N. 11 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 27 marzo 2012
Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (merito) depositato in cancelleria il 27 marzo 2012. Parlamento - Immunita' parlamentari - Procedimento penale per il reato previsto dall'art. 278 cod. pen. (Offese all'onore o al prestigio del Presidente della Repubblica) a carico di Francesco Storace, senatore della Repubblica all'epoca dei fatti, per le opinioni da questi espresse su un sito internet nel commentare un intervento del Presidente della Repubblica - Deliberazione di insindacabilita' del Senato della Repubblica - Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Tribunale di Roma, quinta sezione penale, nei confronti del Senato della Repubblica - Denunciata mancanza di nesso funzionale tra le opinioni espresse e l'esercizio dell'attivita' parlamentare. - Deliberazione del Senato della Repubblica del 19 febbraio 2009. - Costituzione, art. 68, primo comma.(GU n.16 del 18-4-2012 )
Il Tribunale in composizione monocratica V sezione penale, a scioglimento delle riserve assunte all'udienza dell'11 maggio 2011 con riferimento alla questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla difesa e all'istanza del p.m. di sollevare conflitto di attribuzione con il Senato della Repubblica alla Corte costituzionale osserva quanto segue. La questione di legittimita' costituzionale. All'udienza dell'11 maggio 2011, i difensori di Storace Francesco, in fase preliminare all'apertura del dibattimento, chiedevano al tribunale monocratico di sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 313 c.p. nella parte in cui attribuisce al Ministro della Giustizia il potere di concedere l'autorizzazione a procedere per i reali di vilipendio commessi contro il Presidente della Repubblica, anzi che al medesimo Presidente. A sostegno di tali argomentazioni, la difesa in primo luogo sottolineava la natura politica dell'atto autorizzativo. Tale natura era stata contestata in verita' dinanzi al primo giudice che, in accoglimento della eccezione difensiva, ritenendo l'autorizzazione a procedere un atto di alta amministrazione, l'aveva disapplicato per violazione della legge. Posto che alla luce della sentenza del 28 settembre 2010 della Corte di cassazione, alla quale aveva fatto ricorso il p.m., la natura politica dell'atto non e' ulteriore oggetto di discussione, la difesa ha osservato che l'autorizzazione a procedere ha il fine di preservare il valore di rango costituzionale della figura del Capo dello Stato sia per il prestigio connesso alla piu' alta carica rappresentativa dell'unita' nazionale che tenuto conto del ruolo costituzionale rivestito e del sereno svolgimento delle funzioni connesse a quella carica. A dispetto di cio', si legge nella memoria difensiva, spetta nell'attuale assetto costituzionale al Ministro, quale organo del Governo meglio qualificato, la valutazione in ordine al possibile sbilanciamento tra gli interessi al promovimento dell'azione penale per l'accertamento del reato e altre istanze altrettanto valide per l'assetto istituzionale dello Stato. Il concetto e' chiarito attraverso il richiamo e il commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 15 del 17 febbraio 1969, con cui era stata dichiarata la illegittimita' costituzionale dell'art. 313 c.p. nella parte in cui attribuiva il potere autorizzativo ad un organo del potere esecutivo piuttosto che a se stessa, in quanto ne minava l'indipendenza. La successiva sentenza n. 142 del 1973 della Corte costituzionale, nel rigettare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 313 comma 3 c.p. in relazione all'autorizzazione a procedere per reati di cui all'art. 290 c.p. di vilipendio commesso ai danni dell'ordine giudiziario, aveva affermato che la posizione dell'ordine giudiziario e' completamente diversa da quella della Corte costituzionale come precisata dalla sentenza n. 15/69, perche' a differenza della Corte (e delle Camere) l'ordine giudiziario «non e' un collegio e non e' un organo singolo anche se complesso idoneo a porsi come titolare di un interesse pubblico differenziato e specializzato ad un tempo leso dal vilipendio e suscettibile di ricevere un danno maggiore della stessa offesa dallo svolgimento di un processo a carico dei responsabili del reato». Diversamente, nel caso delle «assemblee legislative e della Corte costituzionale vi e' perfetta e piena coincidenza tra l'organo al quale l'offesa e' rivolta e l'organo al quale spetta a maggior tutela della propria indipendenza anche colta nelle sua manifestazione esteriore, la valutazione dell'opportunita' politica di consentire o meno il proseguimento dell'azione penale» (pagg. 6-7 memoria). Pertanto, osservava la difesa, contrasta con le prerogative costituzionali del Capo dello Stato e in particolare con la sua indipendenza di potere politico (pag. 7), l'art. 313 c.p. nella parte in cui riservava al Ministro della giustizia la decisione su un atto politico destinato a preservare il sereno svolgimento delle funzioni connesse alla carica di Presidenza della Repubblica; tanto piu' in un contesto giuridico in cui la Corte costituzionale nelle sentenze nn. 22/1959, 15/1969, 91/1973 ha affermato che l'autorizzazione a procedere trova fondamento «nello stesso interesse pubblico tutelato dalla norme penali in ordine al quale il procedimento penale potrebbe qualche volta risolversi in un danno piu' grave dell'offesa stessa». Ne conseguiva che il Capo dello Stato potendo subire, in caso di rilievo mediatico del processo. quello che la difesa definisce un autentico processo popolare, potrebbe patire per l'effetto un pregiudizio concreto maggiore rispetto all'entita' dell'offesa, con grave danno dell'immagine. A conforto della propria tesi, sottolineava che l'art. 87 comma 11 Cost. attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di commutare le pene, che e' esclusiva competenza del Capo dello Stato (v. sul punto sentenza Corte Costituzionale n. 200/2006 sulla titolarita' del potere di grazia); pertanto, sarebbe illogico che la Costituzione da un lato riservasse al Capo dello Stato il potere di decidere se lo Stato possa o meno esercitare una pretesa punitiva sui cittadini e dall'altro invece lo privasse della facolta' di decidere se rimuovere o meno una condizione di procedibilita' per un reato di opinione relativo a un presunta lesione del suo prestigio (pag. 9 memoria). La Corte costituzionale, d'altronde, ha cassato numerose disposizioni normative che attribuivano al Ministro della giustizia competenze dell'esecutivo (sentenze nn. 274/90, 192/76, 114/79; 204 1 e 110/74); cio' che dimostrerebbe che tali poteri sono un residuo del vecchio ordinamento che prevedeva la supremazia dell'esecutivo sui poteri dello Stato. Cio' e' viepiu' dimostrato dalla natura di quegli altri reati per i quali il Ministro e' chiamato a decidere se rilasciare o meno l'autorizzazione, tutti delitti contro la personalita' dello Stato di natura politica ormai desueti e figli della legislazione fascista (244, 245, 265, 269, 273, 274, 277, 279, 287, 288 c.p.). In definitiva, l'autorizzazione a procedere (pag. 16 memoria) non era stata concepita per conferire al Ministro della giustizia il potere di decidere arbitrariamente se dare o meno corso «all'attivita' repressiva di reati di opinione (tanto meno verso un senatore dell'opposizione), ma per consentire al medesimo di valutare se l'interesse superiore del Paese fosse quello o meno di non aggravare conflitti politici». La questione e' posta in maniera suggestiva, ma non ritiene il decidente che sussista un contrasto tra il potere attribuito dall'art. 313 c.p. al ministro della Giustizia e una norma costituzionale che attenga il ruolo svolto e i poteri connessi alla carica di Presidente della Repubblica. Prendendo le mosse proprio dalla sentenza della Corte costituzionale n. 15/69, la peculiarita' dei poteri e della posizione della Corte nell'assetto costituzionale non consente invero applicazioni analogiche delle conclusioni adottate in quella sede. L'art. 134 Cost. e l'art. 2 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 disegnano le funzioni della Corte dal sindacato di costituzionalita' sulle leggi al parere obbligatorio e vincolante sulle richieste di referendum abrogativo, dalla risoluzione dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato e tra Stato e Regioni ai giudizi penali in materia di accuse contro il Presidente della Repubblica e i Ministri, poteri supremi che si riconducono al medesimo principio: quello di «garantire e rendere operante il principio di legalita' ...sottoponendo al rispetto delle norme costituzionali anche gli atti dei supremi organi politici statali, nonche' i rapporti intercorrenti tra questi ultimi e quelli tra lo Stato e le Regioni» (sent. 15 cit.). In questa ottica la Corte e' «altissimo organo di garanzia dell'ordinamento repubblicano ad essa spettando in via esclusiva e con effetti definitivi far concretamente valere l'imperio della Costituzione nei confronti di tutti gli operatori costituzionali» (sent. 15). Di qui nasce la piena e assoluta indipendenza della Corte, espressamente sancita dalla Costituzione all'art. 137, rispetto a qualsiasi altro organo al fine di assicurarne la piu' rigorosa imparzialita'. Di qui nasce cioe' il sistema di guarentigie caratterizzato da una serie di incompatibilita' del collegio e dei suoi singoli componenti durante la carica e dunque dell'organo «nella sua astratta impersonalita' e continuita'»; in questo si sostanzia il principio affermato dall'art. 137, comma 1 Cost., secondo il quale sono riservate alla legge costituzionale le garanzie di indipendenza dei giudici. Non a caso la disciplina delle guarentigie e' modellata su quella della Camere, che fa espresso rinvio per mezzo dell'art. 68 Cost. in tema di immunita' proprio all'art. 3 della gia' citata legge costituzionale n. 1 del 1948. confermando la identita' di ratio che sta alla base della indipendenza dei due organi assembleari. Tanto e' vero che questo e' il senso dell'indipendenza della Corte che analoga questione di legittimita' sollevata in relazione all'autorizzazione a procedere per il reato di vilipendio nei confronti dell'ordine giudiziario, della cui autonomia e indipendenza non si dubita, e' stata invece ritenuta manifestamente infondata. La sentenza n. 142/1973 ulteriormente chiarificatrice del contenuto della sentenza n. 15/1969, pur riconoscendo la sussistenza del principio di autonomia della magistratura, non ha ravvisato alcun contrasto tra l'art. 313 c.p. e l'art. 102 Cost., anzi ritenendo che in quel caso l'autorizzazione a procedere spettasse correttamente al Ministro quale «organo tecnicamente qualificato e politicamente idoneo a presiedere alla relazioni tra il Governo e l'Amministrazione della giustizia». Osservava infatti la Corte che nessuna analogia era possibile rinvenire tra le guarentigie garantite alla Corte costituzionale (e alle Camere) e ii concetto di autonomia della magistratura. Invero, per la Corte «nessuna ingerenza, diretta o indiretta, e' riconosciuta (ne' sarebbe ammissibile) ad alcun altro organo sia per quel che concerne il funzionamento sia per quel che attiene allo status dei suoi componenti». Le deliberazioni della Corte sono sottratte a ogni forma di impugnativa e controllo, ben diversamente da qualsiasi provvedimento emesso da un qualsiasi organo dell'ordine giudiziario. Ancora, la Corte gode di ampia autonomia regolamentare e finanziaria ed esclusivamente di fronte ad essa puo' verificarsi la responsabilita' dei giudici nell'ipotesi del gia' citato art. 3 legge costituzionale n. 1/1948; spetta inoltre alla Corte di deliberare sulla rimozione dei giudici per sopravvenuta incapacita' fisica o civile. Agli stessi giudici costituzionali si estendono le immunita' proprie dei membri del Parlamento. Sottolineando proprio questo aspetto, la Corte ha quindi chiarito come alla base della decisione di accoglimento della questione di legittimita' costituzionale in quella occasione fu «la sostanziale affinita' tra le valutazioni politiche cui tale autorizzazione e' per sua natura subordinata con quella che la Corte e' chiamata ad operare allorche' si tratti di dare o negare l'autorizzazione a procedere nei confronti dei suoi membri a carico dei quali sia aperto o stia per aprirsi un procedimento penale». Alla luce di tali considerazioni, per cui un simile complesso di guarentigie non trova alcun riscontro nell'ordine giudiziario, la Corte rigettava la questione ed al contrario rinveniva nel sistema costituzionale la predisposizione di accorgimenti idonei ad attuare e mantenere una saldatura tra l'ordine giudiziario e l'apparato unitario dello Stato. Pur osservando che il Consiglio Superiore della Magistratura (cui secondo i remittenti l'autorizzazione avrebbe dovuto essere rimessa) non rappresenta l'ordine giudiziario nel suo complesso e rigettando la questione anche sotto questo profilo, rinveniva tra Consiglio e Ministro della Giustizia una serie di raccordi quali la facolta' di promuovere l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, la facolta' di richiedere al Consiglio di deliberare in ordine alle assunzioni, trasferimenti e promozioni dei magistrati, il potere di dare esecuzione alle deliberazioni consiliari. Una simile saldatura, per usare ancora il termine fatto proprio dalla Corte, garantiva che la magistratura non si ponesse come un corpo separato senza tuttavia intaccarne le proclamate e garantite autonomia e indipendenza. Il potere del Ministro in ordine all'autorizzazione a procedere per il reato di vilipendio non intaccava, pertanto, l'imparzialita' e l'indipendenza della funzione giudiziaria e proveniva da un organo che anzi appariva idoneo, in quanto politicamente responsabile davanti al Parlamento per quanto attiene l'organizzazione della giustizia e il suo funzionamento (sent. 168/1963). L'analisi di queste due decisioni ritiene il decidente che offra argomenti rilevanti in ordine alla questione di costituzionalita' presentata in questa sede. Posto che nel caso di specie il Ministro ha dato l'autorizzazione e che l'imputato ha interesse a proporre la questione, non vi e' dubbio che il Presidente della Repubblica in quanto piu' alta carica istituzionale goda necessariamente di una indipendenza dai poteri dello Stato desumibile dal complesso delle norme costituzionali e in specie dall'art. 87. Il Capo dello Stato e' organo super partes e rappresenta l'unita' nazionale; in quanto tale e' estraneo al «circuito» dell'indirizzo politico governativo (v. sent. n. 200/2006 in materia di grazia)., e' cioe' un potere neutro, caratterizzato da funzioni che non implicano una partecipazione diretta all'attivita' di indirizzo politico. La posizione del Presidente della Repubblica non e' per cio' stesso assimilabile tuttavia a quella della Corte costituzionale e la sua indipendenza al pari di quella dell'ordine giudiziario non e' affatto intaccata dal potere del Ministro della giustizia di concedere o negare l'autorizzazione a procedere. La circostanza che in determinate contingenze politiche il Capo dello Stato, cosi' come l'ordine giudiziario, possa trovarsi in una posizione di dissenso e talora di conflitto rispetto alle scelte governative e' cosa diversa dal ritenere esistente una lesione della indipendenza della piu' alta carica dello Stato per effetto dell'esercizio da parte del Ministro della Giustizia del potere di concedere o negare l'autorizzazione procedere in ordine ai reati di vilipendio. Se in definitiva l'assetto delle guarentigie dei giudici della Corte costituzionale sancito dall'art. 137 Cost. e in precedenza descritto non consentiva alcun vulnus alla supremazia dei poteri dell'assemblea costituzionale, cosi' come quella legislativa, al contrario esistono piani di interferenza tra l'esercizio dei poteri del Capo dello Stato e l'esercizio dei poteri dei ministri che giustificano l'attribuzione al Ministro della giustizia del potere di decidere dell'autorizzazione a procedere nella qualita' di «organo tecnicamente qualificato e politicamente idoneo» a presiedere alle relazioni con il Governo «in quanto politicamente responsabile davanti al Parlamento per quanto attiene l'organizzazione della giustizia e il suo funzionamento» (sent. 168/1963). Il Presidente della Repubblica e' politicamente irresponsabile. Il soggetto che acquisisce la responsabilita' politica degli atti presidenziale e' il ministro proponente o competente che li controfirma, laddove gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati dal Presidente del Consiglio dei ministri (art. 89 Cost.). I ministri invero assumono la responsabilita' degli atti del Presidente dinanzi alle Camere, tanto che l'art. 279 c.p., oggi abrogato, non permetteva di far risalire al Capo dello Stato il biasimo e la responsabilita' per gli atti di governo cui partecipava. La controfirma ministeriale non e' poi un mero strumento per l'assunzione di responsabilita' politica da parte del ministro, bensi' e' requisito di validita' degli atti stessi («nessun atto del Presidente della Repubblica e' valido se non e' controfirmato dai ministri proponenti»). E' noto che gli atti presidenziali sono distinti in atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi, atti formalmente e sostanzialmente presidenziali, atti sostanzialmente complessi; la partecipazione dei ministri alla formazione di ciascuna di queste categoria di atti e' pertanto necessaria, sebbene diversa a seconda della tipologia dei provvedimenti promananti dal Capo dello Stato. E cio' in totale difformita' da quanto la Corte costituzionale ha osservato con riferimento al proprio status per cui «nessuna ingerenza, diretta o indiretta» e' consentita o sarebbe ammissibile da parte di «alcun altro organo sia per quel che concerne il funzionamento sia per quel che attiene allo status dei suoi componenti». Al contrario nel caso di specie, il potere dell'esecutivo interloquisce con quello neutro presidenziale ponendosi talora in posizione paritaria e talora di supremazia. Sotto questo ultimo profilo, sono emblematici del ruolo rilevante del ministro e dell'esecutivo i decreti presidenziali contenenti norme giuridiche sia con efficacia di legge formale (decreto legge e decreti legislativi) sia aventi efficacia subordinata a quella della legge formale (regolamenti) e gli atti espressione della funzione amministrativa (come la nomina di alti funzionari) e di attivita' di indirizzo politico (come la nomina dei ministri e l'autorizzazione a presentare alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa). Ebbene, rispetto a tali atti il Presidente della Repubblica puo' esercitare un controllo di legittimita' e chiedere il riesame alle Camere senza pero' poter incidere sulle determinazioni del Governo e del ministro proponente. In definitiva, il Presidente della Repubblica non puo' rifiutare di sottoscrivere gli atti che gli siano riproposti nonostante la sua richiesta di riesame. Ancora, palesano la sussistenza di un ruolo paritario tra i due poteri gli atti complessi, ovvero la nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri e lo scioglimento della Camere, il cui contenuto e' determinato con parita' di efficacia del Presidente e dai ministri che vi partecipano. Vi sono poi degli atti (come la nomina dei cinque giudici costituzionali, la nomina degli esperti del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, il rinvio al Parlamento di una legge, la promulgazione delle leggi, i messaggi, la grazia come riconosciuto dalla sent. n. 200/2006) che promanano sostanzialmente dal solo Capo dello Stato. In questi casi, la controfirma ministeriale assume una mera funzione di controllo diretto ad accertare la costituzionalita' formale dell'atto e il Ministro atteggia il proprio potere di firma similmente a quello del Presidente nel caso degli atti sostanzialmente governativi: i due poteri, esecutivo e neutro super partes, agiscono in simbiosi e talora rappresentano l'uno l'interfaccia dell'altro. Cio' posto, la indipendenza del Capo dello Stato si sostanzia nella sua neutralita' e non gia' in quel sistema di guarentigie che tutela la autonomia della Corte costituzionale quale «altissimo organo di garanzia dell'ordinamento repubblicano» cui spetta «in via esclusiva e con effetti definitivi di far concretamente valere l'imperio della Costituzione nei confronti di tutti gli operatori costituzionali» (sent. 15), come sancita non a caso espressamente dall'art. 137 Cost. E la indipendenza della massima carica istituzionale, come quella dell'ordine giudiziario, non subisce alcuna interferenza per effetto dell'esercizio da parte del Ministro della giustizia del potere di concedere o negare l'autorizzazione a procedere per i reati di vilipendio. Anzi il Ministro della giustizia che e' l'organo preposto ai rapporti tra Governo e ordine giudiziario e controfirma gli atti di grazia del Presidente della Repubblica, appare essere politicamente e tecnicamente idoneo a pronunciarsi sull'autorizzazione a procedere; i ministri pur essendo espressione del potere esecutivo d'altronde giurano fedelta' alla repubblica e con essa al suo capo. Il Ministro della giustizia e' poi l'organo politicamente responsabile davanti al Parlamento per quanto attiene l'organizzazione della giustizia e il suo funzionamento (sent. 168/1963). Non vi sono dunque motivi di illegittimita' costituzionale a che sia il Ministro della giustizia a valutare, secondo la ratio dell'autorizzazione a procedere evidenziata dalla Corte costituzionale nelle pronunce citate, se l'eventuale danno all'immagine del soggetto leso destato dal clamore di certe vicende possa essere in ipotesi minore di quello patito per effetto dell'offesa. Tale ratio infatti non significa che debba essere lo stesso soggetto passivo a decidere della procedibilita' dell'azione penale nei propri confronti. Anzi proprio la natura politica dell'atto autorizzativo induce ad escludere che una simile valutazione di opportunita' debba essere assunta dal Capo dello Stato, estraneo come si e' detto al circuito politico e alle sue logiche, mentre appare coerente con il sistema costituzionale che una simile scelta spetti al Ministro. Sotto questo profilo invero la suprema Corte di cassazione (sez. I n. 2868 del 24 settembre 1976 Mancini) ha gia' ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 278 e 313 c.p. in relazione agli artt. 87 e 89 Cost., osservando che il Capo dello Stato non puo' compiere la valutazione di opportunita' politica che e' alla base della decisione sulla procedibilita', in quanto «non e' protagonista della tensione ideologica in cui si articola, si sviluppa e si realizza il dialogo politico, anche se ne costituisce il moderatore e ne controlla quale spettatore essenziale, la legalita' costituzionale». Ne' e' in alcun modo assimilabile a tale valutazione quella personale del soggetto leso da reati di ingiuria o diffamazione, titolare del diritto di querela, che ben puo' decidere in ordine alla procedibilita' dei reati commessi contro di se', ritenendo preferibile non affrontare un processo penale, sulla base di una valutazione di opportunita' fondata sul proprio sentire personale. Al contrario nel caso in esame la valutazione non e' dettata da motivazioni di ordine soggettivo (in ipotesi anche favorevoli al soggetto che ha pronunciato l'offesa), ma e' correttamente rimessa ad un organo politico, in quanto non e' la persona fisica, ma la carica rivestita, che ha una esistenza autonoma e sovraordinata, ad avere subito un ipotetico pregiudizio. Da ultimo, non si ritiene che sussista alcun contrasto tra la rimessione al Ministro della giustizia del potere di decidere dell'autorizzazione e la attribuzione al Presidente della Repubblica del potere di concedere la grazia. diversamente da quanto argomentato dalla difesa, anzi ravvisandosi in questa divisione dei poteri e proprio in considerazione di quanto finora affermato una logica stringente. La concessione della grazia invero, come affermato dalla stessa Corte costituzionale, si fonda su un «apprezzamento dei presupposti umanitari che giustificano l'adozione del provvedimento di clemenza» (v. sent. n. 200/2006); una simile valutazione e' dunque correttamente rimessa al Presidente della Repubblica proprio in quanto rappresentante dell'unita' nazionale, estraneo al c.d. circuito politico e super partes. Ritenuto quindi di non dovere sollevare la questione di legittimita' costituzionale prospettata dalla difesa, sussistono invece i presupposti per accogliere l'istanza del p.m. di sollevare conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. Il Conflitto di attribuzione tra poteri. Il p.m. chiedeva sollevarsi il conflitto in relazione alla delibera del Senato della Repubblica 19 febbraio 2009 che in accoglimento della proposta di cui alla relazione della Giunta delle elezioni e delle immunita' parlamentari comunicata alla Presidenza il 10 febbraio 2009 affermava la insindacabilita' ai sensi dell'art. 68 Cost. delle opinioni espresse dal senatore Francesco Storace sul Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, di cui al capo d'imputazione. Diversamente gli avv.ti Reboa e Naso, difensori dell'imputato, insistevano per una pronuncia di non doversi procedere per difetto della condizione di procedibilita', avendo l'assemblea negato l'autorizzazione. Si deve premettere che analoghe istanze erano state rappresentate dalle parti alla VII sezione del Tribunale in composizione monocratica. Quel giudizio si era instaurato sul presupposto dalla concessa autorizzazione a procedere da parte del Ministro della Giustizia il 17 ottobre 2007; tuttavia, il sen. Storace in corso di procedimento chiedeva alla Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato della Repubblica che deliberasse in ordine alla insindacabilita' delle opinioni espresse nei confronti del Capo dello Stato nel libero esercizio delle prerogative parlamentari. Pertanto il Tribunale, a seguito della richiesta avanzata dall'imputato di deliberare sull'immunita' ex art. 68, primo comma, Cost., disponeva la sospensione del procedimento ai sensi dell'art. 3, commi 4 e 5, legge n. 140/2003 in attesa della pronuncia della Camera di appartenenza, che negava l'autorizzazione. Gia' in quella sede il p.m., come si accennava, aveva chiesto sollevarsi il conflitto di attribuzione tra poteri, ma il Tribunale, accogliendo le conclusioni della difesa, aveva pronunciato sentenza di non doversi procedere in favore dell'imputato per difetto della condizione di procedibilita' (disapplicando l'autorizzazione a procedere concessa dal Ministro della Giustizia). Quella sentenza era annullata senza rinvio dalla Corte di cassazione il 28 settembre 2010 adita dal p.m. Cio' posto, il p.m. ha reiterato l'istanza in questa sede. Come si evince dalla lettura del decreto di giudizio immediato, Storace e' imputato del delitto p. e p. dall'art. 278 c.p., perche' commentando sul sito internet www.Storace.it l'intervento del Presidente della Repubblica, nel quale esprimeva indignazione per gli attacchi rivolti alla Senatrice Rita Levi Montalcini, offendeva l'onore e il prestigio del Capo dello Stato, attribuendogli testualmente «disdicevole storia personale, palese e nepotistica condizione familiare, evidente faziosita' istituzionale, e' indegno di una carica usurpata a maggioranza», in Roma il 13 ottobre 2007, autorizzazione a procedere del Ministro della giustizia in data 17 ottobre 2007 (cfr. sentenza n. 330/2008 della Corte costituzionale, in tema di identificazione delle dichiarazioni rese extra moenia dal parlamentare. nel rispetto del principio di autosufficienza dell'atto introduttivo del giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, mediante la riproduzione dell'imputazione formulata dal pubblico ministero nella quale sono riportate le affermazioni offensive della reputazione delle persone offese coinvolte nella vicenda). Osservava il p.m. che in applicazione dei principi espressi a piu' riprese dalla Corte costituzionale, infatti, nelle sentenze 10 e 11 del 2000 e piu' di recente 14 maggio 2008, deve sussistere «un innesto funzionale tra le dichiarazioni emesse extramoenia dal parlamentare e l'espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento» (v. pag. 4 trascrizioni dell'udienza 23 novembre 2009) cosi che quelle dichiarazioni possano essere identificate come espressione dell'esercizio dell'attivita' parlamentare e pertanto siano coperte dalla insindacabilita' prevista dall'art. 68 Cost. Ai fini della decisione sono presenti in atti, prodotti dalla difesa e dal p.m. con il reciproco accordo alle precedenti udienze e utilizzabili nulla avendo opposto le parti per l'odierna decisione, lo scritto del senatore Storace al Presidente del Senato in data 26 febbraio 2008 con cui richiedeva che la Giunta per le autorizzazione a procedere del Senato stabilisse se le espressioni dal medesimo utilizzate nei riguardi del Capo dello Stato fossero riconducibili al proprio libero esercizio delle prerogative parlamentari, la risposta della Presidenza del 28 febbraio 2008, il resoconto sommario della Giunta delle elezioni e delle immunita' parlamentari del 25 settembre 2008, n. 13, la relazione della Giunta comunicata alla Presidenza del Senato il 10 febbraio 2009 (Doc. IV-quater n. 1), il resoconto stenografico della seduta assembleare del Senato della Repubblica del 19 febbraio 2009. la missiva della Presidenza del Senato della Repubblica del 20 gennaio 2009 alla Procura della Repubblica. Ebbene, come si accennava, il procedimento penale a carico del senatore Storace ha ad oggetto un intervento sul proprio sito internet in cui commentava la presa di posizione da parte del Presidente della Repubblica in favore della senatrice Levi Montalcini, la quale unitamente ad altri senatori a vita aveva sostenuto il Governo di centro sinistra in varie occasioni. In data 25 settembre 2008 la Giunta per elezioni e le immunita' parlamentari del Senato proponeva di dichiarare la insindacabilita' delle frasi in esame, ritenendo che «la prima parte delle dichiarazioni dell'ex senatore Storace relativa alle parole disdicevole storia personale, palese e nepotistica conduzione familiare...concerne(sse) opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e ricade pertanto nell'ipotesi di cui' all'art. 68 primo comma della Costituzione». Nel medesimo documento si legge che «la seconda parte delle dichiarazioni dell'ex senatore Storace relativa alle parole evidente faziosita' istituzionale, e' indegno di una carica usurpata a maggioranza....concerne opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e ricade pertanto nell'ipotesi di cui all'articolo 68 primo comma della Costituzione». Nella relazione della Giunta comunicata il 10 febbraio 2009 si specifica il contesto in cui la discussione politica si era animata. Il Presidente della Repubblica in difesa della senatrice Levi Montalcini aveva invero dichiarato che «mancare di rispetto, infastidire, tentare di intimidire la senatrice Rita Levi Montalcini, una donna dall'altro sentire democratico. che ha fatto e fa onore all'Italia, e' semplicemente indegno». Commentava pertanto il sen. Storace il giorno dopo sul suo sito Internet «non so se devo temere l'arrivo dei corazzieri a difesa di villa Arzilla, ma una cosa e' certa; Giorgio Napolitano non ha alcun titolo per distribuire patenti etiche. Per disdicevole storia personale, per palese e nepotistica condizione familiare, per evidente faziosita' istituzionale, e' indegno di una carica usurpata a maggioranza. E la smetta di soccorrere un Governo moribondo a difesa di una signore talmente importante che quest'anno, come ha ricordato ieri il Presidente Calderoli, costera' tre milioni di curo agli italiani. Nobel o no i ricatti si chiamano ricatti e i voti dei senatori a vita restano politicamente immorali». La Giunta, quindi, proponeva di negare per queste frasi l'autorizzazione a procedere segnalando, comunque, come la Corte costituzionale nelle sentenze n. 10 e n. 11 del 2000 fosse orientata nel ritenere che la prerogativa di cui all'art. 68 trovi applicazione alle opinioni espresse «dal parlamentare nel corso dei lavori della Camera di appartenenza e dei suoi vari organi in occasione dello svolgimento di una qualsiasi tra le funzioni svolte dalla Camera medesime o ancora in atti anche individuali». Queste opinioni costituiscono estrinsecazione delle facolta' proprie del parlamentare in quanto membro dell'Assemblea anche se espresse extra moenia solo se «possono essere qualificate come divulgative all'esterno di attivita' parlamentari ove sussista una sostanziale corrispondenza di significato con opinioni gia' espresse nell'esercizio di funzioni parlamentari tipiche». Quindi, dato atto del pacifico orientamento giurisprudenziale, la Giunta sottolineava l'importanza di rifuggire da «una definizione stringente del concetto di nesso funzionale, preferendo verificarne la ricorrenza caso per caso». La difesa del Senato, pertanto, auspicava un salto interpretativo della giurisprudenza costituzionale volto a ritenere «sussistente il nesso funzionale in tutte le occasioni in cui il parlamentare raggiunga il cittadino illustrando la propria posizione». Sottolineava ancora la Giunta la opportunita' di distinguere le frasi del tipo «evidente faziosita' istituzionale e indegno di una carica usurpata a maggioranza» che costituiscono espressione di una forte critica politica, discutibile sul piano dello stile, ma di certo prive di rilevanza giuridica in relazione all'art. 278 c.p. e non offensive dell'onore e del prestigio del Capo dello Stato. Si metteva cioe' in evidenza che le frasi in esame muovevano al Presidente rilievi in ordine ad una presunta partigianeria che avrebbe connotato il suo intervento in favore della senatrice Levi Montalcini, nonche' «una marcata caratterizzazione politica della sua elezione avvenuta secondo la valutazione del sen. Storace, unicamente con i voti di un preciso schieramento presente in Parlamento». Sotto diverso profilo, le frasi del tipo «disdicevole storia personale e palese e nepotistica conduzione familiare» se rappresentavano un accentuazione della vis polemica, tuttavia dovevano essere contestualizzate nell'acceso dibattito verificatosi in quei giorni e vanno lette nel complesso del discorso. Si trattava, in definitiva, di «figure retoriche sia pure esacerbate» che si tradurrebbero in «apprezzamenti sfavorevoli inidonei a determinare una percepibile menomazione dell'onore e del prestigio della persona tutelata e .... manifestazione del diritto proprio del parlamentare di manifestare liberamente le proprie valutazioni di ordine politico su fatti e vicende specifiche». Quanto alla espressione «disdicevole storia personale», la stessa si doveva collocare nel contesto polemico ed era riferibile al percorso politico di scelte e adesioni personali a dottrine in relazione alle quali il sen. Storace aveva una posizione di dissenso; quanto alla espressione «palese e nepotistica conduzione familiare» riecheggerebbe episodi oggetto di sindacato parlamentare ispettivo la cui evocazione rientrerebbe nell'esercizio della critica politica costituente elemento proprio della funzione parlamentare. Cio' posto, appare evidente che le argomentazioni della Giunta fatte proprie dall'assemblea entrano nel merito della valutazione della natura della condotta ascritta all'imputato e della sua concreta offensivita', che compete unicamente al giudice. Se le frasi utilizzate dal senatore Storace nell'occasione che gli viene contestata siano espressioni pur aspre e polemiche, secondo la definizione della Giunta, di critica politica inidonee a ledere il bene interesse tutelato dalla fattispecie dovra' essere accertato all'esito del giudizio, alla cui celebrazione attualmente osta la negazione dell'autorizzazione a procedere. Diversamente spetta all'Assemblea esprimersi sulla insindacabilita' di queste frasi ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, che richiede l'esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l'espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento. Invero, la legge n. 140 del 20 giugno 2003 ha precisato che la disposizione del primo comma «si applica in ogni caso per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordine del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi della Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata, per ogni altra attivita' di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento» (cfr. art. 3, comma 1). Secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, n. 28 del 2005, n. 134 del 2008, n. 301/2010, n. 82/2011), tale nesso funzionale sussiste se da un lato vi sia una corrispondenza di significato tra opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari e gli atti esterni e non una mera comunanza di argomenti o il riferimento a un mero generico contesto politico, dall'altro se vi sia una sostanziale contestualita' tra il momento dell'attivita' parlamentare e quello dell'attivita' esterna, di modo che quest'ultima riveli una finalita' divulgativa della prima (cfr. sentenza n. 420 del 2008). Dalla lettura di queste pronunce della Corte costituzionale si evince che il mero riferimento all'attivita' parlamentare o a temi di rilievo generale (pur anche dibattuti in Parlamento), entro cui le dichiarazioni si possano collocare, non vale in se' a connotarle quali espressive della funzione; se esse non costituiscono la sostanziale riproduzione di specifiche opinioni manifestate dal parlamentare nell'esercizio delle proprie attribuzioni, non possono considerarsi quale riflesso del peculiare contributo che ciascun deputato e ciascun senatore apporta alla vita parlamentare mediante le proprie opinioni c i propri voti, opinioni queste ultime coperte dalla insindacabilita', ma rappresentano un'ulteriore e diversa articolazione di quel contributo, che viene elaborato ed offerto all'opinione pubblica nell'esercizio della libera manifestazione del pensiero assicurata a tutti dall'art. 21 della Costituzione (cfr. sentenze n. 302, n. 166 e n. 152 del 2007, n. 330 del 2008). Ebbene, nella fattispecie non risulta che le opinioni espresse dal senatore Storace avessero alcun collegamento, nel senso teste' chiarito, con lavori parlamentari cui lo stesso avesse offerto il proprio contributo; anzi quelle opinioni cosi' dissociate dal contributo politico contestualmente fornito dal parlamentare non sono affatto divulgative dell'attivita' intra moenia, bensi' sono espressione di libero pensiero e come tali devono poter essere valutate. Nessun atto tipico che possa fungere da copertura alla insindacabilita' delle dichiarazioni extra moenia consente pertanto di applicare la garanzia costituzionale dell'art. 68 Cost. Ne' ritiene il decidente alla luce delle considerazioni svolte che tale possa ritenersi la presentazione di un disegno di legge, di cui ha riferito il sen. Storace in sede di dichiarazioni spontanee rese all'udienza del 23 novembre 2009. Come si legge dalla relazione della Giunta si tratta di un disegno di legge costituzionale presentato il 10 ottobre 2007 volto all'abrogazione dell'art. 59 Cost. (e dunque diretto all'abolizione della carica di sentore a vita). In quel momento storico, infatti, i senatori a vita (tra cui la prof.ssa Rita Levi Montalcini) erano stati accusati di avere tradito e alterato il voto popolare, offrendo il loro appoggio al Governo di centro sinistra (e pertanto erano definiti le «stampelle» dell'esecutivo), garantendo la maggioranza al Senato in varie occasioni (v. relazione). Tuttavia, le opinioni del sen. Storace oggetto dell'attenzione processuale espresse sia in merito alla storia personale del Capo dello Stato. qualificata disdicevole e connotata da palese e nepotistica conduzione familiare, nonche' alla sua faziosita' istituzionale e indegnita' a rivestire una carica usurpata maggioranza, non possono ritenersi in alcun modo divulgative del contenuto di quel disegno o degli eventuali relativi lavori parlamentari. La stessa Giunta, come si e' visto, premetteva che l'art. 68 Cost. trova applicazione solo nelle ipotesi in cui le opinioni siano espresse «dal parlamentare nel corso dei lavori della Camera di appartenenza e dei suoi vari organi in occasione dello svolgimento di una qualsiasi tra le funzioni svolte dalla Camera medesime o ancora in atti anche individuali» e che queste opinioni possono costituire estrinsecazione delle facolta' proprie del parlamentare in quanto membro dell'Assemblea anche se espresse extra moenia purche' divulgative all'esterno di attivita' parlamentari e ove sussista una sostanziale corrispondenza di significato con opinioni gia' espresse nell'esercizio di funzioni parlamentari tipiche». Proprio in virtu' di tali argomenti auspicava un salto interpretativo della giurisprudenza costituzionale volto a ritenere «sussistente il nesso funzionale in tutte le occasioni in cui il parlamentare raggiunga il cittadino illustrando la propria posizione». Cio' posto, pero', il salto interpretativo auspicato non poteva porlo in essere l'Assemblea; la decisione in ordine a un simile tema non puo' che essere rimesso alla stessa Corte costituzionale cui gli atti del processo devono essere necessariamente trasmessi. Pertanto rilevato che nel sistema normativo la mancata proposizione del ricorso ex art. 37, legge n. 87/1953 priva il cittadino di un rimedio per contestare una decisione lesiva del proprio diritto di accesso un tribunale (v. sent. CADU 30 gennaio 2003 Cordova contro Italia), deve sollevarsi conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato avendo il Senato ecceduto i limiti delle proprie attribuzioni costituzionali, con conseguente illegittima interferenza nel presente procedimento, considerato che le opinioni espresse dal senatore Storace sul proprio sito internet in data 13 ottobre 2007 non sono oggetto di precedente dibattito parlamentare dal medesimo sostanziale contenuto da parte dell'allora senatore ne' in forma scritta ne' orale, cosi' che le stesse devono ritenersi prive del carattere divulgativo di opinioni espresse nell'esercizio del mandato parlamentare. In mancanza dei presupposti di applicabilita' dell'art. 68, primo comma della Costituzione, l'accertamento della sussistenza del diritto di critica politica nei confronti del Presidente della Repubblica, attiene al merito del giudizio relativo all'ipotesi di reato di vilipendio al Capo dello Stato, costituzionalmente riservato all'autorita' giudiziaria. Solo all'esito della decisione della Corte costituzionale, potra' essere valutata la richiesta della difesa di una pronuncia di non doversi procedere in favore dell'imputato per difetto della condizione di procedibilita'.
P.Q.M. Visti gli artt. 134 Cost. e 37, legge 11 marzo 1953, n. 87, solleva avanti la Corte costituzionale conflitto di attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica, chiedendo che, dichiarata l'ammissibilita' del presente conflitto, dichiari che non spettava al Senato la valutazione della condotta addebitabile al senatore Francesco Storace nel presente procedimento penale, in quanto estranea alla previsione di cui all'art. 68, primo comma della Costituzione, con conseguente annullamento della delibera del Senato del 19 febbraio 2009, nella quale, in accoglimento della proposta della Giunta di cui alla relazione comunicata il 10 febbraio 2009 (doc. IV-quater n. 1). si affermava che le dichiarazioni «disdicevole storia personale, palese e nepotistica conduzione familiare, evidente faziosita' istituzionale, e' indegno di una carica usurpata a maggioranza» concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e ricadono pertanto nell'ipotesi di cui all'art. 68 primo comma della Costituzione. Sospende il presente procedimento. ordinando alla cancelleria di trasmettere gli atti alla Corte costituzionale nei termini di legge. Roma, addi' 15 giugno 2011 Il Giudice: d'Alessandro Avvertenza: L'ammissibilita' del presente conflitto e' stata decisa con ordinanza n. 57/2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 1 s.s., n. 11 del 14 marzo 2012.