N. 49 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 settembre 2011

Ordinanza del 29 settembre 2011 emessa dal Tribunale di Agrigento nel
procedimento penale a carico di Ginex Maria Giovanna ed altri.. 
 
Misure di prevenzione - Misure  di  prevenzione  patrimoniali  (nella
  specie,  sequestro  e  successiva  confisca  dei  beni  di  persona
  indiziata di appartenere  ad  associazione  di  stampo  mafioso)  -
  Denunciata attivazione della procedura di prevenzione  patrimoniale
  nei confronti di un  soggetto  deceduto  prima  della  formulazione
  della richiesta - Proponibilita' della misura, in caso di morte del
  soggetto nei confronti del  quale  potrebbe  essere  disposta,  nei
  riguardi dei successori a titolo universale o particolare - Lesione
  del  diritto  di  difesa  -  Violazione  dei  principi  del  giusto
  processo, in particolare del diritto al contraddittorio. 
- Legge 31 maggio 1965, n. 575, artt. 2-bis, comma  6-bis,  e  2-ter,
  comma 11. 
- Costituzione, artt. 24, commi primo e secondo, e 111, primo comma. 
(GU n.14 del 4-4-2012 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Riunito in camera di consiglio, sciogliendo la riserva assunta il
21 giugno 2011, ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento
di  prevenzione  nei  confronti  di  Ginex  Maria  Giovanna,  Messina
Francesco, Messina  Maria,  Gucciardo  Alfonso,  Messina  Giuseppina,
Burgio Calogero, Messina Giuseppe, Fuca'  Rosalia,  Messina  Tiziana,
successori a titolo universale di Messina Arturo,  nato  a  Agrigento
1'8 dicembre 1945, deceduto il 13  aprile  2008,  su  proposta  della
Procura della Repubblica presso il Tribunale  di  Palermo  -  Sezione
Misure di Prevenzione dell'8 aprile  2009  (pervenuta  il  15  aprile
2010) di applicazione della misura di prevenzione della confisca  dei
beni  gia'  appartenuti  al  defunto  e  pervenuti  per   successione
ereditaria; 
    Visto il decreto di sequestro  n.  19/2010  del  5  luglio  2010,
adottato da questo Tribunale a norma degli artt.  2-bis  c.  6-bis  e
2-ter c. 11 legge 31 maggio 1965, n. 575; 
    Esaminati gli atti; 
    Preso atto delle conclusioni formulate in udienza dalle parti  in
ordine alla misura di prevenzione richiesta:  il  P.M.,  riportandosi
alla proposta, ha insistito per la confisca dei beni;  la  difesa  ha
chiesto il rigetto della proposta ed il dissequestro dei beni; 
    Dato atto che la  difesa  ha  eccepito  costituzionale  dell'art.
2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965; 
    Ritenuto  necessario  sospendere  la  deliberazione  al  fine  di
sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2-bis c.
6-bis legge n. 575/1965 e dell'art. 2-ter c. 11 legge n. 575/1965; 
 
                               Osserva 
 
Il procedimento 
    La Procura della Repubblica presso  il  Tribunale  di  Palermo  -
Sezione Misure di Prevenzione, in data 8 aprile 2009, ha  proposto  a
questo Tribunale l'adozione della misura di prevenzione  patrimoniale
(sequestro e  successiva  confisca)  dei  beni  ritenuti  gia'  nella
disponibilita' di Messina Arturo,  nato  ad  Agrigento  1'8  dicembre
1945,  deceduto  il  13  aprile  2008.  L'Autorita'   proponente   ha
evidenziato la sussistenza della pericolosita'  sociale  di  Messina,
gia' positivamente riscontrata da questo Tribunale, che  con  decreto
del 23 maggio 2000 (def. 10  luglio  2002)  gli  aveva  applicato  la
misura di prevenzione della  sorveglianza  speciale  con  obbligo  di
soggiorno  per  la  durata  di  anni  quattro,  ritenendolo  soggetto
appartenente   all'organizzazione   criminale   di   stampo   mafioso
denominata «Cosa Nostra». 
    Sono stati, poi, evidenziati gli esiti di alcuni processi  penali
che si sono conclusi con altrettante condanne definitive di Messina e
che hanno acclarato la sua affiliazione alla predetta  organizzazione
criminale ed, in particolare,  alla  sua  articolazione  territoriale
(«famiglia») operante nel territorio di Agrigento-Villaseta,  sino  a
raggiungervi il ruolo di vertice. 
    Si tratta, in particolare: 
        1. della sentenza adottata dalla Corte d'Appello  di  Palermo
il 20 giugno 1990,  irrevocabile  il  28  giugno  1991  (in  parziale
riforma della sentenza del  Tribunale  di  Agrigento  del  23  luglio
1987), nella quale Messina Arturo e' stato condannato  alla  pena  di
anni 4 e mesi 6 di reclusione per il reato di  cui  all'art.  416-bis
c.p., commesso nel 1985; 
        2. della sentenza adottata dalla Corte d'Appello  di  Palermo
1'8 febbraio 2001,  irrevocabile  il  12  aprile  2002  (in  parziale
riforma della sentenza del  GIP  del  Tribunale  di  Palermo  del  18
gennaio 2000), nella quale Messina Arturo e'  stato  condannato  alla
pena di anni 7 e mesi 4 di reclusione e £ 18.000.000  di  multa,  tra
gli altri, per i reato di  estorsione  continuata  e  danneggiamento,
commessi dal 3 febbraio 1994 al 9 marzo 1998; 
        3. soprattutto, della sentenza adottata dalla Corte  d'Assise
d'Appello di Palermo il 22 marzo 2003, irrevocabile l'11 ottobre 2004
(in parziale riforma della sentenza della Corte d'Assise di Agrigento
del 18 luglio 2001 cd. «Akragas»), con  la  quale  Messina  e'  stato
condannato all'ergastolo con  isolamento  diurno  per  18  mesi,  per
associazione di stampo mafioso omicidio, porto e detenzione di  armi;
commessi tra il 1993 ed  il  1999,  sentenza  nella  quale  e'  stata
esaminata la posizione di oltre 50 imputati ed e'  stato  ricostruito
l'organigramma delle due associazioni di stampo mafioso (Cosa  Nostra
e Stidda) che, tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni  '90,
si sono fronteggiate in una sanguinosa guerra per il controllo  delle
attivita' criminali nella provincia di Agrigento. In  tale  sentenza,
e' stata non solo accertato il ruolo di capo del  mandamento  mafioso
di Agrigento e di vice capo della provincia mafiosa di Agrigento  del
proposto in quegli anni,  ma  anche  il  suo  ruolo  di  mandante  ed
organizzatore di alcuni omicidi commessi nell'ambito  della  predetta
guerra di mafia. 
        4. Infine, la sentenza della Corte d'Appello di  Palermo  del
25 marzo 2005, irrevocabile il 10 novembre 2006, con la quale Messina
Arturo e' stato condannato alla pena della reclusione per anni  11  e
alla multa di € 2.000,00, per il delitto  di  estorsione  continuata,
aggravata dal metodo mafioso, commesso tra il 1997 ed il 1999. 
    A fronte di tali emergenze, il Tribunale ha  senz'altro  ritenuto
integrato   il    presupposto    soggettivo    della    pericolosita'
«qualificata»,  richiesto  per   l'applicazione   delle   misure   di
prevenzione sia personali che patrimoniali. 
    La Procura ha richiesto la misura  patrimoniale  sulla  base  del
disposto dell'art. 2-ter c. 11 della legge  n.  575/1965,  introdotto
dal d.l. 92/2008, che prevede che «la confisca puo' essere  proposta,
in caso di morte del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere
disposta,  nei  riguardi  dei  successori  a  titolo   universale   o
particolare, entro il termine di cinque anni dal decesso». 
    Conformemente a tale dettato normativo,  sono  stati  individuati
come eredi la moglie di Messina Arturo (Ginex Maria  Giovanna)  ed  i
figli (Messina Francesco, Messina Maria, Messina Giuseppina,  Messina
Giuseppe e Messina  Tiziana)  ed  e'  stato  richiesto  il  sequestro
anticipato di numerosi beni (immobili,  mobili  registrati,  rapporti
bancari  ed  assicurativi,  nonche'  un'azienda   di   panificazione)
intestati ai predetti,  pervenuti  sia  iure  successionis,  sia  per
donazione dal de cuius, sia, infine,  acquistati  in  base  ad  altro
titolo da terzi estranei. 
    In tale modo, la proposta  e'  stata  estesa  anche  a  beni  non
rientranti nella successione ereditaria e  acquistati  dai  figli  di
Messina autonomamente, alcuni dei  quali  cointestati  ai  rispettivi
coniugi (Gucciardo Alfonso, marito di Messina Maria; Burgio Calogero,
marito di  Messina  Giuseppina;  Fuca'  Rosalia,  moglie  di  Messina
Giuseppe). 
    Il Tribunale ha parzialmente accolto  la  proposta  di  sequestro
anticipato, escludendo i beni risultanti nella titolarita'  esclusiva
dei coniugi dei figli di Messina Arturo. 
    Nel corso del  procedimento  camerale,  piu'  volte  rinviato  su
richiesta della difesa, e' stata acquisita su supporto informatico la
sentenza della Corte d'Assise di Agrigento del 18  luglio  2001  (cd.
«Akragas»). 
    Inoltre, sono stati prodotti documenti solo con riferimento ad un
immobile sequestrato a Messina Giuseppina ed a Burgio Calogero  (cfr.
istanza di dissequestro depositata il 27 luglio 2010), ancorche' piu'
volte il difensore abbia rappresentato di avere in corso una  ricerca
documentale ed anticipato di voler produrre un elaborato tecnico. 
    Nel corso dell'udienza di conclusione, i  difensori  degli  eredi
hanno sollevato questione di legittimita' costituzionale  dell'intero
comma 6-bis dell'art. 2-ter della legge n.  575/1965,  per  contrasto
con gli artt. 24,  27,  42  e  111  della  Costituzione,  depositando
memoria illustrativa delle ragioni della ritenuta illegittimita'. 
L'eccezione di illegittimita' costituzionale sollevata  dalla  difesa
con riferimento all'art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965. 
    La difesa degli eredi di Messina Arturo ha sollevato  l'eccezione
di illegittimita' costituzionale dell'intero  comma  6-bis  dell'art.
2-bis della legge n. 575/1965, per contrasto con gli artt. 24, 27, 42
e 111 della Costituzione. 
    Ad avviso della difesa il sistema  delle  misure  di  prevenzione
delineato a seguito delle riforme legislative dell'art.  2-bis  legge
n. 575/1965 (operate dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 e dalla legge
15 luglio 2009, n. 94) si porrebbe, anzitutto, in netto contrasto con
l'art. 111 Cost. 
    Secondo  il  difensore,  infatti,  la  separazione  della  misura
patrimoniale da quella personale avrebbe modificato la  natura  della
confisca  di  prevenzione:  da  misura  di  carattere  preventivo   o
amministrativo, essa sarebbe divenuta una  vera  e  propria  sanzione
penale,  con  conseguente  necessita'   di   applicare   i   principi
costituzionali del giusto processo  e  della  parita'  tra  accusa  e
difesa. 
    La difesa, dopo aver richiamato brevemente i  recenti  interventi
della Corte di cassazione SS.UU. n. 13426 del 25 marzo 2010  (che  ha
sancito il principio della inutilizzabilita' anche  nel  procedimento
di prevenzione delle intercettazioni disposte in violazione di legge)
e  della  Corte  costituzionale  n.  93/2010   (che   ha   dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art.  4  legge  n.  1423/1956  e
dell'art. 2-ter legge n. 575/1965, nella parte in cui non  consentono
al proposto di richiedere  che  il  procedimento  di  prevenzione  si
svolga con le forme della pubblica udienza), argomenta la  violazione
dell'art. 111 Cost. in base alla considerazione che  il  procedimento
di prevenzione si basi «su presunzioni atte ad intervenire  su  fatti
sostanzialmente delittuosi dei quali non e' richiesta  alcuna  prova»
ed, in particolare, con riferimento alla posizione degli eredi, sulla
presunzione  della  illecita  provenienza  dei  beni  pervenuti  iure
successionis. 
    L'esistenza di siffatta presunzione, che  sino  all'esistenza  in
vita del proposto determinerebbe solo una inversione dell'onere della
prova (secondo la difesa, gia' di per se' violativa del principio  di
presunzione di non colpevolezza e del diritto di tacere  del  reo  e,
pertanto, in contrasto con l'art. 27 Cost.),  si  trasformerebbe,  in
caso di procedimento nei confronti degli eredi, in una vera e propria
presunzione iuris et de iure, stante la difficolta' di dimostrare  la
legittima provenienza dei beni del de cuius  dovute  al  decorso  del
tempo ed all'impossibilita' oggettiva di avvalersi  delle  conoscenze
dello stesso circa la formazione del patrimonio. 
    Sotto questo profilo, la disposizione contrasterebbe,  oltre  che
«con l'art. 111 Cost. e con l'art. 27  Cost.,  anche  con  l'art.  24
Cost., posto che - secondo  la  difesa  -  l'autonomia  delle  misure
patrimoniali rispetto a quelle personali consentirebbe di operare  il
sequestro in assenza di qualunque prognosi di pericolosita' sociale e
senza alcun accertamento di responsabilita' penale. 
    Infine, le misure di prevenzione patrimoniali in  caso  di  morte
del reo contrasterebbero con l'art. 42 Cost. sia con riferimento alla
tutela  della  proprieta',  sia  con  riferimento  alla  liberta'  di
iniziativa economica privata (potendo colpire anche imprese, come  e'
nel caso di  specie),  perche'  determinerebbero  una  ingiustificata
aggressione di un patrimonio solo sulla base di una presunta, ma  non
pienamente  dimostrata  (giacche'  basata  solo  su  indizi)  origine
illecita, a prescindere dalla lecita destinazione finale del bene. 
La rilevanza della questione e la sua estensione all'art. 2-ter c. 11
legge n. 575/1965 
    Va  doverosamente  premesso  che   molte   delle   argomentazioni
utilizzate dalla difesa nel prospettare l'eccezione di illegittimita'
costituzionale dell'art. 2-bis c. 6-bis legge  n.  575/1965  sono  da
tempo state sottoposte all'attenzione della  Corte  costituzionale  e
risolte con la dichiarazione di infondatezza delle relative questioni
di legittimita' (v. infra,  nella  parte  relativa  alla  valutazione
della non manifesta infondatezza). 
    Purtuttavia, l'eccezione ha offerto lo spunto al Collegio per una
riflessione sulla  portata  della  innovazione  legislativa  e  sulla
compatibilita' con il dettato costituzionale delle  disposizioni  che
consentono l'applicazione delle  misure  patrimoniali  nei  confronti
degli eredi. 
    Ritiene,  dunque,  il  Collegio  che  (sia   pure   per   ragioni
differenti, come si  vedra')  l'eccezione  possa  essere,  in  parte,
considerata rilevante e che, conseguentemente, debba essere sollevata
questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  2-bis  c.  6-bis
legge n. 575/1965,  nella  parte  in  cui  consente  di  attivare  la
procedura di prevenzione patrimoniale nei confronti  di  un  soggetto
deceduto prima della formulazione della richiesta, per contrasto  con
gli artt. 24 e 111 Cost. 
    Va osservato,  in  primo  luogo,  che  la  disposizione  ritenuta
illegittima dalla difesa e' solo  in  parte  riferibile  al  caso  di
specie,  posto  che  essa  contiene  l'enunciazione  generale   della
possibile  applicazione  disgiunta  delle   misure   di   prevenzione
personale e patrimoniale,  della  quale  la  proposta  d'applicazione
della misura di prevenzione patrimoniale agli eredi  costituisce  una
delle ipotesi conseguenti. 
    Puo', infatti, farsi luogo  all'applicazione  della  sola  misura
patrimoniale  anche  in  altre  ipotesi:  nei   casi   specificamente
disciplinati di assenza, residenza o dimora all'estero (art. 2-ter c.
7 legge n. 575/1965) e di applicazione di misure di  sicurezza  (art.
2-ter c. 8  legge  n.  575/1965)  -  nei  quali,  stante  il  mancato
mutamento della lettera delle disposizioni, dovra' valutarsi  se  sia
ancora  necessaria  l'attivazione  del  procedimento  di  prevenzione
personale  -,  in  caso  di  precedente  applicazione  della   misura
personale o di sua completa esecuzione, ovvero di  impossibilita'  di
applicazione   della   misura   personale   per   cessazione    della
pericolosita'  sociale  (tipico  e'  il  caso  dei  collaboratori  di
giustizia) o  per  morte  del  proposto  intervenuta  nel  corso  del
procedimento o, infine, per morte del soggetto socialmente pericoloso
intervenuta ancor prima della proposta. 
    Quest'ultima ipotesi e' quella che viene in rilievo nel  caso  di
specie ed e', pertanto, limitatamente  ad  essa  che  si  ritiene  di
restringere la portata della eccezione sollevata dalla  difesa  e  di
considerarne la rilevanza. 
    Occorre tenere presente, inoltre, che la specifica fattispecie di
applicazione disgiunta della misura patrimoniale  che  viene  qui  in
rilievo  e'  specificamente  contemplata  e  disciplinata  da   altra
disposizione che la difesa non considera, l'art. 2-ter c. 11 legge n.
575/1965. Difatti, tale disposizione (anch'essa introdotta  dall'art.
10 c. 1, lett. d, n. 4 d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv.  con  modif.
in legge 24 luglio 2008, n.  125,  cd.  «pacchetto  sicurezza  2008»)
prevede testualmente: «la confisca puo' essere proposta, in  caso  di
morte del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere  disposta,
nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare,  entro
il termine di cinque anni dal decesso». 
    Anche  con  riferimento  a  tale  disposizione  viene   sollevata
questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli artt.
24 e 111 Cost. 
    Si da' atto  che  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 2-ter c. 111 legge n. 575/1965 e' gia' stata sollevata  dal
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con ordinanza del 3 marzo 2011,
con argomentazioni ed osservazioni  che  questo  Tribunale  condivide
integralmente. 
    Al fine di chiarire la rilevanza della questione di  legittimita'
delle  due  disposizioni  predette  e  di  inquadrare  le   eccezioni
difensive nell'ambito della evoluzione normativa e  giurisprudenziale
del  sistema  delle  misure  di  prevenzione,  si  ritiene   doveroso
procedere alla ricostruzione dei rapporti tra misure  di  prevenzione
personali e patrimoniali. 
    Sino alle modifiche operate dai «pacchetto sicurezza 2008»  (d.l.
23 maggio 2008, n. 92, conv. con modif. in legge 24 luglio  2008,  n.
125) e dal «pacchetto sicurezza 2009» (legge 15 luglio 2009, n.  92),
l'art.  2-ter  legge   n.   575/1965   prevedeva   un   rapporto   di
pregiudizialita' necessaria tra misure  di  prevenzione  personali  e
patrimoniali, posto che permetteva il sequestro dei beni dei soggetti
indiziati di appartenere ad associazioni criminali di stampo mafioso,
solo nell'ambito di un procedimento per l'applicazione  delle  misure
di prevenzione personali. La legittimita' costituzionale delle misure
patrimoniali e' stata ripetutamente sottoposta al vaglio della  Corte
costituzionale, che si e' espressa piu' volte per la conformita' alla
Costituzione del sistema delineato dal legislatore. 
    Con particolare riferimento alla ipotesi di morte del proposto ed
al rapporto di pregiudizialita' tra misure personali e  patrimoniali,
la Corte costituzionale nell'ordinanza del 23 giugno 1988, n. 721, ha
rilevato che la scelta di stabilire la  necessita'  o  meno  di  tale
nesso e' riservata al legislatore, che ha il compito di delineare gli
strumenti normativi di aggressione dei patrimoni illeciti. 
    La Corte, sulla  base  di  tale  principio,  ha  in  quella  sede
dichiarato  l'inammissibilita'  della   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 2-ter legge n. 575/1965, nella parte in  cui
non consentiva  l'applicazione  della  misura  patrimoniale  dopo  la
irrogazione della misura personale o in caso di  morte  dei  proposto
nelle more del procedimento di confisca. 
    Si tratta, invero, di due  delle  ipotesi  oggi  legislativamente
espressamente consentite dall'art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965. 
    Va, comunque, osservato che gia' prima dei due recenti interventi
legislativi  si  era  giunti,  per   via   interpretativa,   ad   una
attenuazione del vincolo di pregiudizialita' tra le due misure, ferma
restando la necessita' di accertamento  della  pericolosita'  sociale
del proposto. 
    In particolare va ricordata la sentenza Cass. SS.UU. n. 18 del  3
luglio 1996 (Simonelli), nella quale la Suprema  Corte  ha  affermato
che in caso di morte del proposto intervenuta dopo  la  definitivita'
del decreto di applicazione della misura personale,  ma  prima  della
definitivita' della confisca di prevenzione (che  deve  essere  pero'
gia' stata  disposta,  non  valendo  la  stessa  regola  in  caso  di
sequestro: nel caso valutato dalla Cassazione la morte  del  proposto
era intervenuta nelle more della  impugnazione  in  Cassazione  della
sola confisca), la misura patrimoniale conserva la  sua  efficacia  e
puo' giungere alla sua definitiva efficacia. 
    Secondo  la  Corte  di  cassazione,  infatti,  la   confisca   di
prevenzione - che non  ha  natura  sanzionatoria  ne'  stricto  sensu
preventiva - risponde alla esigenza di colpire i beni e i proventi di
attivita'  illecite,  per  estrometterli   dal   circuito   economico
collegato ad attivita' e soggetti  criminosi,  esigenza  che  permane
nella medesima intensita', una volta accertati i presupposti di legge
- ossia la pericolosita' qualificata del soggetto  e  la  illegittima
provenienza dei suoi beni -  indipendentemente  dalla  permanenza  in
vita del soggetto o dalla  contemporanea  applicazione  della  misura
personale. 
    Le SS.UU. hanno chiarito che lo scopo delle  misure  patrimoniali
e' quello di eliminare l'utile economico  derivante  dalla  attivita'
criminale,  scopo  che  sarebbe  frustrato  se  fosse  consentito  ai
familiari del soggetto  o  a  terzi  prestanome  di  riacquistare  la
disponibilita'  di  tali  utilita'  economiche  dopo  la  morte   del
soggetto. 
    Sulla scorta di tali principi  la  successiva  giurisprudenza  di
legittimita' ha ritenuto che il procedimento di  prevenzione  potesse
essere iniziato anche dopo la cessazione degli effetti  della  misura
di prevenzione personale per  sopravvenuta  incompatibilita'  con  lo
stato di detenzione o di sottoposizione a liberta'  vigilata,  oppure
per revoca della misura di prevenzione personale per il  sopravvenuto
venir meno  della  pericolosita'  sociale  (Cass.  n.  12541  del  14
febbraio 1997, Nobile). 
    Del  resto,  tale   elaborazione   giurisprudenziale   e'   stata
supportata anche da due disposizioni contenute nell'art. 2-ter  legge
n. 575/1965 che consentivano, gia'  prima  della  riforma  del  2008;
l'applicazione della misura patrimoniale in ipotesi di impossibilita'
di applicazione della  misura  personale:  si  tratta  delle  ipotesi
contemplate agli attuali commi 7 e 8, che prevedono espressamente  la
sequestrabilita' e  confiscabilita'  dei  beni  di  ritenuta  origine
illecita  appartenenti  a  persona  socialmente  pericolosa  assente,
residente all'estero, dimorante all'estero (comma 7) o  sottoposta  a
misura di sicurezza detentiva o alla liberta' vigilata (comma 8). 
    Le due disposizioni (non toccate dalle riforme  del  2008  e  del
2009) non giungono, pero', a contemplare  l'applicazione  formalmente
disgiunta delle due misure (anche  se,  di  fatto,  arrivano  a  tale
risultato), poiche' prevedono che il procedimento per  l'applicazione
della  misura  di  prevenzione  personale  possa  essere  iniziato  o
proseguito, nelle predette ipotesi, «ai soli fini  dell'applicazione»
delle misure patrimoniali. 
    Tale  separazione  e'   stata   formalizzata   dagli   interventi
legislativi del 2008 e  del  2009,  che  hanno  disposto  in  maniera
esplicita (art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965) che  le  misure  di
prevenzione personali e  patrimoniali  possono  essere  richieste  ed
applicate disgiuntamente, che le misure patrimoniali  possano  essere
applicate anche in caso di cessazione della pericolosita' sociale del
proposto al momento della loro richiesta, che possano disporsi  anche
in caso di morte del soggetto  proposto  e  che,  in  caso  di  morte
intervenuta nelle more della procedura, il procedimento prosegua  nei
confronti di eredi ed aventi causa. 
    Come si e' detto, in ulteriore esplicitazione ditale principio e'
stato introdotto anche il c. 11 dell'art. 2-ter  legge  n.  575/1965,
che prevede la possibilita' di proporre la confisca  entro  i  cinque
anni dalla morte del  soggetto  e  che  il  procedimento  riguardi  i
successori a titolo universale e particolare. 
    Se, dunque, oggi il legislatore ha esplicitamente optato  per  la
applicabilita' disgiunta delle  misure  di  prevenzione  personali  e
patrimoniali, resta tuttavia dato indefettibile  la  sussistenza,  in
epoca  anteriore  o  contemporanea  alla  applicazione  della  misura
patrimoniale, della  pericolosita'  sociale  del  soggetto  proposto,
ossia la sua appartenenza (nel senso elaborato dalla  giurisprudenza)
ad organizzazioni criminali di stampo mafioso, ovvero la  commissione
da parte sua di delitti particolarmente indicativi  di  pericolosita'
sociale, ovvero ancora (stanti i piu'  recenti  arresti  in  materia)
anche la sua appartenenza ad una della categoria di pericolosita' cd.
non qualificata di cui ai n. 1 e n. 2 dell'art. 1 legge n. 1423/1956. 
    In altre parole, la ricorrenza del  presupposto  soggettivo,  sia
pure non piu' attuale, e' imprescindibile  per  l'applicazione  delle
misure patrimoniali e deve  esser  verificato  in  tutte  le  ipotesi
contemplate dalle disposizioni normative. 
    Anche in caso di applicazione della misura di prevenzione entro i
cinque anni dalla morte del soggetto va  verificato  che  egli  fosse
effettivamente socialmente pericoloso. Cio' che e' venuto meno con la
riforma legislativa non e' il requisito della pericolosita'  sociale,
che e' pur sempre elemento costitutivo dell'applicazione di tutte  le
misure di prevenzione, anche di quelle patrimoniali, ma quello  della
attualita' della pericolosita' sociale. 
    E' venuta anche  meno  la  necessita'  di  attivare  (sempre)  il
procedimento per l'applicazione della misura personale, anche  quando
esso ha il  solo  scopo  di  consentire  la  applicazione  di  quella
patrimoniale, come nei casi, gia' visti, contemplati dai commi 7 e  8
dell'art. 2-ter legge n. 575/1965. 
    Tale aspetto determina, ad avviso di chi scrive, una lesione  del
diritto di difesa, posto che il giudice della prevenzione e' chiamato
a formulare un giudizio di pericolosita' sociale nei confronti di una
persona che non e' piu' in vita e, dunque, non puo'  intervenire  nel
procedimento  ed  instaurare   il   contraddittorio   sulla   propria
qualificazione soggettiva o sulla provenienza dei propri beni. 
La non manifesta infondatezza della questione 
    La  Corte  costituzionale  e'  stata  ripetutamente  chiamata   a
pronunciarsi in ordine alla compatibilita' al dettato  costituzionale
del sistema delle misure di prevenzione. 
    Il tema  della  legittimita'  costituzionale  del  sistema  delle
misure di prevenzione e' stato  affrontato  e  positivamente  risolto
dalla Corte costituzionale in numerose pronunce, sin dai  primi  anni
del suo funzionamento; in  particolare,  esso  e'  stato  oggetto  di
valutazione nelle sentenze n. 27 del 1959; n. 45 del 1960; n. 126 del
1962; n. 23 e n. 68 del 1964; n. 32 del 1969 e n. 76 del 1970. 
    Gia' nella sentenza n. 2 del 1956, la Consulta ebbe ad  enunciare
la  portata  generale  del  principio  dell'obbligo  della   garanzia
giurisdizionale per  ogni  provvedimento  limitativo  della  liberta'
personale  (tra  i  quali,   certamente,   rientrano   anche   quelli
applicativi delle misure di prevenzione) e la regola del loro basarsi
non su semplici sospetti, bensi' su fatti specifici. 
    Nella sentenza n. 23 del 1964 la  Corte  ha  affermato  la  piena
compatibilita' col sistema costituzionale della scelta legislativa di
individuare i presupposti della  misura  di  prevenzione  su  criteri
differenti  rispetto  a  quelli  che   definiscono   le   fattispecie
criminose, stante la diversita' di natura e di scopo delle misure  di
prevenzione e delle sanzioni penali. 
    Ad  avviso  della  Corte,  e'  pienamente  legittimo  che  «nella
descrizione delle fatti specie (di prevenzione) il legislatore  debba
normalmente procedere con criteri diversi da quelli con  cui  procede
nella  determinazione  degli  elementi  costitutivi  di  una   figura
criminosa, e possa  far  riferimento  anche  a  elementi  presuntivi,
corrispondenti,  pero',  sempre,   a   comportamenti   obiettivamente
identificabili. Il che non vuoi dire minor rigore, ma diverso  rigore
nella  previsione  e  nella  adozione  delle  misure  di  prevenzione
rispetto alla previsione dei reati e dalla irrogazione delle pene». 
    La Consulta, comunque, chiarisce che le misure di prevenzione non
si  fondano  su  semplici  sospetti,  bensi'  su  elementi  di  fatto
oggettivi e su una obiettiva valutazione dei fatti da  cui  risultino
la condotta abituale ed il tenore di vita del soggetto, accertati  in
maniera rigorosa e tale da escludere valutazioni puramente soggettive
ed incontrollabili da parte del giudice. 
    Ha, inoltre, ribadito la necessita' del rispetto  della  garanzia
giurisdizionale   e   del   principio   di   legalita',   ossia   che
l'accertamento  giurisdizionale  della  pericolosita'   deve   essere
fondato su fattispecie e su  presupposti  di  fatto  descritti  dalla
legge; tale accertamento deve essere operato nel contraddittorio  tra
le parti. 
    Questi concetti sono stati ribaditi e sviluppati nel corso  degli
anni. 
    Basti rammentare la sentenza n. 177 del 1980,  con  la  quale  e'
stata dichiarata la illegittimita' costituzionale dell'art. 1,  n.  3
legge n. 1423/1956,  «nella  parte  in  cui  elenca  tra  i  soggetti
passibili delle misure di prevenzione previste dalla  legge  medesima
coloro che, per le  manifestazioni  cui  abbiano  dato  luogo,  diano
fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere». 
    In quella pronuncia, la  Consulta  ha  ribadito  la  legittimita'
costituzionale delle misure di prevenzione, in  quanto  esse  non  si
basano su meri sospetti, bensi'  su  un  giudizio  fondato  su  fatti
specifici. 
    Ha, inoltre, osservato che, per tale ragione,  e'  di  importanza
fondamentale che la fattispecie legale  permetta  di  individuare  le
condotte dal cui accertamento, nel caso concreto, possa  fondatamente
dedursi  il  giudizio  prognostico  sui  futuri   comportamenti   del
soggetto. 
    Secondo la Corte  «le  condotte  presupposte  per  l'applicazione
delle misure di prevenzione, poiche' si tratta  di  prevenire  reati,
non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o
ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione  si  tratta,
talche' la descrizione della o delle  condotte  considerate  acquista
tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal  loro
verificarsi  nel  caso  concreto  la  ragionevole   previsione   (del
pericolo) che quei reali potrebbero venire consumati ad opera di quei
soggetti.» 
    Quel che emerge da tali pronunce e' la necessita' che il  sistema
della prevenzione, pienamente legittimo, si basi sull'accertamento di
fatti specifici, individuati con sufficiente grado di  determinatezza
dal legislatore, tali da consentire al giudice di formulare  su  basi
obiettive il giudizio prognostico sui comportamenti del soggetto e di
valutarne in tal modo la pericolosita' sociale, sempre  nel  rispetto
delle garanzie giurisdizionali e del principio del contraddittorio. 
    La questione dei rapporti tra le misure di prevenzione  personali
e  patrimoniali  e'  stata  affrontata  in  diverse  pronunce   della
Consulta, soprattutto dopo le riforme dei primi anni  '90  (legge  19
marzo 1990, n. 55 e d.l. 8 giugno 1992, n.  306,  conv.  in  legge  7
agosto 1992, n. 306). 
    In particolare, nella sentenza  n.  465  del  1993  la  Corte  ha
ritenuto  non  irragionevole  la  scelta  legislativa   di   ancorare
l'applicazione delle misure patrimoniali a quelle di natura personale
ed ha osservato, incidentalmente, che tale principio non ha carattere
di assolutezza, stante l'esistenza  delle  eccezioni,  «rappresentate
dal disposto del settimo comma dell'art. 2-ter, introdotto  dall'art.
2 della legge 19 marzo  1990,  n.  55  (eccezione  significativamente
delimitata quanto  all'oggetto  della  misura),  e  dall'ipotesi  del
successivo ottavo comma, in cui peraltro non vi e' tanto  una  deroga
al  principio  detto  quanto  una  disciplina  che  muove  dal   dato
dell'applicazione di misure di  sicurezza,  di  contenuto  analogo  a
quello della misura preventiva personale, e dunque da una valutazione
di sostanziale inutilita' di  una  duplicazione  del  presupposto  in
argomento.». 
    Il tema e' stato ripreso dalla sentenza n. 335 dei 1996,  in  cui
la Corte  ha  affrontato  proprio  la  questione  della  legittimita'
costituzionale del c. 7 dell'art.  2-ter  della  legge  n.  575/1965,
censurato dal giudice remittente nella parte in  cui  non  consentiva
l'attivazione del procedimento anche in caso di  morte  del  soggetto
socialmente pericoloso, sia prima che dopo la proposta. 
    La Corte ha dichiarato inammissibile la questione, ritenendo  che
- pur essendovi una tendenza ad allargare il «campo  di  applicazione
dello strumento  di  prevenzione  nei  confronti  della  criminalita'
economica di matrice mafiosa o equiparata, che,  in  alcune  limitate
ipotesi, ha  fatto  venir  meno  la  necessaria  concorrenza  tra  il
procedimento  o  il  provvedimento  di  prevenzione  personale  e  il
provvedimento patrimoniale - il legislatore e' rimasto comunque fermo
nel richiedere, per l'emanazione dei provvedimenti di sequestro e  di
confisca, un collegamento tra la cautela patrimoniale  e  l'esistenza
di soggetti individuati, da ritenere pericolosi  alla  stregua  della
legislazione dettata per contrastare la criminalita' mafiosa e quella
a questa equiparata. 
    Di conseguenza, una pronuncia che  consentisse  di  applicare  le
misure di prevenzione  patrimoniali  a  soggetti  non  piu'  in  vita
comporterebbe l'affermazione  del  diverso  ed  innovativo  principio
della separazione tra misure patrimoniali e misure personali  e  tale
opzione e' riservata al legislatore. 
    I medesimi  concetti  sono  stati  ribaditi  nella  piu'  recente
ordinanza n. 368 del 2004, nella quale la Corte e' stata  chiamata  a
pronunciarsi sulla legittimita' costituzionale dell'art. 2-ter c.  3,
4 e 6 della legge n. 575/1965, ritenuti in contrasto con gli artt. 3,
41 c. 2 e 42 c. 2 Cost., sempre nella parte in cui non  consente  che
il procedimento di prevenzione possa  essere  iniziato  o  proseguito
dopo la morte del soggetto proposto. 
    La Corte, nel ritenere manifestamente infondata la questione,  ha
ribadito che nel sistema legislativo della prevenzione  antimafia  le
misure patrimoniali normalmente accedono a quelle personali,  essendo
rivolte a beni che, oltre ad essere  di  provenienza  sospetta,  sono
nella disponibilita' di persone  socialmente  pericolose,  in  quanto
indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. 
    Secondo la Consulta, anche dopo  le  modifiche  introdotte  dalla
legge n. 55/1990 e dal d.l. n. 306/92, e' rimasto fermo il  principio
per cui «le  misure  patrimoniali  presuppongono  necessariamente  un
rapporto tra beni di cui non sia provata la legittima  provenienza  e
soggetti portatori di pericolosita' sociale che ne dispongano, o  che
siano avvantaggiati dal  loro  reimpiego,  nell'ambito  di  attivita'
delittuose, essendo la pericolosita' del bene considerata dalla legge
derivare dalla pericolosita' della persona che ne puo' disporre.»  In
particolare,  la  confisca,  a  differenza  del  sequestro,  comporta
conseguenze ablatorie definitive e mira a  sottrarre  definitivamente
il bene al circuito economico d'origine, sempre che i presupposti  di
indimostrata legittima provenienza dei beni oggetto di confisca e  di
pericolosita'  del  soggetto   siano   gia'   stati   definitivamente
accertati;  il  bene  confiscato  verra',  una  volta   «bonificato»,
re-inserito nel mercato, per entrare a far parte di un nuovo contesto
economico,  esente  dai  condizionamenti  che  derivavano  dalla  sua
provenienza illecita e dalla disponibilita' che ne aveva il  soggetto
pericoloso. 
    La tematica dei rapporti tra misure di  prevenzione  personali  e
patrimoniali  in  caso  di  decesso  del  proposto  e'  stata   anche
affrontata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione. 
    Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza della SS.UU. n. 18
del 3 luglio 1996 (Simonelli), con la quale  e'  stato  affermato  il
principio per il quale in caso di morte del proposto intervenuta dopo
la definitivita' del decreto di applicazione della misura  personale,
ma prima della definitivita' della confisca di prevenzione, la misura
patrimoniale conserva la sua  efficacia  e  puo'  giungere  alla  sua
definitiva efficacia. 
    Sul punto si era sviluppato un  contrasto  interpretativo,  posto
che, secondo un primo orientamento, il  decesso  del  proposto  prima
della definitivita' della confisca di prevenzione avrebbe  comportato
il venir meno sia della misura personale che di quella patrimoniale. 
    A questo indirizzo si contrapponeva quello per  quale  la  misura
patrimoniale non sarebbe stata caducata dalla morte del proposto,  in
quanto la disciplina contenuta  nell'art.  2-ter  legge  n.  575/1965
sarebbe collegata ad una obiettiva illiceita' dei  beni  sequestrati,
qualificabili come in  se'  pericolosi  e,  dunque,  indifferenti  al
decesso del proposta. 
    Per risolvere il contrasto, le Sezioni Unite hanno ricostruito la
ratio del procedimento di prevenzione, affermando, in primo luogo, la
differente natura tra le misure di prevenzione previste  dalla  legge
n. 1423/1956 e quelle previste dalla legge n. 575/1965. 
    Le prime sono specificamente finalizzate a  prevenire  la  futura
commissione di illeciti da parte  di  soggetti  ritenuti  socialmente
pericolosi per la sicurezza e  la  pubblica  moralita'.  Le  seconde,
invece, rispondono alla esigenza di predisporre  adeguate  misure  di
contrasto nei confronti  di  soggetti  indiziati  di  appartenere  ad
associazioni di stampo mafioso (mafia, camorra ed altre associazioni,
comunque denominate, che agiscono con finalita' e metodi propri delle
associazioni di tipo mafioso) e contemplano anche la possibilita'  di
ablazione reale. 
    Le Sezioni Unite hanno rinvenuto nella confisca di prevenzione la
finalita' non gia' di prevenire la futura  commissione  di  illeciti,
quanto quella di eliminare dal circuito economico beni provenienti da
attivita'    illecite    del    soggetto    ritenuto     appartenente
all'organizzazione criminale di stampo mafioso. 
    Da qui, l'affermazione della confisca di prevenzione come  di  un
tenium genus rispetto alle sanzioni  penali  in  senso  proprio  (per
esser la misura adottata non dopo l'accertamento di un fatto di reato
ed in correlazione con esso, ma in una procedura di  prevenzione)  ed
alle misure di prevenzione in senso stretto  (non  essendo  richiesta
per  essa  alcuna  prognosi  su  futuri  comportamenti  illeciti  con
riferimento a quegli specifici beni) e  la  sua  qualificazione  come
sanzione amministrativa, analoga alla confisca penale di cui all'art.
240 c.p. 
    La natura autonoma della confisca di prevenzione e'  stata  anche
riscontrata nella previsione dell'art. 2-ter c. 7 legge n.  575/1965,
che consente di applicare la misura patrimoniale anche nei  confronti
del soggetto residente o dimorante all'estero o assente, ossia di  un
soggetto nei cui riguardi sicuramente la misura personale non  potra'
avere applicazione, salvo che faccia rientro in Italia. 
    Secondo la Corte, tale previsione  normativa  dimostra  che,  pur
permanendo il collegamento necessario tra la misura patrimoniale e la
pericolosita' sociale del soggetto, il legislatore ha spostato la sua
attenzione dal soggetto ai beni nella  sua  disponibilita',  ritenuti
essi stessi pericolosi, perche' derivanti da attivita' illecita o  in
grado di incrementarne la portata. 
    La  Corte  ha,  quindi,  concluso  che  una  volta  accertati   i
presupposti della pericolosita' sociale del proposto e della illecita
provenienza (o, meglio, della  indimostrata  lecita  provenienza  dei
beni), il venir meno del proposto  prima  della  definitivita'  della
confisca non comporti la caducazione della misura patrimoniale, posto
che  le  finalita'  perseguite  dal  legislatore  prescindono   dalla
persistenza in vita del soggetto pericoloso. 
    Ha,  comunque,  ribadito  la  necessita'  della  verifica   della
pericolosita' sociale del soggetto ed il suo carattere di presupposto
necessario rispetto alla ablazione patrimoniale: la confisca richiede
sempre  l'accertamento  della  pericolosita'  sociale  del  soggetto,
destinatario di una misura di  prevenzione  personale,  anche  se  in
concreto  essa  non  gli  puo'  essere  applicata  ed  e'  diretta  a
sottrarre i beni dalla sua disponibilita'. 
    Anche in questo caso, dunque,  la  Corte  di  cassazione  non  si
discosta dal principio ribadito piu' volte dalla Corte costituzionale
della necessita'  che  l'applicazione  delle  misure  di  prevenzione
patrimoniali conseguano all'accertamento della pericolosita'  sociale
del soggetto. 
    Del resto, sia l'ipotesi  del  decesso  intervenuto  prima  della
definitivita' della confisca (gia' disposta, pero', e  comunque  dopo
l'accertamento nel contraddittorio delle  parti  della  pericolosita'
sociale  del  soggetto),  sia  le  ipotesi  dell'assenza,  dimora   o
residenza all'estero del  proposto  non  prescindono  dalla  verifica
della pericolosita' sociale,  quanto  dalla  possibilita'  della  sua
concreta applicazione. 
    Ed analogo discorso puo' farsi per le altre consimili ipotesi  in
cui la misura patrimoniale  non  e'  applicata  contemporaneamente  a
quella personale, ossia i  casi  di  sottoposizione  del  soggetto  a
misura di sicurezza,  di  soggetto  latitante,  di  collaboratore  di
giustizia, di revoca o modifica della misura personale  ed  anche  di
sospensione temporanea dall'amministrazione dei beni di cui  all'art.
3-quater legge n. 575/1965. 
    In tutti questi casi e', comunque, richiesto  l'accertamento  nel
contraddittorio delle parti dei presupposti per l'applicazione  delle
misure sia personali  che  patrimoniali;  in  tutti  questi  casi  il
proposto  e'  messo  in  condizione  di  conoscere  l'esistenza   del
procedimento di prevenzione a suo carico, e' comunque assistito da un
difensore (di sua fiducia o d'ufficio), puo' scegliere se e con quali
mezzi intervenire e, da ultimo, anche optare  per  un  rito  (udienza
pubblica) invece che un altro (camera di consiglio). 
    Il carattere di presupposto dell'accertamento della pericolosita'
sociale e', peraltro, stato ribadito dalla Corte costituzionale anche
dopo la pronuncia delle Sezioni Unite 18/1996, con la gia'  ricordata
ordinanza  n.  368  del  2004,  che  ha  comunque  affermato  che  un
intervento volto a rendere possibile l'applicazione della confisca in
caso di contestuale rigetto della richiesta di misura di  prevenzione
personale per mancanza del requisito della pericolosita' sociale,  si
tradurrebbe in una innovazione conseguente ad una scelta di  politica
criminale di esclusiva spettanza del legislatore. 
    In tale quadro, si inseriscono le modifiche apportate con  i  due
«pacchetti sicurezza» del 2008 e del  2009  ed  in  particolare,  per
quanto qui interessa, con il c. 6-bis dell'art. 2-bis e con il c.  11
dell'art. 2-ter legge n. 575/1965. 
    I lavori preparatori della riforma del 2008  chiariscono  che  la
novella legislativa vuole porre rimedio alle  «difficolta'  operative
nell'aggressione  dei  beni  mafiosi  dovute  all'obsolescenza  della
normativa di prevenzione»,  effettuando  una  completa  rivisitazione
delle misure di prevenzione  patrimoniale,  in  modo  da  avvicinarla
sempre  piu'  ad  una  actio  in  rem,  ispirata   al   concetto   di
pericolosita' in se' del bene. 
    Di qui, la possibilita' di  procedere  alla  confisca  anche  nei
confronti degli credi del soggetto pericoloso. 
    Con la novella del 2009, ci si e' mossi nella  stessa  direzione,
tanto  che  le  misure  patrimoniali  possono  ora  essere  richieste
«indipendentemente dalla pericolosita' sociale del soggetto  proposto
al momento della loro applicazione» (art. 2-bis  c.  6-bis  legge  n.
575/1965). 
    Sembra, dunque, essere  ribadito  il  concetto  di  pericolosita'
intrinseca del bene, che perdura anche  oltre  la  pericolosita'  del
soggetto e resta viziato dalla sua illecita provenienza  fino  a  che
resta nella disponibilita' di una persona indiziata  di  appartenenza
ad organizzazione criminale di stampo mafioso. 
    In realta', una interpretazione sistematica e  costituzionalmente
orientata dall'art. 2-bis c. 6-bis  legge  n.  575/1965,  nell'inciso
predetto, induce a  ritenere  non  che  si  debba  prescindere  dalla
verifica della pericolosita' sociale del proposto, ma che si  possano
applicare le misure  patrimoniali  anche  in  caso  di  pericolosita'
sociale non piu' attuale, ovvero in caso di completa esecuzione della
misura personale. 
    Resta, pero', ferma la necessita' di verificare  se  il  soggetto
sia o sia stato  socialmente  pericoloso  ai  sensi  della  legge  n.
575/1965. 
    Tale verifica non puo' che intervenire nei contraddittorio  delle
parti, in applicazione dei principi sanciti dall'art. 111  Cost.  cd.
«giusto processo». 
    Assai rilevante, sotto questo profilo, e'  la  recente  pronuncia
della Corte di cassazione n. 6684  .del  18  febbraio  2010,  che  ha
ribadito, anche alla luce dell'art. 111 Cost., come  il  procedimento
di prevenzione patrimoniale  non  preveda  un'illegittima  inversione
dell'onere  della  prova  (di   modo   che   l'ablazione   dei   beni
conseguirebbe alla mera inerzia del proposto),  ma  la  dimostrazione
della sussistenza  dei  suoi  presupposti  e  l'onere  di  dimostrare
l'illecita origine dei beni o  la  sproporzione  grava  sul  Pubblico
Ministero,  mentre  spetta  alla  difesa  contraddire  gli   elementi
prospettati  dall'accusa,  fornendo  dimostrazione  della   legittima
provenienza dei beni. 
    La  Corte  ha,  dunque,  ribadito  ancora  una  volta  la  natura
giurisdizionale del procedimento di prevenzione ed il valore centrale
che in esso assumono la ripartizione dell'onere  della  prova  ed  il
principio del contraddittorio, che  solo  puo'  consentire  il  pieno
dispiegamento delle ragioni della difesa. 
    Peraltro, tali principi, gia' enunciati sin dalla prima pronuncia
della Corte costituzionale sulle misure di prevenzione  (la  sentenza
n. 2 del 1956), assumono un valore ancor piu' pregnante alla luce dei
pronunciamenti della Corte europea  dei  diritti  dell'uomo,  che  ha
affermato la conformita' alla carta dei  diritti  della  confisca  di
prevenzione italiana, purche' in essa siano rispettati i fondamentali
criteri della previsione in base alla legge, del perseguimento di uno
scopo legittimo (come e' il contrasto alla criminalita' organizzata),
della sua proporzione rispetto a tale scopo e della  sua  imposizione
attraverso un procedimento pienamente giurisdizionale. 
    E'  proprio  sotto  il  profilo  del  rispetto  del  diritto   al
contraddittorio  che  si  ravvisa  il  contrasto  tra  la  disciplina
contenuta negli artt. 2-bis  c.  6-bis  (nella  parte  relativa  alla
possibilita'  di  instaurare  il  procedimento  di  prevenzione   nei
confronti degli eredi) e  2-ter  c. 11  legge  n.  575/1965  rispetto
all'art. 111 Cost. 
    L'instaurazione del procedimento  di  applicazione  della  misura
patrimoniale   nei   confronti   degli   eredi,   infatti,    implica
necessariamente una valutazione dei profili di pericolosita'  sociale
ed illecita origine dei beni  che  non  si  riferiscono  ai  soggetti
chiamati ad intervenire nel procedimento, bensi' ad un  soggetto  che
e' deceduto e, dunque, che non puo' piu' intervenirvi. 
    Si ritiene che la possibilita' di  assicurare  la  partecipazione
personale al procedimento di prevenzione abbia un valore fondamentale
in  questo  come  qualunque  giudizio  o  procedimento  che  abbia  i
caratteri propri della giurisdizionalita' e che tale aspetto  incida,
prima ancora che sulla esplicazione dei diritti dell'individuo (tra i
quali rientra in primo luogo  il  diritto  di  difesa)  sulla  stessa
legittimita' della procedura. 
    E' nella stessa definizione di giurisdizione, contenuta nell'art.
111 Cost. viene cristallizzata  la  necessita'  del  contraddittorio,
posto che essa si attua attraverso  il  «giusto  processo»  che  deve
necessariamente  svolgersi  nel  contraddittorio  tra  le  parti,  in
posizione di parita' e dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale. 
    Dunque, la stessa lettera dell'art. 111 Cost. impone che in  ogni
procedimento   debba   essere   assicurata   la    possibilita'    di
partecipazione dello stesso soggetto destinatario del giudizio. 
    Nel caso di procedimento nei confronti degli  eredi,  invece,  il
giudizio viene formulato con riferimento ad una persona che non  puo'
parteciparvi ed i suoi effetti vengono a prodursi su soggetti che,  a
loro volta, sono si chiamati a partecipare al procedimento,  ma  sono
totalmente estranei a qualunque valutazione che li riguardi. 
    Del resto, la necessita' che in ogni processo sia  assicurata  la
possibilita' di partecipazione dell'interessato  e'  stata  affermata
anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo,  per  la  quale  «il
principio dell'eguaglianza delle armi  postulo  la  possibilita'  per
ciascuna parte di presentare la sua causa in condizioni tali  da  non
trovarsi in posizione di svantaggio in rapporto con l'altra parte». 
    In particolare, viene in rilievo al  riguardo  l'art.  6  par.  3
della Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo,  che
definisce i diritti che competono a qualunque persona sia  sottoposta
a processo: essere informato del contenuto dell'accusa, disporre  del
tempo e  della  possibilita'  di  preparare  una  difesa,  difendersi
personalmente o con l'assistenza di un difensore  (anche  d'ufficio),
interrogare e presentare testimoni, farsi assistere da un interprete. 
    Tutti questi diritti presuppongono necessariamente l'esistenza in
vita della persona e la possibilita' di operare scelte consapevoli in
ordine alla propria linea difensiva. 
    La Corte europea di Strasburgo, del resto, ha  affermato  che  la
partecipazione personale del soggetto al processo che lo riguarda  e'
un diritto che  trova  il  suo  fondamento  nelle  facolta'  concesse
dall'art. 6, par. 3 CEDU e risponde alla  imprescindibile  necessita'
di verificare l'esattezza (anche) delle affermazioni dell'interessato
e  compararle  con  quelle  degli  altri  (come  accade   anche   nel
procedimento di prevenzione patrimoniale, in cui  il  contraddittorio
si svolge sulle contrapposte posizioni della  pubblica  accusa -  che
sostiene la pericolosita' sociale del soggetto e  l'illecita  origine
del suo patrimonio, affermando in genere  la  sproporzione  dei  beni
rispetto  ai  redditi  leciti  -  e  dell'interessato  e  dei   terzi
interessati - che offrono normalmente una diversa ricostruzione delle
vicende patrimoniali che li riguardano). 
    La  Corte  ha,  altresi',  ritenuto  sussistere   la   violazione
dell'art. 6  par.  1  e  3  CEDU  nei  casi  in  cui  non  sia  stato
riconosciuto il diritto all'imputato  a  comparire  personalmente  in
udienza, ritenendo a tal fine insufficiente a garantire  un  processo
equo la sola partecipazione del difensore; la  Corte  ha  piu'  volte
evidenziato come sia imprescindibile per un processo equo la facolta'
per l'interessato di parteciparvi personalmente (si veda, per  tutte,
Corte Eu., Grande Camera, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia). 
     Secondo la Corte,  infatti,  «tutti  i  processi  penali  devono
rivestire un carattere contraddittorio e garantire la parita' di armi
tra l'accusa e la difesa: questo e' uno  degli  aspetti  fondamentali
per del diritto ad un processo equo» (Corte  Eu.,  8  dicembre  2009,
Previti c. Italia). 
    Del resto, la stessa Corte di cassazione, nella sentenza a SS.UU.
n. 13426 del 25  marzo  2010,  che  ha  sancito  il  principio  della
inutilizzabilita'  anche  nel  procedimento  di   prevenzione   delle
intercettazioni illegittime, ha affrontato il tema della  «autonomia»
del processo penale e del procedimento di  prevenzione,  ribadendo  i
connotati  di  sicura  giurisdizionalita'  che  caratterizzano  anche
questo secondo giudizio. 
    La Suprema Corte ha sottolineato come  tale  concetto  denoti  la
reciproca «insensibilita'» delle acquisizioni dell'una sede  rispetto
a  quelle  dell'altra  e,   dunque,   l'assenza   di   connotati   di
pregiudizialita' dei relativi criteri di giudizio, tanto che e' ormai
costante e consolidato l'orientamento secondo  il  quale  il  giudice
della prevenzione puo' legittimamente servirsi di elementi di prova o
di tipo indiziario tratti da procedimenti penali, anche se non ancora
definiti con sentenza irrevocabile, ed anche a prescindere dall'esito
del giudizio circa la sussistenza della responsabilita'. 
    Cio' che importa, secondo la Suprema Corte «e' che il giudizio di
pericolosita'  sia  fondato  su  elementi  certi,  dai  quali   possa
legittimamente farsi discendere l'affermazione  dell'esistenza  della
pericolosita', sulla base di un ragionamento immune  da  vizi,  fermo
restando che gli indizi sulla  cui  base  formulare  il  giudizio  di
pericolosita'  non  devono  necessariamente  avere  i  caratteri   di
gravita', precisione e concordanza  richiesti  dall'art.  192  c.p.p.
(cfr., ex plurimis, Sez. 1ª, 6 novembre 2008, n 47764;  Sez.  2ª,  28
maggio 2008, n. 25919; Sez. 1ª, 13 giugno 2007, n. 27655: Sez. 6ª, 30
settembre 2005, n. 39953).» 
    La Corte richiama proprio la giurisprudenza della  Corte  europea
dei diritti dell'uomo, che, da un lato, ha ritenuto non in  contrasto
con i principi della CEDU il  fatto  che  le  misure  di  prevenzione
«siano applicate nei confronti di individui sospettati di appartenere
alla mafia anche  prima  della  loro  condanna,  poiche'  tendono  ad
impedire il compimento di atti criminali»; e, dall'altro ha affermato
che «il  proscioglimento  eventualmente  sopravvenuto  non  le  priva
necessariamente di ogni ragion d'essere: infatti,  elementi  concreti
raccolti durante un processo, anche se insufficienti per giungere  ad
una condanna, possono tuttavia giustificare dei ragionevoli dubbi che
l'individuo in questione possa in futuro commettere dei reati penali»
(Corte Eu., Grande Camera, 1° marzo 2000, Labita c. Italia). 
    Discende da tutto cio', continua la Suprema Corte,  che  il  vero
tratto distintivo  che  qualifica  l'autonomia  del  procedimento  di
prevenzione  dal  processo  penale,  va  intravisto   nella   diversa
«grammatica probatoria» che deve sostenere i rispettivi giudizi,  che
non puo' pero' essere utilizzata per  consentire  l'utilizzazione  di
prove assunte illegittimamente. 
    Le Sezioni Unite colgono l'occasione per rammentare  le  pronunce
della Corte europea di Strasburgo in tema di  misure  di  prevenzione
ed, in particolare, le sentenza  con  le  quali  l'Italia  era  stata
condannata  per  la  mancata  previsione   della   celebrazione   del
procedimento nelle forme della pubblica udienza (cfr. Corte  Eu.,  15
novembre 2007, Bocellari e Rizzo e. Italia; 8 luglio 2008, Pierre  c.
Italia; 5 gennaio 2010, Bongiorno c. Italia). 
    La Corte di Strasburgo, in  tali  pronunce,  aveva  censurato  la
previsione secondo la quale il procedimento per l'applicazione  delle
misure di prevenzione si celebra in camera di consiglio,  reputandola
in contrasto con l'art. 6, par. 1 CEDU, nella parte in cui stabilisce
che «ogni persona ha diritto che  la  sua  causa  sia  esaminata  ...
pubblicamente e in un tempo ragionevole, da  parte  di  un  tribunale
indipendente e imparziale...». 
    La Corte europea ha stabilito, infatti,  che  e'  essenziale  per
aversi un processo equo che «le persone coinvolte in un  procedimento
di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno  offrire
la possibilita' di sollecitare  una  pubblica  udienza  davanti  alle
sezioni specializzate  dei  tribunali  e  delle  corti  di  appello»,
perche' la pubblicita' delle procedure giudiziarie tutela le  persone
soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che  sfugge
al controllo del pubblico e costituisce uno strumento per  preservare
la fiducia nei giudici. 
    Proprio sulla  scorta  dei  principi  enunciati  dalla  Corte  di
Strasburgo,   la   Corte    costituzionale    ha    poi    dichiarato
l'illegittimita' costituzionale degli artt. 4 legge  n.  1423/1956  e
2-ter legge n. 575/1965 nella parte in  cui  non  prevedono  che,  su
istanza degli interessati, il procedimento per  l'applicazione  delle
misure di prevenzione si svolga, davanti al Tribunale e alla Corte di
Appello, nelle forme dell'udienza pubblica (cfr. C. Cost. sent. n. 93
del 2010). 
    In tale sentenza la Corte costituzionale ha  ribadito  che  anche
nel  procedimento  di  prevenzione  il  giudice  deve  «esprimere  un
giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo  e
sostanziale su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali
la liberta' personale (art.  13  Cost.,  comma  1)  e  il  patrimonio
(quest'ultimo,   tra   l'altro,   aggredito   in   modo   normalmente
''massiccio'' e in componenti di particolare rilievo...)  nonche'  la
stessa liberta' di iniziativa economica, incisa  dalle  misure  anche
gravemente ''inabilitanti'' previste a carico  del  soggetto  cui  e'
applicata la misura di prevenzione... 
    Il che - ha concluso la Corte - conferisce specifico risalto alle
esigenze alla cui soddisfazione il  principio  di  pubblicita'  delle
udienze e' preordinato». La giurisprudenza della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, da un lato, e quella  costituzionale,  dall'altro,
impongono, dunque, una lettura del procedimento  di  prevenzione  che
sia in linea con i principi del  ''giusto  processo'',  tra  i  quali
assume rilevanza fondamentale il diritto al contraddittorio. 
    Nel caso di procedimento instaurato nei confronti degli eredi  di
un soggetto deceduto, come e'  quello  sottoposto  all'attenzione  di
questo Tribunale, tale principio appare pretermesso, posto che non e'
fisicamente possibile  la  partecipazione  diretta  del  soggetto  al
procedimento, ne' puo'  ritenersi  tale  principio  rispettato  dalla
partecipazione ai giudizio di un eventuale difensore  del  de  cuius,
stanti gli arresti della Corte di Strasburgo in  ordine  ai  processi
contumaciali gia' ricordati. 
    Peraltro, anche se nel caso di specie la difesa  degli  eredi  e'
stata assunta dagli avvocati che assistevano il de cuius  quando  era
in vita, va osservato che tale eventualita' e' solo una  coincidenza,
posto che con la morte del soggetto  il  rapporto  col  difensore  e'
venuto a cessare ed il fatto che la scelta  degli  eredi  sia  caduta
sulle medesime persone non significa  che  i  difensori  siano  stati
chiamati a esercitare  le  loro  funzioni  anche  nei  confronti  del
soggetto non piu' in vita, cosa che sarebbe impossibile  nel  vigente
ordinamento. 
    Occorre,  da  ultimo,  considerare  se  sia  praticabile  la  via
alternativa di ritenere utilizzabile nel procedimento di  prevenzione
patrimoniale a carico degli,  eredi,  solo  il  materiale  probatorio
raccolto quando il de cuius era ancora in vita e  sul  quale  vi  sia
stato un contraddittorio. 
    Tale via, pero', non appare percorribile. 
    Nel caso in esame, Messina Arturo e' stato sottoposto a misura di
prevenzione e ritenuto soggetto socialmente  pericoloso  con  decreto
del Tribunale di Agrigento del 23 maggio 2000 (def. 10 luglio 2002). 
    La  proposta  di  applicazione  della  misura  patrimoniale   nei
confronti degli eredi si  basa  non  solo  sugli  elementi  presi  in
considerazione allora dal Tribunale, ma anche su  elementi  ulteriori
ed, in particolare, sulle ulteriori sentenze di condanna  intervenute
successivamente al 2000  (tra  le  altre,  la  sentenza  della  Corte
d'Assise d'Appello di Palermo il 22  marzo  2003,  irrevocabile  l'11
ottobre 2004, di parziale riforma della sentenza della Corte d'Assise
di Agrigento del 18 luglio 2001 cd. «Akragas», con la  quale  Messina
e' stato condannato all'ergastolo con isolamento diurno per 18  mesi)
e sugli accertamenti patrimoniali operati dalla DIA e dalla  P.G.  in
servizio presso la Procura della Repubblica  di  Palermo  negli  anni
2009  e  2010,  ossia  successivamente  alla  morte  dell'interessato
(deceduto il 13 aprile 2008). 
    Dunque, nel caso in esame, un contraddittorio vi  e'  sicuramente
stato con riferimento alle condanne penali,  utilizzabili  senz'altro
per la formulazione del giudizio di pericolosita' sociale;  tuttavia,
tale contraddittorio si e' attuato davanti ad un altro giudice, in un
diverso  giudizio,  quello  di  responsabilita'  penale,  ed   appare
difficilmente praticabile la via della affermazione del rispetto  del
principio  del  contraddittorio  intervenuto  in  altro  procedimento
giurisdizionale: una simile soluzione, appare nettamente in contrasto
con l'art. 111 c. l Cost., che richiede che  il  giusto  processo  si
svolga con parita' tra accusa e difesa, davanti ad un  giudice  terzo
ed imparziale, ossia che le  differenti  e  (normalmente)  anitetiche
posizioni di accusa e difesa si manifestino e sviluppino dinnanzi  al
giudice di quel processo. 
    Inoltre, nessun contraddittorio vi e' mai stato  con  riferimento
agli  accertamenti  patrimoniali  ed  il  giudizio  in  ordine   alla
sussistenza degli elementi alla base della confisca  (disponibilita',
sproporzione, provenienza dei beni) viene  a  svolgersi  in  base  ad
elementi raccolti dopo la morte del soggetto e senza che a costui sia
mai stato possibile conoscere tali elementi  e  svolgere  le  proprie
difese sui fatti dimostrati dall'accusa, con violazione dell'art.  24
Cost., oltre che dell'art. 111 c. 1 Cost. 
    D'altronde, non si ritiene che tali principi siano  adeguatamente
rispettati con riguardo alla posizione degli eredi,  posto  che  essi
sono chiamati si' a partecipare al procedimento, ma in una  posizione
del tutto analoga a quella del de cuius. 
    Cio' che si vuol dire e'  che  gli  eredi  non  sono  chiamati  a
esplicare le proprie difese in ordine agli elementi di  giudizio  che
li riguardino, ma su fatti e  circostanze  che  concernono  un  altro
soggetto. 
    Gli  eredi  (che  durante  la  esistenza  in  vita  del  soggetto
potrebbero assumere nel procedimento, al piu', la veste di terzi)  si
vengono, dunque, a trovare in una  posizione  processuale  del  tutto
peculiare, poiche' essi si debbono difendere «come se» fossero il  de
cuius,  non  essendo  sufficiente  ad  escludere   il   provvedimento
ablatorio la dimostrazione degli elementi di fatto che  costituiscono
le normali difese dei terzi interessati, che possono  dimostrare  che
il bene si trova nella loro piena disponibilita' e non in quella  del
proposto, o che lo hanno acquistato in buona fede. 
    Gli eredi, in questo caso,  non  sono  considerati  terzi,  ma  i
diretti destinatari del procedimento di prevenzione patrimoniale che,
pero', va a colpire i beni da essi ricevuti  in  ragione  della  loro
precedente appartenenza ad un soggetto non piu' in vita. 
    Essi, dunque, non possono difendersi - come  avviene  normalmente
per  i  terzi  interessati  e  come  avverrebbe  se  il  procedimento
intervenisse durante l'esistenza in vita del soggetto  -  dimostrando
che il bene non e' nella disponibilita' indiretta del  proposto  (che
e' uno dei  presupposti  imprescindibili  dell'ablazione  reale),  ma
nella loro, perche' tale elemento  non  e'  in  discussione:  con  la
successione mortis causa e' chiaro che il bene e' passato a loro, per
legge o per effetto della volonta' del de cuius. 
    Per le medesime ragioni non possono neppure dimostrare  la  buone
fede nell'acquisto. 
    Possono solo dimostrare la non  riconducibilita'  del  bene  alle
attivita' delittuose del de cuius, prova  che  -  dunque  -  concerne
fatti e circostanze che riguardano una persona diversa da loro stessi
ed in relazione ai quali essi subiscono gli effetti. 
    In definitiva, dunque, si ritiene che gli artt.  2-bis  c.  6-bis
legge 31 maggio 1965, n. 575 e 2-ter c. 11 legge n.  575/1965,  siano
in contrasto con  gli  artt.  24,  c.  1  e  2,  e  111  c.  1  della
Costituzione, con la conseguenza che si rende  necessario  sottoporre
la questione di legittimita' alla Corte costituzionale. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli artt. 134 Cost., 23 e ss. legge 11  novembre  1953,  n.
87; 
    Solleva questione di legittimita' costituzionale 2-bis  c.  6-bis
legge 31 maggio 1965, n. 575 «Disposizioni contro la mafia»  e  succ.
modiff., nella parte in cui consente  di  attivare  la  procedura  di
prevenzione patrimoniale nei confronti di un soggetto deceduto  prima
della formulazione della richiesta e dell'art. 2-ter  c.  11,  stessa
legge n. 575/1965, per contrasto con gli artt. 24, commi 1 e 2, e 111
della Costituzione; 
    Sospende la decisione del procedimento in corso; 
    Ordina che gli atti siano trasmessi alla Corte costituzionale; 
    Manda alla Cancelleria per le  comunicazioni  alle  parti  e  gli
adempimenti di rito, per la notifica della  presente  ordinanza  alla
Presidenza del  Consiglio  dei  Ministri,  per  la  comunicazione  al
Presidente del Senato ed al Presidente della Camera dei deputati. 
      Agrigento, 21 giugno 2011 
 
                       Il Presidente: Sabatino