ERRATA-CORRIGE
Comunicato relativo all'ordinanza del Tribunale di Lecce 3 novembre 2011, n. 36. (Ordinanza pubblicata nella Gazzetta Ufficiale - 1ª serie speciale - n. 12 del 21 marzo 2012).(GU n.15 del 11-4-2012 )
Nella sopra indicata Gazzetta Ufficiale, per mero errore materiale, e' stato pubblicato il testo della citata ordinanza, difforme dall'originale, che correttamente si riporta qui di seguito: Ordinanza del 3 novembre 2011 emessa dal Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di Gallo Vincenzo ed altri IL TRIBUNALE ORDINARIO All'udienza del giorno 3 novembre 2011, nel processo nei confronti di Guagnano Pietro piu' altri, decidendo in ordine alle questioni preliminari sollevate dalla difesa degli imputati, sentite le parti, e sciogliendo la riserva di cui al verbale dell'udienza del 20.10.2011, il Tribunale ha pronunziato la seguente ordinanza. Le difese degli imputati hanno sollevato diverse questioni preliminari, che questo tribunale ha contestualmente, all'odierna udienza, deciso con separata ordinanza ai sensi dell'art. 491 c.p.p. Residua la questione relativa alla competenza territoriale di questo tribunale nei confronti degli imputati Baldassarre, Kobau, Mungai e Gallo - che tempestivamente gia' all'udienza preliminare la sollevarono - in relazione al delitto di truffa aggravata di cui al capo C), che si affronta in questa separata sede per la non manifesta infondatezza della questione di incostituzionalita', che ne discende, delle disposizioni di cui agli artt. 12 lett. c) e 16 c.p.p. per contrasto con gli artt. 25 e 3 Cost. La difesa degli imputati Baldassarre, Gallo, Kobau e Mungai eccepisce infatti l'incompetenza territoriale di questo tribunale, rilevando che, posto che i suddetti imputati rispondono del solo reato di truffa di cui al capo C), e che lo stesso debba ritenersi consumato in Milano ove avvenne la percezione del profitto (e cioe', il pagamento del canone del contratto di leasing a natura truffaldina secondo l'impostazione accusatoria), sia quindi da individuarsi nel tribunale di Milano l'A.G. competente a conoscere dei fatti loro ascritti nel presente processo, stante l'asserita inoperativita' della regola di cui all'art. 16 c.p.p. - che, nelle ipotesi di processo avente ad oggetto reati connessi ma commessi in luoghi diversi, vuole la competenza radicarsi con riferimento a quella propria del reato piu' grave - nel caso in cui il reato piu' grave (nel caso in oggetto, il falso ideologico di cui al capo A, punito con la reclusione sino a sei anni e contestato al solo coimputato Naccarelli; nonche' - ma lo si evidenzia solo a titolo eventuale, perche' l'aggravante di cui all'art. 61 n. 2 c.p. non e' contestata in relazione a tale reato - il falso ideologico di cui al capo B) contestato a Solombrino e Brunetti) non sia contestato a tutti gli imputati. Va poi sottolineato che gli imputati Brunetti, De Leo, Ricercato e Solombrino, pur rispondendo tutti del reato di truffa di cui al capo C), come unica imputazione o comunque come imputazione non retta da contestato nesso di connessione teleologica con alcun altro reato loro ascritto, non hanno eccepito l'incompetenza territoriale, che il solo De Leo aveva peraltro sollevato invece all'udienza preliminare; deve pertanto ritenersi che, in forza della prevalente giurisprudenza della Suprema Corte, la questione circa l'eventuale incompetenza di questo Tribunale nei loro confronti non possa essere neppure rilevata di ufficio; in ogni caso, occorre rilevare, dette difese si sono peraltro quasi tutte opposte all'accoglimento della eccezione, che comporterebbe per loro la sottoposizione al giudizio di un giudice particolarmente lontano e difficile da raggiungere. Tanto premesso, questione preliminare alla decisione sulla fondatezza dell'eccezione e' la verifica in ordine al luogo di consumazione del reato di truffa, per come contestato, osservandosi che il capo di imputazione fa riferimento ad una pluralita' di luoghi, indicando sia Lecce che Milano. Poiche' ovviamente e' di difficile ipotizzabilita' che un reato commesso in danno di un unico soggetto possa dirsi consumato contemporaneamente in due distinti luoghi, occorre arricchire di piu' penetranti considerazioni il tradizionale insegnamento della Suprema Corte, che ricorda che la competenza debba essere indagata fondamentalmente con riferimento al fatto per come contestato in capo di imputazione. Nel caso in oggetto, tale insegnamento, per la duplicita' dei luoghi di consumazione indicati, non si mostrerebbe sufficiente a risolvere il problema; e cio' tanto piu' che detta duplicita' di indicazione non comporta necessariamente una situazione equiparabile a quella dell'incertezza sul luogo di consumazione del reato, che deve condurre all'applicazione delle regole residuali di cui all'art. 9 c.p.p. (tra le quali rileverebbe, nell'eventuale inapplicabilita' di quelle sancite dai primi due commi della norma, quella residuale assegnatrice di competenza al giudice presso il quale e' istituito il p.m. che ha per primo ha iscritto la notizia di reato, e che quindi radicherebbe la competenza presso questo Tribunale). Invero, posta la ratio essendi delle norme in tema di competenza, che costituiscono per cosi' dire il «precipitato processuale» del principio del giudice naturale precostituito per legge, dettato a garanzia del diritto delle parti ad un giudice imparziale e che per tale ragione non possa essere scelto da una parte in danno dell'altra, lo stato di incertezza che legittima il ricorso alle regole suppletive di cui all'art. 9 c.p.p. non puo' che essere quello assoluto e non risolvibile allo stato degli atti, e non gia' quello superabile in base ad una lettura logica dell'imputazione. A tal proposito, va quindi osservato che non puo' contestarsi che il reato di truffa sia da considerarsi commesso in Milano, anche alla stregua della formulazione del capo di imputazione che, indicando come luoghi di consumazione sia Lecce che Milano, non solo non esclude quest'ultimo ma anzi, dovendosi rifiutare una altrimenti inconcepibile duplicazione dei luoghi di commissione, non puo' che indicare alternativamente, leggendo l'imputazione secondo logica, o il luogo ove si e' verificato il danno (e cioe' Lecce) e quello in cui e' stato conseguito il profitto (Milano), o in ulteriore alternativa il luogo di perfezione del reato di truffa (ove e' stato concluso il contratto truffaldino) e quello di conseguimento del suo profitto. Risulta invero dagli atti che i canoni del contratto di leasing, costituenti il profitto del reato, dovessero essere pagati alla Selma Bipiemme Leasing Spa, che ha sede in Milano, su di un c/c accesso presso la Banca Popolare di Milano, anch'essa con sede principale in Milano, presso un'agenzia avente ancora una volta sede in Milano (per la precisione l'agenzia n. l in v.le Corsica 31: cfr. pag. 7 del contratto col quale il Comune di Lecce «subentro'» alla Socoge nei rapporti con Selambipiemme); laddove peraltro, secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, e' pacifico che il luogo di consumazione del reato sia quello in cui si realizza il profitto ingiusto, atteso che e' nel momento in cui l'agente lo percepisce che si realizza la definitiva perdita patrimoniale, e cioe' il correlativo evento di danno, in capo alla vittima del reato. In ogni caso, quand'anche si intendesse invece ricorrere uno stato di ambiguita' sconfinante in una condizione di incertezza assoluta legittimante il ricorso ai criteri suppletivi di cui all'art. 9 del c.p.p., egualmente dovrebbe accedersi alla competenza del tribunale di Milano, posto che ivi deve ritenersi, comunque, essersi consumata l'ultima parte dell'azione con la percezione del profitto. Come si e' detto, pero', il reato di truffa risulta connesso, ai sensi dell'art. 61 n. 2 c.p., e quale reato fine rispetto al reato mezzo, al delitto di falso contestato sub capo A) al solo coimputato Naccarelli; tanto premesso, occorre quindi accertare, in base alla vigente normativa, se le regole stabilite dall'art. 16 c.p.p. in relazione ai casi di connessione ex art. 12 c.p.p., operino lo spostamento di competenza determinato dalla connessione nei confronti di tutti gli imputati, o se invece tale effetto operino solo nei confronti di coloro cui sia contestata anche l'imputazione dotata di vis adtractiva. L'ultima tesi e' allo stato quella oggetto del favore della prevalente giurisprudenza di legittimita'; possono ad es. citarsi: Sez. l, Sentenza n. 24583 del 28 maggio 2009: «La continuazione e' idonea a determinare lo spostamento della competenza per connessione al sensi dell'art. 12, lett. b), cod. proc. pen., solo se l'episodio in continuazione riguarda lo stesso o, se sono piu' d'uno gli stessi imputati.» La stessa sentenza richiama i precedenti offerti da Sez. l, 9 marzo 1995, n. 3385, Pischedda, massima n. 200702, cui adde: Sez. 3, 30 luglio 1993, n. 1744, Bernardini, massima n. 194469; Sez. l, 10 gennaio 1996, n. 84, Amonti, massima n. 205124; Sez. 4, 12 agosto 1996, n. 1999, Acampora, massima n. 206293; Sez. l, 25 marzo 1998, n. 1783, Apreda, massima n. 210417; Sez. l, 8 giugno 1998, n. 3357, Sama, massima n. 210881; Sez. 1, 12 novembre 1999, n. 6226, Zagara, massima n. 214834; Sez. 1, 10 giugno 2004, n. 37156, La Perna, massima n. 229533; Sez. 4, 7 novembre 2006, n. 11963, Galletti, massima n. 236276; cui adde: Sez. 1, 22 aprile 2008, n. 19811, Orbito, non massimata; possono inoltre richiamarsi anche: Sez. 1, Sentenza n. 38170 del 23 settembre 2008: «La connessione fondata sull'astratta configurabilita' del vincolo della continuazione e' idonea a determinare lo spostamento della competenza soltanto quando l'identita' del disegno criminoso sia comune a tutti i compartecipi, giacche' l'interesse di un imputato alla trattazione unitaria di fatti in continuazione non puo' pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al giudice naturale». Sez. 4, Sentenza n. 10122 del 17 gennaio 2006: «La continuazione e' idonea a determinare lo spostamento della competenza per connessione solo se l'episodio in continuazione riguardi lo stesso imputato o, se sono piu' di uno, gli stessi imputati, giacche' l'interesse di un imputato alla trattazione unitaria di fatti in continuazione non puo' pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al giudice naturale secondo le regole ordinarie della competenza»; negli stessi testuali termini vedi anche Sez. 1, Sentenza n. 37156 del 10 giugno 2004, nonche', piu' risalente, Sez. 1, Sentenza n. 6226 del 12 novembre 1999; che statuiva, in termini piu' ampi: «In tema di competenza determinata dall'ipotesi di connessione oggettiva fondata sull'astratta configurabilita' del vincolo della continuazione fra le analoghe, ma distinte fattispecie di reato ascritte ai diversi imputati, l'identita' del disegno criminoso perseguito e' idonea a determinare lo spostamento della competenza per connessione, sia per materia, sia per territorio, solo se l'episodio o gli episodi in continuazione riguardino lo stesso o - se sono piu' di uno - gli stessi imputati, giacche' l'interesse di un imputato alla trattazione unitaria dei fatti in continuazione non puo' pregiudicare quello del coimputato in uno di quei fatti a non essere sottratto al giudice naturale secondo le regole ordinarie della competenza. Ne consegue che, al di fuori delle ipotesi di continuazione riferibili a una fattispecie monosoggettiva o a una fattispecie concorsuale, in cui l'identita' del disegno criminoso sia pero' comune a tutti i compartecipi, il vincolo della continuazione non e' in grado di determinare alcuna attribuzione e conseguente spostamento di competenza, ai sensi dell'art. 15 o 16 cod. proc. pen., ma produce i suoi effetti solo sul piano sostanziale ai fini della determinazione della pena ai sensi dell'art. 671 stesso codice». Vanno inoltre rammentate, per l'esplicito riferimento ivi contenuto anche all'ipotesi di connessione data dalla connessione teleologica di cui all'art. 12 lett. c) c.p.p., anche Sez. 3, Sentenza n. 2731 del 26 novembre 1999, che statuisce che «Non si verifica spostamento della competenza per connessione prevista dall'art. 12 lett. b) e c) c.p.p., qualora i reati siano stati commessi da soggetti diversi. Ed invero, in tal caso, mancando l'unita' del processo volitivo tra il reato mezzo ed il reato fine, ricorre solo una ipotesi di connessione di natura eventualmente probatoria che non produce lo spostamento di competenza, ne' per materia ne' per territorio, tanto piu' che l'interesse di un imputato alla trattazione unitaria dei procedimenti per reati commessi in continuazione o connessi teleologicamente non puo' pregiudicare quello del coimputato (o dei coimputati) a non esser sottratto al giudice naturale secondo le regole ordinarie della competenza»; di eguale segno anche Sez. 1, Sentenza n. 1495 del 2 dicembre 1998, che statuisce che «Non si verifica spostamento della competenza per connessione prevista dall'art. 12, lettere b) e c) cod. proc. pen., qualora i reati siano stati commessi da soggetti diversi. Ed invero, in tal caso, mancando l'unita' del processo volitivo tra 11 reato-mezzo e 11 reato-fine, ricorre solo un'ipotesi di connessione di natura eventualmente probatoria che non produce lo spostamento di competenza per materia previsto dall'art. 15, stesso codice, tanto piu' che l'interesse di un imputato alla trattazione unitaria di procedimenti per reati commessi in continuazione o connessi teleologicamente non puo' pregiudicare quello del coimputato (o dei coimputati) a non essere sottratto al giudice naturale secondo le regole ordinarie della competenza». Tale principio e' stato quindi piu' volte confermato dalla Suprema Corte anche con riferimento ad ipotesi in cui la causa di connessione risiedesse non solo nella continuazione, ma anche nella ricorrenza del nesso teleologica ai sensi dell'art. 12 lett. C) c.p.p., ma il reato «attrattivo» non fosse contestato a tutti gli imputati, stabilendo l'impossibilita' di sottrarre al suo giudice naturale chi non avesse ricevuto contestazione del reato dotato di vis adtractiva: si ricordano a tal proposito, oltre alle numerose sentenze indicate dalla difesa, anche Sez. 4, Sentenza n. 27457 del 10 marzo 2009, che ha statuito che «Ai fini della configurabilita' della connessione teleologica prevista dall'art. 12 , lett. c), cod. proc. pen., e' richiesto che vi sia identita' fra gli autori del reato fine e quelli del reato mezzo; negli stessi termini e' inoltre Sez. 2, Sentenza n. 39777 del 26 settembre 2007, nonche' Sez. 3, Sentenza n. 2731 del 2000 (che si segnala perche' affronta anche il tema dell'eventuale rilevanza della ricorrenza della causa di connessione di cui all'art. 12 lett. a) c.p.p., richiedendo che essa valga per tutti gli imputati di tutti i reati connessi), Sez. 3, Sentenza n. 2731 del 26 novembre 1999, Sez. l, Sentenza n. 3357 dell'8 giugno 1998, Sez. 1, Sentenza n. 1783 de/ 25/03/1998, Sez. 1, Sentenza n. 6908 del 18 dicembre 1996, Sez. 1, Sentenza n. 3385 del 9 marzo 1995. E' tuttavia bene rilevare che, a parere di questo Tribunale, l'unica interpretazione fedele al testo del combinato disposto degli artt. 16 e 12 c.p.p. appare essere quella che esclude la vis adtractiva solo in relazione alle ipotesi in cui la causa di connessione riposi esclusivamente nell'appartenenza dei reati ad un medesimo disegno criminoso: ipotesi in relazione alla quale il dato testuale offerto dall'art. 12 lett. b) c.p.p. - che espressamente riconduce l'ipotesi di connessione al caso in cui uno stesso imputato sia accusato di piu' fatti commessi in continuazione tra loro - offre un appiglio testuale e certo all'interpretazione citata. Invece, per quel che riguarda i casi in cui la causa di connessione debba essere rinvenuta nella esistenza di un nesso di strumentalita' diretta tra i reati, essendo stato l'uno commesso al precipuo scopo di poter consumare l'altro - come e' nel caso in oggetto in cui, secondo l'ipotesi accusatoria, il delitto di falso di cui al capo A), dotato di vis adtractiva perche' piu' grave di quello di truffa, e' stato finalizzato alla consumazione di tale ultima fattispecie la lettera della norma di legge ordinaria, frutto peraltro di quella che appare essere una non casuale rivisitazione legislativa evidenziata dall'interpretazione storica, non offre alcun appiglio testuale a quella che e' l'interpretazione fatta propria dalla sentenze citate, la quale, come si e' avuto modo di rilevare, poggia non gia' sul dato testuale della norma processuale, quanto piuttosto sull'interesse dell'imputato a non essere distratto dal proprio giudice naturale precostituito per legge, cui piega la lettera della norma andando oltre quella che ne potrebbe essere un'interpretazione costituzionalmente orientata. Va infatti a tal proposito richiamata la sentenza C. Cass. Sez. 5, n. 10041 del 1998 nonche' Sez. 6, Sentenza n. 37014 del 2010, le quali muovono la loro esegesi del dato normativo in forza di un convincente ricorso al criterio storico, legato alle modifiche che l'art. 12 lett. c) c.p.p. ha subito nel tempo; in particolare la seconda delle due citate sentenze espressamente statuisce: «L'art. 12 c.p.p., lett. C prevedeva nel suo testo originario la locuzione "se una persona e' imputata di piu' reati, quando gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare gli altri". La legge 8/1992 elimina il riferimento al medesimo soggetto autore dei piu' reati ed inserisce un testo sovrapponibile a quello che configura anche le residue ipotesi di cui alla circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2, in particolare prevedendo che sussiste la connessione anche quando "dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi ... per assicurare al colpevole o ad altri ... l'impunita'". La legge n. 63 del 2001 mantiene l'esclusione del riferimento al medesimo autore dei piu' reati e limita la connessione ai reati commessi gli uni per eseguire o per occultarne gli altri: la relazione volta a garantire l'impunita' non esce dal sistema della rilevanza procedurale, ma e' collocata tra le situazioni che determinano il collegamento delle indagini, ai sensi dell'art. 371 c.p.p., comma 2, lett. B. Sono pertanto relazioni normativamente del tutto diverse quella volta all'occultamento di un reato e quella volta ad assicurare, a se' o ad altri, l'impunita'. La norma, disponendo ora che vi e' connessione di procedimenti quando dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o occultare gli altri, individua un legame che e' innanzitutto oggettivo: il riferimento normativo e' alla relazione oggettiva tra le diverse condotte di reato, che risultano collegate dal particolare legame della finalita' di eseguire o occultare. Ed in effetti storica dottrina penalistica insegnava che la fattispecie del reato commesso per occultarne un altro, di cui all'art. 61 c.p., n. 2, presuppone "che sia stato commesso (consumato o tentato) dall'agente o da altri, e che poi (senza considerazione del tempo trascorso) siasi commesso un altro reato per occultare il primo", mentre l'impunita' di un altro reato attiene all'"intento di sottrarsi alle conseguenze penali derivanti dal reato stesso". Cass. Sez. 5, sent. 3479 del 14 febbraio - 16 aprile 1984, Maggi confermava l'insegnamento secondo cui nel caso di reato commesso per occultarne altro o per conseguirne l'impunita', per se' o per altri, il primo reato doveva essere stato consumato "dall'agente o da altri"". Le vicende dell'istituto e la connessione con gli aspetti penali sostanziali attestano la natura innanzitutto oggettiva della relazione: cio' che rileva e' il rapporto tra i reati prima di quello tra soggetti, sicche' non e' necessario che gli autori dei due reati siano medesimi. In termini esatti questa Corte suprema si e' gia' espressa con la sentenza di Sez. 5, sent. 10041 del 13 giugno - 22 settembre 1998, che ha giudicato sufficiente la connessione oggettiva, prescindendo dall'identita' degli autori, proprio valorizzando il dato normativo obiettivo, per cui "diversamente sarebbe da considerarsi del tutto irrilevante la modifica apportata all'originaria disposizione normativa dal d.l. 20 novembre 1991, n. 367, convertito nella legge 20 gennaio 1992, n. 8, che, eliminando il precedente riferimento ad un unico imputato o ai medesimi imputati concorrenti - (diversamente da quanto previsto alla lett. b) - ha privilegiato e mantenuto con la nuova formulazione della lett. c) art. 12 citato, quale criterio per la ricorrenza dell'ipotesi di connessione, il solo requisito oggettivo del nesso teleologico". Insegnamento che ovviamente rileva sia per il nesso teleologico - come era nella specie - che ed a maggior ragione per quello "consequenziale", volto all'occultamento, o ad assicurare impunita'». Si pone quindi il problema della compatibilita' di tale interpretazione - che questo Tribunale accoglie in quanto e' senz'altro la piu' aderente al testo della norma ed all'intenzione del Legislatore ordinario quale disvelato dalle modifiche che lo stesso ad essa ha apportato, e la cui recente riaffermazione dopo il precedente del 1998 impedisce di ritenere «diritto vivente» la diversa interpretazione offerta dalle altre numerose sentenze citate - col principio del giudice naturale precostituito per legge. A parere del Tribunale, non basterebbe obbiettare che la norma nascente dal combinato disposto degli artt. 16 e 12 lett. c) c.p.p. e' appunto legge precostituita al fatto e, individuando il giudice competente in forza di precisi legami (quali quello di mezzo a fine) colleganti i fatti reati, potrebbe apparire non derogare affatto al concetto di «giudice naturale», inteso appunto quale giudice che rispetto al fatto abbia una competenza a conoscere discendente dalla natura del fatto, sia pur valutato nel suo complesso, comprensivo dei legami teleologici con un altro fatto reato in ipotesi piu' grave: si tratterebbe, invero, di un argomentare interpretativo, a parere del Tribunale, non corretto. In primo luogo, proverebbe troppo, in quanto tale definizione del fatto «ampliato al complesso del suo contesto» - quale parametro da utilizzare per verificare la «naturalita'» del giudice rispetto ad esso - potrebbe essere esteso anche al caso della continuazione, in relazione alla quale il Legislatore ordinario ha invece senz'altro adottato la gia' citata differente soluzione evidenziata dal testo dell'art. 12, lett. b), c.p.p., rispetto alla quale quella dettata per l'art. 12 lett. c) c.p.p. presterebbe il fianco a censure di costituzionalita' sotto il profilo della violazione dell'art. 3 Cost., non apparendo ricorrere alcuna ragione che possa condurre a giustificare una cosi' marcata differenza di disciplina tra le due ipotesi e, quindi, diversita' di trattamento tra imputati che, rispetto al fatto ed alla necessita' di individuarne il giudice naturale, si troverebbero in posizioni sostanzialmente assimilabili. In secondo luogo, finirebbe con sfumare troppo il legame tra giudice e fatto, ponendolo nelle mani di una incontrollabile discrezionalita' non solo del Legislatore ordinario, ma anche del titolare del potere di definizione del fatto oggetto del processo, e cioe' il p.m., che e' la parte che esercita l'azione penale e quindi, con la propria domanda, ne determina il contenuto e, per questa via, detiene un potenziale potere di scegliere il giudice competente. La questione, come puo' comprendersi, appare quindi comportare l'analisi di complessi profili ed implicazioni, dovendosi da un lato considerare approfonditamente la ratio delle norme sulla competenza - che svolgono la loro disciplina rispetto al fatto contestato - e la loro relazione col principio del giudice naturale precostituito per legge, e dall'altro il rilievo processuale che assumono, o meglio in genere non assumono, i mutamenti marginali del fatto ravvisabili tra quanto eventualmente ritenuto dal giudice in sentenza in difformita' rispetto a quanto oggetto di contestazione. Preliminare ad ogni ulteriore riflessione, appare quindi dover essere quella relativa al rilievo costituzionale delle norme sulla competenza del giudice, in quanto «precipitato processuale», per cosi' dire, del principio del giudice naturale precostituito per legge. Puo' dirsi senz'altro assodato che il principio del giudice naturale precostituito per legge, sancito dall'art. 25 della Costituzione, sia a tutela dell'interesse delle parti a che la loro controversia sia giudicata da un giudice imparziale, e per tale ragione un giudice che nessuna parte possa scegliersi in danno dell'altra: ed a tale esigenza assolve il principio della precostituzione per legge, essendo sottratta alle parti e rimessa alla legge la determinazione, in via generale ed astratta, del giudice competente a conoscere di determinate categorie di cause. Tanto ancora non spiega, pero', il senso ed il perche' del principio costituzionale che vuole il giudice non solo precostituito per legge, ma anche «naturale», e cioe' cosi' non a caso riecheggiando, a parere di chi scrive, la nota e risalente contrapposizione tra ius positum e ius naturalis - un giudice «naturalmente» competente rispetto al fatto, e per tale ragione, per convenzione diffusa, ritenuto da identificarsi nel giudice del luogo ove il fatto e' avvenuto, in questo stretto legame naturalistico tra giudice ed il luogo di verificazione del fatto apparendo trovare compiuta espressione il principio del c.d. giudice naturale. Poiche' l'art. 25 Cost. non appare esprimere esigenze diverse da quelle di apprestare garanzia costituzionale al diritto delle parti ad un giudice imparziale e che altri non possa scegliere in loro danno, non resta che, logicamente, ritenere che, mentre il principio della precostituzione per legge intenda in primo luogo escludere che una parte (ivi compreso il p.m.) possa scegliersi il proprio giudice in danno dell'altra, quello della «naturalita'» abbia inteso porre un limite al potere dello stesso legislatore di scegliersi arbitrariamente, ed imporre ad una o piu' parti ritenute in ipotesi ostili al sistema, un giudice che possa essere favorevole a detto legislatore (inteso quale una determinata maggioranza politica storicamente affermatasi, o anche un regime prolungantesi nel tempo per assenza di ricambio politico), o allo Stato o a sue articolazioni, in danno di determinate categorie di cittadini, avvertite come politicamente avverse o per le piu' svariate ragioni meritevoli di persecuzioni; sotto tale profilo, la norma appare quindi assolvere, da un'altra angolazione, ad un'esigenza analoga a quella del divieto di istituzione di giudici speciali, ai sensi dell'art. 102 comma 2 Cost.; il tutto, per inciso, a conferma dell'estrema importanza che la Carta costituzionale assegna alla giurisdizione ed alla sua effettiva imparzialita' quale essenziale ed indefettibile momento di garanzia nella risoluzione dei conflitti pubblici e privati. Deroghe alla rigida applicazione del principio appaiono quindi costituzionalmente corrette solo in quei casi eccezionali in cui venga in risalto la necessita' di apprestare rimedio alla lesione, che altrimenti ne deriverebbe, ad altro principio dotato di rilievo costituzionale; cosi', ad es., spesso si ricorda la disciplina della rimessione del processo, che serve egualmente a garantire il rispetto del principio di imparzialita' del giudice nonche' l'esercizio del diritto di difesa, sottraendo la decisione ad un giudice condizionabile dal contesto ambientale, che potrebbe anche condizionare i testi e lo stesso difensore; analoghe le esigenze di imparzialita' sottese all'altra eccezione al principio del giudice naturale precostituito per legge, offerta dalla disciplina dell'art. 11 c.p.p. (laddove, si noti, la sottrazione del processo al suo giudice naturale e' logico che valga per tutti gli imputati, atteso che anche coloro che non rivestono la qualifica di magistrato potrebbero risentire o godere, a seconda dei casi, delle influenze distorsive che quella qualifica di una delle parti del processo possa determinare sul corretto accertamento del fatto); ed appare opportuno ricordare, a tal proposito, che la necessita' di speditezza del processo, pur richiamata in diverse pronunzie della Suprema Corte e della stessa Corte costituzionale a fondamento della legittimita' della disciplina delle preclusioni dettate dagli artt. 21 commi 2 e 3 e 491 c.p.p., non e' mai stata ritenuta principio di tale rilevanza da consentire di derogare al principio del giudice naturale precostituito per legge, essendosene ritenuta solo la idoneita' a giustificare limiti temporali in ordine alla rilevabilita' delle questioni di incompetenza. Non deve infatti cadersi nell'equivoco di ritenere che la costituzionalizzazione del principio di ragionevole durata del processo (art. 111 comma 2 Cost.) consenta deroghe ad altri principi costituzionali, atteso che: a) cio' sarebbe illogico rispetto ad una gerarchia tra valori costituzionali, che generalmente si ritiene ravvisabile pur all'interno dei principi espressi dalla Carta fondamentale, e che non pare poter porre il principio del giudice naturale - la cui rilevanza e significativita' ai fini della garanzia della imparzialita' del giudice si e' illustrata - in posizione subordinata rispetto a quello della c.d. ragionevole durata del processo; b) inoltre, la individuazione del giudice e delle sue garanzie di imparzialita' ed indipendenza appaiono porsi come un prius logico e funzionale rispetto alla stessa possibilita' di pervenire ad un processo che, oltre che di ragionevole durata, sia anche giusto come l'art. 111 Cost. stabilisce gia' al comma 1, con norma il cui enunciato, ponendosi ad apertura della stessa disposizione costituzionale, ben ne chiarisce la prevalente importanza rispetto a quello della durata ragionevole; c) infine, l'art. 111 comma 2 Cost. espressamente stabilisce che la garanzia della ragionevole durata del processo sia affidata alla legge, ma questa non puo' ovviamente porsi in contrasto con i principi costituzionali, e tanto meno con quelli relativi al fondamentale requisito della garanzia della imparzialita' del giudice. Le questioni sulla competenza del giudice mostrano quindi tutta la loro estrema importanza di principio e devono essere valutate con la dovuta attenzione; ed infatti, pur vero che la lesione del principio astratto puo' risultare irrilevante nel concreto allorche', non sollevando la questione tempestivamente, tutte le parti dimostrino all'evidenza di ritenersi comunque garantite da un determinato giudice, pur eventualmente incompetente, di talche' questo non puo' essere inteso come scelto da una parte o dal legislatore in danno di una delle parti, diversamente e' a dirsi allorche', come nel caso in oggetto, taluna delle parti invochi il rispetto del principio del suo giudice naturale. Orbene, tanto premesso, occorre rilevare che ancorare le valutazioni sulla competenza al fatto per come contestato in imputazione - come e' costante insegnamento della Suprema Corte - introduce nel processo un elemento valido a garantire il pieno rispetto del principio del giudice naturale precostituito per legge, anche con riferimento alle ipotesi di connessione di cui all'art. 12 lett. C) c.p.p., solo nei limiti in cui, ovviamente, da un lato si accolga una nozione delimitata e ristretta del fatto quale singolo fatto reato, e, dall'altro, ogni mutamento di detto fatto, idoneo a comportare una diversa competenza del Giudice, sia idoneo ad assumere un rilievo processuale dando luogo all'attivazione di meccanismi idonei ad evitare che il p.m. possa strumentalmente scegliere di contestare un fatto diverso da quelle effettivamente verificatosi, al solo fine di incidere sulla competenza. Deve quindi ritenersi che la vigente disciplina derivante dal combinato disposto degli artt. 12 lett. C) e 16 c.p.p. introduce una nozione di fatto-reato che, ampliata al contesto in cui il fatto e' maturato ed ai nessi di strumentalita' o fine che lo legano ad altri reati, appare ai fini della determinazione degli effetti della connessione sulla competenza, troppo ampia ed idonea a ledere il principio del giudice naturale; ed occorre rilevare che l'attuale disciplina processuale non offre alcuna valida tutela nemmeno sussidiaria contro tale rischio, che possa valere a condurre ad una valutazione di irrilevanza della questione nel presente processo. Ed invero, contro il rischio che il giudice venga scelto da altri in danno dell'imputato, mediante un'arbitraria formulazione dell'imputazione, e' ravvisabile una tutela solo tardiva oltre che del tutto insufficiente nell'art. 521 c.p.p., che al principio in oggetto offre una tutela solo indiretta ed incompleta, in quanto stabilita a garanzia del diritto dell'imputato a difendersi da un fatto specifico ed a tutela del rischio di vedersi condannato per un fatto diverso da quello in ordine al quale si e' apprestata difesa, prevedendosi che, qualora il giudice ravvisi una diversita' del fatto rispetto a quello oggetto della contestazione operata dal p.m., debba rimettere gli atti a quest'ultimo rifiutando l'emissione di sentenza. Si tratta, come si diceva, di una tutela pero' indiretta ed insufficiente, atteso che la giurisprudenza della Suprema Corte si e' ripetutamente espressa nel senso che l'accertamento in sentenza di un luogo di consumazione del fatto diverso da quello indicato nell'imputazione non dia tendenzialmente luogo ad una immutazione del fatto rilevante ai sensi dell'art. 521 comma 2 c.p.p., a meno che tale immutazione non comporti l'emergere di nuove esigenze difensive; inoltre, e' senz'altro certo che la mera esclusione di una circostanza non potrebbe assurgere ad alcun rilievo neanche ai sensi dell'art. 521 comma 2 c.p.p.. Ne consegue che, laddove il p.m., magari anche agendo da inconsapevole strumento della p.g. o di una callida p.o., si trovasse a contestare la ricorrenza di una circostanza aggravante insussistente - ad es. quella di cui all'art. 61 n. 2 c.p., nel caso che interessa - al solo fine di influire sulla competenza territoriale o per materia del giudice, l'imputato cui quella aggravante fosse estranea si vedrebbe privato, per atto di parte, del suo diritto al giudice naturale precostituito per legge, senza alcuna possibilita' di vedersi riconosciuto tale suo diritto nel successivo corso del processo. Di talche' appare evidente come non sia nell'art. 521 comma 2 c.p.p. che possa rinvenirsi una tutela costituzionalmente adeguata del principio di cui all'art. 25 comma 1 Cost., a cui garanzia e' necessario che il giudice possa rilevare e dichiarare la propria incompetenza ogni qualvolta la cognizione del fatto reato sia, senza ragione dotata di rilievo costituzionale, sottratta al suo giudice naturale ed attribuita ad altro giudice. Neppure sfugge a questo giudice che una compiuta tutela del diritto dell'imputato al suo giudice naturale precostituito per legge, richiederebbe la possibilita' per detta parte di far valere la violazione delle norme sulla competenza, specie se discendente da dolo dell'altra parte o di terzi, anche oltre il termine di cui all'art. 491 c.p.p., laddove la giurisprudenza appare invero orientata in senso difforme (cfr. ad es. Sez. 2, Sentenza n. 24736 del 26 marzo 2010), ma la questione - cui peraltro una almeno parziale soluzione positiva e' offerta dalla costante giurisprudenza della Suprema Corte che insegna che, se tempestivamente sollevata, la questione di incompetenza puo' essere accolta anche allorche', dopo l'iniziale rigetto, essa risulti fondata nel corso del dibattimento (cfr. ad es. Sez. l, Sentenza n. 23907 del 2010 «La possibilita', prevista dall'art. 23 c.p.p. di dichiarare nel dibattimento di primo grado l'incompetenza per qualsiasi causa non pone un'eccezione alle regole preclusive specificamente previste in relazione alla competenza per territorio, ma implica semplicemente il riferimento ad una questione competenza che ancora possa ritenersi aperta, perche' tempestivamente sollevata in udienza preliminare e riproposta nella fase degli atti introduttivi al dibattimento e non ancora decisa» come ritenuto anche da sez. l n. 3217 del 3 luglio 1992; sez. 4 n. 41991 del 15 maggio 2003; sez. l n. 2492 del 24 maggio 1993; sez. 6 n. 8587 del 30 novembre 2000; sez. 6 n. 33435 del 4 maggio 2006, Battistella; ancora: sez. l, n. 6485 del 17 dicembre 1998, Confl. comp. in proc. Abbellito; Sez. 6, n. 29821 del 22 giugno 2001, Bonaffini; Sez. 2, n. 4441 del 2 dicembre 2008, Conte) - non e' rilevante nel presente processo, e semmai valutera' la Corte costituzionale se affrontarla d'ufficio ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 27 della legge n. 87/1953 (anche se il precedente di cui alla sentenza n. 349 del 2000 potrebbe indurre a ritenere il contrario). Non appare pertanto manifestamente infondata, ed e' senz'altro rilevante ai fini della decisione nel presente processo, la decisione in ordine alla competenza, e quindi in ordine alla legittimita' costituzionale o meno della norma che la regola, nascente dal combinato disposto degli artt. 12 lett. c) e 16 c.p.p., nella parte in cui consente che, in caso di connessione teleologica tra reati, la competenza spetti per tutti e nei confronti di tutti gli imputati al giudice del luogo in cui e' stato commesso il reato piu' grave, anche se di questo non rispondano tutti gli imputati del reato meno grave. Conseguentemente, va sollevata questione di incostituzionalita' delle norme in oggetto, con separazione della posizione processuale afferente agli imputati Kobau, Mungai e Gallo, e sospensione del processo nei loro confronti. P.Q.M. Visti gli artt. 1 della legge cost. n. 1/48, e 23 della legge n. 87/53, ritenuta d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 16 c.p.p. in relazione all'ipotesi di cui all'art. 12 lett. c) c.p.p., per contrasto con gli artt. 25 e 3 della Costituzione, nella parte in cui le suddette norme processuali consentono che, in caso di connessione teleologica tra reati, la competenza spetti per tutti e nei confronti di tutti gli imputati al giudice del luogo in cui e' stato commesso il reato piu' grave, anche se di questo non rispondano tutti gli imputati del reato meno grave; Ordina la trasmissione della presente ordinanza e degli atti del procedimento alla Corte costituzionale; Sospende la decisione sull'eccezione di incompetenza sollevata dalle difese degli imputati Baldassarre Nicola, Gallo Vincenzo, Mungai Fabio e Koabau Renato e, per l'effetto sospende il processo nei confronti dei suddetti imputati e dispone separarsi 1e relative posizioni processuali con formazione di autonomo fascicolo processuale; Ordina la notificazione della presente ordinanza agli imputati Kobau e Mungai non presenti, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri, e la sua comunicazione ai Presidenti dei due rami del Parlamento. Manda alla cancelleria per l'esecuzione. Cosi' deciso in Lecce, il 3 novembre 2011. Il giudice: Sernia