N. 26 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 ottobre 2011

Ordinanza del 13 ottobre 2011  emessa  dal  Tribunale  amministrativo
regionale per la Calabria - Sez. staccata Reggio Calabria sul ricorso
proposto da Singh Gurpreet contro Ministero dell'Interno. 
 
Straniero  -  Procedura  di  emersione  per  la  regolarizzazione   -
  Esclusione per gli stranieri extracomunitari condannati, anche  con
  sentenza non definitiva, per uno dei reati previsti dagli artt. 380
  e 381 del c.p.p. - Mancata previsione  della  valutazione  concreta
  della  pericolosita'  sociale  -   Violazione   dei   principi   di
  ragionevolezza e proporzionalita' - Violazione del principio di non
  colpevolezza fino alla condanna definitiva - Violazione di obblighi
  internazionali derivanti dalla CEDU. 
- Decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, art. 1-ter, comma 13, inserito
  dalla legge 3 agosto 2009, n. 102. 
- Costituzione, artt. 3, 27 e 117, primo comma, in relazione all'art.
  8 della Convenzione per la salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e
  delle liberta' fondamentali . 
(GU n.10 del 7-3-2012 )
 
                IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro  generale  551  del  2011,  proposto  da:  Gurpreet   Singh,
rappresentato e difeso  dall'avv.  Attilio  Parrelli,  con  domicilio
eletto presso Attilio Parrelli, Avv. in Reggio Calabria, via Marsala,
27; 
    Contro  Ministero  dell'Interno,  in  persona  del  Ministro  pro
tempore, rappresentato e difeso  dall'Avvocatura  Distrettuale  dello
Stato, domiciliata per legge in Reggio Calabria, via del  Plebiscito,
15; 
    Per l'annullamento: 
        del decreto, prot.  N.  P-RC/L/N/2009/103898,  notificato  al
ricorrente in data 10 giugno 2011, con il quale  il  Dirigente  dello
Sportello Unico per l'Immigrazione di Reggio Calabria ha disposto  il
rigetto della domanda di emersione dal lavoro  irregolare  presentata
dal signor Sartiano Giuseppe in favore del cittadino indiano, nonche'
la revoca della richiesta di permesso di soggiorno; 
        della nota della Questura di Reggio Calabria 12 maggio 2011 e
di ogni altro atto presupposto. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visti  gli  atti  di  costituzione  in  giudizio   di   Ministero
dell'Interno e di Sportello Unico Per L'Immigrazione; 
    Relatore nella camera di consiglio del giorno 8 settembre 2011 il
dott. Giulio Veltri e uditi per le parti i difensori come specificato
nel verbale; 
 
                 Considerato in fatto ed in diritto 
 
    Il sig. Singh Gurpreet otteneva, in data 4 ottobre 2010, in esito
ad un'istanza di  emersione  dal  lavoro  irregolare  presentata  dal
relativo datore di lavoro, sig. Sartiano  Giuseppe,  il  permesso  di
soggiorno. In data 20 maggio 2011, tuttavia, la Prefettura di  Reggio
Calabria disponeva l'archiviazione della citata domanda di  emersione
e la revoca del permesso di  soggiorno  gia'  concesso,  poiche'  dal
riscontro dattiloscopico effettuato dalla locale Questura era  emerso
che il soggiornante era stato condannato, sebbene  sotto  le  diverse
generalita' di Singh Gurpreet, dal Tribunale di Reggio Calabria,  per
violazione dell'art. 582 cp, reato - quest'ultimo - ostativo a  sensi
dell'art. 1-ter comma 13 lett. c) della legge n. 102/2009. 
    Il provvedimento e' impugnato dal sig. Singh Gurpreet,  il  quale
deduce di aver tempestivamente interposto appello avverso la condanna
poiche': a) pronunciata sulla base  di  dichiarazioni  della  persona
offesa poi  sottrattasi  al  contraddittorio,  b)  nei  confronti  di
imputato dichiarato  irreperibile  nonostante  vi  fossero  oggettivi
elementi per  il  suo  rintraccio,  c)  in  un  processo  in  cui  il
principale elemento di colpevolezza  e'  integrato  da  dichiarazioni
testimoniali di un agente di polizia giudiziaria  aventi  ad  oggetto
dichiarazioni a lui rese ma non verbalizzate. 
    Consapevole dell'univocita' e perentorieta' dell'art. 1-ter comma
13 del decreto-legge 1° luglio 2009, convertito,  con  modificazioni,
in legge 3 agosto 2009, n. 102, a mente del quale «non possono essere
ammessi alla procedura di emersione prevista dal presente articolo  i
lavoratori extracomunitari ... c) che risultino condannati, anche con
sentenza non definitiva, compresa quella pronunciata anche a  seguito
di applicazione della pena su richiesta ai  sensi  dell'articolo  444
del codice di procedura penale, per  uno  dei  reati  previsti  dagli
articoli 380  e  381  del  medesimo  codice»,  il  ricorrente  chiede
rimettersi alla Corte costituzionale la verifica  della  legittimita'
costituzionale di tale norma nella parte in  cui  considera  ostativa
anche la condanna non definitiva  ed  in  ogni  caso  senza  che  sia
consentito all'amministrazione  che  istruisce  il  procedimento,  di
valutare la gravita' del reato, l'allarme sociale che  lo  stesso  ha
procurato, la condotta successiva tenuta dal soggetto. 
    L'amministrazione si  difende  valorizzando  il  tenore  testuale
della norma citata e la sussumibilita' della condanna  riportata  dal
ricorrente, nell'ambito di applicazione della stessa. 
    Ritiene il collegio che sussistano i  presupposti  per  rimettere
alla  Corte  costituzionale   la   valutazione   della   legittimita'
costituzionale della norma richiamata. 
    In punto  di  rilevanza  basti  osservare  che  essa  ha  valenza
dirimente in ordine alla decisione del caso concreto: la formulazione
letterale appare, infatti, si' univoca da escludere ogni  margine  di
interpretazione   adeguatrice;   anche   la   sussumibilita'    della
fattispecie in valutazione, nell'ambito applicativo della  norme  non
e' oggetto di dubbio alcuno. Tutte ragioni per le quali  il  collegio
dovrebbe, sulla base della normativa  richiamata,  addivenire  ad  un
rigetto del ricorso.  Potrebbe  invece  giungersi  ad  una  soluzione
diversa solo  ove  le  disposizioni  censurate  venissero  dichiarate
costituzionalmente  illegittime  nella  parte  in  cui  attribuiscono
automatica rilevanza anche alle condanne non passate in giudicato. 
    In ordine al fondamento delle questione valga quanto segue: 
    2. Violazione degli artt. 3 e 27 della Costituzione. 
    2.1.  La  Corte  costituzionale  ha  piu'  volte  affermato,   in
relazione alla presunta violazione dell'art.  3  della  Costituzione,
che  «la  regolamentazione  dell'ingresso  e  del   soggiorno   dello
straniero nel territorio nazionale e' collegata alla ponderazione  di
svariati interessi pubblici, quali, ad esempio,  la  sicurezza  e  la
sanita'  pubblica,  l'ordine  pubblico,  i   vincoli   di   carattere
internazionale e la politica nazionale in  tema  di  immigrazione,  e
tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario  il
quale possiede in materia un'ampia discrezionalita', limitata,  sotto
il profilo della conformita' a Costituzione, soltanto dal vincolo che
le sue scelte  non  risultino  manifestamente  irragionevoli»  (Cfr.,
sentenze n. 104 del 1969, n. 144 del 1970, n. 62 del 1994, n. 206 del
2006 e, da ultimo, Corte costituzionale, 16 maggio 2008, n. 148). 
    Facendo applicazione di siffatti principi la Corte  ha  dapprima,
proprio in relazione all'art. 3 Cost., dichiarato  costituzionalmente
illegittimi l'art. 33, comma 7, lettera c),  della  legge  30  luglio
2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di
asilo), e dell'art. 1, comma  8,  lettera  c),  del  decreto-legge  9
settembre  2002,  n.  195  (Disposizioni  urgenti   in   materia   di
legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari), convertito,
con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2002, n. 222, nella parte in
cui facevano derivare automaticamente il  rigetto  della  istanza  di
regolarizzazione del lavoratore extracomunitario dalla  presentazione
di una denuncia per uno dei reati per i quali gli articoli 380 e  381
cod. proc. pen. prevedono l'arresto  obbligatorio  o  facoltativo  in
flagranza, in proposito osservando come «nel  nostro  ordinamento  la
denuncia,  comunque  formulata  e   ancorche'   contenga   l'espresso
riferimento a una o a piu' fattispecie criminose, e' atto  che  nulla
prova riguardo alla colpevolezza o alla  pericolosita'  del  soggetto
indicato come autore degli atti che il  denunciante  riferisce.  Essa
obbliga soltanto gli organi competenti a verificare se  e  quali  dei
fatti esposti in  denuncia  corrispondano  alla  realta'  e  se  essi
rientrino in ipotesi penalmente sanzionate,  ossia  ad  accertare  se
sussistano le condizioni per  l'inizio  di  un  procedimento  penale»
(Cfr. Corte costituzionale 18 febbraio 2005 n. 78). 
    Di recente la Corte ha invece dichiarato infondata, in  relazione
allo  stesso  parametro,  la  questione  di   costituzionalita'   del
combinato disposto dell'art. 4, comma 3,  e  dell'art.  5,  comma  5,
d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, nel testo risultante  a  seguito  delle
modifiche di cui alla legge 30 luglio 2002 n.  189,  censurato  nella
parte contemplante, quale causa ostativa al rinnovo del  permesso  di
soggiorno, la condanna definitiva a seguito  di  patteggiamento,  per
reati  inerenti  agli  stupefacenti,  senza  alcuna  valutazione   in
concreto della pericolosita' del condannato. In tale ultima occasione
essa ha escluso che possa considerarsi manifestamente  irragionevole,
«condizionare  l'ingresso  e  la  permanenza  dello   straniero   nel
territorio nazionale alla circostanza della  mancata  commissione  di
reati di non scarso rilievo, come  quelli  connessi  alla  violazione
della  normativa  sugli  stupefacenti;   ne'   possono   considerarsi
manifestamente irragionevoli: a) il fatto che non venga dato  rilievo
alla sussistenza delle condizioni per la  concessione  del  beneficio
della  sospensione  della  pena,  data  la  non   coincidenza   delle
valutazioni sottese rispettivamente alla non esecuzione della pena  e
al giudizio  di  indesiderabilita'  dello  straniero  nel  territorio
italiano; b) il fatto che non sia previsto uno specifico giudizio  di
pericolosita' sociale dei singoli soggetti, costituendo l'automatismo
espulsivo un riflesso del principio di stretta legalita'  che  permea
l'intera disciplina dell'immigrazione e che  costituisce,  anche  per
gli stranieri, presidio ineliminabile dei loro  diritti,  consentendo
di   scongiurare   possibili   arbitri   da   parte    dell'autorita'
amministrativa; c) il fatto che la condanna sia emessa a  seguito  di
patteggiamento, giacche', da un lato,  la  sentenza  di  applicazione
della pena su richiesta, salve  diverse  disposizioni  di  legge,  e'
equiparata a una pronuncia di  condanna  e,  d'altra  parte,  per  le
fattispecie - quali quelle oggetto dei giudizi a quibus - interamente
verificatesi dopo l'entrata in vigore della legge n. 189 del 2002, il
fatto che la condanna sia intervenuta in sede di  patteggiamento  non
appare significativo, in quanto nell'opzione  del  rito  alternativo,
l'imputato e' posto ex ante nella piena condizione di conoscere tutte
le conseguenze scaturenti dalla  scelta  processuale  operata»  (Cfr.
Corte costituzionale, 16 maggio 2008, n. 148). 
    2.2. La fattispecie oggetto di odierno scrutinio non  e'  toccata
dalle citate pronunce poiche', pur essendo  governata  dal  principio
della «discrezionalita' ampia» del legislatore nella regolamentazione
dell'ingresso  e  del  soggiorno  dello  straniero   nel   territorio
nazionale, ha ad oggetto, a differenza delle questioni gia'  vagliate
- che prevedevano nell'un caso la mera  denuncia  e  nel  secondo  la
condanna definitiva «patteggiata» - una  norma  che  dispone  la  non
ammissione alla procedura di emersione (e la conseguente  espulsione)
dei lavoratori extracomunitari che risultino  condannati,  anche  con
«sentenza non definitiva» per uno dei reati previsti dagli artt.  380
e 381 dal codice di procedura penale. 
    Vengono cioe' in rilievo, nel caso di specie,  ipotesi  di  reato
che, pur avendo superato le  soglie  dell'indagine,  non  sono  state
ancora oggetto di  un  accertamento  giudiziario  definitivo  perche'
pendenti i termini di gravame o per essere il nuovo  giudizio  ancora
sub indice. Dunque, una fattispecie,  in  un  certo  senso,  a  meta'
strada tra le due gia' vagliate dalla Corte costituzionale. 
    Dalle pronunce citate si ricava, invero, il principio secondo  il
quale  la  compatibilita'  costituzionale  della  scelta  legislativa
sussiste   esclusivamente   se   quest'ultima   e'   predicativa   di
pericolosita' o colpevolezza in relazione a reati considerati  gravi,
essendo  solo  in   siffatti   casi   ragionevolmente   prefigurabile
l'espulsione. 
    E' evidente che i due concetti - pericolosita' e  colpevolezza  -
sono  collegati   da   un   nesso   significativo   solo   in   senso
unidirezionale, potendosi ragionevolmente derivare  la  pericolosita'
dalla colpevolezza  e  non  gia'  viceversa,  talche',  nella  logica
argomentativa   della   Corte   costituzionale,   solo    l'accertata
colpevolezza nella commissione di' un reato puo' considerarsi  dotata
di  autosufficienza  in  funzione  della   decisione   amministrativa
espulsiva. E cio' e' comprensibile sol che si consideri che lo Stato,
cosi'  procedendo,  rifiuta  ospitalita'  a  stranieri  che  si  sono
macchiati  di  crimini  proprio  durante  il  pregresso  periodo   di
permanenza   nel   relativo   territorio.   Un   accertamento   della
pericolosita' in concreto dello  straniero,  in  questa  chiave,  non
farebbe altro che aggiungersi all'autonoma rilevanza della  condanna,
affidando  margini  di   discrezionalita'   all'amministrazione   con
potenziale detrimento del principio di legalita'. 
    Diversamente  deve  pero'  argomentarsi  se  non  v'e'  condanna,
poiche' in siffatta evenienza e' solo la  concreta  pericolosita'  la
valida   alternativa   che    puo'    ragionevolmente    giustificare
l'espulsione. La stessa, inoltre, in assenza di  un  accertamento  di
colpevolezza, non puo'  presumersi,  ancorche'  la  colpevolezza  sia
stata oggetto di una prima e non definitiva statuizione di  condanna,
dovendo  piuttosto  necessariamente  ancorarsi  ad  una   valutazione
prognostica  basata  su  dati  concreti  e  significativi  circa   la
specifica potenzialita' di reiterazione del comportamento delittuoso,
oltre che sul fumus commissi delicti. 
    Non e' dubbio che rispetto alla «mera denuncia» di  cui  all'art.
1, comma 8, lettera c), del decreto-legge 9 settembre 2002,  n.  195,
gia'  colpito  da  dichiarazione  di  incostituzionalita',  la  nonna
oggetto di odierna valutazione  appaia  piu'  attenta  allo  spessore
della fattispecie penale  presupposta,  contemplando  necessariamente
una rituale incriminazione ed un  vaglio  giudiziario  della  stessa,
sebbene non dotato dell'incontrovertibilita'. 
    Tuttavia,  se  la  ragione  che  ha  indotto  il  legislatore   a
determinarsi per l'ostativita', anche in presenza di un  accertamento
non definitivo, e' la sussistenza della colpevolezza in  ordine  alla
commissione di un  reato  considerato  grave,  allora  la  violazione
dell'art. 27 della  Cost.  a  mente  del  quale  «l'imputato  non  e'
considerato colpevole sino alla condanna definitiva» - e'  del  tutto
manifesta. L'art. 27 cit. esprime un principio di portata cogente che
opera senza distinguo nei confronti di imputati cittadini ed imputati
stranieri, imponendo che alcuna  sanzione,  penale  o  amministrativa
basata sulla  colpevolezza  possa  essere  validamente  comminata  in
assenza della definitivita' dell'accertamento giudiziario. 
    Ove invece, come  il  collegio  ritiene,  il  disposto  normativo
intenda sorreggersi su una  valutazione  implicita  di  pericolosita'
derivante dal fumus di colpevolezza rappresentato dalla  sentenza  di
condanna non  definitiva,  e'  l'art.  3  della  Costituzione  ed  il
principio di ragionevolezza ad essere violato. 
    Il mero  fumus  di  colpevolezza,  seppur  rilevante  nel  nostro
ordinamento ai fini  cautelari,  non  puo'  giungere  a  giustificare
sanzioni definitive  causative  di  un  profondo  vulnus  ai  diritti
fondamentali della persona riconosciuti dall'art. 2 Cost. a tutti,  a
prescindere  dalla  cittadinanza.   Siffatta   sanzione,   non   solo
priverebbe  del  lavoro  e  delle  relazioni  familiari  il  soggetto
extracomunitario - e cio' in  assenza  di  un  accertato  profilo  di
colpevolezza - ma  imponendosi  a  prescindere  dai  presupposti  che
nell'ordinamento nazionale consentono e  giustificano  il  ricorso  a
misure cautelari sia pur lievi, finisce per abbracciare  un  concetto
di pericolosita' attenuato e presunto,  valevole  solo  ai  fini  del
soggiorno degli extracomunitari. E tanto avverrebbe senza il supporto
di un accertamento giudiziario definitivo in ordine alla  sussistenza
dei fatti, alla circostanza che l'imputato  li  abbia  effettivamente
commessi ed alla loro rilevanza  penale  ma,  soprattutto,  senza  il
preliminare  vaglio  dell'autorita'  giudiziaria   in   ordine   alla
pericolosita' specifica dell'imputato o, comunque, senza  una  previa
valutazione  amministrativa  circa  l'effettiva   pericolosita'   del
soggetto, avuto riguardo alla natura e gravita' dei fatti  contestati
ed all'andamento della sua vita pregressa e postuma del medesimo. 
    In   definitiva,   la   norma,    determinando    automaticamente
l'espulsione  a  titolo  definitivo  del  soggetto   extracomunitario
condannato con sentenza non ancora passata in  giudicato,  per  reati
che  potrebbero  in  concreto   finanche   essere   insufficienti   a
legittimare un arresto in flagranza (l'art. 381 consente l'arresto in
flagranza solo se la misura e' giustificata dalla gravita' del fatto,
ovvero della pericolosita' del soggetto....), adotta un  concetto  di
pericolosita', sganciato dai parametri e dalle  modalita'  prescritte
per imposizione di misure cautelari o per le misure di sicurezza, che
coincide  a  ben  vedere  con  quello  di  mera  colpevolezza   nella
commissione di un reato. Ma  cio'  prescindendo  da  un  accertamento
definitivo della colpevolezza. 
    Possono allora conclusivamente richiamarsi le considerazioni gia'
espresse  dalla  stessa  Corte  in  relazione   alla   compatibilita'
costituzionale dell'efficacia espulsiva della mera denuncia. Anche in
questo  caso,  come  in  quello,  puo'  sostenersi  che  nel   nostro
ordinamento, l'accertamento  penale  ancora  sub  iudice,  nonostante
l'intervento di una sentenza  di  condanna  in  primo  grado,  «nulla
ancora prova riguardo alla  colpevolezza  o  alla  pericolosita'  del
soggetto indicato come autore degli atti». Esso ha solo  l'attitudine
a passare in giudicato, ma una volta che  l'imputato  abbia  proposto
gravame per scongiurarne l'immediata efficacia e l'irretrattabilita',
non e' in grado di fornire elementi atti ad obliterare la presunzione
di non colpevolezza  di  cui  all'art.  27  Cost.,  o  a  legittimare
interventi   espulsivi   automatici   basati   su   presunzioni    di
pericolosita'. 
    3. Violazione dell'art. 117 Cost.  per  contrasto  con  l'art.  8
della CEDU. 
    3.1. L'art. 1-ter comma 13  del  decreto-legge  1°  luglio  2009,
convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto  2009,  n.  102,  si
pone  altresi'  in  contrasto  con  l'art  117  comma  1  Cost.,  per
violazione dell'art.  8  della  Convenzione  Europea  per  i  diritti
dell'uomo, cosi' come interpretato dalla Corte Europea: «Ogni persona
ha diritto al rispetto della propria vita privata  e  familiare,  del
proprio domicilio e della propria corrispondenza.  Non  puo'  esservi
ingerenza di una autorita' pubblica nell'esercizio di tal  diritto  a
meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge  e  costituisca  una
misura che, in una societa' democratica, e' necessaria alla sicurezza
nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese,
alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione
della salute o della morale, o alla protezione dei  diritti  e  delle
liberta' altrui». 
    Come recentemente chiarito dalla Corte costituzionale,  le  norme
della C.E.D.U. - nel significato loro attribuito dalla Corte  europea
dei diritti dell'uomo, specificamente  istituita  per  dare  ad  esse
interpretazione ed applicazione - integrano, quali norme  interposte,
il parametro costituzionale espresso dall'art. 117,  comma  1,  Cost.
nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna
ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Pertanto, ove  si
profili un eventuale contrasto tra una  norma  interna  e  una  norma
della C.E.D.U,  il  giudice  nazionale  comune  deve  preventivamente
verificare  la  praticabilita'  di  un'interpretazione  della   prima
conforme alla norma  convenzionale,  ricorrendo  a  tutti  i  normali
strumenti di ermeneutica giuridica, e,  qualora  tale  soluzione  non
risulti percorribile, non  potendo  comunque  disapplicare  la  norma
interna contrastante, deve denunciare  la  rilevata  incompatibilita'
proponendo q.l.c. in riferimento all'art. 117, comma  1,  cost.  (Cfr
Corte costituzionale, 24 ottobre 2007, n. 348 e  349  e,  da  ultimo,
Corte costituzionale, 12 marzo 2010, n. 93). 
    Scartata,  in  ragione  di  quanto  in   premessa   dedotto,   la
percorribilita'  di  una  interpretazione  adeguatrice,   il   furnus
dell'incostituzionalita' appare manifesto. 
    3.2. E' fuor di dubbio che secondo la Corte Europea  spetti  allo
Stato contraente controllare l'ingresso nel proprio  territorio,  non
garantendo - la Convenzione - il diritto dello straniero di entrare o
di risiedere in un determinato paese; nondimeno pacifico e' che,  per
la predetta ragione, gli Stati hanno facolta' di espellere, a  tutela
dell'ordine pubblico  interno,  non  solo  uno  straniero  privo  del
regolare permesso di soggiorno, ma  anche  uno  straniero  munito  di
regolare permesso che delinque (Cfr.,  ex  plurimis,  Uner  c.  Paesi
Bassi, sentenza del  18  ottobre  2006  (ric.  n.  46410/99),  Grande
Camera, §§ 54 ss.) 
    Tuttavia, nel compiere il bilanciamento tra  sicurezza  e  ordine
pubblico e diritti  dello  straniero  che  viene  espulso,  la  Corte
Europea precisa che  l'ingerenza  dello  Stato  deve  comunque  avere
riferimento ad una base legale ed  uno  scopo  legittimo,  oltre  che
essere  necessaria  in  una  societa'  democratica,   vale   a   dire
giustificata   da   un   bisogno   sociale   imperativo    e    dalla
proporzionalita' rispetto allo scopo perseguito (Cfr. tra  le  molte,
Dalia c. Francia, sentenza del 19 febbraio 1998, §  52;  Slivenko  c.
Lettonia, sentenza del 9 ottobre  2003  (ric.  n.  48321/99),  Grande
Camera, § 113; Uner, cit.; Maslov c. Austria, sentenza del 23  giugno
2008, §§ 68 ss.). 
    La  «necessarieta'»  e'  risultato  di  un  processo   valutativo
condotto alla luce del criterio di proporzionalita', di guisa  che  -
secondo la Corte EDU - soltanto ragioni particolarmente gravi possono
giustificare il rifiuto del rilascio di un titolo di  soggiorno,  ben
potendo le stesse, ad esempio, essere integrate  dalla  gravita'  dei
reati commessi da uno straniero residente sul territorio di uno Stato
membro (la Corte europea ha nello specifico ribadito la  legittimita'
dell'espulsione nei confronti di coloro che sono condannati per reati
connessi al  traffico  di  stupefacenti  -  Cfr.  Dalia  c.  Francia,
sentenza del 19 febbraio 1998, § 54; Mokrani c. Francia, sentenza del
15 luglio 2003, § 32 e Aoulmi c. Francia,  sentenza  del  17  gennaio
2006, § 48.). 
    Nel caso di specie si e' tuttavia di  fronte  ad  una  norma  che
contempla tutti i casi di cui all'art. 381 del  codice  di  procedura
penale, ossia reati che,  in  relazione  all'eventuale,  particolare,
tenuita' del fatto in  concreto  commesso,  potrebbero  esprimere  un
cosi' basso grado di allarme sociale da inibire persino l'arresto  in
flagranza. Ove quanto predetto si  associ  alla  circostanza  che  il
reato preso in considerazione e' oggetto di accertamento  penale  non
ancora definitivo, i dubbi che  siffatte  condizioni  possano  essere
sufficienti ad integrare la condizione di necessarieta' alla luce del
citato   criterio   di   proporzionalita',   diventano   numerosi   e
consistenti. 
    La giurisprudenza della Corte EDU  dimostra  che  la  valutazione
della gravita' ai fini  della  necessarieta'  deve  essere  fatta  in
concreto. Una simile valutazione e' stata per la prima volta compiuta
dalla Corte nel caso Boultif c. Svizzera, sentenza del 2 agosto  2001
(ric. n. 54273/00) al fine di verificare se nella specie (difficolta'
della convivenza di due sposi a causa dell'espulsione verso il  paese
d'origine del coniuge straniero a seguito di una condanna penale)  la
misura dell'espulsione fosse proporzionata al suo scopo  («necessaria
in  una  societa'  democratica»).  La  Corte  ha  in  quell'occasione
chiarito che occorre prendere in considerazione: 1) la  natura  e  la
gravita' dell'infrazione commessa dal ricorrente; 2)  la  durata  del
suo soggiorno nel paese dal quale deve essere espulso; 3) la condotta
del ricorrente nel periodo che decorre dalla commissione  del  reato;
4) la nazionalita' delle persone coinvolte, la  situazione  familiare
del  ricorrente  (durata  del  matrimonio,  e  altri   elementi   che
attestassero il carattere  effettivo  della  vita  di  coppia  e  che
consentano di sapere se il coniuge e' o  no  al  corrente  del  reato
all'inizio  della  relazione;  la  nascita  di  figli  legittimi   ed
eventualmente la loro eta'); 5) la  gravita'  delle  difficolta'  che
eventualmente rischia di incontrare il coniuge  nel  paese  d'origine
del suo sposo, benche' questo semplice fatto non sia  sufficiente  ad
escludere l'espulsione, etc. 
    Tutti elementi neanche in minima parte  presi  in  considerazione
dal  legislatore  italiano,  il  quale,  non  solo  ha   coniato   un
automatismo espulsivo prescindendo dalla  gravita'  in  concreto  del
reato, dalla personalita'  del  reo  e  dalla  sua  condizione  socio
economica e familiare, ma lo ha altresi' collegato ad un accertamento
non definitivo, obliterando il principio generale di non colpevolezza
comune agli Stati contraenti. 
    4. Violazione dell'art. 117 Cost.  per  contrasto  con  l'art.  6
della CEDU. 
    4.1. Da ultimo, le norme di cui si  discorre  sembrano  porsi  in
ulteriore contrasto con l'art.  6  CEDU,  nell'esegesi  datane  dalla
Corte Europea: «1. Ogni persona ha diritto a che  la  sua  causa  sia
esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da
un tribunale indipendente e  imparziale,  costituito  per  legge,  il
quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti
e dovere di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale
formulata nei suoi confronti. ... 3. In particolare, ogni accusato ha
diritto di: a) essere informato, nel piu' breve tempo  possibile,  in
una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura  e
dei  motivi  dell'accusa  formulata  a  suo  carico:  c)   difendersi
personalmente o avere l'assistenza di un difensore di sua  scelta  e,
se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito
gratuitamente  da  un  avvocato  d'ufficio,  quando  lo  esigono  gli
interessi della giustizia; ... e farsi assistere gratuitamente da  un
interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza». 
    Non v'e'  dubbio  che  anche  allo  straniero  si  applichino  le
garanzie del giusto processo di cui all'art. 6 CEDU, sicche' lo Stato
incontra  dei  limiti  specifici  rispetto  al  potere   di   vietare
l'ingresso o la  permanenza  di  stranieri  sul  proprio  territorio,
proprio in ragione della salvaguardia del  diritto  degli  stessi  ad
essere  informati  e  soprattutto  a  partecipare  personalmente   ai
processi nei  quali  risultano  imputati  (con  riguardo  allo  Stato
Italiano, cfr. Sejdovic c. Italia, sentenza del 1° marzo 2006, Grande
Camera, § 81-95 e, piu' di  recente,  Kollcaku  c.  Italia,  sentenza
dell'8 febbraio 2007 §§ 46-56). 
    Nel caso Harizi c. Francia, sentenza del 29 marzo 2005  (ric.  n.
59480/00), ad esempio, il ricorrente, cittadino algerino residente in
Francia, fu processato per essersi rifiutato  di  ottemperare  ad  un
ordine di espulsione.  Assolto  in  primo  grado  per  illegittimita'
formale dell'atto ministeriale, fu condannato in secondo grado, senza
avere la possibilita' di difendersi,  essendo  stato  sottoposto  nel
frattempo alla misura  dell'allontanamento  coattivo  dal  territorio
francese  e  non  avendo  ottenuto  dalle  autorita'  il   necessario
temporaneo lascia-passare. La  Corte  giudico'  la  sua  condanna  in
contumacia, incompatibile con L'art. 6 CEDU. 
    Nel caso oggetto di odierna valutazione, l'art.  1-ter  comma  13
del decreto-legge 1° luglio 2009, convertito, con  modificazioni,  in
legge 3 agosto 2009, n. 102, ha l'effetto di determinare l'espulsione
dello straniero, pur in presenza di un processo di  appello  attivato
dallo stesso espulso per accertare la sua innocenza. 
    E' pur vero che l'art.  17  della  legge  6  marzo  1998,  n.  40
consente  allo  straniero,   parte   offesa   ovvero   sottoposto   a
procedimento penale, di rientrare in Italia per il tempo strettamente
necessario per l'esercizio del diritto di difesa,  al  solo  fine  di
partecipare al giudizio o al  compimento  di  atti  per  i  quali  e'
necessaria la sua  presenza,  previa  autorizzazione  rilasciata  dal
questore anche per il tramite di  una  rappresentanza  diplomatica  o
consolare su documentata richiesta della parte offesa o dell'imputato
o del difensore. E' pero' parimenti incontestabile  che  l'espulsione
dallo Stato in cui e' celebrato il processo non puo'  non  costituire
fattore di notevole ostacolo, sia dal punto di  vista  economico  che
logistico, all'effettiva partecipazione  al  processo,  ostacolo  non
causalmente  riconducibile  al  comportamento  dell'espulso  ove   si
consideri quanto sopra detto in relazione  alla  presunzione  di  non
colpevolezza. 
    5. In definitiva, il  Collegio  -  che,  con  separata  ordinanza
assunta  nella  camera  di  consiglio  dell'8  settembre   2011,   ha
temporaneamente sospeso l'efficacia  dell'atto  impugnato  sino  alla
prima camera di consiglio successiva  alla  restituzione  degli  atti
relativi al presente giudizio da parte della Corte  Costituzionale  -
ritiene rilevante e non  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita'   costituzionale   dell'art.   1-ter   comma   13    del
decreto-legge 1° luglio 2009, convertito, con modificazioni, in legge
3 agosto 2009, n. 102, nella parte in cui  dispone  che  non  possono
essere ammessi alla procedura di emersione tutti coloro che risultino
condannati, anche con sentenza non  definitiva,  per  uno  dei  reati
previsti dagli articoli 380 e 381 del  codice  di  procedura  penale,
senza consentire all'amministrazione  alcuna  valutazione  in  ordine
alle circostanze soggettive ed oggettive del caso  concreto  ed  alla
pericolosita' attuale dello straniero. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli artt. 134 Cost.; 1 legge cost. 9 febbraio 1948,  n.  1,
23 legge 11 marzo 1953, n. 87: 
        dichiara  rilevante  e  non   manifestamente   infondata   la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1-ter comma 13 del
decreto-legge 1° luglio 2009, convertito, con modificazioni, in legge
3 agosto 2009, n. 102, per violazione degli artt. 3, 27 e 117  Cost.,
secondo quanto in premessa specificato; 
        ordina  l'immediata  trasmissione  degli  atti   alla   Corte
costituzionale; 
        ordina che a cura della Segreteria della Sezione la  presente
ordinanza sia notificata alle parti in  causa  e  al  Presidente  del
Consiglio dei ministri, nonche' comunicata ai Presidenti della Camera
dei deputati e del Senato della Repubblica. 
 
    Cosi' deciso in Reggio Calabria nella  camera  di  consiglio  del
giorno 8 settembre 2011. 
 
                        Il Presidente: Caruso 
 
 
                                                  L'estensore: Veltri