N. 3 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 luglio 2011

Ordinanza del 21 luglio 2011  emessa  dal  Tribunale  di  Torino  nel
procedimento di esecuzione nei confronti di D.M.. 
 
Processo penale - Esecuzione - Revoca della sentenza  per  abolizione
  del  reato  -  Mancata  previsione   dell'ipotesi   del   mutamento
  giurisprudenziale, intervenuto con decisione  delle  Sezioni  Unite
  della Corte di cassazione, in base al quale il fatto giudicato  non
  e' previsto dalla legge penale come reato -  Denunciata  violazione
  del principio di legalita' materiale, comprensivo  del  diritto  di
  produzione legislativa e quello di  derivazione  giurisprudenziale,
  enucleato  dalla  giurisprudenza  della   Corte   EDU   nell'ambito
  dell'art. 7 CEDU, con incidenza sui principi affermati negli  artt.
  5 e 6 CEDU - Contrasto con il  principio  di  retroattivita'  della
  normativa penale piu' favorevole - Disparita'  di  trattamento  tra
  imputati  -  Violazione  dei  principi  a  tutela  della   liberta'
  personale - Violazione del principio della  proporzionalita'  della
  pena. 
- Codice di procedura penale, art. 673. 
- Costituzione, artt. 3 (anche in relazione agli artt. 610, comma  2,
  e 618 cod. proc. pen., all'art. 72 disp. att.  cod.  proc.  pen.  e
  all'art. 65 del Regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12), 13, 25,  27,
  comma terzo, e 117, primo comma, in relazione agli artt. 5, 6  e  7
  della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
  liberta' fondamentali. 
(GU n.5 del 1-2-2012 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Visti gli atti del procedimento di esecuzione penale in atto  nei
confronti di D. M., nato in Mali, il 30 aprile 1985  (CUI  041  VIDC)
attualmente detenuto presso la Casa  Circondariale  di  Torino  vista
l'istanza  formulata  dal  pubblico  ministero   con   richiesta   di
provvedere in qualita' di Giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art.
673 c.p.p., alla revoca parziale della  sentenza  emessa  in  data  9
luglio 2010 dal Tribunale di Torino, irrevocabile  il  9  marzo  2011
(con conseguente rideterminazione della pena inflitta)  relativamente
al solo capo B (avente ad oggetto la condanna  dell'imputato  per  la
violazione dell'art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286/1998). 
    Ritenuto che la competenza spetti a questo giudice, quale giudice
dell'esecuzione  ai  sensi  dell'art.   665   cpp,   in   quanto   il
provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo; 
    Sentite le parti  all'udienza  del  27  giugno  2011,  che  hanno
concordemente richiesto l'accoglimento  del  ricorso  presentato  dal
pubblico ministero. 
 
                               Osserva 
 
    Il   Giudice   dell'esecuzione    dubita    della    legittimita'
costituzionale dell'art. 673 c.p.p. e, pertanto, si rende  necessaria
la sospensione del procedimento, onde investire  della  questione  la
Corte costituzionale. 
    1. - Il procedimento di cognizione. 
    Come si evince da quanto riportato in epigrafe, il sig.  D.M.  ha
concordato  ex  art.   444   c.p.p.   con   il   pubblico   ministero
l'applicazione della pena di mesi dieci di reclusione ed  euro  2.200
di multa in relazione a due ipotesi di  reato:  capo  A):  violazione
dell'art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990  (commesso  in  Torino,  in
data 11 giugno 2010); capo B) violazione dell'art. 6, comma 3, d.lgs.
n. 286/1998 (commesso in Torino, in data 11 giugno 2010). 
    Per completezza di informazione, va  detto  che  l'accordo  sulla
pena e' determinato come segue: 
        pena base per il capo A): anni l di reclusione ed euro  3.000
di multa; 
        aumentata per la continuazione interna al capo A) ad anni 1 e
mesi 2 di reclusione ed euro 3.200 di multa; 
        aumentata per la continuazione con il capo B)  ad  anni  1  e
mesi 3 di' reclusione ed euro 3.300 di multa; 
        ridotta per la scelta del rito: a mesi 10  di  reclusione  ed
euro 2.200 di multa. 
    Il Giudice della cognizione ha  quindi  ratificato  tale  accordo
sulla pena  (riconoscendo  il  vincolo  della  continuazione  tra  le
diverse ipotesi di reato in contestazione) emettendo la sentenza  del
9 luglio 2010. 
    All'udienza del 9 marzo 2011, la Settima Sezione della  Corte  di
Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso «perche'  non  sono
stati indicati i motivi  a  sostegno  dell'impugnazione,  se  non  la
generica lamentela della violazione dell'art. 606  lett.  c)  c.p.p.»
(C. Cass., Sez. settima, ord. 9 marzo 2011, n. 27296/2011, depositata
in data 12 luglio 2011). 
    2. - Il quadro normativo e giurisprudenziale. 
    Come noto, l'art.  6,  comma  3,  d.lgs.  n.  286/1998  e'  stato
novellato dalla legge 15 luglio 2009,  n.  94.  Il  testo  originario
prevedeva che «Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti
di pubblica sicurezza, non esibisce, senza  giustificato  motivo,  il
passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o
la carta di soggiorno e' punito con  l'arresto  fino  a  sei  mesi  e
l'ammenda fino a euro 413». 
    A seguito della modifica la norma incriminatrice ora prevede che: 
        «Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali  e  agenti  di
pubblica  sicurezza,  non  ottempera,  senza   giustificato   motivo,
all'ordine di esibizione del  passaporto  o  di  altro  documento  di
identificazione e del permesso di  soggiorno  o  di  altro  documento
attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato e'  punito
con l'arresto fino ad un anno e con l'ammenda fino ad euro 2.000». 
    Dopo l'entrata in vigore della novella,  e'  sorta  questione  in
merito  all'applicabilita'  di  tale  fattispecie  incriminatrice  ai
cittadini di Paesi terzi non  provvisti  di  permesso  di  soggiorno.
Alcune opinioni,  in  dottrina,  ritenevano  che  la  novella  avesse
comportato  una  parziale   abolitio   criminis   della   fattispecie
contestata al sig. D. che - secondo detta prospettiva  interpretativa
- doveva ritenersi indirizzata esclusivamente ai cittadini  di  Paesi
terzi  regolarmente  dimoranti  sul  territorio  nazionale   (essendo
previsto per gli stranieri irregolarmente dimoranti un diverso regime
di incriminazione). 
    Nelle sue prime  decisioni,  la  Corte  di  cassazione  ha  pero'
escluso che fosse intervenuta una  abolitio  criminis  parziale  (con
richiami alla precedente sentenza delle Sezioni Unite n. 45801 del 29
ottobre 2003, ric. Mesky, CED Rv.  226102).  Si  menzionano,  a  mero
titolo di esempio: 
        Cass. Pen. Sez. 3, Sentenza n. 1857 del 3 dicembre 2010, ric.
Ben Ali, Ced Rv. 249310.  La  fattispecie  criminosa  di  ingresso  e
soggiorno  illegale  dello  straniero  nel  territorio  dello  Stato,
introdotta dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, non  ha  abrogato,  ne'
esplicitamente ne' implicitamente, il  reato  di  omessa  esibizione,
senza giustificato motivo,  dei  documenti  identificativi,  previsto
dall'art. 6, comma terzo, d.lgs. n. 286 del 1998. (In motivazione  la
Corte ha  ulteriormente  precisato  che  le  due  fattispecie  penali
possono concorrere tra loro). 
        Cass. Pen. Sez. 1, Sentenza n. 44157 del 23  settembre  2009,
ric. PG in proc. Calmus, Ced Rv. 245555. E' esigibile  nei  confronti
dello  straniero,  che  pure  abbia  fatto  ingresso  irregolare  nel
territorio dello Stato, salvo che  ricorra  un  giustificato  motivo,
l'obbligo di  esibizione  dei  documenti  di  identificazione  o  dei
documenti di soggiorno e cio' pur dopo la novella della  disposizione
incriminatrice ad opera dell'art. 1, comma 22 lett. b), legge  n.  94
del 2009. 
    Sennonche' - a seguito di un dubbio sollevato dalla Prima sezione
Penale della S.C. - le Sezioni Unite  hanno  affermato  il  principio
esattamente  opposto,  determinando   un   significativo   revirement
giurisprudenziale. 
        Cass. Pen. Sez. U, Sentenza n. 16453 del  24  febbraio  2011,
ric. PM in proc. Alacev, Ced Rv. 249546. Il reato  di  inottemperanza
all'ordine di esibizione del  passaporto  o  di  altro  documento  di
identificazione e del permesso di soggiorno o dell'attestazione della
regolare  presenza  nel  territorio  dello  Stato  e'   configurabile
soltanto nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti  nel
territorio dello Stato, e non  anche  degli  stranieri  in  posizione
irregolare, a seguito della modifica dell'art. 6, comma terzo, d.lgs.
25 luglio 1998, n. 286, recata dall'art. l, comma ventiduesimo, lett.
h), legge 15 luglio 2009, n. 94,  che  ha  comportato  una  «abolitio
criminis», ai sensi dell'art. 2,  comma  secondo,  cod.  pen.,  della
preesistente fattispecie per la  parte  relativa  agli  stranieri  in
posizione irregolare. 
    Da segnalare che le Sezioni Unite -nel rendere  note  le  ragioni
del   revirement   -   hanno   sviluppato   un   complesso   apparato
argomentativo. La motivazione, da un lato, prende in esame le ragioni
dell'orientamento sostenuto dalle due decisioni  di  segno  contrario
sopra menzionate; dall'altro  lato,  affronta  una  puntuale  esegesi
della norma, diffondendosi  anzitutto  sulle  ragioni  «grammaticali»
(prima ancora che giuridiche)  che  giustificavano  il  principio  di
diritto appena riportato; ragioni  grammaticali  -  quali  il  valore
della congiunzione «e», in funzione disgiuntiva ovvero  copulativa  -
che sono state interpretate anche alla  luce  «dell'analisi  testuale
del dettato  normativo  nel  suo  sviluppo  diacronico  (rispetto  al
precedente testo) e  sincronico  (rispetto  alle  coppie  alternative
poste all'interno delle due categorie di documenti» menzionate  nella
norma incriminatrice. 
    Per rafforzare il proprio argomentare,  le  Sezioni  Unite  hanno
quindi richiamato un precedente (e per certi versi analogo) conflitto
interpretativo  insorto  sulla  corretta  interpretazione   da   dare
all'art. 357 c.p. a seguito della novella del 1990 (conflitto risolto
- anche in quel caso - dalle Sezioni Unite, con la sentenza  n.  7958
del 27 marzo 1992, ric. Delogu). 
    Per  completare  il  ragionamento  sviluppato   per   ricostruire
l'esatta  interpretazione  della  norma,  le  Sezioni  unite,   nella
sentenza  Alacev,  hanno  infine  fatto  ricorso  alla  ricostruzione
dell'intenzione del legislatore (richiamando  gli  Atti  parlamentari
-Senato della Repubblica - n. 733-A, pag. 7). 
    3. - L'incidente di esecuzione relativo al sig. D. 
    Il provvedimento con cui - in  data  9  marzo  2011  -  e'  stato
dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione del sig. D. non ha
potuto tenere conto della decisione delle Sezioni Unite, non  essendo
ancora state pubblicate le motivazioni della stessa. 
    Si badi: la Settima sezione -  nel  trattare  l'impugnazione  del
sig. D. - ben avrebbe potuto assolvere l'imputato, anche in  caso  di
ricorso inammissibile; il principio - gia' affermato piu' volte dalla
giurisprudenza - e' stato  recentemente  ribadito  dalla  S.C.  nella
sentenza Cass. pen., sez. I, 28 aprile 2011 (dep. 1° giugno 2011), n.
22105, pres. Di Tomassi, rel. Caprioglio, ric. p.m. in proc. Tourghi,
in cui si afferma che - pur in presenza di cause di  inammissibilita'
del ricorso - «fin tanto che il giudicato formale non si sia formato,
spetta al giudice della cognizione prendere  atto  della  intervenuta
abolitio criminis e annullare la condanna per fatto divenuto privo di
rilievo penale»; la ratio che sorregge  tale  assunto  si  fonda  sul
fatto che -diversamente opinandosi avrebbe il caso di  una  decisione
il cui effetto consisterebbe nel rendere «definitiva» una sentenza di
condanna destinata, immediatamente dopo, ad essere revocata. 
    Se, dunque, la Settima Sezione della Corte di  cassazione  avesse
percorso la strada indicata  dalle  Sezioni  Unite,  la  sentenza  di
applicazione pena emessa nei confronti  del  sig.  D.  sarebbe  stata
annullata, limitatamente alla decisione intervenuta per il  capo  B),
ossia per il capo della sentenza di cui il PM chiede  la  revoca  nel
precedente incidente di esecuzione. 
    Va - a questo punto - posto  nella  giusta  evidenza  che  questo
Giudice  dell'esecuzione  si  trova  a  condividere   pienamente   la
decisione resa dalle Sezioni Unite nel caso Alacev ed intende  quindi
adeguarsi all'indicazione che la S.C. ha offerto alla  giurisprudenza
nel massimo esercizio della sua funzione nomofilattica. 
    Sennonche', come evidente dalla disamina che precede, il caso  in
esame non e' perfettamente riconducibile  al  fenomeno  dell'abolitio
criminis,  perche'  la  sentenza  di  applicazione  pena  emessa  nei
confronti del sig. D. e' relativa  ad  un  fatto  storico  e  ad  una
fattispecie di reato (art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286/1998) che  -  al
momento della commissione del reato e al momento di  emissione  della
sentenza - era gia' formulata negli stessi termini  in  cui  essa  e'
oggi in vigore. 
    E, quindi, nel caso in esame, non si e' di fronte ad un  fenomeno
di successione nel tempo di leggi (intese come fonti formali), bensi'
ad un fenomeno di successione nel tempo  di  diverse  interpretazioni
giurisprudenziali di una determinata fonte formale. 
    In altri termini, il p.m.  sollecita  la  revoca  parziale  della
sentenza sulla base di una abolitio criminis che  troverebbe  la  sua
fonte - non gia'  in  una  successione  di  fonti,  bensi'  -  in  un
mutamento giurisprudenziale. 
    Cio' che, tuttavia, non risulta praticabile alla luce  del  testo
dell'art. 673 c.p.p., posto che: 
        (1)  tale  ipotesi  non  risulta  contemplata  dall'art.  673
c.p.p.; 
        (2) non risulta possibile - in un caso come quello in esame -
dare interpretazioni analogiche  dell'art.  673  c.p.p.  (cfr.  Corte
cost., sentenza n. 96/1996,  p.to  6  considerato  in  diritto:  «gli
interventi in executivis sulla pronuncia del giudice della cognizione
costituiscono l'espressione di un  potere  eccezionalmente  conferito
dalla  legge  e,  come  tale,  non   suscettibile   di   applicazione
analogica»); per inciso, si segnala che il  caso  risulta  differente
dall'ipotesi - recentemente considerata dalla Corte di  cassazione  -
di estensione analogica dell'ambito  di  applicazione  dell'art.  673
c.p.p. in conseguenza di accertato contrasto tra norme incriminatrici
di diritto interno e norme  comunitarie  dotate  di  effetto  diretto
(Cfr. Cass. Pen., sez. 1, sentenza del 20 gennaio 2011 n. 16521, est.
Siotto, ric. Titas Luca che, pero', fonda la decisione sul  carattere
autoritativo - paragonabile allo jus superveniens, cfr.  Corte  cost.
ord. n. 241/2005 - che assume nel  nostro  ordinamento  una  sentenza
della Corte di giustizia). 
    Se cio' e'  vero  -  e  se  non  sono  possibili  interpretazioni
analogiche -  si  determinerebbe  inevitabilmente  il  rigetto  della
richiesta  formulata  dal  Pubblico  Ministero.   E'   infatti   noto
l'orientamento  giurisprudenziale  -  che  non  risulta  smentito  da
decisioni  di  segno  contrario  -  secondo  il  quale  «in  tema  di
esecuzione, l'art. 673 cod. proc. pen. opera  soltanto  nel  caso  in
cui, a seguito  di  innovazione  legislativa  o  di  declaratoria  di
incostituzionalita', si verifichi un'ipotesi di abrogazione esplicita
o implicita di una norma. La predetta disposizione non puo',  invece,
trovare applicazione, quando l'eventuale abrogazione implicita derivi
da  un  mutamento  di  indirizzo  giurisprudenziale  che   non   puo'
costituire "ius superveniens" anche  a  seguito  di  pronuncia  delle
sezioni unite della Corte di cassazione» (cosi' Cass. Pen.,  Sez.  1,
Sentenza n. 27121 dell'11 luglio 2006, ric. Aliseo, Ced Rv. 235265). 
    Principi del tutto analoghi sono stati affermati - anche in epoca
recente  -  dalla  Corte  di  legittimita'  quanto  alle  preclusioni
processuali (elaborate per via giurisprudenziale) in materia di: 
        (1)  preclusioni  discendenti  da  giudicato  cautelare  (per
tutte, si veda Cass. Pen. Sez. Un., Sentenza n. 14535 del 19 dicembre
2006, ric. Librato, Ced Rv. 235908), per cui - sino a poco tempo fa -
si riteneva che la preclusione persistesse anche in caso di mutamento
giurisprudenziale (Cass. Pen.,  Sez.  2,  Sentenza  n.  1180  del  26
novembre 2008, ric. Elia ed altro, Ced Rv. 242779,  secondo  cui  «la
formazione del  "giudicato  cautelare"  impedisce  la  riproposizione
delle questioni gia' decise, a meno che non siano  intervenuti  nuovi
elementi che giustifichino una rinnovata valutazione, tra i quali non
puo' ricomprendersi una  decisione  della  Corte  di  cassazione  che
esprima un indirizzo  giurisprudenziale  diverso  da  quello  seguito
dall'ordinanza che ha deciso la questione controversa»). 
        (2) preclusioni discendenti da cd.  giudicato  esecutivo  (di
recente, si veda Cass. Pen. Sez. 1, Sentenza n. 3736 del  15  gennaio
2009, ric. p.m. in proc. Anello, Ced  Rv.  242533,  secondo  cui  «il
principio della preclusione processuale derivante dal divieto di «bis
in idem», opera anche in sede  esecutiva,  iscrivendosi  in  esso  la
regola  che  impone  al   giudice   dell'esecuzione   di   dichiarare
inammissibile la richiesta che  costituisca  mera  riproposizione  di
altra gia' rigettata, basata sui medesimi elementi), per cui - sino a
poco tempo fa - si riteneva che la preclusione persistesse  anche  in
caso di mutamento giurisprudenziale (Cass. Pen., Sez. 1, Sentenza  n.
23817 dell'11 marzo  2009,  ric.  Cat  Berro,  Ced  Rv.  243810:  «E'
inammissibile l'incidente di esecuzione proposto  con  riferimento  a
richiesta gia' respinta con provvedimento definitivo, ove fondato sui
medesimi presupposti di fatto e di  diritto  del  precedente».  Nella
specie, la Corte ha escluso che  costituisca  fatto  nuovo  idoneo  a
rimuovere la preclusione del giudicato  esecutivo  la  formazione  di
orientamento  giurisprudenziale  che  abbia   condotto   a   statuire
diversamente sull'eseguibilita'  del  giudicato  allorche'  la  Corte
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo abbia  riconosciuto
il carattere «non equo» del processo). 
    Laddove, dunque, si dovesse aderire all'orientamento che  esclude
qualsiasi rilievo in sede esecutiva ai  mutamenti  giurisprudenziali,
questo Giudice non potrebbe accogliere  la  richiesta  formulata  con
l'incidente di esecuzione promosso dal pubblico ministero. 
    Sennonche' della legittimita' costituzionale di tale  approdo  e'
lecito dubitare - alla luce del dettato degli artt. 3,  13,  25,  27,
comma 3,  Cost.  117  Cost.,  in  relazione  all'art.  7  CEDU  (come
interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo) - per  i  motivi  di
seguito indicati. 
    4. - Non manifesta infondatezza delle questioni  di  legittimita'
costituzionale. 
    Di recente, la S.C. ha mutato avviso  circa  l'irrilevanza  -  ai
fini del superamento di preclusioni processuali  -  dei  sopravvenuti
mutamenti giurisprudenziali: 
        (1) in materia di cd. giudicato esecutivo (preclusione di cui
all'art. 666, comma 2, c.p.p.), si veda la recente: Cass. Pen.,  Sez.
Un., Sentenza n. 18288 del  21  gennaio  2010,  ric.  p.m.  in  proc.
Beschi, Ced Rv. 246651, secondo cui «il mutamento di  giurisprudenza,
intervenuto  con  decisione  delle  Sezioni  unite  della  Corte   di
Cassazione,  integrando  un  nuovo   elemento   di   diritto,   rende
ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta  di
applicazione  dell'indulto  in  precedenza  rigettata.  La  Corte  ha
precisato che tale soluzione e' imposta dalla necessita' di garantire
il rispetto dei diritti fondamentali della persona  in  linea  con  i
principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il cui art.
7, come interpretato dalle Corti europee,  include  nel  concetto  di
legalita' sia il diritto di  produzione  legislativa  che  quello  di
derivazione giurisprudenziale). 
        (2) in materia di cd. giudicato cautelare, si veda la recente
Cass. Pen. Sez. 2, Sentenza n. 19716 del 6 maggio 2010,  ric.  Merlo,
Ced  Rv.  247113,  secondo  cui  «il  mutamento  di   giurisprudenza,
intervenuto  con  decisione  delle  Sezioni  Unite  della  Corte   di
Cassazione,  integra  un  nuovo  elemento  idoneo  a  legittimare  la
riproposizione della richiesta di revoca di sequestro preventivo gia'
rigettata con provvedimento non piu' suscettibile di gravame». 
    Ad avviso del  giudice  rimettente,  gli  argomenti  spesi  nelle
predette decisioni dalla Corte di legittimita' non possono che valere
anche nella materia degli incidenti di esecuzione  promossi  ex  art.
673 c.p.p. per ottenere la revoca di sentenze passate in giudicato, a
seguito  di  mutamento  giurisprudenziale   che   sancisca   che   un
determinato fatto storico non e' previsto dalla legge come reato. 
    E' ben vero che il  fenomeno  della  preclusione  processuale  e'
fenomeno   profondamente   diverso   da    quello    giustifica    la
irrefragabilita' dei giudicati; e' altrettanto vero, pero', che anche
la  tendenziale  stabilita'  del  giudicato  e',  essa  stessa,   una
convenzione che - rispondendo ad  un'esigenza  sociale  (in  funzione
della necessita' di garantire la  certezza  del  diritto)  -  ha  poi
trovato uno sbocco normativo nelle norme che impongono severi  filtri
alle possibilita' di porre nel dubbio i giudicati. 
    E' altrettanto vero, poi, che le recenti decisioni del S.C.  (che
si e' espresso anche  a  Sezioni  Unite)  ancorano  il  principio  di
diritto al quale  sono  pervenute  -  da  un  lato  -  a  ragioni  di
necessario  rispetto  del  principio  di  uguaglianza  dei  cittadini
davanti alla legge e di necessita'  di  garantire  ai  consociati  la
retroattivita' dei trattamenti punitivi  piu'  favorevoli,  anche  in
un'ottica europea (art. 7 CEDU,  come  interpretato  dalla  Corte  di
Strasburgo)  e  -  dall'altro  lato   -   alla   peculiare   funzione
nomofilattica  esercitata  dalle  Sezioni  Unite   della   Corte   di
Cassazione. 
    E analoghe ragioni si ripropongono con la stessa pregnanza  anche
nel caso oggi in esame. 
    4.1 Sul contrasto con l'art. 117 Cost. in relazione agli artt. 7,
5 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 
    Circa il fatto che le norme della CEDU  integrino,  quali  «norme
interposte» [nel significato loro attribuito dalla Corte europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per   dare   a   esse
interpretazione  e  applicazione  (art.  32,   paragrafo   1,   della
Convenzione)], il parametro costituzionale  espresso  dall'art.  117,
primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione  della
legislazione   interna   ai   vincoli   derivanti   dagli   «obblighi
internazionali», ci si limita a richiamare le numerose pronunce della
Corte costituzionale che hanno affermato tale principio (Corte cost.,
sentenze n. 113 del 2011, n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138  del
2010; n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008; n. 348 e n.  349  del
2007). 
    Detto questo - ai fini della esposizione dei termini del presente
incidente di legittimita' costituzionale -  e'  necessario  ricalcare
gli schemi argomentativi utilizzati dalle Sezioni  Unite  nella  gia'
citata sentenza n. 18288/2010, proc. Beschi, in ragione dell'identica
ratio sottesa alle - pur diverse - situazioni processuali (ratio tesa
a garantire che l'ordinamento penale - e processuale- si  informi  ad
autentiche ragioni politico-garantiste); nella  sentenza  Beschi,  le
Sezioni Unite evidenziano che: 
        l'art. 7 CEDU «pur enunciando formalmente il  solo  principio
di irretroattivita', e' stato  interpretato  dalla  giurisprudenza  e
dalla dottrina nel senso che esso delinea,  nell'ambito  del  sistema
europeo di tutela dei diritti dell'uomo, i due fondamentali  principi
penalistici nullum crimen sine lege e nulla poena sine lege»  essendo
il principio di legalita' «un fondamento di ogni societa' democratica
e patrimonio comune degli Stati membri del Consiglio d'Europa»; 
        sicche' - nell'interpretazione dei giudici europei - l'art. 7
CEDU ha esteso la propria portata sino a vedervi ricompresi:  (1)  il
principio  di  determinatezza  delle  norme  penali,  il  divieto  di
analogia in malam partem (cfr. sentenza n.  32492/96,  caso  Coeme  e
altri contro Belgio); (2) il principio implicito della retroattivita'
della legge  meno  severa  (per  tutte:  Corte  Edu,  Grande  Camera,
sentenza 17 settembre 2009, caso Scoppola contro Italia);  quanto  al
principio di retroattivita' della  legge  meno  severa,  e'  altresi'
doveroso ricordare che esso  assume  massimo  rilievo  non  solo  nel
sistema convenzionale EDU, ma anche nell'ordinamento comunitario («il
principio dell'applicazione retroattiva della pena piu' mite fa parte
delle tradizioni comuni agli Stati membri»; cosi' Corte di Giustizia,
sentenza 28 aprile 2011, caso El Dridi, causa C-61/11 PPU, punto  61,
con richiami  a  precedenti  arresti  della  Corte  del  Lussemburgo:
sentenze 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e  C-403/02,
Berlusconi e a., Racc. pag. I-3565, punti  67-69,  nonche'  11  marzo
2008, causa C-420/06, Jager, Racc. pag. 1-1315, punto 59); 
        la giurisprudenza della Corte EDU  ha  cosi'  «enucleato  dal
sistema della Convenzione un concetto di  "legalita'  materiale2,  in
forza del quale possono raggiungersi livelli garantistici, per  certi
aspetti,  piu'  elevati  di  quelli  offerti   dall'art.   25   della
Costituzione»;  infatti,  «in  considerazione  delle  differenze  che
intercorrono, sul piano del sistema delle fonti del diritto, tra  gli
ordinamenti di common  law  e  quelli  di  civil  law,  il  principio
convenzionale di legalita' e' stato inteso, per cosi' dire, in  senso
"allargato"». 
        in tale contesto interpretativo -  dovendo  contemperare  gli
ordinamenti di civil law con quelli di common law - la Corte  EDU  ha
valorizzato   l'esplicito    riferimento    al    «diritto»    (law),
distinguendolo dalla semplice  legge,  ed  ha  cosi'  «inglobato  nel
concetto di legalita' sia il diritto di  produzione  legislativa  che
quello di derivazione giurisprudenziale, riconoscendo al  giudice  un
ruolo fondamentale nella  individuazione  dell'esatta  portata  della
norma penale, il cui significato e' reso esplicito dalla combinazione
di  due  dati;  quello  legislativo  e  quello  interpretativo  (cfr.
sentenze della Corte di  Strasburgo  24  aprile  1990,  caso  Kruslin
contro Francia; 12 febbraio 2008,  caso  Kafkaris  contro  Cipro;  15
novembre 1996, caso Cantoni contro  Francia;  25  maggio  1993,  caso
Kokkinakis contro Grecia)»; 
        la sentenza delle Sezioni Unite n. 18218/2010, cit.  richiama
poi  alcuni  arresti  della  giurisprudenza  di  Strasburgo   e,   in
particolare,  due  di  essi,  che  riguardano  proprio  l'ordinamento
italiano: «con le recenti sentenze 17 settembre 2009  (caso  Scoppola
contro Italia) e 8 dicembre 2009 (caso  Previti  contro  Italia),  la
Corte europea, dopo avere ribadito i principi consolidati  in  merito
alla nozione di' diritto, ha affermato che  "a  causa  del  carattere
generale delle leggi, il testo di queste... non puo'  presentare  una
precisione assoluta", posto che si serve  di  "formule  piu'  o  meno
vaghe la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla  pratica;
pertanto, in qualsiasi ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa
essere il testo di  una  disposizione  di  legge,  ivi  compresa  una
disposizione di diritto penale, esiste inevitabilmente un elemento di
interpretazione giudiziaria...; del resto, e'  solidamente  stabilito
nella tradizione giuridica degli Stati parte della Convenzione che la
giurisprudenza...  contribuisce   necessariamente   alla   evoluzione
progressiva del diritto penale"» (1) ; 
        la Corte di Cassazione osserva poi opportunamente - anche  al
fine  di  porre  nella  dovuta  evidenza  il  rilievo  implicitamente
allegato,  anche   in   tali   casi   concreti,   al   cd.   «diritto
giurisprudenziale» - che deve essere considerato  che  «la  Corte  di
Strasburgo, in relazione  agli  obblighi  imposti  agli  Stati  dalla
Convenzione europea  dei  diritti  dell'uomo,  ha  ravvisato:  a)  la
violazione del diritto  alla  liberta'  e  alla  sicurezza,  tutelato
dall'art. 5 della stessa Convenzione, per la ritardata liberazione di
un detenuto, al quale solo con notevole ritardo  era  stato  concesso
l'indulto,  a  causa   di   dubbi   interpretativi   circa   la   sua
applicabilita' (cfr. sentenza  10  luglio  2003,  caso  Grava  contro
Italia); b) la violazione del  diritto  al  processo  equo,  tutelato
dall'art. 6 della Convenzione,  in  caso  di  divergenze  profonde  e
persistenti nella giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione  sulla
interpretazione di una determinata disposizione legislativa, senza la
previsione di meccanismi idonei a rimediare a tale  situazione  (cfr.
sentenza 2 luglio 2009, caso Iordan Iordanov contro Bulgaria»; 
        sempre al fine di valorizzare  adeguatamente  il  rilievo  da
attribuire al cd. «diritto giurisprudenziale», la S.C. richiama anche
la sentenza 8 febbraio 2007 della Corte  di  giustizia  (caso  Groupe
Danone contro Commissione delle Comunita' europee), che - secondo  la
ricostruzione del S.C. - «ha delineato una dimensione innovativa  del
principio di irretroattivita',  ritenendolo  applicabile  anche  alla
nuova  interpretazione   in   senso   sfavorevole   di   una   norma,
interpretazione non ragionevolmente  prevedibile  nel  momento  della
commissione dell'infrazione» (2) 
    Al riguardo, merita ancora di osservarsi che - nel noto  caso  di
punta Perotti (3) , pur non direttamente evocato dalle Sezioni  Unite
nella  sentenza  Beschi  -  il  Governo  Italiano  aveva  tentato  di
sottrarre alla cognizione della Corte Edu la «materia» del  mutamento
giurisprudenziale (questo l'argomento speso dal Governo: «se e'  vero
che l'interpretazione  giudiziaria  in  materia  penale  deve  essere
ragionevolmente prevedibile, i cambiamenti radicali di giurisprudenza
costituiscono una materia sottratta alla giurisdizione  della  Corte,
che  non  puo'  ne'  confrontare  le  decisioni  rese  dai  tribunali
nazionali  ne'  vietare  la  possibilita'   di   uno   stravolgimento
giurisprudenziale») (4) . 
    La Corte  Edu,  pero',  ha  respinto  tale  impostazione,  ed  ha
osservato (5) : 
        105.  La  garanzia  che  sancisce  l'articolo   7,   elemento
essenziale della preminenza del diritto, occupa un posto fondamentale
nel sistema di protezione della Convenzione, come dimostra  il  fatto
che l'articolo 15 non autorizza alcuna deroga allo stesso in tempo di
guerra o in caso di altro pericolo  pubblico.  Come  deriva  dal  suo
oggetto e dal suo scopo, esso deve essere interpretato e applicato in
modo da assicurare una protezione effettiva contro le azioni  penali,
le condanne e le sanzioni arbitrarie (sentenze S.W. e C.R.  c.  Regno
Unito del 22 novembre 1995, serie A nn. 335-13 e 335-C, p. 41, §  34,
e p. 68, § 32, rispettivamente). 
        106. L'articolo 7 § 1 sancisce in particolare il principio di
legalita' dei reati e delle pene (nullum  crimen,  nulla  poena  sine
lege). Se vieta principalmente di estendere il campo di  applicazione
dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano  dei
reati, esso impone altresi' di  non  applicare  la  legge  penale  in
maniera  estensiva  a  pregiudizio  dell'imputato,  ad  esempio   per
analogia (v., tra le altre, Coeme e altri c.  Belgio,  nn.  32492/96,
32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 145, CEDU 2000 VII). 
        107. Ne consegue che la legge  deve  definire  chiaramente  i
reati e le pene che li reprimono. Questa  condizione  e'  soddisfatta
quando la persona sottoposta a giudizio puo' sapere,  a  partire  dal
testo della disposizione pertinente,  e  se  necessario  con  l'aiuto
dell'interpretazione che ne viene data dai tribunali,  quali  atti  e
omissioni implicano la sua responsabilita' penale (6) . 
        108. La nozione di «diritto» («law») utilizzata nell'articolo
7 corrisponde a quella di «legge» che compare in altri articoli della
Convenzione; essa comprende il diritto di origine sia legislativa che
giurisprudenziale e implica  delle  condizioni  qualitative,  tra  le
quali quelle dell'accessibilita' e della prevedibilita'  (Cantoni  c.
Francia, 15 novembre 1996, § 29, Raccolta 1996  V;  S.  W.  c.  Regno
Unito, § 35, 22 novembre 1995; Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio  1993,
§§ 40-41, serie A no 260 A). Per quanto chiaro possa essere il  testo
di una disposizione  legale,  in  qualsiasi  sistema  giuridico,  ivi
compreso il diritto penale, esiste  immancabilmente  un  elemento  di
interpretazione  giudiziaria.  Bisognera'  sempre  chiarire  i  punti
oscuri ed adattarsi ai  cambiamenti  di  situazione.  Del  resto,  e'
solidamente stabilito nella tradizione giuridica  degli  Stati  parte
alla Convenzione che la giurisprudenza, in quanto fonte  di  diritto,
contribuisce necessariamente all'evoluzione progressiva  del  diritto
penale (Kruslin c. Francia, 24 aprile 1990, § 29, serie A no 176  A).
Non si puo' interpretare l'articolo 7 della Convenzione nel senso che
esso  vieta  di  chiarire  gradualmente  le  norme  in   materia   di
responsabilita' penale mediante l'interpretazione giudiziaria da  una
causa all'altra, a condizione che il risultato sia  coerente  con  la
sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile (Streletz, Kessler e
Krenz c. Germania [GC], nn. 34044/96, 35532/97 e 44801/98, § 50, CEDU
2001 II). 
        109. La portata della nozione di  prevedibilita'  dipende  in
gran parte dal contenuto del testo in questione, dall'ambito che esso
ricopre nonche' dal numero e dalla qualita' dei suoi destinatari.  La
prevedibilita'  di  una  legge  non  si  oppone  a  che  la   persona
interessata  sia  portata  a  ricorrere  a  consigli  illuminati  per
valutare, a un livello ragionevole nelle circostanze della causa,  le
conseguenze che possono derivare da un determinato atto. Questo  vale
in particolare per i professionisti, abituati a dover dimostrare  una
grande prudenza nell'esercizio del loro mestiere. Da essi ci si  puo'
pertanto aspettare che valutino con particolare attenzione  i  rischi
che quest'ultimo comporta (Pessino c. Francia, n. 40403/02, § 33,  10
ottobre 2006). 
        110. La Corte ha dunque il compito di  assicurarsi  che,  nei
momento in cui un imputato ha commesso l'atto che ha  dato  luogo  al
procedimento e alla condanna, esistesse una disposizione  legale  che
rendeva l'atto punibile, e che la pena imposta non abbia  ecceduto  i
limiti fissati da tale disposizione (Murphy c. Regno  Unito,  ricorso
n. 4681/70, decisione della Commissione  del  3  e  4  ottobre  1972,
Raccolta delle decisioni 43; Coeme e altri,  sentenza  gia'  cit.,  §
145). 
    Per meglio comprendere la grande considerazione che la  Corte  di
Strasburgo  attribuisce  all'interazione  tra  testo   normativo   ed
interpretazione giurisprudenziale di quel testo, e' utile  menzionare
una recente sentenza della Corte Edu (sentenza Corte  Edu,  7  giugno
2011, caso Agrati ed altri contro Italia). In essa, la Corte ha quasi
operato - per usare un'efficace immagine  utilizzata  in  dottrina  -
«una sorta di ribaltamento della gerarchia  positiva  (che  vuole  il
giudice soggetto alla legge) a fronte di una gerarchia culturale, che
vede  il  diritto  vivente  prelegislativo  assurgere   ad   elemento
costitutivo  del  parametro...».  Il  caso  e'  relativo  al  ricorso
presentato da alcuni cittadini, risultati soccombenti  in  una  causa
civile: nel corso di una  causa  civile  contro  una  amministrazione
pubblica,  i  ricorrenti  fondavano  le  proprie   pretese   su   una
interpretazione   giurisprudenziale   consolidata;   sennonche',   il
legislatore   italiano   era   intervenuto   cori   una   legge    di
interpretazione autentica indirizzando  -  in  senso  sfavorevole  ai
ricorrenti - l'esito della controversia;  senza  entrare  nel  merito
della questione, la Corte EDU ha - da un lato - ritenuto che, con  la
legge  di  interpretazione   autentica,   l'Italia   avesse   operato
un'interpretazione che era  «contraria  all'interpretazione  costante
della  Corte  di  cassazione»  (punto  63)  ed  ha  poi  osservato  -
dall'altro lato  -  che  detto  intervento  legislativo,  con  chiari
effetti sul  merito  di  una  controversia  pendente  davanti  ad  un
giudice, «non era giustificato da  ragioni  imperative  di  interesse
generale» (punto 65). Sulla base di tali considerazioni, la Corte  di
Strasburgo ha ritenuto non  equo  il  processo  conclusosi  in  senso
sfavorevole ai ricorrenti. 
    Detto in altri termini: laddove non si considerasse la  questione
del mutamento  giurisprudenziale  alla  luce  dell'art.  7  CEDU,  si
rischierebbe, da un lato, di depotenziare la portata di quella  norma
(e la sua funzione garantista) e, dall'altro lato, di porre il nostro
ordinamento in frizione anche con i principi ricavabili dagli artt. 5
e 6 della Conv. EDU. 
    E un simile principio vale non solo  con  riguardo  ai  mutamenti
giurisprudenziali  (potenzialmente)  sfavorevoli  agli  imputati  (in
relazione ai quali viene in gioco il valore della prevedibilita'  del
contesto normativo). 
    Ma  una  simile   considerazione   del   valore   dei   mutamenti
giurisprudenziali non  puo'  che  valere  anche  con  riferimento  ai
mutamenti giurisprudenziali favorevoli (in relazione ai  quali  viene
in gioco il principio della retroattivita' del trattamento di maggior
favore per le persone imputate e condannate). 
    Del resto, la necessita' che un ordinamento ha  di  garantire  la
stabilita' delle decisioni e, in definitiva, la certezza del  diritto
risponde non gia' ad  un'esigenza  di  vuoto  ossequio  all'autorita'
delle decisioni statuali, bensi' ad una profonda esigenza di garanzia
per  i  diritti  dell'individuo  (che  -  giova  ribadirlo  -  ha  la
necessita' di poter orientare i propri comportamenti in  un  contesto
normativo   e   giurisprudenziale   concretamente   prevedibile    ed
affidabile). 
    Ne discende  una  conseguenza:  escludere  qualsiasi  rilievo  al
mutamento giurisprudenziale sopravvenuto pone il  nostro  ordinamento
processuale (e segnatamente  l'art.  673  c.p.p.)  in  contrasto  con
l'art. 7 CEDU (cosi' come interpretato dalla  Corte  di  Strasburgo);
infatti, secondo l'attuale codice  di  rito  e'  consentito  che  una
persona sia privata della liberta'  personale  (o  che  si  protragga
detta privazione) in relazione ad un fatto storico che -  in  origine
considerato reato - successivamente alla condanna, tale non  e'  piu'
ritenuto dalla giurisprudenza successiva che si consolida nel diritto
vivente. 
    L'art.    673     c.p.p.     non     consente     interpretazioni
correttive/estensive capaci di scongiurare tale risultato, ad  avviso
di chi scrive contrastante con  l'art.  7  CEDU  (e,  quindi,  lesivo
dell'art. 117, comma 1, della Carta  costituzionale),  sia  sotto  il
profilo del rilievo da attribuire ai mutamenti  giurisprudenziali  in
chiave di definizione  della  portata  dei  precetti,  sia  sotto  il
profilo della retroattivita' del trattamento penale  piu'  favorevole
alla   persona   giudicata.   Ne'   risulta   percorribile   la   via
dell'interpretazione analogica (Corte  cost.,  sentenza  n.  96/1996,
cit.). 
    Risulta quindi costituzionalmente necessitata una interpretazione
additiva che consenta di pervenire  -  in  sede  esecutiva  -  ad  un
risultato che renda l'art. 673 c.p.p. compatibile con l'art. 7 CEDU. 
    Del resto, una  sentenza  interpretativa  nel  senso  di  seguito
auspicato si porrebbe in  linea  di  assoluta  coerenza  con  diversi
principi costituzionali  che  l'attuale  formulazione  dell'art.  673
c.p.p. rischia di ledere. 
    4.2. Sul contrasto con gli artt. 3, 13 e 25  della  Costituzione,
in relazione agli artt. 610, comma 2,  618  c.p.p.,  172  disp.  att.
c.p.p.  ed  all'art.  65  regio  decreto  30  gennaio  1941,  n.   12
(ordinamento giudiziario). 
    L'art. 65 dell'Ordinamento  giudiziario  indica  nella  Corte  di
Cassazione  «l'organo  supremo  della   giustizia»,   incaricato   di
«assicura[re] l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione  della
legge, l'unita' del diritto oggettivo nazionale». 
    Il dettato dell'art. 65 Ord. Giud.  trova  poi  chiaro  riscontro
anche in varie norme processuali che mettono bene in luce  quale  sia
il rilievo che - per volonta' del legislatore -  e'  attribuito  alla
Corte di cassazione  ed  alla  funzione  nomofilattica  che  essa  e'
incaricata di assicurare. Qui, in  particolare,  meritano  di  essere
menzionate diverse disposizioni del codice di  procedura  penale  che
attribuiscono una posizione di particolare  preminenza  alle  Sezioni
Unite della Corte di Cassazione: 
        art. 610, comma 2, c.p.p.: «Il presidente [della  Corte],  su
richiesta del procuratore generale, dei difensori delle parti o anche
di ufficio, assegna il ricorso alle sezioni unite quando le questioni
proposte sono  di  speciale  importanza  o  quando  occorre  dirimere
contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni»; 
        art. 618, comma 1, c.p.p.: «Se una sezione della Corte rileva
che la questione di diritto sottoposta al suo esame ha dato luogo,  o
puo' dar luogo, a un contrasto giurisprudenziale, su richiesta  delle
parti o di ufficio, puo' con  ordinanza  rimettere  il  ricorso  alle
sezioni unite»; 
        art.  172  disp.  att.  c.p.p.:   «1.   Nel   caso   previsto
dall'articolo 618 del codice, il presidente della corte di cassazione
puo' restituire alla sezione il ricorso qualora siano stati assegnati
alle sezioni unite  altri  ricorsi  sulla  medesima  questione  o  il
contrasto giurisprudenziale risulti superato. 2. In nessun caso  puo'
essere restituito il ricorso che, dopo una  decisione  delle  sezioni
unite, e' stato rimesso da una sezione della corte di cassazione  con
l'enunciazione delle  ragioni  che  possono  dar  luogo  a  un  nuovo
contrasto giurisprudenziale». 
    D'altra parte, anche la giurisprudenza costituzionale attribuisce
un  decisivo  rilievo  al  diritto  vivente  (tanto   da   dichiarare
inammissibili le ordinanze di rimessione che  lo  trascurino),  tanto
piu' se esso si sia cristallizzato  a  seguito  di  interventi  delle
Sezioni Unite della Cassazione. I riferimenti sono tali  e  tanti  da
rendere superflua qualsivoglia citazione  (peraltro,  ben  nota  alla
Corte). 
    Anche le sezioni civili della Corte di Cassazione -  seppure  con
una  varieta'  di  distinguo  resa  necessaria  dalla  pluralita'  di
situazioni  -  attribuiscono   un   deciso   rilievo   ai   mutamenti
giurisprudenziali sopravvenuti. Si veda, a mero titolo di esempio: 
        Cass. Civ. Sez. 2, Ordinanza interlocutoria n. 14627  del  17
giugno 2010 (Rv. 613684). Alla luce del principio costituzionale  del
giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso  per  cassazione
facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimita'
in  ordine  alle  norme  regolatrici  del  processo,  successivamente
travolta da un mutamento di orientamento interpretativo,  incorre  in
errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ai  sensi
dell'art. 184-bis cod. proc. civ.,  «ratione  temporis»  applicabile,
anche in assenza di un'istanza di parte, se, esclusivamente  a  causa
del   predetto   mutamento,   si    sia    determinato    un    vizio
d'inammissibilita' od improcedibilita' dell'impugnazione dovuto  alla
diversita'  delle  forme  e  dei  termini  da  osservare  sulla  base
dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso. 
    In tale contesto normativo e  giurisprudenziale,  e'  quindi  del
tutto evidente la funzione attribuita -  proprio  dal  legislatore  -
alla Corte di legittimita'. Non e' questa, evidentemente, la sede per
addentrarsi nella questione - pur cruciale - dei benefici che possono
derivare all'ordinamento dal cd. pluralismo  interpretativo  (il  cui
valore e' riconosciuto dalla stessa Corte Edu, laddove riconosce  che
la giurisprudenza...  contribuisce  necessariamente  alla  evoluzione
progressiva  del  diritto  penale);  ne'  e'  questa  la   sede   per
enfatizzare i rischi connessi ad una visione del ruolo  nomofilattico
della Suprema Corte come vertice burocratico della giurisdizione. 
    Qui  basti  dire  che  la   funzione   nomofilattica   attribuita
dall'ordinamento alla Corte di cassazione - e alle Sezioni  Unite  in
particolare - riposa  su  elementari  esigenze  di  razionalita'  del
sistema e, in definitiva, su ragioni che sicuramente  possono  essere
riconnesse ad esigenze  di  rilievo  costituzionale  (art.  3  Cost.:
uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; artt. 25  e  27  Cost.:
necessita' per i consociati di prevedere le  conseguenze  legali  dei
propri  comportamenti  ed  orientare  conseguentemente   le   proprie
condotte). 
    D'altra parte, secondo la Carta costituzionale, da  un  punto  di
vista funzionale «il principio di legalita' dei reati  e  delle  pene
(art. 25, comma secondo, Cost.)  e  quello  di  previa  pubblicazione
della legge (art. 73, comma terzo, Cost.), implic[a]no l'adempimento,
da parte dello Stato, di ulteriori doveri costituzionali, concernenti
anzitutto la formulazione, la struttura e  i  contenuti  delle  norme
penali, in guisa che queste ultime siano riconoscibili dai cittadini»
(cosi' Corte costituzionale sentenza n. 364/1988). 
    Cio' che conferma che la ratio del principio di legalita'  (della
cui  realizzazione  e'  onerato   il   legislatore,   ma   anche   la
giurisprudenza) e' - tra  l'altro  -  anche  quella  di  orientare  i
comportamenti dei consociati. 
    Ed allora, si deve prendere atto  del  fatto  che  e'  lo  stesso
legislatore ad assegnare un ruolo di preminenza della  giurisprudenza
di  legittimita'  in  funzione  dell'orientamento  della   successiva
giurisprudenza, oltre  che  di  orientamento  dei  comportamenti  dei
consociati. Cio' posto -assumendo che (tendenzialmente) le  decisioni
successive si conformino (come di norma avviene) al diritto vivente -
ad avviso di chi scrive, la scelta del legislatore  di  continuare  a
punire (non revocando la sentenza di condanna  ex  art.  673  c.p.p.)
colui che abbia tenuto un comportamento  che  -  secondo  il  diritto
vivente sopravvenuto (ricostruito con decisione resa dalla  Corte  di
cassazione a Sezioni Unite) - non e' piu' previsto dalla  legge  come
reato e' scelta del legislatore manifestamente irragionevole, perche'
tale scelta: 
        a)  e'  in  contrasto  con  il  principio  di   (tendenziale)
retroattivita' della normativa penale piu' favorevole (artt. 3 e  25,
comma 2, Cost.); 
        b) comporta il rischio di trattare in modo diseguale imputati
(che, viceversa, avrebbero dovuto essere  trattati  in  modo  eguale,
avendo essi commesso lo stesso fatto di reato),  in  funzione  -  per
esempio - del semplice dato dell'ordine di trattazione dei  processi;
dato  talvolta  casuale  e  comunque  non  riconducibile  a  condotte
dell'imputato (violazione dell'art. 3, comma 1, Costituzione); 
        c) antepone ragioni di tutela dell'ordinamento  (la  certezza
del diritto e la tendenziale stabilita' delle  decisioni)  a  precise
esigenze  di  liberta'  della  persona,  costituzionalmente  tutelata
dall'art. 13  della  Costituzione  (per  usare  un'efficace  immagine
adoperata in dottrina, si rischia di  privilegiare  la  certezza  del
diritto a detrimento della certezza dei diritti); 
        d) priva una persona della  sua  liberta'  in  assenza  della
reale  necessita'  di   salvaguardare   un   contrapposto   principio
costituzionale da bilanciare con il bene della liberta' personale; se
si ragiona sulla funzione della sanzione penale (senza diffondersi in
questa sede oltre il dovuto) si puo' comprendere che  la  scelta  del
legislatore di non revocare - in casi simili a quello in esame -  una
sentenza di condanna non ha alcuna funzione  nemmeno  in  termini  di
general-prevenzione (posto  che  la  general-prevenzione  «guarda  al
futuro», ed e' assicurata dall'esercizio - da parte  della  Corte  di
cassazione  -   della   funzione   nomofilattica;   e   la   funzione
general-preventiva non trae  alcun  beneficio  dalla  stabilita'  del
giudicato in un caso simile a quello del sig. D.). 
    4.3. Sul contrasto con l'art. 27, comma 3, della Costituzione. 
    Si ritiene che la pena in tanto sia giustificata in  quanto  essa
costituisca la giusta retribuzione per il  male  commesso,  anche  al
fine di dissuadere il responsabile dal commettere nuovamente un certo
reato (quia peccatur et ne peccetur); se cosi' e', non  si  puo'  non
ritenere contrastante con tale funzione special-preventiva della pena
un assetto processuale che tollera l'esecuzione di pene a  fronte  di
un comportamento che, secondo il  diritto  vivente  sopravvenuto  non
costituisce  reato;  pene  che  -  si  badi  -  verrebbero  poste  in
esecuzione anche per assicurare la  rieducazione  del  condannato  in
relazione  ad  un  fatto  che  -  secondo  il  sopravvenuto   assetto
giurisprudenziale - non e' piu' penalmente rilevante (e,  come  tale,
non richiede piu' alcuna attivita' di rieducazione). 
    4.4 Superamento di possibili obiezioni. 
    Si potrebbe obiettare che - attribuendo un  ruolo  para-normativo
alla giurisprudenza della  Corte  di  cassazione  -  si  verrebbe  ad
ingessare la giurisprudenza,  inibendo  la  funzione  evolutiva  che,
storicamente,  essa  ha   avuto   nel   nostro   ordinamento,   cosi'
surrettiziamente imponendo una  deviazione  dalla  nostra  tradizione
giuridica di civil law a quella propria degli ordinamenti  di  common
law. 
    L'obiezione non e' persuasiva, soprattutto se si considera  quali
valori  (la  liberta'  personale)  verrebbero  sacrificati   a   tale
esigenza. 
    Da un lato,  si  osserva  che  il  quesito  che  qui  si  intende
sottoporre  alla  Corte  costituzionale  e'  teso  ad  ottenere   una
pronunzia  additiva  che   valorizzi   non   qualsivoglia   mutamento
giurisprudenziale, ma soltanto quei mutamenti  giurisprudenziali  che
intervengono  al  massimo  livello  di   esercizio   della   funzione
nomofilattica (le Sezioni Unite, il cui ruolo peculiare  e'  esaltato
dallo stesso legislatore; cio' che offre un parametro  interpretativo
adeguatamente solido e scongiura il  rischio  di  dovere  -  in  ogni
incidente di esecuzione - dover estrapolare da  un  incerto  panorama
giurisprudenziale gli esatti termini del diritto vivente). 
    In secondo luogo, il  quesito  intende  valorizzare  solo  quegli
interventi delle Sezioni Unite che statuiscano che un  fatto  non  e'
piu' previsto dalla legge come reato, con ri-perimetrazione - per via
interpretativa - della  fattispecie  penale,  senza  quindi,  rendere
necessaria una rivisitazione del quadro probatorio. 
    In terzo luogo, non si puo' trascurare che  l'accoglimento  della
questione  di   legittimita'   costituzionale   avrebbe   conseguenze
esclusivamente improntate al favor rei ed ossequiose del principio di
retroattivita' dei trattamenti favorevoli all'imputato. 
    Ne', infine, si potrebbe determinare una cristallizzazione  degli
orientamenti  giurisprudenziali,  ben  potendosi  dare  il  caso   di
successivi mutamenti della giurisprudenza, anche in senso sfavorevole
all'imputato  (nel  senso  che  -  sovvertendo   orientamenti   prima
consolidati in senso assolutorio -  la  giurisprudenza  ben  potrebbe
rivedere  le  proprie  interpretazioni,  affermando  che  una   certa
disposizione «D», esprimendo la norma «N»,  ricomprende  in  essa  il
fatto «F»).  Tuttavia,  il  mutamento  giurisprudenziale  sfavorevole
varrebbe solo per il processo in  cui  la  questione  controversa  e'
stata discussa ed assumerebbe valore di orientamento delle successive
decisioni solo a partire dalla sua  pubblicazione.  Senza  trascurare
che - per superare una  giurisprudenza  consolidata  (soprattutto  se
cio' e' in  senso  sfavorevole  all'imputato)  -  e'  responsabilita'
deontologica del magistrato quella di farsi carico  di  affrontare  e
superare gli argomenti contrari alla decisione assunta (7) . E  senza
potere, infine, ignorare che l'art. 172, comma 2, disp.  att.  c.p.p.
dispone che «in nessun caso puo' essere restituito  il  ricorso  che,
dopo una decisione delle sezioni  unite,  e'  stato  rimesso  da  una
sezione della corte di cassazione con  l'enunciazione  delle  ragioni
che possono dar luogo a un nuovo contrasto giurisprudenziale». 
    In altri termini: l'accoglimento della questione qui proposta non
determinerebbe    alcuna    cristallizzazione    definitiva     della
giurisprudenza; al contrario, essa - da un lato  -  risponderebbe  ad
evidenti  logiche  di  favor  libertatis  e  -  dall'altro   lato   -
responsabilizzerebbe gli  interpreti,  in  un'ottica  di  ricerca  di
maggior certezza del diritto. 
    5. - Il quesito. 
    Alla luce dei motivi sopra esposti, si ritiene non manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  673
c.p.p. che si ritiene illegittimo nella  parte  in  cui  non  prevede
l'ipotesi di revoca della sentenza di condanna [o di  decreto  penale
di condanna o di applicazione della pena su concorde richiesta  delle
parti] in caso  di  mutamento  giurisprudenziale  -  intervenuto  con
decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione  in  base  al
quale il fatto giudicato non e'  previsto  dalla  legge  penale  come
reato. 
    Cio' - per le ragioni sopra esposte - in  relazione  ai  seguenti
parametri costituzionali: 
        art. 117 Costituzione, in relazione  all'art.  7  CEDU  (come
interprato dalla Corte EDU) e agli artt. 5 e 6 CEDU; 
        art. 3 della Costituzione, in relazione agli artt. 610, comma
2, 618 c.p.p., 172 disp. att. c.p.p. ed all'art. 65 regio decreto  30
gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario); 
        art. 13 della Costituzione; 
        art. 25 della Costituzione; 
        art. 27, comma 3, della Costituzione. 
    6. - Sulla rilevanza. 
    Dalla disamina che precede, emerge infine chiara la ragione della
rilevanza nel giudizio a quo del  quesito  appena  formulato:  se  la
questione venisse accolta dalla Corte costituzionale, questo  giudice
potrebbe procedere all'esame della richiesta del p.m.,  eventualmente
rideterminando la pena inflitta al sig. D. diversamente, la richiesta
del pubblico ministero dovrebbe essere rigettata. 
    Ne'  -  si  badi  -  la  questione  potrebbe  essere  considerata
irrilevante per  il  fatto  che  il  pubblico  ministero  ha  gia'  -
prudenzialmente - rideterminato la pena (computando gia' un fine pena
che tenga conto dell'accoglimento della richiesta di revoca) o per il
fatto che, al sig. D., potrebbe essere concessa -  nelle  more  della
celebrazione  dell'incidente  di  legittimita'  costituzionale  -  la
liberazione anticipata. 
    Da un lato, si deve osservare che il rigetto della richiesta  del
p.m. comporterebbe una nuova determinazione del cd. fine pena e  che,
ad oggi, la liberazione anticipata non e' stata concessa. 
    Dall'altro lato si  deve  evidenziare  che  -  anche  laddove  al
momento della decisione della Corte costituzionale il sig. D.  avesse
gia' scontato la pena a lui inflitta- la questione  sarebbe  comunque
meritevole  di  considerazione  nel  merito;  cio'  alla   luce   del
condivisibile l'orientamento giurisprudenziale secondo il  quale  «la
richiesta dell'interessato di revoca della sentenza di  condanna  per
abolitio criminis, seppure nel frattempo la pena  detentiva  irrogata
sia stata interamente scontata, e' sostenuta da un concreto interesse
in riferimento all'eliminazione  conseguente  di  un  effetto  penale
della condanna, dato dall'iscrizione nel certificato  del  casellario
giudiziale non rilasciato a richiesta dei privati» (cosi' Cass. Pen.,
Sez. 3, Sentenza n. 21665 dell'11 maggio 2010, ric. Santoro, Ced  Rv.
247629). 
    Pur non  essendo  previste  procedure  acceleratorie  in  ipotesi
simili a quella del presente  giudizio  a  quo,  ci  si  permette  di
segnalare che il sig. D.M. e' detenuto per questa causa. 

(1) Qui le Sezioni  Unite  citano  la  Corte  Edu,  Seconda  Sezione,
    Sentenza dell'8 dicembre 2009, Caso Previti contro  Italia,  ric.
    45291/06, punti 278 e sgg. 

(2) Corte di Giustizia, Seconda Sezione, sentenza  8  febbraio  2007,
    Groupe Danone c. Commissione, causa C-3/06 P, punti 87-90. 

(3) Corte Edu, Seconda Sezione, Sentenza del 20  gennaio  2009,  Caso
    Sud Fondi Srl ed altre contro Italia, ric. n. 75909/01. 

(4) Ivi, punto 102. 

(5) Ivi punti 105 e sgg. 

(6) Principio  poi  affermato  anche  nella  successiva  Corte   Edu,
    Sentenza Gurguchiani contro Spagna, ric. n. 16012/06, punto 29. 

(7) Cosi' C.S.M.,  Sezione  disciplinare,  sentenza  n.  122  del  13
    ottobre 2009, punto I della motivazione:  «Cio'  vuol  dire,  dal
    punto di vista della disamina deontologica,  che,  indiscussa  la
    premessa  circa  lo  stato  della  giurisprudenza  in   tema   di
    valutazione dell'art. 11 come eccezionale, ben sono  possibili  i
    dissensi dalla medesima purche' essi  non  siano  accompagnati  o
    seguiti da comportamenti processuali del magistrato per l'appunto
    dissenziente diretti  ad  aggirare  l'ostacolo  costituito  dalla
    interpretazione dominante. Qualunque interpretazione da  chiunque
    provenga puo' essere disattesa, purche', e soprattutto quando  si
    tratta della interpretazione della Corte Suprema, o  del  giudice
    delle leggi, in modo non puramente ripetitivo oppure ignaro della
    funzione   nomofilattica   o   di    quella    di    sistemazione
    costituzionale. Il magistrato che dissente pertanto ha l'obbligo,
    anzitutto  deontologico,  di   esprimere   consapevolezza   della
    opinione che non condivide e dunque delle ragioni  per  le  quali
    ritiene comunque di andare in avviso contrario. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli artt. 134 della Costituzione, e 23 della legge 11 marzo
1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale,  nei  termini  di  cui  in  motivazione,
dell'art. 673 c.p.p. nella parte in  cui  non  prevede  l'ipotesi  di
revoca della sentenza di condanna [o di decreto penale di condanna  o
di sentenza di applicazione della pena su  concorde  richiesta  delle
parti] in caso  di  mutamento  giurisprudenziale  -  intervenuto  con
decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione - in base  al
quale il fatto giudicato non e'  previsto  dalla  legge  penale  come
reato, per  contrasto  con  l'art.  117  Costituzione,  in  relazione
all'art. 7 CEDU (come interprato dalla Corte EDU) e agli artt. 5 e  6
CEDU; con l'art. 3 della Costituzione, anche in relazione agli  artt.
610, comma 2, 618 c.p.p., 172 disp. att. c.p.p. ed all'art. 65  regio
decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario); con  l'art.
13 della Costituzione; con l'art. 25 della Costituzione;  con  l'art.
27, comma 3, della Costituzione. 
    Sospende il presente procedimento. 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale  per   l'esame   della   questione   di   legittimita'
costituzionale  qui  proposta,  segnalando   che   l'interessato   e'
attualmente detenuto e che  l'accoglimento  della  questione  avrebbe
effetti a lui favorevoli sull'esecuzione della pena. 
    Ordina che, a cura della cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata a: 
        D.M. attualmente detenuto presso  la  Casa  Circondariale  di
Torino; 
        Avv. Loredana Melis, del Foro di Torino; 
        pubblico ministero presso il Tribunale di Torino; 
        Presidente del Consiglio dei ministri 
    e comunicata ai sigg.ri Presidenti del Senato della Repubblica  e
della Camera dei deputati. 
    Dispone che la cancelleria trasmetta  alla  Corte  costituzionale
gli atti del presente incidente di esecuzione,  con  la  prova  delle
avvenute notificazioni e comunicazioni. 
 
    Cosi deciso in Torino, all'esito della camera di consiglio del 27
giugno 2011. 
 
                         Il giudice: Natale