto   a
intercettazione - al fine di ingiungere loro  di  reperire  la  somma
pretesa  dagli  imputati,  con   minaccia   d'essere   trattenuto   e
ulteriormente manomesso, qualora l'ingiusta  pretesa  creditoria  non
fosse stata soddisfatta. 
 
                        Osserva quanto segue 
 
    Ad avviso del giudice rimettente, il fatto ascritto agli imputati
deve essere detto conforme al tipo del "sequestro di persona a  scopo
di estorsione" 630/comma  1  c.p.),  punito,  nella  forma-base,  con
edittale minima di venticinque anni di reclusione. 
    Al  riguardo,  il  rimettente   Osserva   essere   vincolante   e
insuscettibile d'essere  disattesa  l'interpretazione  accolta  dalle
Sezioni unite della Corte di cassazione con sentenza n. 962 del  2004
(Rv. 226489), in forza della quale, ai  fini  della  configurabilita'
del delitto di cui all'art. 630 c.p.,  il  requisito  di  fattispecie
costituito  dalla  "ingiustizia"  del  profitto  (oggetto   di   dolo
specifico) deve essere apprezzato utilizzando  canoni  legali,  senza
che possa assumere rilevanza la  peculiare  prospettiva  dell'agente.
Con la conseguenza che "sequestro di persona a scopo  di  estorsione"
sussiste, anche quando l'agente intenda perseguire il  risultato  del
pagamento di un debito che derivi da preesistenti  rapporti  illeciti
con la vittima (quale quello scaturente dalla  mancata  consegna,  da
parte della stessa, di una fornitura di droga, a fronte del pagamento
del prezzo pattuito), appunto trattandosi di pretesa  sostenuta  "non
iure" e "contra ius". 
    Invero, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno da tempo
chiarito che la condotta  criminosa  che  consiste  nella  privazione
della liberta' di una persona, teleologicamente atta a conseguire una
prestazione patrimoniale, pretesa  in  esecuzione  di  un  precedente
rapporto illecito, integra il reato di cui all'art. 630  c.p.  e  non
del mero concorso dei delitti di sequestro di persona (605 c.p.) e di
estorsione tentata (629 e 56 c.p.). Della suddetta  pronuncia  devono
essere  condivise  le  argomentazioni  secondo  cui,  quand'anche  la
privazione della liberta' dell'offeso (pure di breve durata)  risulti
essere atta a  conseguire  una  prestazione  patrimoniale  che  abbia
ragion d'essere in preesistenti rapporti illeciti "il  prezzo  e'  la
controprestazione  che  viene  imposta  quale   corrispettivo   della
liberazione  della  persona",  prezzo  e  liberazione  costituendo  i
termini del sinallagma descritto dall'art. 630 c.p. 
    Concludendo: se la pretesa dell'agente ha titolo  in  un  negozio
avente causa illecita, o, come nel concreto accade, in una frode  "in
re illicita", il  profitto  perseguito  e'  "ingiusto".  Sicche',  la
condotta  dell'agente  non  puo'  essere   scissa   negli   originari
"formanti" del delitto complesso, e, cioe', in "sequestro di persona"
(605 c.p.) ed "estorsione" tentata (629 e 56 c.p.). 
    Puo' essere affermato che, sulla questione, si e'  venuto  oramai
formando "diritto vivente": il binomio "ingiusto  profitto  -  prezzo
della liberazione" non  esclude  affatto  che  il  suo  perseguimento
tragga movente da preesistenti rapporti illeciti,  giacche'  it  dato
normativo  si  limita  a  collegare  la   condotta   estorsiva   alla
prospettiva della liberazione del sequestrato. L'agente, infatti, non
ha  una  pretesa  tutelabile  dalla  legge  da  far  valere;  sicche'
l'utilita' non dovuta, che persegue, null'altro rappresenta se non il
corrispettivo della liberazione dell'ostaggio. 
    In questo senso, dopo Sezioni Unite n. 962 del 2004: 
        1. sez. l, sentenza n. 17728, Cc.1 aprile 2010, Rv. 247071, 
        2. sez. 1,  sentenza  n.  16177,  Cc.11  febbraio  2010,  Rv.
247230, 
        3. ed ancora, sez. 5, sentenza n. 12762, Cc.22 marzo 2006 Rv.
234553 . 
    Orbene: non v'e' dubbio  che  l'intervento  chiarificatore  delle
Sezioni unite della Corte di cassazione con sentenza n. 962 del 2004,
"estenda" l'ambito di operativita' della fattispecie allo  studio  in
termini imprevedibili e non previsti all'epoca dell'ultimo intervento
normativo realizzato sull'edittale minima di cui si  e'  detto  (anno
1980). 
    Come  noto,  il  testo  dell'art.630  c.p.  ha  subito   notevoli
modifiche nel corso del tempo: 
        prima, con l'art. 4 della legge 14 ottobre 1974, n. 497; 
        a seguire, con l'art.  2  del  D.L.  21  marzo  1978  n.  59,
convertito in legge n. 191/1978; 
        da ultimo, con legge 30 dicembre 1980, n. 894. 
    Senza volere indugiare, in una sede come  questa,  sulle  ragioni
(note)  che  nel  volgere  di  pochi  anni  andarono  orientando   la
discrezionalita' legislativa ad elevare  l'edittale  minima  prevista
per la  fattispecie  in  questione  dalla  soglia  di  otto  anni  di
reclusione a quella di venticinque anni di reclusione (1) , sia  dato
sommessamente considerare che, in allora,  non  era  prevedibile  che
l'ambito di operativita' dell'art. 630 c.p. potesse subire,  come  in
effetti  ha  subito,  in  via  interpretativa,  tanto   considerevole
estensione. Ed invero, fino alla citata pronuncia delle Sezioni unite
n. 962 del 2004, la giurisprudenza di legittimita' era  costantemente
orientata nel senso che il delitto di "sequestro di persona  a  scopo
di estorsione" non fosse configurabile qualora privazione di liberta'
e  perseguimento  del   profitto   fossero   riconducibili   ad   una
preesistente causa illecita. In tal senso: 
        (1) Sezione II, sent. n. 9189 del 1.7.1993, Rv.195539; 
        (2) Sezione I, sentenza n. 12992 del 12.11.2002, Rv.224080; 
        (3) Sezione II, sentenza n. 45906 del 22.10.2001, Rv. 220500; 
        (4) Sezione I, sentenza n. 428 del 5.12.2001, Rv. 220491; 
        (5) Sezione V, sentenza n. 9617 del 22.6.2000, Rv.216643; 
        (6) Sezione II, sentenza n. 12394 del 10.8.2000, Rv. 217917; 
        (7) ed ancora, Sezione VI, sentenza n. 321 del 20.1.2000, Rv.
215646. 
    Rimane fermo che il fatto di reato sub iudice e'  di  significato
obiettivamente meno grave e  complesso  di  quelli  riconducibili  ai
limiti  inferiori  della  classe  di  gravita'  pensabile  per  fatti
conformi al tipo-630 comma 1 c.p., specie se valutato in relazione al
paradigma di "sequestro di persona a scopo  di  estorsione"  che,  in
epoche  meno  recenti,  e'  andato  orientando  la   discrezionalita'
legislativa nel senso dell'incremento del  minimo  edittale  previsto
per tale delitto, dal precedente quantum di otto anni  di  reclusione
all'attuale quantum di venticinque anni di reclusione. 
    Si consideri, in punto di "rilevanza",  che,  ancorche'  l'offeso
Chigri Monir risulti essere stato costretto per  quattro  ore  presso
l'abitazione dell'avente causa" Nadir Jamal (indotto a  delinquere  a
causa della frode patita "in re illicita"), il sequestro di persona a
scopo di estorsione, oggetto del giudizio  "a  quo",  risulta  essere
frutto di una iniziativa estemporanea, d'occasione, realizzata  senza
predisposizione di mezzi, senza uso delle armi, senza premeditazione,
essendo gli  agenti  perfettamente  conosciuti  dalla  vittima,  alla
stessa stregua di taluno dei destinatari  dell'ingiusta  pretesa,  in
ragione della mediazione svolta per conto degli imputati in affari di
droga : la' dove la diminuzione della liberta' personale  dell'offeso
ha avuto comunque modo di protrarsi per un tempo limitatissimo  e  di
cagionare danno di non rilevante significato. 
    Giusta le premesse cui si e' fatto cenno,  sussistendo  relazione
stretta tra la disposizione di legge penale della cui legittimita' si
dubita  e   la   "regiudicanda",   riconosciuto   il   carattere   di
pregiudizialita' della questione posta  rispetto  alla  decisione  da
rendere "in vivo",  e,  certo,  considerata  l'eccessiva  "rigidita'"
della risposta sanzionatoria prefigurata dalla norma  incriminatrice,
di  vincolante  applicazione,  il  giudice  rimettente  Ritiene   non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 630 comma 1 c.p., per violazione dell'art. 3 primo comma  e
dell'art. 27, primo e terzo comma, Costituzione. 
 
                  Per le ragioni appresso indicate 
 
 
                                [§.1] 
 
    La  norma,  della  cui  legittimita'  costituzionale  si  dubita,
punisce con una sanzione di severita' straordinaria, tutta  compressa
verso l'alto, essendo il  minimo  edittale  di  venticinque  anni  di
reclusione prossimo al massimo di trenta (quasi  una  pena  "fissa"),
condotte delittuose che, per quanto  conformi  al  tipo  considerato,
sovente risultano essere assai  meno  gravi  di  altre,  per  durata,
modalita' d'azione  Osservate  ed  entita'  dell'offesa  recata  alla
vittima. 
    L'eccessiva rigidita' della  risposta  sanzionatoria  prefigurata
dall'art. 630  comma  1  c.p.,  [anche  tenuto  conto  della  mancata
previsione in relazione alla fattispecie in  esame  di  un'attenuante
speciale di carattere oggettivo, "analoga" nella  struttura  e  negli
effetti a quella prevista dall'art. 311 c.p., applicabile all'omologo
delitto di cui' all'art. 289-bis c.p., (veggasi infra §.2)], viola, a
sommesso avviso del  rimettente,  il  limite  della  "ragionevolezza"
imposto al legislatore nella determinazione della  pena,  il  lignite
della "finalita' rieducativa" che  una  sanzione  sproporzionata  non
persegue, e quello  della  "natura  personale  della  responsabilita'
penale", che esige una qualche forma di "comprensione equitativa" dei
fatti legalmente denotati,  tramite  il  necessario  adeguamento  del
trattamento sanzionatorio al grado di colpevolezza dell'agente  reale
e al suo personale bisogno di rieducazione. 
    In  verita',  il  "bisogno   di   differenza"   nel   trattamento
sanzionatorio da riservare a fatti meno gravi, sia  pure  sussumibili
alla  fattispecie  considerata,  diventa  insopprimibile  "in  vivo",
specie ove si abbia a  mente  che  dopo  l'intervento  chiarificatore
delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza  n.  962  del
2004, cit.), l'ambito di operativita'  dell'art.  630  comma  1  c.p.
risulta  avere  subito   una   straordinaria   estensione,   in   via
interpretativa (2)  ,  tale  delitto  essendo  configurabile,  giusta
costante giurisprudenza, anche se, volta al perseguimento di ingiusto
profitto, la privazione della liberta' personale della vittima  abbia
a protrarsi per un tempo limitatissimo, sia connotata da modalita' di
azione di minore  offensivita'  e  cagioni  danno  di  non  rilevante
significato. 
    In realta', alla eccessiva rigidita' della risposta sanzionatoria
prefigurata dall'art.630 primo comma c.p. risulta essere  soggiacente
un modello semplificante  di  trattamento  punitivo;  e,  certo,  una
concezione extravalutativa della  cognizione  giudiziaria,  che,  nel
mortificare l'insopprimibile "bisogno di differenza"  di  cui  si  e'
detto e si dira', oblitera il senso stesso della  distinzione  tra  "
legis-latio" e " iuris-dictio". 
    Occorre invero significare che, presa cognizione di un  fatto  di
reato tassativamente "denotato" dalla legge come tale, asseverato  in
base a prove l'enunciato che predica della sua realizzazione da parte
dell'imputato, il  giudice  non  puo'  non  guardare  ai  fini  della
decisione da rendere "in vivo"  alla  specifica  gravita'  del  fatto
medesimo, al contesto ambientale in cui si e'  verificato,  alle  sue
cause oggettive, alle reali motivazioni e al reale grado colpevolezza
dell'agente; e, percio', alle circostanze  specifiche  che  realmente
connotano l'agire  colpevole.  La  legge  non  potrebbe  selezionare,
infatti, per limite  intrinseco  alla  sua  forma,  i  connotati  che
accrescono o attenuano la gravita' dei fatti da  essa  tassativamente
denotati : dei fatti conformi al tipo, la norma potra' orientare  (ed
e' certo auspicabile che cio' sia) i criteri di valutazione;  ma  non
sopprimere la necessita' di  apprezzamento,  da  parte  del  giudice,
delle  caratteristiche  peculiari  a  quel  fatto,   tramite   revoca
sostanziale della discrezionalita' nella commisurazione della pena. 
    Sennonche' nella specie accade che, a causa della  previsione  di
un'edittale minima di  inusitata  severita',  tutta  compressa  verso
l'alto e prossima all'edittale massima,  (quasi  una  pena  "fissa"),
dovere  di  accertamento  di   "legalita'   penale"   e   dovere   di
"comprensione equitativa" dei fatti  legalmente  denotati,  finiscono
per essere irragionevolmente contrapposti. 
    Come  noto,  sempre  il  giudizio  di  legalita'  penale  implica
accertamento dei requisiti di fattispecie, essenziali e  comuni,  che
permettono al giudice di stabilire  che  quel  fatto  (singolare)  e'
conforme al tipo di quelli qualificati dalla legge come reato. Ma  e'
ragionevole precludere, prefigurando una  risposta  sanzionatoria  in
termini  tanto  rigidi,  la  stessa  possibilita'  di   "comprensione
equitativa", da parte del giudice, delle caratteristiche  accidentali
e  singolari  del  caso  concreto?  Ed   ancora:   la   "comprensione
equitativa"  delle  caratteristiche  accidentali  e   singolari   che
diversamente  connotano  fatto  e  fatto  recante  lo  stesso   nome,
ancorche'  estranea  alla  questione  della  attendibilita'  e  della
certezza da cui dipende la legalita' del giudizio, forma o non  forma
un aspetto essenziale e  ineludibile  della  cognizione  giudiziaria?
Invero, la giurisdizione non e' solo interpretazione  della  norma  e
prova, con gli inevitabili margini di opinabilita' della prima  e  di
probabilita'  della   seconda.   Essa   e'   altresi'   "comprensione
equitativa" del fatto-oggetto di accertamento : il giudice che prenda
cognizione di fatti relativi alla commissione di un  reato,  denotati
dalla legge in maniera tassativa, non procede  in  termini  puramente
sussuntivi . Non si limita a verificare se  la  fattispecie  concreta
corrisponda o meno al tipo astratto delineato dalla norma. La  norma,
certo,  potra'  e  dovra'  tendere   a   garantire   tassativita'   e
determinatezza nella denotazione fattuale,  che,  tuttavia,  data  la
necessaria astrattezza dei formanti linguistici che la costituiscono,
non potra' mai dirsi perfetta. Il giudice, dovra', allora,  ponderare
i connotati singolari del caso. Dovra' valutare le peculiarita' e  le
circostanze specifiche  che  lo  caratterizzano:  e  trarre  da  tale
"comprensione  equitativa"  le  necessarie  conseguenze  in  sede  di
commisurazione della pena da irrogare "in vivo". 
    Sennonche', il remittente Ritiene che fa necessita' di  garantire
al giudice margini di "discrezionalita'"  di  reale  significato,  in
sede   di    decisione    sul    trattamento    sanzionatorio,    sia
costituzionalmente necessaria. 
    Non e' ragionevole revocare, attraverso la prefigurazione di  una
risposta sanzionatoria tanto "rigida",  quale  quella  in  esame,  il
beneficio della distinzione tra fatto e fatto recante lo stesso nome.
Non  e'   ragionevole   sopprimere,   cioe',   la   possibilita'   di
accertamento, nel grado, della reale colpevolezza dell'agente. Non e'
ragionevole eludere l'insopprimibile "bisogno  di  differenza"  nella
determinazione  della  pena  da   irrogare   "in   vivo",   come   se
all'accertamento  di  "legalita'   penale"   e   alla   "comprensione
equitativa" del fatto legalmente denotato fossero soggiacenti modelli
di giudizio alternativi l'uno rispetto  all'altro:  l'una  e  l'altra
funzione costituendo, diversamente, aspetti  non  dissociabili  della
giurisdizione, anche e  soprattutto  nel  momento  di  esercizio  del
potere di commisurazione della  pena  da  irrogare  in  concreto.  In
verita', all'inderogabile necessita' di  distinguere  fatto  e  fatto
recante  lo  stesso  nome,  si'  associa,  sul  piano  della   stessa
epistemologia  del   giudizio,   la   necessita'   di   "comprensione
equitativa" del fatto legalmente denotato: e, percio', la  necessita'
di apprezzamento, nel grado, della  colpevolezza  dell'agente  reale.
La' dove e' iniquo parificare, in  forma  di  risposta  sanzionatoria
irrazionalmente rigida, situazioni "eguali"  quanto  a  requisiti  di
fattispecie, e tuttavia assai "diverse" quanto a specifici  connotati
di fatto, singolari e irripetibili. 
    Concludendo: anche tenuto conto della mancata previsione  di  una
attenuante che assuma la rilevanza della natura,  della  specie,  dei
mezzi, delle modalita' di azione, ovvero, della particolare  tenuita'
del danno o del pericolo cagionato (veggasi  infra  §.2),  il  minimo
edittale di venticinque anni di  reclusione  previsto  dall'art.  630
c.p., irragionevolmente compresso sul massimo di  trenta  (quasi  una
pena "fissa"), non e' in armonia con il  "volto  costituzionale"  del
sistema penale. 
    Soprattutto, non  risulta  essere  ragionevolmente  proporzionato
all'intera gamma di comportamenti  riconducibili  al  tipo  di  reato
descritto,  specialmente  dopo  l'intervento   chiarificatore   delle
Sezioni unite della Corte di  cassazione  con  sentenza  n.  962/2004
cit., in seguito al quale (gia' si e' detto) l'ambito di operativita'
della  fattispecie  subisce  una  straordinaria  estensione,  in  via
interpretativa, il delitto "de quo" essendo configurabile anche se la
diminuzione della liberta' personale abbia a protrarsi per  un  tempo
limitatissimo,  sia  connotata  da  modalita'  di  azione  di  minore
offensivita' e cagioni danno di non rilevante significato. 
    E'  dato  percio'  ritenere  che  l'eccessiva  "rigidita'"  della
risposta sanzionatoria prefigurata  dalla  norma  incriminatrice,  di
vincolante applicazione nel giudizio "a  quo",  realizzi  in  se'  un
"eccesso di mezzi" rispetto al  "fine"  di  prevenzione,  generale  e
speciale, di nuovi delitti; e, percio', un inaccettabile "surplus  di
afflizione"  rispetto  a  quella  costituzionalmente  necessaria;  un
sacrificio non indispensabile  in  relazione  a  fatti  connotati  da
"lieve  entita'"  (infra  §.2);   e,   percio',   non   razionalmente
compatibile con il  limite  di  "ragionevolezza",  con  quello  della
necessaria "finalita' rieducativa della  pena"  e  con  quello  della
"natura personale della responsabilita' penale". 
    Si osserva, a margine, che la stessa Corte Costituzionale,  posta
dinanzi al problema della relazione tra "finalita' rieducativa  della
pena" e funzione di "prevenzione generale" ha  evitato  di  stabilire
gerarchie univoche, ponendo che "tra le finalita' che la Costituzione
assegna alla pena non puo' stabilirsi. a priori una gerarchia statica
e assoluta che valga una volta per tutte e in  ogni  condizione",  il
legislatore potendo fare  prevalere,  di  volta  in  volta,  l'una  o
l'altra  delle  finalita'  della  pena  coerenti   con   il   sistema
costituzionale, "nei limiti della  ragionevolezza"  e  "a  patto  che
nessuna di esse risulti obliterata" (sentenza n. 306/1993). Se  cosi'
fosse, nessuno spazio dovrebbe essere concesso, al di la' dei  limiti
costituiti dall'art. 3, primo comma, e dall'art. 27,  primo  e  terzo
comma, Costituzione,  a  intenti  di  "esemplarita'  punitiva"  nella
prefigurazione  della   cornice   edittale   di   riferimento,poiche'
situazioni che non possono  essere  razionalmente  equiparate  devono
essere trattate diversamente. In una bellissima sentenza del 1980, la
n. 50, la Corte costituzionale ha saputo porre in evidenza i principi
che impongono al legislatore di predeterminare la pena in  modo  tale
da    consentirne     la     necessaria     individualizzazione     :
"l'individualizzazione della pena - e' stato detto  -  si  pone  come
naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali,  tanto  di
ordine  generale  (principio  di   uguaglianza),   quanto   attinenti
direttamente la materia penale L'adeguamento delle risposte  punitive
ai casi concreti, in termini di eguaglianza e/o  di  differenziazione
di trattamento, contribuisce, da  un  lato,  a  rendere  quanto  piu'
possibile "personale" la responsabilita'  penale,  nella  prospettiva
segnata dall'art. 27, comma primo; nello stesso  tempo  e'  strumento
per una determinazione dellapena quanto  piu'  possibile'finalizzata"
nella prospettiva dell'art.27, comma terzo, Costituzione  [.]. 
    Se cosi' e', non suoni declamatorio il  richiamo  al  fatto  che,
dalla pronuncia della sentenza  n.  50  del  1980,  "eguaglianza"  di
fronte alla pena significa "proporzione"  rispetto  alle  "personali"
responsabilita' dell'agente  e  alle  esigenze  di  risposta  che  ne
conseguono : la' dove la  risposta  sanzionatoria  prefigurata  dalla
norma  della  cui  legittimita'  si   dubita   non   risulta   essere
"proporzionata" all'intera gamma dei comportamenti conformi  al  tipo
descritto (630 comma i c.p.), e, certo,  a  quelli  riconducibili  ai
limiti "inferiori" della classe di gravita'  pensabile  dopo  Sezioni
Unite n. 962 del 2004. 
    Ne deriva che,  qualora  la  risposta  sanzionatoria  prefigurata
dalla norma della cui legittimita' si dubita  non  trovasse  adeguata
ragione  giustificatrice  nel  corretto  bilanciamento   dei   valori
costituzionali coinvolti, essa stessa costituirebbe lesione dell'art.
3 Costituzione, sub specie di  "irragionevolezza",  a  causa  di  uso
"eccessivo" della discrezionalita' legislativa. Giacche' e' vero  che
la' dove uno o piu' valori coinvolti  dalla  norma  risultino  essere
sviliti, sara' la stessa discrezionalita' legislativa a  non  potersi
dire essere stata correttamente esercitata, perche' carente di alcuno
dei termini sui quali poteva e doveva fondarsi. 
 
                                [§.2] 
 
    Il rimettente intende essere precluso al giudice delle  leggi  un
"sindacato  di  merito"  sulle  scelte  sanzionatorie   operate   dal
legislatore.  Egli  comprende  che,  ordinariamente,  il   punto   di
equilibrio   tra   legalita'   delle    pene    e    necessita'    di
individualizzazione della sanzione risiede  nella  predeterminazione,
per ogni figura di reato, di una cornice edittale di riferimento. 
    Percio', quanto al "petitum", il giudice rimettente  non  auspica
un intervento "diretto" sul minimo edittale stabilito  dall'art.  630
primo comma c.p. 
    Egli ritiene, tuttavia, che la  norma  oggetto  di  scrutinio  si
ponga in contrasto con l'art. 3, primo comma, Costituzione, sotto  il
profilo della irragionevole disparita'  di  trattamento  riservata  a
fatti di "lieve entita'" conformi al tipo dell'art. 630  primo  comma
c.p., rispetto a fatti di "lieve entita'" conformi  al  tipo  di  cui
all'art. 289-bis c.p.  :  figura  criminosa,  questa,  comparabile  a
quella in esame, per oggettivita' giuridica, struttura, requisiti  di
fattispecie, risposta  sanzionatoria  prefigurata  per  l'ipotesi  di
base; e, certo, per l'elevato rango degli interessi tutelati. 
    La' dove l'art. 630 c.p. non prevede un'attenuante  speciale,  di
carattere oggettivo, idonea, cioe', a  soddisfare  quel  "bisogno  di
differenza" nella commisurazione della pena di cui si  e'  detto  nel
paragrafo che  precede  :  una  diminuente,  cioe',  "analoga"  nella
struttura e negli effetti  a  quella  nominata  dall'art.  311  c.p.,
prevista per  i  delitti  contro  la  personalita'  dello  Stato,  e,
percio', applicabile anche  al  "sequestro  di  persona  a  scopo  di
terrorismo o di eversione". Risultandone, di conseguenza,  vulnus  al
principio di eguaglianza. 
    Evocare  come  "tertium  comparationis"  la  fattispecie  di  cui
all'art. 289-bis c.p. non pare essere frutto di  una  interpretazione
"eccessiva", ove si consideri l'identita'  della  condotta  materiale
descritta da tale fattispecie rispetto a quella  descritta  dall'art.
630 c.p. (privazione della liberta' personale), identico  essendo  il
trattamento sanzionatorio stabilito per l'ipotesi di  base,  identico
essendo il trattamento sanzionatorio previsto per il  caso  di  morte
dell'ostaggio quale  conseguenza  non  voluta  dall'agente,  identico
essendo il trattamento sanzionatorio previsto in caso  di  morte  del
sequestrato quale conseguenza caduta nel "fuoco" del  dolo;  analoghe
nella struttura  e  nella  "ratio"  essendo  finanche  le  attenuanti
relative  al  caso  di  dissociazione  cui   segua   la   liberazione
dell'ostaggio (3) (4) . 
    Evocato come "tertium comparationis" il delitto di  cui  all'art.
289-bis c.p. in relazione alla diminuente prevista dall'art.311 c.p.,
e ritenuta lesiva del principio di eguaglianza la mancata  previsione
di una'analoga" attenuante speciale, di tipo oggettivo, in  relazione
all'art. 630 comma 1 c.p.,  il  giudice  remittente  Osserva  che  la
diversita' di disciplina cui  si  e'  fatto  cenno  non  puo'  essere
considerata ragionevole sulla  base  di  valutazioni  concernenti  la
diversa pregnanza del bene  giuridico  protetto  dall'art.  630  c.p.
rispetto a quello protetto dall'art. 289-bis c.p.: l'una  fattispecie
avendo riguardo a forme di  iniqua  mercificazione  della  persona  e
«certo, ove "lieve entita' del fatto" non sussista]  al  pericolo  di
trasferimento di risorse verso plessi criminali; l'altra a  forme  di
prevaricazione della persona altrettanto inique e alla rottura  delle
condizioni di sicurezza indispensabili alla  primaria  esplicitazione
della convivenza civile e dell'ordine democratico. 
    Sennonche' un intervento [in senso  lato,  "manipolativolo")  che
autorizzasse  l'interprete  a  ritenere  applicabile  al  delitto  di
"sequestro di persona a scopo di estorsione"  un'attenuante  speciale
di carattere oggettivo, "analoga" nella struttura e negli  effetti  a
quella  prevista  dall'art.  311  c.p.,  permetterebbe  di   superare
l'antinomia di cui si' e' detto. Un intervento  del  tipo  di  quello
auspicato potrebbe essere detto in linea  di  principio  ammissibile,
giacche' nell'attenuare  la  responsabilita'  penale,  la  diminuente
nominata  dall'art.311  c.p.  non  costituisce  espressione  di  "ius
singolare". Ne' la lacuna cui si e' accennato, relativa alla  mancata
previsione in relazione a fatti conformi  al  tipo-630  c.p.  di  una
diminuente "analoga" a quella di cui all'art. 311 c.p. (la'  dove  la
diminuzione della liberta' personale abbia a protrarsi per  un  tempo
limitatissimo, ove risulti essere connotata da minore offensivita'  e
ove cagioni pericolo di non  grave  significato)  puo'  essere  detta
"intenzionale" : esito, cioe', di una precisa scelta del legislatore,
risoltasi in una regolamentazione compiuta, e, per quel che in questa
sede interessa, chiusa  ad  ogni  sorta  di  integrazione  "in  bonam
partern (5) 
    Osserva a margine il giudice rimettente che, in  materia  penale,
un  intervento  del  tipo  di  quello  auspicato   [declaratoria   di
illegittimita' costituzionale della norma impugnata "nella  parte  in
cui" non prevede taluni elementi che comportano una  mitigazione  del
sistema delle sanzioni,] non costituirebbe un inammissibile  elemento
di  novita'  :  la  pronuncia  di  una  sentenza   che   autorizzasse
l'interprete a colmare  "in  bonam"  la  lacuna  descritta,  potrebbe
essere detta non diminutiva dello spazio costituzionalmente riservato
al legislatore. Del resto, sentenze manipolative "in bonam" non  sono
sconosciute alla tradizione, riducono l'impatto della declaratoria di
illegittimita'  costituzionale,  e,  in  via   di   principio,   sono
compatibili con la riserva di legge in materia di sanzione penale (25
comma 2 Costituzione). 
    Sotto altro profilo occorre considerare che, se  l'individuazione
del disvalore oggettivo dei fatti di reato tipici  e  nominati  -  e,
certo, la determinazione  del  loro  diverso  grado  di  offensivita'
spetta al legislatore in forza del principio  di  riserva  di  legge,
tale  principio  non  puo'  non   essere   coordinato   con   quello,
costituzionalmente rilevante, di necessaria individualizzazione della
pena. 
    Peraltro, nel garantire una  migliore  capacita'  di  adeguamento
della risposta sanzionatoria prefigurata dalla  norma  incriminatrice
all'intera gamma di comportamenti conformi  al  tipo  descritto  (630
comma 1 c.p.),  l'intervento  auspicato  potrebbe  essere  detto  non
dissonante, ed anzi, tutto coerente, con l'intervento  chiarificatore
operato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza
n. 962 del  2004,  di  cui  si  e'  detto  (e,  certo,  col  "diritto
vivente"). 
    E' necessario, per le ragioni sopra esposte, promuovere  giudizio
di legittimita'  costituzionale  dell'art.  630  comma  1  c.p.,  con
conseguente sospensione del  procedimento  e  immediata  trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale. 

(1) come   noto,   l'eccezionale   inasprimento    del    trattamento
    sanzionatorio del delitto in questione, attuato, da  ultimo,  con
    la legge 30 dicembre 1980, n. 894 (Modifiche all'articolo 630 del
    codice penale) rispose, a  fini  di  prevenzione  generale,  allo
    straordinario incremento, verificatosi negli anni 1970-1980,  dei
    sequestri di persona a scopo di estorsione  posti  in  essere  da
    plessi di criminalita' organizzata, qualificati da privazioni  di
    liberta' protrattesi, in taluni casi, per anni,  con  episodi  di
    efferata  crudelta',  in  vista  del  conseguimento  di  profitti
    ingenti 

(2) «estensione», gia' si e'  detto,  imprevedibile  e  non  prevista
    all'epoca dell'ultimo intervento sul testo della edittale  minima
    di cui si e' detto (operato con legge 30 dicembre 1980, n.  894);
    e,  certo,  estranea  alle  finalita'  di  prevenzione   generale
    correlate  allo  straordinario   incremento,   verificatosi   nel
    decennio I970-1980, di sequestri di persona a scopo di estorsione
    posti  in  essere  da   strutturate   organizzazioni   criminali,
    protrattisi, in taluni casi, per anni, con  episodi  di  efferata
    crudelta', in vista del conseguimento di profitti ingentissimi 

(3) diversa 

(4) essendo, come ovvio, la proiezione  teleologica  della  condotta,
    ovvero, lo «scopo» ad  essa  funzionale  (di  natura  lato  sensu
    «politica», anziche' «estorsiva»); e, certo,  il  bene  giuridico
    protetto 

(5) Meditatamente, il giudice remittente si  astiene  dal  denunciare
    come lesiva del principio di eguaglianza la  mancata  previsione,
    per i fatti di «lieve entita'»  conformi  al  tipo-630  c.p.,  di
    un'attenuante ad effetto speciale «analoga» a quella prevista dal
    terzo comma dell'ari 3 della legge n. 718 del  1985.  Per  quanto
    affine  al  sequestro  di  persona  a  scopo  di  estorsione,  la
    fattispecie di «sequestro di ostaggi», introdotta dalla legge  di
    ratifica della Convenzione internazionale aperta alla firma a New
    York il 18 dicembre 1979, costituisce figura «residuale» rispetto
    a quella oggetto di scrutinio in  questa  sede,  come  si  desume
    dalla espressa previsione  della  «clausola  di  salvezza»  delle
    ipotesi criminose di cui agli artt. 289-bis e 630 c.p. Invero, il
    delitto di «sequestro  di  ostaggi»  si  configura  la'  dove  la
    privazione della liberta' dell'offeso sia volta a finalita' altre
    da quelle nominate dagli artt.  289-bis  e  630  c.p.,  anche  in
    assenza di finalita' di «terrorismo  internazionale»,  mentre  il
    destinatario della pretesa non deve  necessariamente  essere  uno
    Stato,  un'organizzazione  internazionale  o  una  collettivita',
    potendo bene identificarsi in una  persona  giuridica  o  in  una
    persona fisica. Di qui, l'ipotesi interpretativa secondo  cui  la
    mancata previsione, per i fatti di «lieve  entita'»  conformi  al
    tipo-630 c.p. di un'attenuante  ad  effetto  speciale  analoga  a
    quella prevista dal terzo comma dell'art. 3 della  legge  n.  718
    del 1985, possa essere detta «intenzionale»: esito, cioe', di una
    precisa scelta del legislatore, risoltasi in una regolamentazione
    compiuta, e, per quel che in questa  sede  interessa,  chiusa  ad
    ogni sorta di integrazione «in bonam partem». 
 
                                P.Q.M. 
 
    Visto 1'art.1 Legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1  
    Visto l'art. 23 Legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87 
    Solleva questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  630
c.p., nella parte in cui non prevede, a  mitigare  la  rigidita'  del
trattamento sanzionatorio in relazione a  fatti  di  "lieve  entita'"
conformi al  tipo  descritto,  un'attenuante  speciale  di  carattere
oggettivo,  "analoga"  nella  struttura  e  negli  effetti  a  quella
prevista dall'art. 311 c.p., applicabile al delitto di "sequestro  di
persona a scopo di terrorismo o di eversione" di cui all'art. 289-bis
c.p.,  per  violazione  dell'art.  3,  primo  comma,  Costituzione  e
dell'art. 27, primo e terzo comma, Costituzione. 
    Sospende, per l'effetto, il giudizio in corso. 
    Dispone  trasmettersi  gli  atti  del  procedimento  alla   Corte
costituzionale. 
    Dispone altresi' che,  a  cura  della  Cancelleria,  la  presente
ordinanza sia immediatamente notificata: 
        alle parti private; 
        ai loro difensori; 
        al Pubblico ministero; 
        al Presidente del Consiglio dei Ministri; 
    con trasmissione delle  prove  dell'avvenuta  notificazione  alla
Corte costituzionale adita. 
    Dispone altresi' che la presente ordinanza sia comunicata, a cura
della Cancelleria, al Presidente del Senato  della  Repubblica  e  al
Presidente della Camera dei deputati. 
 
        Venezia, addi' 3 maggio 2011 
 
                         il giudice: Liguori