ERRATA-CORRIGE

Comunicato relativo all'ordinanza del Tribunale di Lecce  3  novembre
  2011, n. 36. (Ordinanza pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  -  1ª
  serie speciale - n. 12 del 21 marzo 2012). 
(GU n.15 del 11-4-2012 )
    Nella  sopra  indicata  Gazzetta  Ufficiale,  per   mero   errore
materiale, e' stato  pubblicato  il  testo  della  citata  ordinanza,
difforme dall'originale, che correttamente si riporta qui di seguito: 
 
     Ordinanza del 3 novembre 2011 emessa dal Tribunale di Lecce 
     nel procedimento penale a carico di Gallo Vincenzo ed altri 
 
 
                       IL TRIBUNALE ORDINARIO 
 
    All'udienza  del  giorno  3  novembre  2011,  nel  processo   nei
confronti di Guagnano Pietro piu' altri,  decidendo  in  ordine  alle
questioni preliminari sollevate dalla difesa degli imputati,  sentite
le parti, e sciogliendo la riserva di cui al verbale dell'udienza del
20.10.2011, il Tribunale ha pronunziato la seguente ordinanza. 
    Le  difese  degli  imputati  hanno  sollevato  diverse  questioni
preliminari, che questo  tribunale  ha  contestualmente,  all'odierna
udienza, deciso con separata ordinanza ai sensi dell'art. 491 c.p.p. 
    Residua la questione relativa  alla  competenza  territoriale  di
questo tribunale nei confronti  degli  imputati  Baldassarre,  Kobau,
Mungai e Gallo - che tempestivamente gia' all'udienza preliminare  la
sollevarono - in relazione al delitto di truffa aggravata di  cui  al
capo C), che si affronta in questa separata sede per la non manifesta
infondatezza della questione di incostituzionalita', che ne discende,
delle disposizioni di cui agli artt. 12 lett.  c)  e  16  c.p.p.  per
contrasto con gli artt. 25 e 3 Cost. 
    La difesa degli  imputati  Baldassarre,  Gallo,  Kobau  e  Mungai
eccepisce infatti l'incompetenza territoriale  di  questo  tribunale,
rilevando che, posto che i  suddetti  imputati  rispondono  del  solo
reato di truffa di cui al capo C), e che lo  stesso  debba  ritenersi
consumato in Milano ove avvenne la percezione del profitto (e  cioe',
il pagamento del canone del contratto di leasing a natura truffaldina
secondo l'impostazione accusatoria), sia quindi da  individuarsi  nel
tribunale di Milano l'A.G. competente  a  conoscere  dei  fatti  loro
ascritti nel  presente  processo,  stante  l'asserita  inoperativita'
della regola di cui all'art.  16  c.p.p.  -  che,  nelle  ipotesi  di
processo avente ad oggetto  reati  connessi  ma  commessi  in  luoghi
diversi, vuole la  competenza  radicarsi  con  riferimento  a  quella
propria del reato piu' grave - nel caso in cui il  reato  piu'  grave
(nel caso in oggetto, il falso ideologico di cui al  capo  A,  punito
con la reclusione sino a sei anni e  contestato  al  solo  coimputato
Naccarelli; nonche' - ma lo si evidenzia  solo  a  titolo  eventuale,
perche' l'aggravante di cui all'art. 61 n. 2 c.p. non  e'  contestata
in relazione a tale reato - il falso ideologico di  cui  al  capo  B)
contestato a Solombrino e Brunetti) non sia contestato  a  tutti  gli
imputati. 
    Va poi sottolineato che gli imputati Brunetti, De Leo,  Ricercato
e Solombrino, pur rispondendo tutti del reato di  truffa  di  cui  al
capo C), come unica imputazione o comunque come imputazione non retta
da contestato nesso di connessione teleologica con alcun altro  reato
loro ascritto, non hanno eccepito l'incompetenza territoriale, che il
solo De Leo aveva peraltro sollevato invece all'udienza  preliminare;
deve pertanto ritenersi che, in forza della prevalente giurisprudenza
della Suprema Corte, la questione circa l'eventuale  incompetenza  di
questo Tribunale nei loro confronti non possa essere neppure rilevata
di ufficio; in ogni caso, occorre  rilevare,  dette  difese  si  sono
peraltro quasi tutte opposte all'accoglimento  della  eccezione,  che
comporterebbe per loro la sottoposizione al giudizio  di  un  giudice
particolarmente lontano e difficile da raggiungere. 
    Tanto  premesso,  questione  preliminare  alla  decisione   sulla
fondatezza dell'eccezione e'  la  verifica  in  ordine  al  luogo  di
consumazione del reato di truffa, per come  contestato,  osservandosi
che il capo di  imputazione  fa  riferimento  ad  una  pluralita'  di
luoghi, indicando sia Lecce che  Milano.  Poiche'  ovviamente  e'  di
difficile ipotizzabilita' che un reato commesso in danno di un  unico
soggetto possa dirsi consumato  contemporaneamente  in  due  distinti
luoghi, occorre  arricchire  di  piu'  penetranti  considerazioni  il
tradizionale insegnamento della Suprema Corte,  che  ricorda  che  la
competenza debba essere indagata fondamentalmente con riferimento  al
fatto per come  contestato  in  capo  di  imputazione.  Nel  caso  in
oggetto,  tale  insegnamento,  per  la  duplicita'  dei   luoghi   di
consumazione indicati, non si mostrerebbe sufficiente a risolvere  il
problema; e cio' tanto piu' che detta duplicita' di  indicazione  non
comporta  necessariamente  una  situazione  equiparabile   a   quella
dell'incertezza  sul  luogo  di  consumazione  del  reato,  che  deve
condurre all'applicazione delle regole residuali di  cui  all'art.  9
c.p.p. (tra le quali rileverebbe, nell'eventuale inapplicabilita'  di
quelle sancite dai primi due  commi  della  norma,  quella  residuale
assegnatrice di competenza al giudice presso il quale e' istituito il
p.m. che ha per primo ha iscritto la notizia di reato, e  che  quindi
radicherebbe la competenza presso questo Tribunale). Invero, posta la
ratio essendi delle norme in tema di  competenza,  che  costituiscono
per cosi' dire il «precipitato processuale» del principio del giudice
naturale precostituito per legge,  dettato  a  garanzia  del  diritto
delle parti ad un giudice imparziale e che per tale ragione non possa
essere  scelto  da  una  parte  in  danno  dell'altra,  lo  stato  di
incertezza che legittima il ricorso alle  regole  suppletive  di  cui
all'art.  9  c.p.p.  non  puo'  che  essere  quello  assoluto  e  non
risolvibile allo stato degli atti, e non gia'  quello  superabile  in
base ad una lettura logica dell'imputazione. 
    A tal proposito, va quindi osservato che non puo' contestarsi che
il reato di truffa sia da considerarsi commesso in Milano, anche alla
stregua della formulazione del capo  di  imputazione  che,  indicando
come luoghi di consumazione  sia  Lecce  che  Milano,  non  solo  non
esclude quest'ultimo ma  anzi,  dovendosi  rifiutare  una  altrimenti
inconcepibile duplicazione dei luoghi di commissione,  non  puo'  che
indicare alternativamente, leggendo l'imputazione secondo  logica,  o
il luogo ove si e' verificato il danno (e cioe' Lecce)  e  quello  in
cui  e'  stato  conseguito  il  profitto  (Milano),  o  in  ulteriore
alternativa il luogo di perfezione del reato di truffa (ove e'  stato
concluso il contratto truffaldino) e quello di conseguimento del  suo
profitto. Risulta invero dagli atti che i  canoni  del  contratto  di
leasing, costituenti il profitto del reato, dovessero  essere  pagati
alla Selma Bipiemme Leasing Spa, che ha sede in Milano, su di un  c/c
accesso presso la  Banca  Popolare  di  Milano,  anch'essa  con  sede
principale in Milano, presso un'agenzia avente ancora una volta  sede
in Milano (per la precisione l'agenzia n. l in v.le Corsica 31:  cfr.
pag. 7 del contratto col quale il Comune di  Lecce  «subentro'»  alla
Socoge nei rapporti con Selambipiemme); laddove peraltro, secondo  la
giurisprudenza delle Sezioni Unite  della  Corte  di  Cassazione,  e'
pacifico che il luogo di consumazione del reato sia quello in cui  si
realizza il profitto ingiusto, atteso  che  e'  nel  momento  in  cui
l'agente  lo  percepisce  che  si  realizza  la  definitiva   perdita
patrimoniale, e cioe' il correlativo evento di danno,  in  capo  alla
vittima del reato. In ogni caso,  quand'anche  si  intendesse  invece
ricorrere uno stato di ambiguita' sconfinante in  una  condizione  di
incertezza assoluta legittimante il ricorso ai criteri suppletivi  di
cui  all'art.  9  del  c.p.p.,  egualmente  dovrebbe  accedersi  alla
competenza del tribunale di Milano, posto  che  ivi  deve  ritenersi,
comunque,  essersi  consumata  l'ultima  parte  dell'azione  con   la
percezione del profitto. 
    Come si e' detto, pero', il reato di truffa risulta connesso,  ai
sensi dell'art. 61 n. 2 c.p., e quale reato fine  rispetto  al  reato
mezzo, al delitto di falso contestato sub capo A) al solo  coimputato
Naccarelli; tanto premesso, occorre quindi accertare,  in  base  alla
vigente normativa, se le regole  stabilite  dall'art.  16  c.p.p.  in
relazione ai casi di  connessione  ex  art.  12  c.p.p.,  operino  lo
spostamento di competenza determinato dalla connessione nei confronti
di tutti gli imputati, o se invece  tale  effetto  operino  solo  nei
confronti di coloro cui sia contestata anche l'imputazione dotata  di
vis adtractiva. 
    L'ultima tesi e' allo  stato  quella  oggetto  del  favore  della
prevalente giurisprudenza di legittimita'; possono  ad  es.  citarsi:
Sez. l, Sentenza n. 24583 del 28 maggio 2009:  «La  continuazione  e'
idonea a determinare lo spostamento della competenza per  connessione
al sensi dell'art. 12, lett. b), cod. proc. pen., solo se  l'episodio
in continuazione riguarda lo stesso o, se sono piu' d'uno gli  stessi
imputati.» La stessa sentenza richiama i precedenti offerti  da  Sez.
l, 9 marzo 1995, n. 3385, Pischedda, massima  n.  200702,  cui  adde:
Sez. 3, 30 luglio 1993, n. 1744, Bernardini, massima n. 194469;  Sez.
l, 10 gennaio 1996, n. 84, Amonti, massima  n.  205124;  Sez.  4,  12
agosto 1996, n. 1999, Acampora, massima n. 206293; Sez. l,  25  marzo
1998, n. 1783, Apreda, massima n. 210417; Sez. l, 8 giugno  1998,  n.
3357, Sama, massima n. 210881; Sez. 1, 12  novembre  1999,  n.  6226,
Zagara, massima n. 214834; Sez. 1,  10  giugno  2004,  n.  37156,  La
Perna, massima  n.  229533;  Sez.  4,  7  novembre  2006,  n.  11963,
Galletti, massima n. 236276; cui adde: Sez. 1,  22  aprile  2008,  n.
19811, Orbito, non massimata; possono inoltre richiamarsi anche: 
        Sez.  1,  Sentenza  n.  38170  del  23  settembre  2008:  «La
connessione fondata sull'astratta configurabilita' del vincolo  della
continuazione e' idonea a determinare lo spostamento della competenza
soltanto quando l'identita' del disegno criminoso sia comune a  tutti
i compartecipi, giacche' l'interesse di un imputato alla  trattazione
unitaria di fatti in continuazione non puo' pregiudicare  quello  del
coimputato a non essere sottratto al giudice naturale». 
        Sez.  4,  Sentenza  n.  10122  del  17  gennaio   2006:   «La
continuazione e' idonea a determinare lo spostamento della competenza
per connessione solo  se  l'episodio  in  continuazione  riguardi  lo
stesso imputato o, se sono piu' di uno, gli stessi imputati, giacche'
l'interesse di un imputato alla  trattazione  unitaria  di  fatti  in
continuazione non puo'  pregiudicare  quello  del  coimputato  a  non
essere sottratto al giudice  naturale  secondo  le  regole  ordinarie
della competenza»; negli stessi testuali termini vedi anche  Sez.  1,
Sentenza n. 37156 del 10 giugno 2004, nonche', piu'  risalente,  Sez.
1, Sentenza n. 6226 del 12 novembre 1999; che  statuiva,  in  termini
piu'  ampi:  «In  tema  di  competenza  determinata  dall'ipotesi  di
connessione  oggettiva  fondata  sull'astratta  configurabilita'  del
vincolo della continuazione fra le analoghe, ma distinte  fattispecie
di reato  ascritte  ai  diversi  imputati,  l'identita'  del  disegno
criminoso perseguito e' idonea a  determinare  lo  spostamento  della
competenza per connessione, sia per materia, sia per territorio, solo
se l'episodio o gli episodi in continuazione riguardino lo stesso o -
se sono piu' di uno - gli stessi imputati, giacche' l'interesse di un
imputato alla trattazione unitaria dei  fatti  in  continuazione  non
puo' pregiudicare quello del coimputato in uno di quei  fatti  a  non
essere sottratto al giudice  naturale  secondo  le  regole  ordinarie
della competenza. Ne consegue che,  al  di  fuori  delle  ipotesi  di
continuazione riferibili a una fattispecie  monosoggettiva  o  a  una
fattispecie concorsuale, in cui l'identita' del disegno criminoso sia
pero' comune a tutti i compartecipi, il vincolo  della  continuazione
non e' in grado di  determinare  alcuna  attribuzione  e  conseguente
spostamento di competenza, ai sensi dell'art.  15  o  16  cod.  proc.
pen., ma produce i suoi effetti solo sul piano  sostanziale  ai  fini
della  determinazione  della  pena  ai  sensi  dell'art.  671  stesso
codice». 
    Vanno  inoltre  rammentate,  per  l'esplicito   riferimento   ivi
contenuto anche all'ipotesi di  connessione  data  dalla  connessione
teleologica di cui  all'art.  12  lett.  c)  c.p.p.,  anche  Sez.  3,
Sentenza n. 2731 del 26 novembre 1999,  che  statuisce  che  «Non  si
verifica  spostamento  della  competenza  per  connessione   prevista
dall'art. 12 lett. b) e  c)  c.p.p.,  qualora  i  reati  siano  stati
commessi da soggetti  diversi.  Ed  invero,  in  tal  caso,  mancando
l'unita' del processo volitivo tra il reato mezzo ed il  reato  fine,
ricorre solo una  ipotesi  di  connessione  di  natura  eventualmente
probatoria che non produce lo  spostamento  di  competenza,  ne'  per
materia ne' per territorio, tanto piu' che l'interesse di un imputato
alla trattazione unitaria dei  procedimenti  per  reati  commessi  in
continuazione  o  connessi  teleologicamente  non  puo'  pregiudicare
quello del coimputato (o dei coimputati) a  non  esser  sottratto  al
giudice naturale secondo le regole ordinarie  della  competenza»;  di
eguale segno anche Sez. 1, Sentenza n. 1495 del 2 dicembre 1998,  che
statuisce che «Non  si  verifica  spostamento  della  competenza  per
connessione prevista dall'art. 12, lettere b) e c) cod.  proc.  pen.,
qualora i reati siano stati commessi da soggetti diversi. Ed  invero,
in  tal  caso,  mancando  l'unita'  del  processo  volitivo  tra   11
reato-mezzo e 11 reato-fine, ricorre solo un'ipotesi  di  connessione
di natura eventualmente probatoria che non produce lo spostamento  di
competenza per materia previsto dall'art. 15,  stesso  codice,  tanto
piu' che l'interesse di un  imputato  alla  trattazione  unitaria  di
procedimenti  per  reati  commessi  in   continuazione   o   connessi
teleologicamente non puo' pregiudicare quello del coimputato  (o  dei
coimputati) a non essere sottratto al  giudice  naturale  secondo  le
regole ordinarie della competenza». 
    Tale principio  e'  stato  quindi  piu'  volte  confermato  dalla
Suprema Corte anche con riferimento ad ipotesi in  cui  la  causa  di
connessione risiedesse non solo nella continuazione, ma  anche  nella
ricorrenza del nesso teleologica  ai  sensi  dell'art.  12  lett.  C)
c.p.p., ma il reato «attrattivo» non fosse  contestato  a  tutti  gli
imputati, stabilendo l'impossibilita' di  sottrarre  al  suo  giudice
naturale chi non avesse ricevuto contestazione del  reato  dotato  di
vis adtractiva: si ricordano a tal  proposito,  oltre  alle  numerose
sentenze indicate dalla difesa, anche Sez. 4, Sentenza n.  27457  del
10 marzo 2009, che ha statuito che «Ai  fini  della  configurabilita'
della connessione teleologica prevista dall'art. 12 , lett. c),  cod.
proc. pen., e' richiesto che vi sia  identita'  fra  gli  autori  del
reato fine e quelli del reato mezzo; negli stessi termini e'  inoltre
Sez. 2, Sentenza n. 39777 del 26  settembre  2007,  nonche'  Sez.  3,
Sentenza n. 2731 del 2000 (che si segnala perche' affronta  anche  il
tema  dell'eventuale  rilevanza  della  ricorrenza  della  causa   di
connessione di cui all'art. 12 lett. a) c.p.p., richiedendo che  essa
valga per tutti gli imputati di tutti  i  reati  connessi),  Sez.  3,
Sentenza n. 2731 del 26 novembre  1999,  Sez.  l,  Sentenza  n.  3357
dell'8 giugno 1998, Sez. 1, Sentenza n. 1783 de/ 25/03/1998, Sez.  1,
Sentenza n. 6908 del 18 dicembre 1996, Sez. 1, Sentenza n. 3385 del 9
marzo 1995. 
    E' tuttavia bene rilevare che,  a  parere  di  questo  Tribunale,
l'unica interpretazione fedele al testo del combinato disposto  degli
artt. 16 e  12  c.p.p.  appare  essere  quella  che  esclude  la  vis
adtractiva solo  in  relazione  alle  ipotesi  in  cui  la  causa  di
connessione riposi esclusivamente nell'appartenenza dei reati  ad  un
medesimo disegno criminoso: ipotesi in relazione alla quale  il  dato
testuale offerto dall'art. 12 lett. b)  c.p.p.  -  che  espressamente
riconduce l'ipotesi di connessione al caso in cui uno stesso imputato
sia accusato di piu' fatti commessi in continuazione tra loro - offre
un appiglio testuale e certo all'interpretazione citata. Invece,  per
quel che riguarda i casi in cui la causa di connessione debba  essere
rinvenuta nella esistenza di un nesso di strumentalita' diretta tra i
reati, essendo stato  l'uno  commesso  al  precipuo  scopo  di  poter
consumare l'altro - come e' nel  caso  in  oggetto  in  cui,  secondo
l'ipotesi accusatoria, il delitto di falso di cui al capo A),  dotato
di vis adtractiva perche' piu' grave di quello di  truffa,  e'  stato
finalizzato alla consumazione di tale ultima fattispecie  la  lettera
della norma di legge ordinaria, frutto peraltro di quella che  appare
essere  una  non  casuale   rivisitazione   legislativa   evidenziata
dall'interpretazione storica, non offre  alcun  appiglio  testuale  a
quella che e' l'interpretazione fatta propria dalla sentenze  citate,
la quale, come si e' avuto modo di rilevare, poggia non gia' sul dato
testuale della norma  processuale,  quanto  piuttosto  sull'interesse
dell'imputato a non essere distratto  dal  proprio  giudice  naturale
precostituito per legge, cui piega la  lettera  della  norma  andando
oltre   quella   che   ne    potrebbe    essere    un'interpretazione
costituzionalmente orientata. 
    Va infatti a tal proposito richiamata la sentenza C.  Cass.  Sez.
5, n. 10041 del 1998 nonche' Sez. 6, Sentenza n. 37014 del  2010,  le
quali muovono la loro esegesi del  dato  normativo  in  forza  di  un
convincente ricorso al criterio storico, legato  alle  modifiche  che
l'art. 12 lett. c) c.p.p. ha subito  nel  tempo;  in  particolare  la
seconda delle due citate sentenze espressamente statuisce: «L'art. 12
c.p.p., lett. C prevedeva nel suo testo originario la  locuzione  "se
una persona e' imputata di piu' reati,  quando  gli  uni  sono  stati
commessi per eseguire  od  occultare  gli  altri".  La  legge  8/1992
elimina il riferimento al medesimo soggetto autore dei piu' reati  ed
inserisce un testo sovrapponibile a quello  che  configura  anche  le
residue ipotesi di cui alla circostanza aggravante di cui all'art. 61
c.p., n. 2, in particolare prevedendo  che  sussiste  la  connessione
anche quando "dei reati  per  cui  si  procede  gli  uni  sono  stati
commessi ... per assicurare al colpevole o ad altri ... l'impunita'".
La legge n. 63 del 2001  mantiene  l'esclusione  del  riferimento  al
medesimo autore dei piu' reati  e  limita  la  connessione  ai  reati
commessi gli  uni  per  eseguire  o  per  occultarne  gli  altri:  la
relazione volta a garantire l'impunita' non esce  dal  sistema  della
rilevanza  procedurale,  ma  e'  collocata  tra  le  situazioni   che
determinano il collegamento delle indagini, ai  sensi  dell'art.  371
c.p.p., comma 2, lett. B. Sono pertanto relazioni normativamente  del
tutto diverse quella volta all'occultamento  di  un  reato  e  quella
volta ad assicurare, a se' o ad altri, l'impunita'. 
    La norma, disponendo ora che vi e'  connessione  di  procedimenti
quando dei reati per cui si procede gli uni sono stati  commessi  per
eseguire  o  occultare  gli  altri,  individua  un  legame   che   e'
innanzitutto oggettivo: il riferimento normativo  e'  alla  relazione
oggettiva tra le diverse condotte di reato, che  risultano  collegate
dal particolare legame della finalita' di eseguire o occultare. 
    Ed in effetti  storica  dottrina  penalistica  insegnava  che  la
fattispecie del reato  commesso  per  occultarne  un  altro,  di  cui
all'art. 61 c.p., n. 2, presuppone "che sia stato commesso (consumato
o tentato) dall'agente o da altri, e che  poi  (senza  considerazione
del tempo trascorso) siasi commesso un altro reato per  occultare  il
primo", mentre l'impunita' di un altro reato attiene all'"intento  di
sottrarsi alle conseguenze penali derivanti dal reato stesso".  Cass.
Sez. 5, sent. 3479 del 14 febbraio - 16 aprile 1984, Maggi confermava
l'insegnamento secondo cui nel caso di reato commesso per  occultarne
altro o per conseguirne l'impunita', per se' o per  altri,  il  primo
reato doveva essere stato consumato "dall'agente  o  da  altri"".  Le
vicende  dell'istituto  e  la  connessione  con  gli  aspetti  penali
sostanziali  attestano  la  natura   innanzitutto   oggettiva   della
relazione: cio' che rileva e' il rapporto tra i reati prima di quello
tra soggetti, sicche' non e' necessario che gli autori dei due  reati
siano medesimi. 
    In termini esatti questa Corte suprema si e' gia' espressa con la
sentenza di Sez. 5, sent. 10041 del 13 giugno -  22  settembre  1998,
che ha giudicato sufficiente la connessione  oggettiva,  prescindendo
dall'identita' degli autori, proprio valorizzando il  dato  normativo
obiettivo, per cui "diversamente sarebbe da  considerarsi  del  tutto
irrilevante  la  modifica   apportata   all'originaria   disposizione
normativa dal d.l. 20 novembre 1991, n. 367, convertito  nella  legge
20 gennaio 1992, n. 8, che, eliminando il precedente  riferimento  ad
un unico imputato o ai medesimi imputati concorrenti -  (diversamente
da quanto previsto alla lett. b) - ha privilegiato e mantenuto con la
nuova formulazione della lett. c) art. 12 citato, quale criterio  per
la  ricorrenza  dell'ipotesi  di  connessione,  il   solo   requisito
oggettivo del nesso teleologico". Insegnamento che ovviamente  rileva
sia per il nesso teleologico - come era  nella  specie  -  che  ed  a
maggior ragione per quello "consequenziale", volto  all'occultamento,
o ad assicurare impunita'». 
    Si  pone  quindi  il  problema  della  compatibilita'   di   tale
interpretazione  -  che  questo  Tribunale  accoglie  in  quanto   e'
senz'altro la piu' aderente al testo della  norma  ed  all'intenzione
del Legislatore ordinario quale  disvelato  dalle  modifiche  che  lo
stesso ad essa ha apportato, e la cui recente riaffermazione dopo  il
precedente del  1998  impedisce  di  ritenere  «diritto  vivente»  la
diversa interpretazione offerta dalle altre numerose sentenze  citate
- col principio del giudice naturale precostituito per legge. 
    A parere del Tribunale, non basterebbe obbiettare  che  la  norma
nascente dal combinato disposto degli artt. 16 e 12 lett.  c)  c.p.p.
e' appunto legge precostituita al fatto e,  individuando  il  giudice
competente in forza di precisi legami (quali quello di mezzo a  fine)
colleganti i fatti reati, potrebbe apparire non derogare  affatto  al
concetto di «giudice naturale»,  inteso  appunto  quale  giudice  che
rispetto al fatto abbia una competenza a conoscere discendente  dalla
natura del fatto, sia pur valutato nel suo complesso, comprensivo dei
legami teleologici con un altro fatto reato in ipotesi piu' grave: si
tratterebbe, invero, di un argomentare interpretativo, a  parere  del
Tribunale, non corretto. 
    In primo luogo, proverebbe troppo, in quanto tale definizione del
fatto «ampliato al complesso del suo contesto» - quale  parametro  da
utilizzare per verificare la «naturalita'» del  giudice  rispetto  ad
esso - potrebbe essere esteso anche al caso della  continuazione,  in
relazione alla quale il Legislatore ordinario  ha  invece  senz'altro
adottato la gia' citata differente soluzione  evidenziata  dal  testo
dell'art. 12, lett. b), c.p.p., rispetto alla  quale  quella  dettata
per l'art. 12 lett. c) c.p.p. presterebbe  il  fianco  a  censure  di
costituzionalita' sotto  il  profilo  della  violazione  dell'art.  3
Cost., non apparendo ricorrere alcuna ragione che  possa  condurre  a
giustificare una cosi' marcata differenza di disciplina  tra  le  due
ipotesi e,  quindi,  diversita'  di  trattamento  tra  imputati  che,
rispetto al fatto ed  alla  necessita'  di  individuarne  il  giudice
naturale, si troverebbero in posizioni sostanzialmente assimilabili. 
    In secondo luogo, finirebbe con  sfumare  troppo  il  legame  tra
giudice  e  fatto,  ponendolo  nelle  mani  di  una   incontrollabile
discrezionalita' non solo del Legislatore  ordinario,  ma  anche  del
titolare del potere di definizione del fatto oggetto del processo,  e
cioe' il p.m., che e' la parte che esercita l'azione penale e quindi,
con la propria domanda, ne determina il contenuto e, per questa  via,
detiene un potenziale potere di scegliere il giudice  competente.  La
questione, come puo' comprendersi, appare quindi comportare l'analisi
di  complessi  profili  ed  implicazioni,  dovendosi   da   un   lato
considerare approfonditamente la ratio delle norme sulla competenza -
che svolgono la loro disciplina rispetto al fatto contestato -  e  la
loro relazione col principio del giudice naturale  precostituito  per
legge, e dall'altro il rilievo processuale che assumono, o meglio  in
genere non assumono, i mutamenti marginali del fatto ravvisabili  tra
quanto eventualmente ritenuto dal giudice in sentenza in  difformita'
rispetto a quanto oggetto di contestazione. 
    Preliminare ad ogni ulteriore riflessione,  appare  quindi  dover
essere quella relativa al rilievo costituzionale  delle  norme  sulla
competenza del giudice,  in  quanto  «precipitato  processuale»,  per
cosi' dire, del principio  del  giudice  naturale  precostituito  per
legge. 
    Puo' dirsi senz'altro  assodato  che  il  principio  del  giudice
naturale  precostituito  per  legge,  sancito  dall'art.   25   della
Costituzione, sia a tutela dell'interesse delle parti a che  la  loro
controversia sia giudicata da  un  giudice  imparziale,  e  per  tale
ragione un giudice  che  nessuna  parte  possa  scegliersi  in  danno
dell'altra:  ed  a  tale  esigenza   assolve   il   principio   della
precostituzione per legge, essendo sottratta  alle  parti  e  rimessa
alla legge la  determinazione,  in  via  generale  ed  astratta,  del
giudice competente a conoscere di determinate categorie di cause. 
    Tanto ancora non spiega,  pero',  il  senso  ed  il  perche'  del
principio costituzionale che vuole il giudice non solo  precostituito
per  legge,  ma  anche  «naturale»,  e  cioe'  cosi'   non   a   caso
riecheggiando,  a  parere  di  chi  scrive,  la  nota   e   risalente
contrapposizione tra  ius  positum  e  ius  naturalis  -  un  giudice
«naturalmente» competente rispetto al fatto, e per tale ragione,  per
convenzione diffusa, ritenuto da identificarsi nel giudice del  luogo
ove il fatto e' avvenuto, in questo stretto legame naturalistico  tra
giudice ed il luogo di  verificazione  del  fatto  apparendo  trovare
compiuta espressione il principio del c.d. giudice naturale. 
    Poiche' l'art. 25 Cost. non appare esprimere esigenze diverse  da
quelle di apprestare garanzia costituzionale al diritto  delle  parti
ad un giudice imparziale e che altri  non  possa  scegliere  in  loro
danno, non resta che, logicamente, ritenere che, mentre il  principio
della precostituzione per legge intenda in primo luogo escludere  che
una parte (ivi compreso il p.m.) possa scegliersi il proprio  giudice
in danno dell'altra, quello della «naturalita'» abbia inteso porre un
limite   al   potere   dello   stesso   legislatore   di   scegliersi
arbitrariamente, ed imporre ad una o piu' parti ritenute  in  ipotesi
ostili al sistema, un giudice che possa  essere  favorevole  a  detto
legislatore  (inteso  quale  una  determinata  maggioranza   politica
storicamente affermatasi, o anche un regime prolungantesi  nel  tempo
per  assenza  di  ricambio  politico),  o  allo   Stato   o   a   sue
articolazioni,  in  danno  di  determinate  categorie  di  cittadini,
avvertite come politicamente avverse o per le piu'  svariate  ragioni
meritevoli di persecuzioni;  sotto  tale  profilo,  la  norma  appare
quindi assolvere, da un'altra angolazione, ad un'esigenza  analoga  a
quella del divieto di  istituzione  di  giudici  speciali,  ai  sensi
dell'art. 102 comma  2  Cost.;  il  tutto,  per  inciso,  a  conferma
dell'estrema importanza che  la  Carta  costituzionale  assegna  alla
giurisdizione ed alla sua effettiva imparzialita' quale essenziale ed
indefettibile momento di garanzia  nella  risoluzione  dei  conflitti
pubblici e privati. 
    Deroghe alla rigida applicazione del  principio  appaiono  quindi
costituzionalmente corrette solo in  quei  casi  eccezionali  in  cui
venga in risalto la necessita' di apprestare  rimedio  alla  lesione,
che altrimenti ne deriverebbe, ad altro principio dotato  di  rilievo
costituzionale; cosi', ad es., spesso si ricorda la disciplina  della
rimessione del processo, che serve egualmente a garantire il rispetto
del principio di imparzialita' del giudice  nonche'  l'esercizio  del
diritto  di  difesa,  sottraendo   la   decisione   ad   un   giudice
condizionabile  dal   contesto   ambientale,   che   potrebbe   anche
condizionare i testi e lo stesso difensore; analoghe le  esigenze  di
imparzialita' sottese all'altra eccezione al  principio  del  giudice
naturale precostituito per legge, offerta dalla disciplina  dell'art.
11 c.p.p. (laddove, si noti,  la  sottrazione  del  processo  al  suo
giudice naturale e' logico che valga per tutti gli  imputati,  atteso
che anche  coloro  che  non  rivestono  la  qualifica  di  magistrato
potrebbero risentire o godere, a seconda dei  casi,  delle  influenze
distorsive che quella qualifica di una delle parti del processo possa
determinare sul corretto accertamento del fatto); ed appare opportuno
ricordare, a tal proposito,  che  la  necessita'  di  speditezza  del
processo, pur richiamata in diverse pronunzie della Suprema  Corte  e
della stessa Corte costituzionale  a  fondamento  della  legittimita'
della disciplina delle preclusioni dettate dagli artt. 21 commi 2 e 3
e 491 c.p.p., non e' mai stata ritenuta principio di  tale  rilevanza
da  consentire  di  derogare  al  principio  del   giudice   naturale
precostituito per legge, essendosene ritenuta  solo  la  idoneita'  a
giustificare limiti temporali  in  ordine  alla  rilevabilita'  delle
questioni di incompetenza. 
    Non  deve  infatti  cadersi  nell'equivoco  di  ritenere  che  la
costituzionalizzazione  del  principio  di  ragionevole  durata   del
processo (art. 111 comma 2 Cost.) consenta deroghe ad altri  principi
costituzionali, atteso che: 
        a) cio' sarebbe illogico rispetto ad una gerarchia tra valori
costituzionali,  che  generalmente   si   ritiene   ravvisabile   pur
all'interno dei principi espressi dalla Carta fondamentale, e che non
pare poter porre il principio del giudice naturale - la cui rilevanza
e significativita' ai fini della  garanzia  della  imparzialita'  del
giudice si e' illustrata - in posizione subordinata rispetto a quello
della c.d. ragionevole durata del processo; 
        b)  inoltre,  la  individuazione  del  giudice  e  delle  sue
garanzie di imparzialita' ed  indipendenza  appaiono  porsi  come  un
prius logico  e  funzionale  rispetto  alla  stessa  possibilita'  di
pervenire ad un processo che, oltre che di  ragionevole  durata,  sia
anche giusto come l'art. 111 Cost. stabilisce gia' al  comma  1,  con
norma  il  cui  enunciato,  ponendosi  ad   apertura   della   stessa
disposizione  costituzionale,  ben   ne   chiarisce   la   prevalente
importanza rispetto a quello della durata ragionevole; 
        c) infine, l'art. 111 comma 2 Cost. espressamente  stabilisce
che la garanzia della ragionevole durata del  processo  sia  affidata
alla legge, ma questa non puo' ovviamente porsi in  contrasto  con  i
principi  costituzionali,  e  tanto  meno  con  quelli  relativi   al
fondamentale  requisito  della  garanzia  della   imparzialita'   del
giudice. 
    Le questioni sulla competenza del giudice mostrano  quindi  tutta
la loro estrema importanza di principio e devono essere valutate  con
la dovuta attenzione;  ed  infatti,  pur  vero  che  la  lesione  del
principio astratto puo' risultare irrilevante nel concreto allorche',
non  sollevando  la  questione  tempestivamente,   tutte   le   parti
dimostrino  all'evidenza  di  ritenersi  comunque  garantite  da   un
determinato  giudice,  pur  eventualmente  incompetente,  di  talche'
questo non puo'  essere  inteso  come  scelto  da  una  parte  o  dal
legislatore in danno di una delle  parti,  diversamente  e'  a  dirsi
allorche', come nel caso in oggetto, taluna delle  parti  invochi  il
rispetto del principio del suo giudice naturale. 
    Orbene,  tanto  premesso,  occorre  rilevare  che   ancorare   le
valutazioni  sulla  competenza  al  fatto  per  come  contestato   in
imputazione - come e' costante insegnamento  della  Suprema  Corte  -
introduce nel processo  un  elemento  valido  a  garantire  il  pieno
rispetto del principio del giudice naturale precostituito per  legge,
anche con riferimento alle ipotesi di connessione di cui all'art.  12
lett. C) c.p.p., solo nei limiti in cui, ovviamente, da  un  lato  si
accolga una nozione delimitata e ristretta del  fatto  quale  singolo
fatto reato, e, dall'altro, ogni mutamento di detto fatto,  idoneo  a
comportare una diversa competenza del Giudice, sia idoneo ad assumere
un rilievo processuale  dando  luogo  all'attivazione  di  meccanismi
idonei ad evitare che il  p.m.  possa  strumentalmente  scegliere  di
contestare un fatto diverso da quelle effettivamente verificatosi, al
solo fine di incidere sulla competenza. 
    Deve quindi ritenersi che la  vigente  disciplina  derivante  dal
combinato disposto degli artt. 12 lett. C) e 16 c.p.p. introduce  una
nozione di fatto-reato che, ampliata al contesto in cui il  fatto  e'
maturato ed ai nessi di strumentalita' o fine che lo legano ad  altri
reati, appare  ai  fini  della  determinazione  degli  effetti  della
connessione sulla competenza, troppo ampia  ed  idonea  a  ledere  il
principio del giudice naturale; ed  occorre  rilevare  che  l'attuale
disciplina  processuale  non  offre  alcuna  valida  tutela   nemmeno
sussidiaria contro tale rischio, che possa valere a condurre  ad  una
valutazione di irrilevanza della questione nel presente processo. 
    Ed invero, contro il rischio che il giudice venga scelto da altri
in   danno   dell'imputato,   mediante   un'arbitraria   formulazione
dell'imputazione, e' ravvisabile una tutela solo  tardiva  oltre  che
del tutto insufficiente nell'art. 521 c.p.p.,  che  al  principio  in
oggetto offre una tutela solo  indiretta  ed  incompleta,  in  quanto
stabilita a garanzia del diritto dell'imputato  a  difendersi  da  un
fatto specifico ed a tutela del rischio di vedersi condannato per  un
fatto diverso da quello in ordine al quale si e'  apprestata  difesa,
prevedendosi che, qualora il giudice ravvisi una diversita' del fatto
rispetto a quello oggetto della contestazione operata dal p.m., debba
rimettere gli atti a quest'ultimo rifiutando l'emissione di sentenza.
Si  tratta,  come  si  diceva,  di  una  tutela  pero'  indiretta  ed
insufficiente, atteso che la giurisprudenza della Suprema Corte si e'
ripetutamente espressa nel senso che l'accertamento in sentenza di un
luogo  di  consumazione  del  fatto  diverso   da   quello   indicato
nell'imputazione non dia tendenzialmente luogo ad una immutazione del
fatto rilevante ai sensi dell'art. 521 comma 2  c.p.p.,  a  meno  che
tale immutazione non comporti l'emergere di nuove esigenze difensive;
inoltre,  e'  senz'altro  certo  che  la  mera  esclusione   di   una
circostanza non potrebbe assurgere ad alcun rilievo neanche ai  sensi
dell'art. 521 comma 2 c.p.p..  Ne  consegue  che,  laddove  il  p.m.,
magari anche agendo da inconsapevole strumento della p.g.  o  di  una
callida  p.o.,  si  trovasse  a  contestare  la  ricorrenza  di   una
circostanza aggravante insussistente - ad es. quella di cui  all'art.
61 n. 2 c.p., nel caso che interessa - al solo fine di influire sulla
competenza territoriale o per materia  del  giudice,  l'imputato  cui
quella aggravante fosse estranea si vedrebbe  privato,  per  atto  di
parte, del suo diritto al giudice naturale precostituito  per  legge,
senza alcuna possibilita' di vedersi riconosciuto  tale  suo  diritto
nel successivo corso del processo. 
    Di talche' appare evidente come non sia  nell'art.  521  comma  2
c.p.p. che possa rinvenirsi una  tutela  costituzionalmente  adeguata
del principio di cui all'art. 25 comma 1 Cost.,  a  cui  garanzia  e'
necessario che il giudice possa  rilevare  e  dichiarare  la  propria
incompetenza ogni qualvolta la cognizione del fatto reato sia,  senza
ragione dotata di rilievo costituzionale, sottratta  al  suo  giudice
naturale ed attribuita ad altro giudice. 
    Neppure sfugge a questo  giudice  che  una  compiuta  tutela  del
diritto dell'imputato  al  suo  giudice  naturale  precostituito  per
legge, richiederebbe la possibilita' per detta parte di far valere la
violazione delle norme sulla competenza,  specie  se  discendente  da
dolo dell'altra parte o di terzi,  anche  oltre  il  termine  di  cui
all'art.  491  c.p.p.,  laddove  la  giurisprudenza   appare   invero
orientata in senso difforme (cfr. ad es. Sez. 2,  Sentenza  n.  24736
del 26 marzo 2010),  ma  la  questione  -  cui  peraltro  una  almeno
parziale soluzione positiva e' offerta dalla costante  giurisprudenza
della Suprema Corte che insegna che, se tempestivamente sollevata, la
questione di incompetenza puo' essere accolta anche  allorche',  dopo
l'iniziale rigetto, essa risulti fondata nel corso  del  dibattimento
(cfr. ad es. Sez. l, Sentenza n. 23907  del  2010  «La  possibilita',
prevista dall'art. 23 c.p.p. di dichiarare nel dibattimento di  primo
grado l'incompetenza per qualsiasi causa non pone  un'eccezione  alle
regole  preclusive  specificamente   previste   in   relazione   alla
competenza per territorio, ma implica semplicemente il riferimento ad
una questione competenza che ancora possa ritenersi  aperta,  perche'
tempestivamente sollevata in udienza preliminare e  riproposta  nella
fase degli atti introduttivi al dibattimento  e  non  ancora  decisa»
come ritenuto anche da sez. l n. 3217 del 3 luglio 1992;  sez.  4  n.
41991 del 15 maggio 2003; sez. l n. 2492 del 24 maggio 1993;  sez.  6
n. 8587 del 30 novembre 2000; sez. 6 n.  33435  del  4  maggio  2006,
Battistella; ancora: sez. l, n. 6485 del  17  dicembre  1998,  Confl.
comp. in proc. Abbellito; Sez.  6,  n.  29821  del  22  giugno  2001,
Bonaffini; Sez. 2, n. 4441 del 2  dicembre  2008,  Conte)  -  non  e'
rilevante  nel  presente  processo,  e  semmai  valutera'  la   Corte
costituzionale se affrontarla d'ufficio ai sensi e per gli effetti di
cui all'art. 27 della legge n. 87/1953 (anche se il precedente di cui
alla sentenza  n.  349  del  2000  potrebbe  indurre  a  ritenere  il
contrario). 
    Non appare pertanto manifestamente infondata,  ed  e'  senz'altro
rilevante ai fini della decisione nel presente processo, la decisione
in ordine alla competenza,  e  quindi  in  ordine  alla  legittimita'
costituzionale o  meno  della  norma  che  la  regola,  nascente  dal
combinato disposto degli artt. 12 lett. c) e 16 c.p.p.,  nella  parte
in cui consente che, in caso di connessione teleologica tra reati, la
competenza spetti per tutti e nei confronti di tutti gli imputati  al
giudice del luogo in cui e' stato commesso il reato piu' grave, anche
se di questo non rispondano tutti gli imputati del reato meno grave. 
    Conseguentemente, va sollevata questione  di  incostituzionalita'
delle norme in oggetto, con separazione della  posizione  processuale
afferente agli imputati Kobau, Mungai  e  Gallo,  e  sospensione  del
processo nei loro confronti. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli artt. 1 della legge cost. n. 1/48, e 23 della legge  n.
87/53, 
    ritenuta d'ufficio rilevante e non  manifestamente  infondata  la
questione di  costituzionalita'  dell'art.  16  c.p.p.  in  relazione
all'ipotesi di cui all'art. 12 lett. c) c.p.p., per contrasto con gli
artt. 25 e 3 della Costituzione, nella parte in cui le suddette norme
processuali consentono che, in caso di  connessione  teleologica  tra
reati, la competenza spetti per tutti e nei confronti  di  tutti  gli
imputati al giudice del luogo in cui e' stato commesso il reato  piu'
grave, anche se di questo non rispondano tutti gli imputati del reato
meno grave; 
    Ordina la trasmissione della presente ordinanza e degli atti  del
procedimento alla Corte costituzionale; 
    Sospende la decisione sull'eccezione  di  incompetenza  sollevata
dalle difese  degli  imputati  Baldassarre  Nicola,  Gallo  Vincenzo,
Mungai Fabio e Koabau Renato e, per l'effetto  sospende  il  processo
nei confronti dei suddetti imputati e dispone separarsi  1e  relative
posizioni  processuali   con   formazione   di   autonomo   fascicolo
processuale; 
    Ordina la notificazione della presente  ordinanza  agli  imputati
Kobau e Mungai non presenti, nonche' al Presidente del Consiglio  dei
ministri, e la sua comunicazione  ai  Presidenti  dei  due  rami  del
Parlamento. 
    Manda alla cancelleria per l'esecuzione. 
 
    Cosi' deciso in Lecce, il 3 novembre 2011. 
 
                         Il giudice: Sernia