N. 13 ORDINANZA (Atto di promovimento) 9 novembre 2011

Ordinanza del 9 novembre 2011 emessa dal Giudice di  pace di  Potenza
nel procedimento civile promosso da Scavone Giuliano  Antonio  contro
Banca Popolare del Mezzogiorno . 
 
Banca e istituti di credito - Operazioni bancarie regolate  in  conto
  corrente  -  Diritti   nascenti   dall'annotazione   in   conto   -
  Prescrizione - Decorrenza dal giorno dell'annotazione -  Previsione
  in via di  interpretazione  autentica  dell'art.  2935  del  codice
  civile - Contestuale esclusione della restituzione di importi  gia'
  versati alla data di entrata in vigore della legge n. 10 del 2011 -
  Violazione dei limiti all'ammissibilita' della legge interpretativa
  - Violazione del diritto di agire in giudizio (venendo di fatto  il
  correntista privato della facolta' di ripetizione dell'indebito)  -
  Violazione del  principio  di  uguaglianza  e  ragionevolezza  (per
  disparita' di trattamento fra banche e utenti del sistema bancario,
  tra  tipologie   contrattuali   assimilabili   sotto   il   profilo
  funzionale, nonche' tra versamenti indebiti effettuati prima e dopo
  l'entrata in vigore della legge n. 10 del 2011)  -  Violazione  del
  principio  del  giusto  processo  -   Violazione   delle   funzioni
  costituzionalmente riservate al potere giudiziario. 
- Decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, art. 2, comma 61,  aggiunto
  dalla legge di conversione 26 febbraio 2011, n. 10. 
- Costituzione, artt. 3, 24 (primo comma), 101, 102, 104 e 111. 
(GU n.7 del 15-2-2012 )
 
                         IL GIUDICE DI PACE 
 
    Ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n.
1131/10 R.G. promossa da Scavone Giuliano  Antonio,  rappresentato  e
difeso dall'avv. Luca Lorenzo, giusta mandato in  calce  all'atto  di
citazione; ATTORE; 
    Contro Banca Popolare del  Mezzogiorno,  in  persona  del  legale
rappresentante pro tempore, con sede in Crotone, alla via Napoli, 60,
rappresentata e difesa dall'avv.  Angelo  Alberto  Martorano,  giusta
mandato  a  margine  della  comparsa  di  costituzione  e   risposta;
CONVENUTA. 
 
                      Svolgimento del processo 
 
    Con atto di citazione notificato l'8 aprile 2010 il sig.  Scavone
Giuliano  Antonio  conveniva  in  giudizio  la  Banca  Popolare   del
Mezzogiorno chiedendo che fosse  rideterminato  il  saldo  del  conto
corrente n. 7000601, acceso in data 1° ottobre  1997  ed  estinto  in
data 19 agosto 2005; in particolare, chiedeva che i conteggi  fossero
riformulati   tenendo   conto   dell'ormai   consolidato    indirizzo
giurisprudenziale   circa   la   nullita'   della    capitalizzazione
trimestrale degli interessi passivi  e  della  c.m.s.,  affinche'  la
banca fosse condannata alla restituzione dell'indebito versato. 
    Costituitasi  in  giudizio,  la  banca  convenuta  contestava  le
eccezioni e le richieste attore, concludendo per il rigetto integrale
della  domanda  ed  opponendo,  preliminarmente,  la  liceita'  della
capitalizzazione trimestrale degli interessi e,  quindi,  l'eccezione
di prescrizione estintiva. 
    Nel corso del giudizio,  precisate  le  domande  ed  avanzate  le
richieste  istruttorie   nei   termini   concessi   questo   Giudice,
sciogliendo la riserva assunta all'udienza  del  28  settembre  2010,
riteneva doversi procedere al ricalcolo del saldo. 
    Veniva depositato  elaborato  peritale  contenente  il  ricalcolo
effettuato  dal  consulente,  alla  stregua  dei   criteri   di   cui
all'ordinanza ammissiva della C.T.U. 
    Ritenuta  la  causa  matura  per  la   decisione,   si   rinviava
all'udienza del  10  ottobre  2011  per  la  discussione,  concedendo
termine alle parti  fino  a  detta  udienza  per  il  deposito  delle
presenti note conclusive. 
 
                             Motivazione 
 
    Questo Giudice ritiene sussistenti i  presupposti  per  sollevare
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 61, della
legge n. 10 del 2011, di conversione del decreto Milleproroghe  (D.L.
29 dicembre 2010, n. 225). 
    Il testo  cosi'  recita:  «In  ordine  alle  operazioni  bancarie
regolate  in  conto  corrente  l'art.  2935  del  codice  civile   si
interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti
dall'annotazione   in   conto   inizia   a   decorrere   dal   giorno
dell'annotazione  stessa.  In  ogni  caso  non  si  fa   luogo   alla
restituzione di importi gia' versati alla data di entrata  in  vigore
della legge di conversione del presente decreto-legge». 
a) Rilevanza della questione nel caso di specie. 
    In primis, sotto il profilo della rilevanza della norma  de  qua,
ai fini del  thema  decidendum,  non  vi  e'  dubbio  che  la  natura
assertivamente interpretativa della stessa, unitamente  all'eccezione
prescrizione,   sollevata   da   parte   convenuta,   ne    impongano
l'applicazione nel caso concreto. 
    Pertanto questo Giudice, dovendosi pronunciare su tale eccezione,
non puo' prescindere dall'esame della norma stessa. 
b) Non manifesta infondatezza della questione. 
    L'art. 2-quinquies, comma 9, della legge n. 10 del 2011,  secondo
il  Giudice  remittente,  e'  affetto  da   molteplici   profili   di
incostituzionalita'. 
    Invero, da  un  lato,  difettano  le  condizioni  necessarie  per
l'esercizio del potere di legislazione, con  funzione  interpretativa
e, quindi, con efficacia ex tunc; dall'altro, la norma  impugnata  e'
idonea a compromettere i  principi  cardine  del  nostro  sistema  di
diritto. 
    In   particolar   modo   risultano   violati   i   principi    di
ragionevolezza, di effettivita' del diritto dei cittadini di agire in
giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art.
24,   primo   comma,   Cost.),   d'integrita'   delle    attribuzioni
costituzionali dell'autorita' giudiziaria (art. 102 Cost.). 
    Cio' premesso, al vaglio della Corte costituzionale vanno rimessi
i seguenti motivi di incostituzionalita' della legge de qua: 
1. Violazione dei limiti,  individuati  dalla  Corte  costituzionale,
all'ammissibilita' di una legge d'interpretazione. 
    Deve premettersi una breve ricostruzione dei limiti,  esplicitati
dalla Corte costituzionale,  all'esercizio  del  potere  legislativo,
allorquando  la  norma  assuma  natura  interpretativa   e,   quindi,
efficacia retroattiva. 
    Come noto, il legislatore puo' adottare norme di  interpretazione
autentica non soltanto in presenza di incertezze sull'applicazione di
una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma  anche  «quando
la scelta imposta dalla legge rientri tra le  possibili  varianti  di
senso del  testo  originario,  con  cio'  vincolando  un  significato
ascrivibile alla norma anteriore» (sentenza n. 525 del 2000; in senso
conforme, ex plurimis, sentenze n. 374 del 2002, n. 26 del  2003,  n.
274 del 2006, n. 234 del 2007, n. 170 del 2008, n. 24 del 2009). 
    Orbene, tale condizione non appare rispettata nel caso di specie. 
1.1. Inesistenza di una  norma  (specifica)  da  interpretare,  quale
condizione  dell'esercizio  del  potere  di   legislazione   a   fini
interpretativi (e conseguente irragionevolezza della norma  de  qua).
L'art. 2935 c.c. prevede una regola  di  carattere  generale,  ovvero
quella secondo cui il dies a quo, ai fini della  prescrizione  di  un
diritto, decorre dal momento in cui il suo titolare  e'  posto  nelle
condizioni di poterlo esercitare. 
    Come noto, ai fini dell'applicazione della suddetta norma  rileva
la sola possibilita' giuridica di esercitare un diritto - secondo  le
regole previste, per le varie ipotesi tipiche, dall'ordinamento  -  e
non anche una possibilita' di mero fatto. 
    La previsione de qua, che e' inidonea a  esaurire  la  disciplina
dei singoli diritti soggettivi e della  loro  (eventuale)  estinzione
per prescrizione, necessita dell'etero-integrazione della  disciplina
speciale prevista per i singoli tipi  contrattuali,  cosi'  come  dei
principi generali in materia di adempimento delle obbligazioni  e  di
ripetizione d'indebito. 
    Nel caso di specie, le norme etero - integratrici  devono  essere
individuate nella disciplina: 
        a) delle operazioni bancarie. Tali  devono  considerarsi,  in
virtu'  dell'univoco  disposto  dell'art.  1852  c.c.  l'apertura  di
credito, il deposito  bancario,  definiti  implicitamente  come  tali
dall'art. 1852 c.c. cosi' come  ogni  altra  relazione  tra  banca  e
cliente che sia ascrivibile agli schemi delineati dal Codice Civile o
affermatisi in sede interpretativa; 
        b) del conto corrente bancario. 
    In primis, non vi  e'  dubbio  che  una  legge  d'interpretazione
autentica avrebbe dovuto (e potuto) avere ad oggetto solo e  soltanto
una norma che disciplinasse di per  se',  in  maniera  specifica,  la
decorrenza della prescrizione con riguardo al contratto  di  apertura
di credito, regolato in  conto  corrente,  selezionandone  una  delle
possibili opzioni esegetiche. 
    Per contro, tale norma non esisteva, provvedendo gli interpreti a
colmare la lacuna, derivante dall'assenza di una norma speciale,  con
l'applicazione di una norma generale, dei principi  desumibili  dalla
disciplina   specifica   delle   singole   fattispecie   contrattuali
qualificabili  come  «operazioni  bancarie»,  cosi'  come  dei   piu'
generali principi in materia di estinzione del rapporto  obbligatorio
e di condictio indebiti. 
    Dunque, il principio generale (desumibile  dall'art.  2935  c.c.)
veniva adattato allo schema e alla  funzione  del  singolo  contratto
bancario (ed, in primis, dell'apertura di credito),  avendo  cura  di
preservare la coerenza  sistematica  della  soluzione  interpretativa
prescelta. 
1.2. Non includibilita' della  soluzione  interpretativa  prospettata
tra  quelle  legittimamente  traibili  dalla  disciplina  complessiva
dell'istituto (e conseguente irragionevolezza della norma de qua). 
    Per quanto il contratto di apertura di  credito,  cosi'  come  il
contratto di deposito, ecc., siano connotati dall'esecuzione ripetuta
di  piu'  prestazioni,  conservano  il   loro   carattere   unitario,
rappresentando la serie di  versamenti,  prelievi  ed  accreditamenti
mere variazioni quantitative dell'unico originario rapporto.  Invero,
l'unitarieta' del rapporto giuridico derivante dal contratto di conto
corrente  bancario  -  come,  condivisibilmente,  evidenziato   dalle
Sezioni Unite del 2 dicembre 2010 - non e'  circostanza  di  per  se'
sufficiente, al fine d'individuare, nella chiusura del conto, il dies
a  quo  da  cui  far  decorrere  la  prescrizione  del  diritto  alla
ripetizione d'indebito che spetti, eventualmente, al correntista  nei
confronti della banca. 
    Esistono, infatti, ipotesi tipiche nelle quali, pur  in  presenza
di un rapporto di durata connotato da prestazioni in denaro  ripetute
e scaglionate nel tempo (es. corresponsione dei canoni di locazione o
d'affitto, oppure del  prezzo  nella  somministrazione  periodica  di
cose), il singolo pagamento puo' qualificarsi come indebito  sin  dal
momento  in  cui  il  pagamento  medesimo  abbia  avuto  luogo;   con
conseguente  immediato  sorgere  del   diritto   del   solvens   alla
ripetizione. 
    Nondimeno, esistono ragioni, non solo sistematiche ma  desumibili
dall'intima struttura e funzione dei contratti bancari, che depongono
per la decorrenza del dies a quo  dalla  chiusura  del  contratto  di
conto corrente. 
    Innanzitutto, -  come  sottolineato  dalla  Suprema  Corte  nella
pronuncia  richiamata  -  l'insorgere  dell'azione   di   ripetizione
d'indebito   presuppone   logicamente,   quale   suo    indefettibile
presupposto, che sia stato effettuato  un  pagamento  d'indebito.  E,
solo da tale momento temporale, essa e' soggetta a prescrizione,  non
potendosi prescrivere cio' che ancora non sia sorto. 
    Da cio', la necessita' di individuare, alla stregua dei  principi
generali, nonche' della disciplina di settore, quando  il  versamento
del correntista costituisca un pagamento e  lo  stesso  possa  essere
definito indebito. 
    Per quanto riguarda,  in  special  modo,  l'apertura  di  credito
(quale tipologia contrattuale di peculiare diffusione), essa, come si
evince dal combinato disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c., si  attua
mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una  somma
di denaro.  Il  cliente,  per  l'intera  durata  del  rapporto,  puo'
utilizzare tale somma anche in piu' riprese, ripristinandone in tutto
o in parte, la disponibilita',  eseguendo  versamenti  e  conseguenti
ulteriori prelevamenti,  entro  il  limite  complessivo  del  credito
accordatogli. 
    E' ovvio che,  se,  in  pendenza  dell'apertura  di  credito,  il
correntista non abbia operato alcun versamento, non e'  configurabile
alcun pagamento da parte sua, se non quando, chiuso il rapporto, egli
provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. 
    In tal  caso,  qualora  la  restituzione  abbia  ecceduto  quanto
giuridicamente dovuto a causa dell'addebito di somme non dovute (come
interessi anatocistici o  superiori  al  tasso  legale),  l'eventuale
azione di ripetizione d'indebito non potra' che essere esercitata  in
un momento successivo alla chiusura del conto. Pertanto, solo da quel
momento potra' decorrere il relativo termine di prescrizione. 
    Qualora, invece, nel corso  dello  svolgimento  del  rapporto  il
correntista  abbia  effettuato  non  solo   prelevamenti   ma   anche
versamenti, questi ultimi potranno essere considerati come pagamenti,
idonei  a  fondare  il  diritto  alla  ripetizione   (ove   risultino
indebiti), in quanto abbiano  avuto  lo  scopo  e  l'effetto  di  uno
spostamento patrimoniale in favore della banca.  Cio'  accadra'  solo
quando si tratti di versamenti eseguiti su un conto in  passivo,  cui
non accede alcuna apertura  di  eredito  a  favore  del  correntista,
oppure siano stati superati i limiti dell'accreditamento. 
    Per contro, quando  il  passivo  non  abbia  superato  il  limite
dell'affidamento concesso al cliente, i versamenti da questi posti in
essere, fungeranno unicamente da atti ripristinatori della  provvista
di cui il correntista puo' ancora continuare a godere (cfr. in primis
Cass. Sez. Unite del 2 dicembre 2010, Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413;
Cass. 6 novembre 2007, n. 23107; Cass. 23 novembre 2005, n. 24588). 
    In tale ipotesi, il versamento  non  ha  funzione  solutoria  del
mutuo, bensi' di  mera  riespansione  della  misura  dell'affidamento
utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. 
    Non e', dunque, un pagamento, perche' non soddisfa  il  creditore
ma amplia (o ripristina) la facolta' d'indebitamento del correntista;
e la circostanza che, in quel momento, il saldo passivo del conto sia
influenzato  da  interessi  illegittimamente  fin  li'  computati  si
traduce in  un'indebita  limitazione  di  tale  facolta'  di  maggior
indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi.  In  tal
caso, la fattispecie dell'adempimento, sub specie di pagamento, sara'
configurabile soltanto dopo che, conclusosi il rapporto  di  apertura
di credito in conto corrente, la banca abbia preteso e  ottenuto  dal
correntista la restituzione del saldo finale, nel computo  del  quale
risultino compresi somme e competenze non dovute. 
    Pertanto, in armonia  con  i  principi  generali  in  materia  di
adempimento e di ripetizione d'indebito, e con quelli  relativi  alla
causa del contratto de quo, la  decorrenza  della  prescrizione  deve
essere individuata: a)  nel  versamento  (nell'ipotesi  di  conto  in
passivo, senza affidamento, cosi'  come  di  superamento  del  limite
affidato);  b)  nella  chiusura  del  rapporto  (quando   non   siano
effettuati  versamenti,  in  pendenza  di  rapporto,  o   quando   il
versamento,  effettuato  in  pendenza  di  rapporto,  abbia  funzione
meramente ripristinatoria dell'affidamento). 
    Percio', all'atto di emanazione del decreto Milleproroghe e della
sua conversione in  legge,  tra  le  possibili  opzioni  ermeneutiche
dell'art. 2935 c.c. e della disciplina della materia, non vi era, ne'
avrebbe potuto esserci anche quella fatta propria dalla  disposizione
censurata. 
    D'altronde,  l'esclusione  dell'interpretazione   censurata   dal
novero  di  quelle   ammissibili,   deriva   anche   dalle   seguenti
considerazioni. 
    Il legislatore ha deciso di far decorrere il dies a  quo  da  una
circostanza di fatto (l'annotazione in conto) che esula  dalla  sfera
conoscitiva del cliente, il quale e' reso edotto delle movimentazioni
del proprio conto solo con la ricezione  dell'estratto  conto  (primo
atto con cui si attua il valore della conoscibilita' delle competenze
annotate in proprio favore dalla Banca). 
    Pertanto, chi non ha avuto (ne' avrebbe potuto avere)  conoscenza
dell'esistenza di addebiti in proprio sfavore, perche'  semplicemente
annotati in conto e no anche  comunicati,  non  e'  nelle  condizioni
giuridiche di esercitare  qualunque  pretesa  restitutoria  di  altra
natura. 
2. Violazione del principio di azione ex art. 24 Cost. 
    E' evidente il contrasto con il principio di azione  ex  art.  24
Cost. nella parte in cui si prescrive che: «In ordine alle operazioni
bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 del codice civile  si
interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti
dall'annotazione   in   conto   inizia   a   decorrere   dal   giorno
dell'annotazione stessa». 
    Il legislatore fa decorrere (peraltro, con efficacia retroattiva)
il dies a  quo  della  prescrizione  da  una  circostanza  di  fatto,
l'annotazione,   che   esula   dalla   sfera   conoscitiva   (e    di
conoscibilita') del cliente. Questi, infatti, e'  reso  edotto  delle
movimentazioni del proprio conto solo con la ricezione  dell'estratto
conto,  quale  primo  atto  con  cui  si  attua   il   valore   della
conoscibilita' delle competenze  annotate  in  proprio  favore  dalla
Banca. 
    Allo stesso modo censurabile e' anche la parte in cui si  afferma
che: «in ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi  gia'
versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente   decreto-legge».   Tale   previsione   e'   stata    letta,
nell'immediatezza dell'approvazione della norma, come una clausola di
salvaguardia della posizione giuridica dei clienti che  abbiano  gia'
ricevuto il rimborso, cui la prescrizione non  potrebbe  piu'  essere
eccepita. 
    Nondimeno,  la  norma   de   qua,   nella   sua   genericita'   e
approssimazione, si presta anche ad  una  lettura,  ulteriore  e  non
esclusiva della prima, resa  possibile  dalla  formulazione  testuale
della stessa. 
    Parrebbe potersi desumere che, se il cliente ha gia' effettuato i
versamenti indebiti, pretesi dalla banca, non ne possa richiedere  la
restituzione. Orbene,  tale  opzione  interpretativa  (probabilmente,
escludibile sulla base  di  un'esegesi  costituzionalmente  orientata
della  norma)  contrasta  col  principio  di  giustiziabilita'  delle
posizioni giuridiche soggettive. Tale profilo  di  illegittimita'  e'
aggravato dalla portata retroattiva  che  il  legislatore  ha  voluto
riconoscere alla norma de qua, in  virtu'  della  prima  parte  della
stessa. 
    Cosi' facendo, si e' introdotto, in via legislativa,  il  divieto
di ripetizione  in  via  stragiudiziale  e  giudiziale  delle  somme,
indebitamente corrisposte dai clienti del sistema bancario, senza che
tale scelta possa  definirsi  quale  esito  del  contemperamento  del
diritto di azione, che e' consacrato  costituzionalmente,  con  altri
valori di rango eguale o superiore. 
    Per scelta del legislatore (e tale considerazione investe sia  la
prima che la seconda  parte  della  norma),  pertanto,  una  condotta
illecita come l'addebito al correntista  di  competenze  e  interessi
contra legem, in virtu' di disposizioni penali (interessi  usurai)  o
di natura civilistica (inderogabili perche' espressione  di  principi
di ordine pubblico economico  -  interessi  contra  legem,  interessi
anatocistici),  diviene  di  fatto  non  sanzionabile.  Infatti,   il
correntista e' privato, a causa dell'intervento legislativo  de  quo,
della condicio indebiti. 
    Se,  di  per  se',  la  previsione  di  un  limite  alla   tutela
giurisdizionale, sub specie della sua radicale esclusione, appare  in
contrasto coi principi costituzionali, a fortiori,  tale  censura  si
aggrava a fronte dell'espressa previsione della retroattivita'  della
suddetta preclusione del ricorso al rimedio giurisdizionale. 
    D'altronde,  la  giurisprudenza  costituzionale   e'   ricca   di
precedenti   da   cui    e'    possibile    trarre    il    principio
dell'indefettibilita' della tutela giurisdizionale,  quale  caposaldo
dello Stato di Diritto. Ad esempio,  in  materia  di  obbligatorieta'
dell'istituto  arbitrale,  e'  stato   costantemente   ribadito   che
l'accesso all'actio giudiziaria puo'  essere  condizionato,  mediante
l'imposizione  del  previo  ricorso  a  modalita'  stragiudiziali  di
composizione della controversia (es. tentativo  di  conciliazione  e,
oggi, di mediazione), ma non  anche  escluso,  con  l'imposizione  di
modalita' alternative di risoluzione delle controversie. 
    In particolare, la Corte costituzionale, fin  dalla  sentenza  n.
127 del 1977, ha osservato che, poiche' la Costituzione garantisce ad
ogni soggetto il diritto di agire  in  giudizio  per  la  tutela  dei
propri diritti ed interessi legittimi, «il  fondamento  di  qualsiasi
arbitrato e' da rinvenirsi nella libera scelta delle  parti:  perche'
solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei  possibili  modi  di
disporre, anche in senso negativo, del diritto di  cui  all'art.  24,
comma primo, Cost.) puo' derogare  al  precetto  contenuto  nell'art.
102, comma primo, Cost. [...], sicche' la «fonte» dell'arbitrato  non
puo'  piu'  ricercarsi  e  porsi  in  una  legge  ordinaria  o,  piu'
generalmente, in una volonta' autoritativa». 
    Tale principio e' stato costantemente ribadito con le sentenze n.
325 del 1998, n. 381 del 1997, n. 54 del 1996, numeri 232, 206  e  49
del 1994, n. 488 del 1991, e precisato nel senso  che  anche  qualora
sia richiesto «l'accordo delle parti  per  derogare  alla  competenza
arbitrale, si rimette pur sempre alla volonta' della sola  parte  che
non voglia tale accordo derogatorio, l'effetto di rendere l'arbitrato
concretamente obbligatorio  per  l'altro  soggetto  che  non  l'aveva
voluto», essendo «sufficiente la mancata intesa  sulla  deroga  della
competenza  arbitrale  per  vanificare   l'apparente   facoltativita'
bilaterale dell'opzione» (sentenza C.C. 152/96). 
3. Violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza ex art. 3
Cost. 
3.1. Introduzione di un'inammissibile disparita' di  trattamento  tra
banche e utenti del sistema bancario. 
    La norma viola anche il principio di ragionevolezza e uguaglianza
(art. 3 Cost.) perche', con una  previsione  ad  hoc,  introduce  una
disciplina che,  menomando  i  poteri  di  reazione  processuale  dei
clienti del sistema bancario, assicura un  ingiustificato  privilegio
per  le   banche,   introducendo   un'inammissibile   disparita'   di
trattamento tra due categorie di soggetti. 
    Cio', senza che tale diversificazione dei  poteri  sostanziali  e
processuali trovi giustificazione, neppure nell'esigenza  di  colmare
un eventuale e preesistente divario tra le parti, che veda le  banche
in una posizione di minorata difesa, riallineando le loro posizioni. 
    D'altronde,  a  voler  individuare  un  contraente  debole  nella
relazione creditizia, questo non potrebbe essere individuato  se  non
nell'utente   del   sistema   bancario.   Cio'   in    considerazione
dell'abituale soggezione del destinatario del credito  nei  confronti
dell'ente erogante,  dal  quale  dipende,  spesso,  la  sopravvivenza
economica personale o della propria famiglia. 
    Proprio la constatazione di tale  soggezione,  di  tale  naturale
disparita' economica delle parti del rapporto cliente - banca avrebbe
reso ragionevole anche in  tale  sedes  materiae  -  come,  peraltro,
verificatosi in occasione di altri interventi  normativi  in  materia
(Legge sulla trasparenza bancaria n. 154 del 1992, T.U.B. in  materia
bancaria, n. 385/1993) - una regola iuris, di favore per l'utente del
sistema bancario, e non per tale ultimo. 
    Infatti, risponde  ad  una  regola  di  esperienza  di  difficile
smentita che il cliente, traendo  dal  credito  bancario  le  risorse
essenziali per il soddisfacimento delle proprie  esigenze  economiche
quotidiane, non richiedera' la restituzione di  quanto  indebitamente
versato se non al momento della  definitiva  chiusura  del  rapporto.
Cio', nella  consapevolezza  che  un  qualunque  contenzioso  con  la
propria banca portera', con  ogni  probabilita',  all'interruzione  o
alla sospensione nell'erogazione del credito. 
    Ne consegue che una legge, che avesse perseguito l'attuazione del
principio di uguaglianza, sub specie dell'eliminazione degli ostacoli
all'esercizio dei diritti dell'utente del sistema  bancario,  avrebbe
dovuto far decorrere il dies a quo, sempre e comunque, dalla chiusura
del conto, a  prescindere,  cioe',  dalla  natura  ripristinatoria  o
solutoria del versamento. 
3.2. Introduzione di un'inammissibile disparita' di  trattamento  tra
tipologie contrattuali assimilabili sotto il profilo funzionale. 
    La norma censurata viola il principio di uguaglianza anche  sotto
un  diverso  aspetto,  introducendo  un  dies  di  decorrenza   della
prescrizione diverso non solo dall'unico coerente con la causa  e  la
funzione sociale dei contratti bancari  regolati  in  conto  corrente
(ed, in particolare, del contratto di apertura di credito), ma  anche
dallo statuto normativo dei singoli  tipi  contrattuali,  che  recano
profili di affinita' con il rapporto de quo. 
    Occorre premettere che, in materia,  prevale  l'opinione  secondo
cui, accanto alle operazioni bancarie in conto corrente, di volta  in
volta poste in essere tra banca e cliente, sarebbe  configurabile  un
vero e proprio contratto di conto corrente bancario. 
    L'espressione codicistica «conto corrente»  indicherebbe,  cioe',
non solo  una  peculiare  forma  di  contabilizzazione  dei  rapporti
derivanti da un'operazione bancaria (deposito o conto  corrente),  ma
anche una figura negoziale ad hoc, ovvero il c.d. conto  corrente  di
corrispondenza. 
    Controversa  e'  la  causa  del  negozio,  per  quanto   prevalga
l'opinione per cui verrebbe in rilievo un negozio complesso  atipico,
avente essenzialmente funzione di mandato,  il  cui  oggetto  sarebbe
l'espletamento, da parte della banca, di operazioni  di  pagamento  e
di' riscossione o, piu', in generale di un servizio di cassa. 
    Anche chi riconduce la fattispecie de qua alla diversa  categoria
del collegamento negoziale, risultante dalla combinazione di  diversi
e autonomi negozi,  individua  uno  di  questi  proprio  nel  mandato
(l'altro sarebbe, a secondo  delle  diverse  tesi  ricostruttive,  il
deposito  o  un  negozio  atipico  volto  alla   costituzione   della
disponibilita' di fondi). 
    Orbene, nell'ipotesi  del  mandato,  al  quale  il  contratto  di
apertura  di  credito  e'  abitualmente  e  ricondotto,  al  fine  di
individuarne il profilo causale essenziale (anche se non  esclusivo),
la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione del  rapporto,  e
cio' anche per quanto concerne i  singoli  atti  giuridici  posti  in
essere in esecuzione del mandato. 
    Le stesse considerazioni possono essere  fatte  con  riguardo  al
contratto di deposito cui l'apertura  di  credito  e'  ricondotta  da
alcuni sostenitori della teoria del c.d. collegamento negoziale.  E',
infatti, pacifico che la prescrizione  del  diritto  ad  ottenere  la
restituzione  della  cosa  depositata  inizia   a   decorrere   dalla
cessazione del  contratto,  ad  esempio,  per  scadenza  del  termine
previsto per la custodia, e non dalla data di deposito del bene. 
    Dunque, si introduce un regime  per  le  operazioni  bancarie  in
conto corrente  irragionevolmente  differenziato  rispetto  a  quello
previsto per  situazioni  giuridicamente  omogenee,  senza  che  tale
diversita' di trattamento sia assistita  da  alcuna  logica,  se  non
quella (verosimile) di  favorire  alcuni  operatori  commerciali  (le
banche) in danno degli utenti. 
3.3. Introduzione di un'inammissibile disparita' di  trattamento  tra
somme versate indebitamente, rispettivamente, prima e dopo  l'entrata
in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge. 
    Come gia' evidenziato la norma censurata  prevede  che  «in  ogni
caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia'  versati  alla
data di entrata in vigore della legge  di  conversione  del  presente
decreto-legge». 
    Si e' detto della  possibile  lettura  alternativa  della  norma,
peraltro, coerente con la sua portata retroattiva, ovvero  precludere
al  cliente  l'azione  di  ripetizione  («non  si   fa   luogo   alla
restituzione») delle somme gia' indebitamente corrisposte alla banca. 
    Orbene,  la  censurata  paralisi   dei   poteri   sostanziali   e
processuali di tutela degli utenti del sistema bancario e'  destinata
a operare per le sole somme gia' versate  alla  data  di  entrata  in
vigore della legge di conversione  del  presente  decreto-legge,  con
conseguente  introduzione  di  una  ingiustificata  compressione  del
diritto  di  ripetere  l'indebito  per  chi  abbia  posto  in  essere
pagamenti fino alla suddetta soglia temporale, e non  anche  per  chi
non versi ancora nella predetta situazione giuridica. 
    Anche in tale  caso  si  differenzia  il  regime  riservato  alla
medesima situazioni giuridica  (ovvero  il  pagamento  di  somme  non
dovute) sulla base di un mero dato temporale, senza che  tale  scelta
trovi  fondamento  in  un  equilibrato  contemperamento  dei   valori
costituzionali in gioco. 
4. Violazione del principio del giusto processo ex art. 111 Cost. 
    La norma viola anche l'art. 111 Cost., che  costituzionalizza  il
principio del giusto processo, sub specie della parita' delle «armi».
Infatti, limitatamente ai processi gia' pendenti, la  norma  de  qua,
supportata da  un'espressa  previsione  di  retroattivita',  viene  a
sancire  -  se  non  altro  nelle  ipotesi  in  cui,  dalle  indebite
annotazioni della banca, sia gia' decorso un decennio -  la  paralisi
processuale di chi abbia agito in giudizio,  esperendo  un'azione  di
ripetizione  d'indebito,  realizzando  cosi'  un  vulnus   ben   piu'
pregnante di un mero (e, di per se', censurabile) sbilanciamento  tra
i diritti contrapposti delle parti. 
5. Violazione delle funzioni costituzionalmente riservate  al  potere
giudiziario ex artt. 101, 102, 104 Cost. 
    La Corte costituzionale ha ripetutamente affermato  il  principio
secondo cui il legislatore vulnera le funzioni giurisdizionali quando
la  legge  sia  intenzionalmente  diretta  ad  incidere  su  concrete
fattispecie sub  judice  (cfr.  Corte  cost.  nn.  397/1994,  6/1994,
429/1993, 424/1993, 283/1993, 39/1993, 440/1992, 429/1991 ed  altre).
Si tratta, allora, di stabilire se  la  statuizione  contenuta  nella
norma censurata integri effettivamente i requisiti  del  precetto  di
fonte legislativa, come tale dotato dei caratteri  della  generalita'
ed  astrattezza,  ovvero  sia  diretto  ad   incidere   su   concrete
fattispecie e, come piu' volte ribadito, a vantaggio di una delle due
parti del giudizio. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Letti gli artt. 134 e 137 della Costituzione, e 23 della legge 11
marzo 1953, n. 87, il giudice di  pace  di  Potenza  in  persona  del
Giudice   dott.   avv.   Michele   Giuseppe   Pirro,   ritenuta   non
manifestamente infondata e rilevante, per la decisione  del  presente
giudizio, la questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2
comma 61, della legge n. 10 del  2011,  di  conversione  del  decreto
Milleproroghe  (D.L.  29  dicembre  2010,  n.  225,  pubblicato   nel
supplemento ordinario n. 53 della «Gazzetta Ufficiale» n. 47  del  26
febbraio  2011),  per  violazione  non  solo   dei   limiti   interni
all'ammissibilita' di una legge interpretativa, ma anche degli  artt.
3, 24, 101, 102, 104 e 111 della Costituzione nei termini  e  per  le
ragioni di cui in motivazione, promuovendola d'ufficio 
        dispone la sospensione del procedimento in corso; 
        ordina  la  notificazione   della   presente   ordinanza   al
Presidente del Consiglio dei ministri e la comunicazione della stessa
ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato; 
        ordina   la   trasmissione    dell'ordinanza    alla    Corte
costituzionale insieme con gli atti del giudizio e con la prova delle
notificazioni e delle comunicazioni prescritte. 
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti e le comunicazioni  di
rito. 
 
      Potenza, addi' 7 novembre 2011 
 
                      Il Giudice di pace: Pirro