N. 48 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 dicembre 2011
Ordinanza del 1° dicembre 2011 emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Brindisi sui ricorsi riuniti proposti da Acque Chiare s.r.l. contro Agenzia delle entrate - Ufficio di Brindisi.. Imposte sui redditi - Redditi tassabili - Determinazione - Indeducibilita' dei costi o delle spese riconducibili a fatti, atti o attivita' qualificabili come reato - Violazione del principio della capacita' contributiva (essendo quest'ultima calcolata al lordo di costi effettivamente sostenuti dal contribuente) - Violazione del principio della presunzione d'innocenza sino a condanna definitiva - Violazione dei principi di razionalita' e di uguaglianza, in relazione al sistema di contabilizzazione dei costi e delle rimanenze adottato dalle imprese edili - Irragionevole disparita' di trattamento fra attivita' imprenditoriali penalmente illecite, a seconda dei tempi di fabbricazione dei prodotti e dei settori in cui operano - Richiamo alla sentenza n. 103 del 1967 della Corte costituzionale. - Legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, aggiunto dall'art. 2, comma 8, della legge 27 dicembre 2002, n. 289. - Costituzione, artt. 3, 27, comma secondo, e 53.(GU n.14 del 4-4-2012 )
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE Premesso che la societa' ricorrente ha eccepito l'illegittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 4-bis, della legge 24 dicembre 1993 n. 537, introdotto dall'art. 2, comma 8, della legge 27 dicembre 2002 n. 289, per contrasto con gli artt. 53 e 27 della Costituzione. Prima di valutare se l'eccezione in parola sia o meno assistita dal requisito della «non manifesta infondatezza», e' necessario e preliminare esaminare la rilevanza della questione di costituzionalita' sulla decisione che la scrivente Commissione e' chiamata ad emettere nella presente controversia. A - A tale fine si premette quanto segue. L'Agenzia delle entrate con autonomi avvisi di accertamento a carico di Acque Chiare s.r.l. ha riportato a materia imponibile tutti i costi e le spese dichiarati dalla predetta societa' relativamente agli armi 2004, 2005 e 2006, sul presupposto che la stessa, allorche' ha costruito (nel 2004 e 2005) le unita' immobiliari poi vendute (nel 2006 e successivamente), ha svolto attivita' qualificabile come reato, cioe' attivita' di lottizzazione abusiva di cui agli artt. 6, 18 e 20 lett. c) della legge n. 47/85. Contestualmente l'Agenzia delle Entrate ha liquidato l'IRES sul maggior reddito cosi' determinato, nonche' l'IRAP sul conseguente maggior valore della produzione. Con gli stessi avvisi di accertamento l'ufficio ha mosso ulteriori contestazioni, che si riportano per mera completezza espositiva in quanto relative a questioni su cui i dubbi di costituzionalita' avanzati non appaiono rilevanti. Sul presupposto che il complesso immobiliare costruito e negoziato costituisca un complesso turistico-alberghiero, illegittimamente frazionato, e non un gruppo di singole unita' abitative, l'Agenzia delle Entrate ha rideterminata l'IVA sulla base dell'aliquota ordinaria del 20% sulle fatture emesse per la vendita di ciascuna delle predette unita' immobiliari, contestando alla contribuente l'illegittima applicazione dell'IVA ridotta del 10% e di quella ulteriormente ridotta del 4% concessa agli acquirenti della prima casa. Uguale rideterminazione dell'IVA veniva effettuata (e per la stessa motivazione) anche sulle fatture passive dei fornitori. Infine l'ufficio, ravvisando la violazione dell'art. 26, comma 3, del d.P.R. n. 633/72, ha contestato alla contribuente la illegittima detrazione dell'IVA relativa ad alcuni atti di recesso posti in essere, oltre un anno dopo la sottoscrizione del compromesso, da promettenti acquirenti non piu' interessati all'acquisto. Contro gli avvisi predetti la societa' contribuente ha proposto separati ricorsi, distinti dai nn. 321, 322 e 323 del 2010 del RGR, successivamente riuniti. Con i gravami predetti la contribuente ha avanzato in primis la gia' richiamata eccezione di illegittimita' costituzionale e, sempre in via principale, l'errata interpretazione ed applicazione della norma citata. Con quest'ultimo motivo la contribuente ha contestato in fatto e in diritto la qualificabilita' come reato dell'attivita' e/o delle operazioni da essa poste in essere e, in diritto, ha avanzato l'obiezione secondo cui la norma in parola si riferirebbe non a tutte le attivita' qualificabili come reato, ma solo alle operazioni penalmente illecite dirette all'ottenimento di vantaggi di natura fiscale e solo se gia' dichiarate penalmente illecite dal competente Giudice Penale (non invece se ritenute potenzialmente tali dall'Amministrazione Finanziaria). Sempre secondo la ricorrente, inoltre, la norma in parola mirerebbe a dare piu' incisiva attuazione a quella del comma 4 che la precede, cosi' da impedire che, in caso di sequestro o confisca penale dei proventi illeciti, i costi e le spese (ugualmente inerenti all'attivita' penalmente illecita) vengano portati in deduzione dall'imponibile delle annualita' successive. In subordine, la ricorrente ha inoltre contestato l'applicazione al caso specifico della disposizione in esame, assumendo che le imprese edili adottano un sistema di contabilizzazione dei costi e delle rimanenze in virtu' del quale i costi e le spese direttamente inerenti alla costruzione degli immobili vengono riportati in contabilita' anche come rimanenze e quindi come componenti positivi del reddito, sicche' l'applicazione della prefata norma comporterebbe il contestuale azzeramento sia di costi che di ricavi. Dal punto di vista della prassi contabile il rilievo e' stato confermato anche dalla relazione tecnica del CTU incaricato dalla scrivente. Si omettono le doglianze avverso i restanti rilievi in tema di aliquote IVA in quanto estranee alla questione di costituzionalita' in discussione e non incise da essa. La scrivente Commissione non ritiene, prima facile e salvo piu' approfondito esame, di poter condividere le interpretazioni della norma avanzate dalla contribuente in quanto non legittimate dal testo della disposizione. Va infatti ricordato il principio base dell'ermeneutica legislativa, secondo cui quando il significato proprio delle parole usate dal legislatore, secondo la connessione di esse, e' chiaro ed univoco, come nel caso delle disposizioni in esame, l'interprete non e' facultato a cercare altri significati sulla base di ulteriori criteri interpretativi (art.12 del Cod. Civ.). In forza delle considerazioni che precedono appare, dunque, evidente ed inconfutabile la rilevanza della sollevata questione di legittimita' costituzionale sull'esito della controversia. B - Tornando ai rilievi di illegittimita' costituzionale, questi possono essere cosi' riassunti: 1) Violazione del principio della capacita' contributiva (art. 53 Cost.). L'art. 53 Cost. recita testualmente: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva». Aggiunge il comma 2: «Il sistema tributario e' informato a criteri di progressivita'». Secondo parte ricorrente la disposizione di cui al comma 4-bis dell'art. 14 della legge 24 dicembre 1993 n. 537 confliggerebbe appunto con il principio della capacita' contributiva sancito dalla norma costituzionale citata. Difatti - si sostiene - la capacita' contributiva, data dai ricavi al netto dei costi di produzione e delle spese, costituisce il limite costituzionale al potere impositivo dell'amministrazione finanziaria. Orbene, la norma sospettata di illegittimita' costituzionale travalicherebbe, appunto, quel limite, tassando una capacita' contributiva inesistente, perche' calcolata al lordo di costi effettivamente sostenuti dal contribuente. Con precedente decisione (sentenza n. 53 del 18.2.2010) la scrivente commissione, decidendo sulla medesima fattispecie, ha ritenuto che l'indeducibilita' dei costi inerenti ad attivita' e/o operazioni delittuose risponda prevalentemente a logiche repressivo/sanzionatorie e dissuasive e sia pertanto affrancata dai vincoli costituzionali riconducibili al citato art. 53 Cost. Un piu' attento esame di alcune sentenze della Corte costituzionale, piu' risalenti, autorizza, pero', qualche dubbio su questa interpretazione. In proposito e' stata di recente richiamata (Comm. Trib. Reg. del Veneto - Verona, Sez. XI, 11 aprile 2011 n. 27) la sentenza n. 103 del 1967 con la quale venne dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 22, comma primo, del d.P.R. 5 luglio 1951 n. 573 per violazione dell'art. 53 Cost., nella parte in cui la norma predetta disponeva che, in caso di omessa dichiarazione dei redditi soggetti ad imposte dirette, il contribuente veniva tassato per un reddito pari a quelli dichiarati nell'anno precedente maggiorati del 10 per cento. La motivazione con cui la Corte Costituzionale giunse alla dichiarazione di incostituzionalita' suggerisce una riflessione ulteriore sul giudizio di non manifesta infondatezza qui in esame. «La pura e semplice considerazione - si legge nella sentenza n. 103/67 - di un presumibile ulteriore sviluppo dell'attivita' del contribuente con conseguente aumento del reddito e' inidonea a legittimare la maggiorazione in esame poiche' nessun elemento concreto o indice positivo puo' essere posto a suo fondamento. La norma denunciata preclude al contribuente di dimostrare di aver realizzato un reddito inferiore a quello iscritto a ruolo ed e' del tutto irrazionale estendere tale preclusione all'aumento del 10 per cento». Alla luce di questa decisione la dedotta questione di illegittimita' costituzionale appare, penano, non manifestamente infondata. 2) Violazione del principio della presunzione di innocenza (27, comma 2, Cost.) Secondo la disposizione costituzionale «L'imputato non e' considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Parte ricorrente sostiene che la norma denunciata, poiche' sottopone a tassazione costi di produzione effettivamente sostenuti, in quanto relativi ad attivita' e/o ad operazioni qualificabili come reato, sebbene non ancora riconosciute tali in via definitiva dal Giudice penale, violerebbe il principio della presunzione di innocenza sino a condanna definitiva, sancito dalla Costituzione. La Commissione scrivente, come dianzi ricordato, ha in precedenza adottato un opposto indirizzo, sul presupposto che l'indeducibilita' dei costi e delle spese, stabilita dalla norma in esame, sia estranea al sistema sanzionatorio penale, sebbene prevista per sanzionare una condotta penalmente rilevante, nonche' sul rilievo che il Giudice tributario possa sempre decidereincidenter tantum su questioni attribuite alla competenza di altre giurisdizioni, sicche' egli ha il potere di delibare se la condotta del contribuente sia "qualificabile come reato", benche' al solo fine di decidere sull'indeducibilita' o meno dei costi di produzione. Tuttavia tale ultima interpretazione, melius re perpensa, non appare scevra da dubbi e incertezze, perche' lascia irrisolto il problema della grave ingiustizia a cui puo' portare una norma che sanzioni in sede tributaria (il piu' delle volte con effetti irreversibili sulla sopravvivenza dell'impresa) condotte che successivamente il Giudice penale puo' anche ritenere meritevoli di assoluzione. In forza di questo dubbio, la scrivente Commissione valuta anche quest'ultimo profilo di illegittimita' costituzionale come non manifestamente privo di fondamento. 3) Violazione dell'art. 3 Cost. (principio di razionalita' e di uguaglianza). La Commissione, sulla scorta di uno dei motivi di impugnativa proposti dalla societa' ricorrente, intende, infine, muovere d'ufficio il seguente ulteriore profilo di possibile illegittimita' costituzionale della disposizione in esame. Le imprese edili, la cui attivita' riguarda opere con tempi di esecuzione ultrannuali, portano in contabilita' i costi e le spese di costruzione dei fabbricati anche come rimanenze finali, quindi come componenti attivi. Sicche' nel caso in questione negare la deducibilita' dei costi significa paradossalmente - secondo l'assunto della ricorrente - azzerare anche le rimanenze finali e quindi i ricavi. Consegue da cio' che con l'applicazione del comma 4-bis dell'art. 14 della legge n. 537/93 si avrebbero due possibili e opposte conseguenze: o il contemporaneo azzeramento di costi e ricavi, o la tassazione di ricavi fittizi, perche' del tutto inesistenti. Nel primo caso verrebbe vanificato l'intento sanzionatorio-dissuasivo che sottende la ratio della disposizione e la norma risulterebbe inutiliter data agli effetti sia impositivi che sanzionatori. Nel secondo caso ne deriverebbe una sanzione abnorme e irrazionale perche' svincolata da qualsiasi parametro idoneo a graduarne l'entita' in funzione della gravita' della violazione. In entrambi i casi, inoltre, si determinerebbe un'evidente e irragionevole disparita' di trattamento fra attivita' imprenditoriali ugualmente illecite sul piano penale, che verrebbero pesantemente sanzionate ovvero «graziate» solo in ragione della tipologia di prodotti trattati (con tempi di fabbricazione ultrannuali o non) e dei settori produttivi in cui le imprese operano. Le ragioni che precedono comportano che la questione sollevata, oltre che essere rilevante ai fini della decisione finale della controversia, appaia anche non manifestamente infondata e pertanto meritevole di esame da parte del Giudice delle leggi. A tale conclusione spinge anche la constatazione che negli ultimi mesi in varie sedi, non solo da parte della dottrina e dei Giudici tributari, siano stati avanzati pesanti dubbi sulla legittimita' costituzionale della disposizione in esame, sulla base di motivazioni in gran parte conformi a quelle che precedono.
P.Q.M. Visto l'art. 23 della Legge 11 marzo 1953 n. 87, ordina la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale a cura della segreteria, la quale provvedera' altresi' alla notificazione della presente ordinanza alle parti, al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Brindisi, addi' 3 novembre 2011 Il Presidente: Leoci