N. 63 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 gennaio 2012

Ordinanza del 10 gennaio 2012  emessa  dal  Tribunale  amministrativo
regionale della Liguria sul ricorso proposto  da  Albino  Valeria  ed
altri contro Ministero della  giustizia,  Ministero  dell'economia  e
delle finanze, Presidenza del Consiglio dei ministri.. 
 
Bilancio e contabilita' pubblica  -  Misure  urgenti  in  materia  di
  stabilizzazione  finanziaria  e  di  competitivita'   economica   -
  Contenimento della spesa in materia di pubblico impiego - Personale
  di  cui  alla  legge  n.  27  del  1981  (magistrati  e   categorie
  equiparate) - Previsione che non siano erogati ne' recuperabili gli
  acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del  triennio
  2010-2012; che per il triennio 2013-2015  l'acconto  spettante  per
  l'anno 2014 sia pari alla misura gia' prevista per l'anno  2010  ed
  il conguaglio per l'anno 2015  venga  determinato  con  riferimento
  agli anni 2009, 2010 e  2014  -  Previsione,  altresi',  per  detto
  personale, che l'indennita' speciale, di cui all'art. 3 della legge
  n. 27 del 1981, spettante per  gli  anni  2011,  2012  e  2013  sia
  ridotta del 15 per cento per l'anno 2012 e del  32  per  cento  per
  l'anno 2013 - Irrazionalita' - Ingiustificato deteriore trattamento
  dei lavoratori dipendenti rispetto a quelli autonomi  -  Violazione
  del  principio  della  retribuzione  proporzionata  ed  adeguata  -
  Violazione dei  principi  di  generalita'  e  progressivita'  della
  tassazione e  di  capacita'  contributiva,  attesa  la  sostanziale
  natura tributaria della prestazione patrimoniale imposta  -  Natura
  regressiva del tributo con riferimento all'indennita' speciale,  in
  quanto incidente in minore misura sui magistrati  con  retribuzione
  complessiva piu' elevata ed in misura maggiore sui  magistrati  con
  retribuzione complessiva  inferiore  -  Lesione  del  principio  di
  proporzionalita' ed adeguatezza della retribuzione - Violazione dei
  principi  di  imparzialita'  e  buon   andamento   della   pubblica
  amministrazione -  Violazione  del  principio  di  indipendenza  ed
  autonomia della magistratura - Violazione dei principi  del  giusto
  processo e di obblighi internazionali derivanti dalla CEDU. 
- Decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni,
  nella legge 30 luglio 2010, n. 122, art. 9, comma 22. 
- Costituzione, artt. 3, 36,  53,  101,  comma  secondo,  104,  primo
  comma, 111,  comma  secondo,  e  117,  primo  comma,  in  relazione
  all'art. 6  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
  dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
(GU n.17 del 26-4-2012 )
  
                IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE 
  
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 462 del 2011, proposto da: 
        Valeria Albino, rappresentato  e  difeso  dagli  avv.  Gloria
Pieri, Vittorio Angiolini,  Marco  Cuniberti,  con  domicilio  eletto
presso Gloria Pieri in  Genova,  via  Dante  2/41;  Maria  Margherita
Zuccolini, Enrico Rinaldo Zucca, Giovanni Claudio Zerilli,  Valentina
Vinelli, Lucia Vignale,  Elisabetta  Vidali,  Claudio  Carlo  Viazzi,
Paolo Viarengo, Daniela Verrina, Massimo Todella, Cristina  Tabacchi,
Vittorio  Spirito,  Rosella  Silvestri,   Isabella   Silva,   Roberto
Settembre, Lucia Sebastiani,  Maria  Cristina  Scarzella,  Alessandra
Scarzella, Adriano Sansa,  Virginia  Sangiuolo,  Laura  Russo,  Maria
Teresa Rubini, Laura Rotolo, Barbara Romano, Giorgio Ricci, Valentina
Rascioni, Alessandro Ranaldi, Daniela Pischetola, Alberto Princiotta,
Patrizia Petruzziello, Adriana Petti. Marta Perazzo, Fabrizio Pelosi,
Domenico Pellegrini, Carla Pastorini, Monica Parentini, Giorgio Piero
Parco, Chiara Maria Paolucci, Marco Panicucci, Giorgio  Odero,  Paolo
Nasini, Sabrina Monteverde, Luca Monteverde, Cinzia  Vanda  Miniotti,
Ranieri Miniati, Claudia  Merlino,  Maria  Gavina  Meloni,  Francesco
Meloni, Francesco Mazza Galanti,  Maria  Gabriella  Marino,  Cristina
Maggia, Maura  Maccio',  Antonio  Lucisano,  Tiziana  Lottini,  Elisa
Loris, Paolo Lepri,  Alberto  La  Mantia,  Alberto  Haupt,  Valentina
Grosso,  Stefano  Grillo,  Tommaso  Grassi,   Francantonio   Granero,
Fiorenza Barbara Giorgi,  Annalisa  Giacalone,  Francesca  Ghiglione,
Emilio  Gatti,  Paolo  Gallizia,  Caterina  Fiumano',  Emilio   Fois,
Giovanni Battista Ferro, Lorenzo Ferretti,  Marino  Ferrari,  Roberto
Fenizia,  Alessandro  Giuseppe  Farina,  Daniela  Faraggi,  Gabriella
Dotto, Luciano Di Noto, Maria  Antonia  Di  Lazzaro,  Pier  Carlo  Di
Gennaro,  Annaleila  Dello  Preite,  Andrea  Del  Nevo,  Maurizio  De
Matteis, Laura  De  Dominicis,  Mario  De  Bellis,  Giuliana  Deiana,
Cristina  Dagnino,  Massimo  Cusatti,  Laura  Cresta,  Nicola   Mario
Condemi, Alessandra Coccoli, Dando Ceccarelli,  Giampiero  Cavatorta,
Luigi Cavadini Lenuzza, Ezio Castaldi, Cinzia Casanova, Laura Casale,
Roberto Carta,  Luisa  Carta,  Nicoletta  Cardino,  Alberto  Cardino,
Giovanna Cannata, Marco Canepa, Cristina  Camaiori,  Maria  Califano,
Lorenza Calcagno, Vincenzo Calia,  Paola  Calleri,  Massimo  Caiazzo,
Mauro Davide Amisano, Matteo Buffoni, Diana Brusaca', Davide  Atzeni,
Marco Bacci, Marcello Bruno, Tiziana Belgrano, Barbara Bresci, Marina
Besio,  Simonetta  Boccaccio,  Paola  Luisa  Bozzo   Costa,   Roberto
Braccialini, rappresentati e difesi dagli  avv.  Vittorio  Angiolini,
Marco Cuniberti, con domicilio eletto presso Gloria Pieri in  Genova,
via Dante 2/41; Ubaldo Pelosi,  Donatella  Aschero,  rappresentati  e
difesi dagli avv. Marco Cuniberti, Vittorio Angiolini, con  domicilio
eletto presso Gloria Pieri in Genova, via Dante 2/41; 
    Contro Ministero della giustizia, Ministero economia  e  finanze,
Presidenza   Consiglio   dei   Ministri,   rappresentati   e   difesi
dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata per legge in Genova, v.le B.
Partigiane, 2; 
    Per  l'annullamento  e  per  il  riconoscimento,  previa   idonea
cautela, e con riserva di motivi aggiunti, del diritto al trattamento
retributivo spettante senza tener conto delle decurtazioni di cui  al
comma 22 dell'art. 9 del 31 marzo 2010 n. 78, come conv. con modif in
legge  30  luglio  2010,  n.  122;  nonche'  per  la  condanna  delle
amministrazioni resistenti al pagamento delle  somme  corrispondenti,
con ogni accessorio di legge. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visti gli atti di costituzione in  giudizio  di  Ministero  della
giustizia e di Ministero economia e finanze e di Presidenza Consiglio
dei Ministri; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visto l'art. 79, comma 1, cod. proc. amm.; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Ritenuta la propria giurisdizione e competenza; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno  1°  dicembre  2011  il
dott. Roberto Pupilella  e  uditi  per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
    Con ricorso regolarmente notificato e  depositato  i  ricorrenti,
tutti magistrati ordinari in servizio presso uffici giudiziari  della
Liguria,   rientranti   nella   competenza   di   questo    Tribunale
amministrativo, chiedono al TAR , previa  eventuale  rimessione  alla
Corte costituzionale di  riconoscere  ai  ricorrenti  il  diritto  al
trattamento retributivo  loro  spettante  inciso  dalle  decurtazioni
derivanti dall'art. 9, comma 22 del d.l. 31  marzo  2010,  n.78  come
convertito con modificazioni nella legge n. 122 del 30 luglio 2010. 
    La questione sottoposta al giudizio del Tribunale e'  gia'  stata
oggetto di diverse rimessioni alla Corte costituzionale da  parte  di
numerosi TAR (Tar Veneto, rgr. n. 645/2011  ord.  n.  1685/2011;  Tar
Piemonte II sez. rgr n. 409/2011, ord. n. 846/2011; TAR Campania  Sa,
I sez. rgr.n.657/2011, ord. n.1162/2011;). 
    In  tutti  i  giudizi   citati,   come   anche   nella   presente
controversia, l'oggetto della rimessione alla Corte costituzionale e'
identico e cioe' si pone in  dubbio  la  legittimita'  costituzionale
dell'art. 9 comma 22 del d.l. 31 marzo 2010, n.78 come convertito con
modificazioni nella legge n.122 del 30 luglio 2010. 
    La norma citata, incidendo sugli automatismi stipendiali,  creati
a garanzia della indipendenza  dell'ordine  giudiziario,  violerebbe,
secondo i giudici rimettenti, il precetto dell'art. 104 Costituzione.
Irragionevole, poi, apparirebbe la crescente riduzione  nel  triennio
della indennita' giudiziaria, che costituisce una misura fissa uguale
per  tutti  i  magistrati,  indipendente  cioe'  dalla  qualifica   e
dall'anzianita' degli stessi. 
    La funzione della indennita' giudiziaria, in ragione della  ratio
sottesa alla sua istituzione (legge n. 27/1981) e' infatti quella  di
compensare i magistrati  degli  oneri  che  questi  incontrano  nello
svolgimento della loro attivita'. 
    La sua decurtazione appare dunque irragionevole e non  troverebbe
corrispondenza in una proporzionale riduzione degli  oneri  richiesti
ai giudici, che anzi, in  ragione  delle  carenze  degli  organici  e
dell'arretrato che grava su tutti i plessi giudiziari  sono  chiamati
da anni ad aumentare la propria produttivita' per  ridurre  le  somme
pagate dallo Stato in relazione alla eccessiva lentezza dei processi. 
    Le argomentazioni sopra svolte, comuni anche al giudizio  odierno
hanno  carattere  pregiudiziale  sull'esito  della  presente   causa,
ponendosi, come affermato di recente dal Consiglio di Stato (IV  sez.
28  gennaio  2011,  n.  693)  come   un   indispensabile   precedente
logico-giuridico che costituisce la base della decisione anche  della
presente controversia. 
    Inoltre, nel caso di specie, come ribadito  dalla  giurisprudenza
(CDS  sez.  VI  20  ottobre   2010,   n.   7592)   «il   vincolo   di
pregiudizialita' riguarda  l'intera  res  litigiosa  dedotta  con  il
ricorso, cioe' investe l'intero rapporto in contestazione». 
    Cio' premesso la questione sottoposta all'attenzione del Collegio
appare rilevante e non manifestamente infondata  sulla  scorta  delle
seguenti argomentazioni. 
    In forza  dell'art.  9  comma  22  del  d.l.  n.  78/2010,  quale
risultante dalle modifiche introdotte con la legge  di  conversione),
con la c.d. manovra economica 2010), veniva, per quanto di interesse,
previsto, per il personale di cui alla legge n. 27/1981: 
        a)  che  «non  [fossero]  erogati,  senza   possibilita'   di
recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed  il  conguaglio
del triennio 2010-2012»; 
        b) che «per il triennio  2013-2015  l'acconto  spettante  per
l'anno 2014 [fosse] pari alla misura gia' prevista per l'anno 2010  e
il conguaglio per l'anno 2015 [venisse] determinato  con  riferimento
agli anni 2009, 2010 e 2014»; 
        c) che «l'indennita' speciale di cui all'  articolo  3  della
legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante  negli  anni  2011,  2012  e
2013, [fosse] ridotta del 15 per cento per l'anno 2011,  del  25  per
cento per l'anno 2012 e del  32  per  cento  per  l'anno  2013»,  con
riduzione non operante ai fini previdenziali; 
    La rilevanza della questione appare indubitabile  avuto  riguardo
alle seguenti circostanze: 
        le norme dell'art. 9 comma 22  del  d.l.  n.  78/2010,  quale
risultante dalle modifiche introdotte con la  legge  di  conversione,
sono di immediata applicazione e la  domanda  di  riconoscimento  del
diritto al mantenimento della precedente disciplina  del  trattamento
economico non puo' essere esaminata  senza  il  previo  scrutinio  di
costituzionalita' delle norme primarie censurate; 
        le parti ricorrenti  subiscono  nel  corrente  anno  2011  il
blocco del meccanismo di adeguamento retributivo, nonche'  il  blocco
di acconti e conguagli cui avrebbe avuto altrimenti diritto ed  hanno
gia' subito la decurtazione della indennita' speciale giudiziaria. 
    L'eventuale  pronunzia   di   incostituzionalita'   delle   dette
disposizioni,  per  contro,  condurrebbe  de  plano  all'accertamento
dell'illegittimita' del mancato adeguamento degli  stipendi  e  delle
trattenute  in  parola  e  consequenzialmente  all'accoglimento   del
ricorso. 
    La non  manifesta  infondatezza  e'  evidenziata  dalle  seguenti
considerazioni. 
    Non manifesta infondatezza della questione  di  costituzionalita'
dell'art. 9, comma 22 del d.l. 31 marzo 2010, n. 78, come  convertito
con modificazioni dalla 30 luglio 2010, n. 122, per violazione  degli
artt. 101 comma 2, 104, comma 1, 111, commi 1 e  2  e  117,  comma  1
della Costituzione in relazione all'art.  6  della  C.E.D.U.;  e  del
bilanciamento  dei  principi  di  autonomia  ed  indipendenza   della
Magistratura con le esigenze finanziarie e di bilancio dello Stato. 
    Il  dubbio  di  costituzionalita'  per  violazione  delle   norme
indicate in rubrica sussiste sia con  riferimento  alle  disposizioni
contenute nel comma  22  dell'art.  9  riguardanti  il  blocco  degli
automatismi stipendiali (per il triennio 2011-2013)  e  l'apposizione
di tetti ai medesimi (per gli anni 2014/2015), sia con riferimento  a
quella che introduce il  taglio  della  indennita'  speciale  di  cui
all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27  secondo  aliquote
differenti negli anni 2011, 2012 e 2013. 
    I valori dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura da
ogni altro potere dello Stato sono  sanciti  in  via  generale  dagli
arti. 101, comma 2 («I giudici sono soggetti soltanto alla legge»)  e
104, comma 1 Cost. («La Magistratura costituisce un ordine autonomo e
indipendente da ogni altro potere»). 
    L'indipendenza della  Magistratura  e'  funzionale,  nel  disegno
costituzionale, alla celebrazione di  un  giusto  processo,  come  si
evince dai commi 1 e 2 dell'art. 111 della Costituzione. 
    Analoga funzionalizzazione dell'indipendenza dei magistrati  alla
celebrazione del  giusto  processo  si  rinviene  nell'art.  6  della
Convenzione  Europea  dei  Diritti  dell'Uomo  che,  per  il  tramite
dell'art. 117, 1 comma della Costituzione  (nel  testo  vigente),  e'
entrata a far parte diretta del nostro tessuto costituzionale  (sulla
predetta funzionalizzazione cfr. Corte Europea Dir. Umani, 19  giugno
2003, Hulki Gunes c. Turchia). 
    La  necessita'  di  «attuazione   del   precetto   costituzionale
dell'indipendenza dei magistrati...va salvaguardato  anche  sotto  il
profilo economico», onde evitare «tra l'altro che essi siano soggetti
a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri» e' stata a
piu' riprese  affermata  dalla  Corte  costituzionale  (sentenze  nn.
1/1978, 42/1993, 238/1990). 
    Con particolare riferimento al meccanismo  del  c.d.  adeguamento
automatico degli stipendi (essenzialmente fondato sulla  garanzia  di
un  aumento  delle  retribuzioni,   che,   sulla   base   di   indici
appositamente ed obiettivamente elaborati dall'Istituto  centrale  di
statistica, viene  assicurato  «di  diritto»,  ogni  triennio,  nella
misura percentuale pari alla media degli  incrementi  realizzati  nel
triennio precedente  dalle  altre  categorie  del  pubblico  impiego)
inciso dalla normativa in esame con riferimento al triennio 2011-2013
ed al biennio 2014/2015, la Corte ha  piu'  volte  sottolineato  come
esso  costituisca  un  elemento  intrinseco  della  struttura   delle
retribuzioni  in  discorso,  inteso  alla  «attuazione  del  precetto
costituzionale   dell'indipendenza   dei   magistrati   -   che    va
salvaguardato  anche  sotto  il  profilo  economico»,  «evitando  tra
l'altro che essi  siano  soggetti  a  periodiche  rivendicazioni  nei
confronti di altri poteri» (Corte cost. 10 febbraio 1993, n_ 42) -  e
concretizzante «una guarentigia idonea a  tale  scopo»  (Corte  cost.
ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137; Corte 1998 n.
346; Corte cost. 8 maggio 1990, n. 238). 
    La  tutela   costituzionale   del   trattamento   economico   dei
magistrati, dunque, si  estende  al  suo  meccanismo  di  adeguamento
automatico   ma   anche    alla    c.d.    indennita'    giudiziaria,
«intrinsecamente  connessa  allo   status   di   magistrati»   (Corte
costituzionale n. 238/1990), ed alla sua rivalutazione monetaria. 
    L'indennita' di cui alla legge 19 febbraio 1091 n.  27,  infatti,
costituisce parte essenziale, costante e  «normale»  del  trattamento
economico complessivo del magistrato (sul punto Corte cost., ordd. 23
ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137;  nonche',  ex  multis;
Consiglio Stato, Sez. IV, 6 maggio 2010 n. 2646;  Cons.  Stato,  Sez.
IV, 7 aprile 1993, n. 401), sicche' la sua natura di componente fissa
della retribuzione comporta le  medesime  esigenze  di  tutela  teste
evidenziate. 
    E' la stessa Corte costituzionale, del resto, nelle sopra  citate
pronunzie  n.  346/1998,  43/92  e  238/1990,  ad  avere   ricondotto
l'istituto   della   rivalutazione   automatica   della    indennita'
giudiziaria   alla   ratio   di   tutela   dell'indipendenza    della
Magistratura: identica ratio, a fortiori, non puo' che essere sottesa
al   trattamento   principale   dell'indennita'   stessa,   di    cui
l'adeguamento automatico e' solo aspetto accessorio. 
    Ha osservato la Corte che «l'indennita' in esame e' espressamente
correlata ai particolari oneri  che  i  magistrati  incontrano  nello
svolgimento della loro attivita', la quale tra  l'altro  comporta  un
impegno senza precisi limiti temporali, dal che discende un  rigoroso
collegamento con il servizio effettivamente prestato. Peraltro  -  ed
in collegamento con la pari ordinazione  delle  funzioni  (art.  107,
terzo comma, Cost.) - essa e' attribuita in misura uguale a  tutti  i
magistrati  investiti  di  funzioni  giurisdizionali,  a  prescindere
dall'anzianita' e dalla qualifica rivestita. Specificamente  connessa
allo  status  dei  magistrati  e',   poi,   l'ulteriore,   essenziale
caratteristica dell'indennita' in questione,  costituita  dall'essere
essa assoggettata al medesimo meccanismo di rivalutazione  automatica
previsto per gli stipendi dei magistrati dal precedente art. 2  della
medesima   legge.   In   attuazione   del   precetto   costituzionale
dell'indipendenza dei magistrati, che va salvaguardata anche sotto il
profilo economico (sentenza n. 1 del 1978) evitando tra  l'altro  che
essi siano soggetti a  periodiche  rivendicazioni  nei  confronti  di
altri poteri, il legislatore ha col  citato  art.  2  predisposto  un
meccanismo  di  adeguamento   automatico   delle   retribuzioni   dei
magistrati che, in  quanto  configurato  con  l'attuale  ampiezza  di
termini di riferimento, concretizza una  guarentigia  idonea  a  tale
scopo.  La  sua  estensione  anche  all'indennita'  in   discorso   -
corrisposta con la stessa cadenza mensile degli stipendi ne evidenzia
non solo la natura retributiva, di componente del normale trattamento
economico dei magistrati, ma  anche  la  specificita'  rispetto  alle
indennita',   variamente   denominate,   attribuite   al    personale
amministrativo statale» (Corte costituzionale, 8 maggio 1990 n.  238;
cfr. anche Corte costituzionale, 19 gennaio 1995, n. 15). 
    La  tradizione  costituzionale  italiana  risulta  confermata   e
rafforzata dalla  «Raccomandazione  CM/Rec  (2010)  12  sui  giudici:
indipendenza, efficacia e responsabilita'», adottato a Strasburgo dal
Comitato dei Ministri il 17 novembre 2010 al fine di originare  linee
attuative il piu' possibile omogenee dell'art. 6  della  C.E.D.U.  In
particolare, al punto 45, e' specificato  che  «deve  essere  vietata
ogni  forma  di  discriminazione  verso  i  giudici  o  i   candidati
all'ufficio di giudice»;  al  punto  54,  poi,  e'  previsto  che  la
retribuzione debba essere «commisurata al loro ruolo professionale ed
alle loro responsabilita'», ed in ogni caso tale da «renderli  immuni
da qualsiasi pressione volta ad influenzare le loro decisioni». 
    Il citato punto 54 si chiude con l'invito agli  Stati  membri  ad
adottare «specifiche disposizioni di  legge  per  garantire  che  non
possa  essere  disposta  una  riduzione  delle  retribuzioni  rivolta
specificamente ai giudici». 
    Nello stesso ordine di idee la c.d. Magna Carta dei Giudici,  del
pari approvata  a  Strasburgo  il  17  novembre  2010  dal  Consiglio
d'Europa - Comitato consultivo dei Giudici europei (CCJE),  la  quale
Magna Carta, seppur beninteso priva ex se di valore cogente sotto  il
profilo giuridico, costituisce una decisione  fondamentale  alla  cui
luce devono essere interpretate le disposizioni interne, per  la  sua
autorevole fonte di provenienza, esprimendo il  CCJE  le  «tradizioni
costituzionali» dei quarantasette Stati europei che ne sono membri. 
    Secondo l'espresso disposto degli artt. 2,  3  e  4  della  Carta
l'indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto ai poteri legislativo
ed esecutivo va  garantita  anche  sotto  il  profilo  della  «tutela
finanziaria» della retribuzione  dei  magistrati;  l'art.  7  prevede
espressamente che «il giudice deve beneficiare di una remunerazione e
di un sistema previdenziale adeguati e garantiti dalla legge, che  lo
mettano al riparo da ogni indebita influenza». 
    Si deve considerare, inoltre, che il  legislatore,  mediante  uno
strumento che  apparentemente  incide  solo  sulla  retribuzione  del
magistrato, viene in realta' ad operare un  indebito  condizionamento
sull'esercizio  della  funzione  giurisdizionale,  poiche'  costringe
l'Ordine di appartenenza, quando non addirittura il  magistrato  come
singolo,  ad  un  confronto  con  il  pubblico  potere  al  fine   di
ripristinare le condizioni economiche  originarie,  o  quantomeno  di
elidere o attenuare le conseguenze negative della misura disposta. 
    Tale stato  di  cose,  generando  un  sotterraneo  conflitto  tra
Istituzioni che mina alla radice la  serenita'  del  giudice,  appare
particolarmente grave per la specifica funzione del magistrato. 
    Un magistrato «condizionato», quand'anche solo  apparentemente  e
non nella realta', da una misura legislativa fortemente  penalizzante
per i suoi interessi economici  rischia  di  vedersi  sottratto  quel
credito e quel prestigio di cui  il  singolo  magistrato  e  l'Ordine
giudiziario nel suo insieme devono sempre ed indefettibilmente godere
presso la comunita' dei cittadini. 
    La Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  100  del  1981  ha
chiarito che «i magistrati, per dettato  costituzionale  (arti.  101,
comma secondo e 104, comma primo, Cost.), debbono essere imparziali e
indipendenti e tali valori vanno  tutelati  non  solo  con  specifico
riferimento al concreto esercizio delle funzioni  giurisdizionali  ma
anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al
fine  di  evitare  che  possa  fondatamente  dubitarsi   della   loro
indipendenza ed imparzialita' nell'adempimento del  loro  compito.  I
principi  anzidetti  sono  quindi   volti   a   tutelare   anche   la
considerazione di cui il magistrato deve godere  presso  la  pubblica
opinione ed assicurano, nel  contempo,  quella  dignita'  dell'intero
ordine giudiziario, che la norma denunziata qualifica prestigio e che
si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria
e nella credibilita' di essa... Alla luce di tali  considerazioni  va
interpretata la sentenza di questa Corte n. 145 del  1976,  la  quale
riconosce l'esigenza di una rigorosa tutela del prestigio dell'ordine
giudiziario, che rientra senza  dubbio  tra  i  piu'  rilevanti  beni
costituzionalmente protetti». 
    Alle stesse conseguenze di «appannamento» della neutralita' della
funzione  giurisdizionale  si  perverrebbe  associando  la  riduzione
stipendiale alla rottura dei  delicati  equilibri  tra  poteri  dello
Stato. 
    In tale ottica, la misura legislativa in parola potrebbe apparire
come una sorta di punizione o di monito per  il  potere  giudiziario,
rendendo manifesta ai cittadini una condizione di evidente supremazia
gerarchica di un potere sull'altro, in contrasto - anche  sotto  tale
profilo - con i dettami costituzionali che improntano i rapporti  tra
poteri alla separazione, all'equilibrio ed al bilanciamento. 
    L'idea  di  un  magistrato  punito,   ammonito   o   anche   solo
«influenzabile»  dalla  consapevolezza  che  il  taglio   stipendiale
disposto oggi puo' ben essere ripetuto o addirittura inasprito (oltre
il 2013), ripugna al nostro sistema costituzionale ed  ordinamentale,
godendo della piu' elevata tutela, in esso, anche la  mera  apparenza
della indipendenza della funzione giurisdizionale, in  quanto  valore
fondante per l'affidabilita' e la  credibilita'  istituzionale  della
figura del magistrato (sull'importanza  anche  della  mera  apparenza
dell'indipendenza dei magistrati si veda Corte  Europea  dei  diritti
dell'Uomo, Grand Chamber, case of Incal v  Turkey,  41/1997/825/1031;
March 04, 1982, case of Sramek v  Austria;  May  06,  1978,  case  of
Campbell v Fell v The United Kingdom). 
    Il comma 22 dell'art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 ha come  fine,  o
quantomeno come effetto, quello di ledere non solo il dato  testuale,
ma altresi' i principi e valori sottesi alle richiamate  disposizioni
costituzionali (artt. 101, comma 2, 104, comma 1 e 117, comma  1,  in
relazione all'art. 6 della C.E.D.U.), valori a loro volta  funzionali
all'esercizio imparziale ed obiettivo della funzione giudicante, come
esigono  molteplici  norme  costituzionali  anche  in   vista   della
celebrazione di un «giusto» processo (cfr. artt. 24, 103 e 111  della
Cost.; Corte cost. n. 381/1999). 
    La ratio «punitiva» sottesa all'adozione delle misure  della  cui
costituzionalita' si dubita si evince ictu oculi dal contenuto  delle
stesse,  in  particolare  per  quanto  riguarda  il  blocco  dei   cd
automatismi stipendiali. 
    La riforma organica della magistratura realizzata pochi  anni  fa
ha ridisegnato l'assetto della magistratura in modo piu' aderente  ai
valori della Costituzione e alla mutata  sensibilita'  nei  confronti
della giurisdizione. 
    Uno dei punti qualificanti della riforma e' stata  la  previsione
di periodiche e serrate valutazioni di professionalita' nei confronti
dei magistrati con conseguenze proprio su quei meccanismi retributivi
che il legislatore d'urgenza e' andato a scardinare. 
    In  particolare  l'art.  11  d.lgs.  n.  160/06   stabilisce   le
conseguenze delle  periodiche  valutazioni  di  professionalita'  dei
giudici: 
        se il giudizio e'  «non  positivo»,  il  Consiglio  superiore
della magistratura procede a nuova  valutazione  di  professionalita'
dopo un anno, acquisendo un nuovo parere del  consiglio  giudiziario;
in tal caso il nuovo trattamento economico o l'aumento  periodico  di
stipendio sono dovuti solo a decorrere dalla scadenza dell'anno se il
nuovo giudizio e' «positivo». Nel corso  dell'anno  antecedente  alla
nuova valutazione non  puo'  essere  autorizzato  lo  svolgimento  di
incarichi extragiudiziari. 
    11. Se il giudizio e' «negativo», il magistrato e'  sottoposto  a
nuova valutazione di professionalita' dopo un biennio.  Il  Consiglio
superiore  della  magistratura  puo'  disporre  che   il   magistrato
partecipi ad uno o piu' corsi di  riqualificazione  professionale  in
rapporto alle specifiche  carenze  di  professionalita'  riscontrate;
puo' anche assegnare il  magistrato,  previa  sua  audizione,  a  una
diversa  funzione  nella  medesima  sede  o  escluderlo,  fino   alla
successiva valutazione, dalla possibilita' di  accedere  a  incarichi
direttivi o semidirettivi o a  funzioni  specifiche.  Nel  corso  del
biennio  antecedente  alla  nuova   valutazione   non   puo'   essere
autorizzato lo svolgimento di incarichi extragiudiziari. 
    12. La valutazione  negativa  comporta  la  perdita  del  diritto
all'aumento  periodico  di  stipendio  per  un  biennio.   Il   nuovo
trattamento  economico  eventualmente  spettante  e'  dovuto  solo  a
seguito di giudizio positivo e  con  decorrenza  dalla  scadenza  del
biennio. 
    Quindi  ad  esito  della  riforma  l'operativita'  di  meccanismi
automatici di adeguamento  dello  stipendio,  quelli  bloccati  dalla
norma  censurata,  e'  condizionata  alla  valutazione  positiva   di
professionalita'. 
    La legge organica di  disciplina  della  magistratura  ha  quindi
connotato il  blocco  dell'automatismo  stipendiale  ad  una  precisa
evenienza la valutazione non positiva o negativa di professionalita'. 
    Ma se questo e' il senso del blocco degli automatismi stipendiali
e  altro  senso  la  misura  non  ha  nella  legge   organica   della
magistratura  l'avere  realizzato  un   blocco   indiscriminato   nei
confronti  di  tutti  gli  appartenenti  alla  magistratura  realizza
l'effetto,  sia  pure  camuffato  da  misura  di  contenimento  della
spesa,di una  valutazione  negativa  di  professionalita'  globale  e
complessiva nei confronti di tutto il plesso. Tale operazioni  quindi
si contraddistingue per  lo  spregio  dei  piu'  fondamentali  canoni
dell'agire legislativo come incardinati nella  Costituzione  e  rende
manifesto l'attentato ai valori di indipendenza della magistratura. 
    L'intento punitivo gia'  disvelato  dal  contenuto  stesso  delle
misure risulta altresi' confermato aliunde. 
    Infatti con il successivo art. 16, comma 7 d.l. 6 luglio 2011  n.
98 si e' stabilito che  in  ragione  dell'esigenza  di  un  effettivo
perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in  sede
europea  relativamente  alla  manovra  finanziaria   per   gli   anni
2011-2013, qualora, per qualsiasi ragione,  inclusa  l'emanazione  di
provvedimenti giurisdizionali diversi  dalle  decisioni  della  Corte
costituzionale, non siano conseguiti  gli  effetti  finanziari  utili
conseguenti,  per  ciascuno  degli  stessi   anni   2011-2013,   alle
disposizioni di cui ai commi 2 e 22 dell'articolo 9 del decreto-legge
31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge  30
luglio 2010, n. 122, i medesimi effetti finanziari  sono  recuperati,
con misure di carattere generale, nell'anno immediatamente successivo
nei riguardi delle stesse categorie di personale cui si applicano  le
predette disposizioni. 
    Tale norma rende evidente il reale intento del legislatore punire
e minare la credibilita' dell'ordine  giudiziario,  ritenendolo,  per
presunzione assoluta incapace di rendere in subiecta materia sentenze
imparziali. In presenza  di  siffatta  ratio,  sottesa  al  complesso
normativo di cui si discute e confessoriamente ammessa  e  confermata
successivamente  e'  agevole  rendersi  conto  di  come  l'intervento
oggetto di censura sia  completamente  svincolato  dei  principi  «di
proporzionalita', ragionevolezza» (Corte costituzionale  11  novembre
2010, n. 316; sentenze n. 372 del 1998  e  n.  349  del  1985)  e  di
eguaglianza che devono governare la discrezionalita' del legislatore. 
    Ne' puo' sostenersi, per giustificare la costituzionalita'  delle
norme oggetto di censura, che i principi costituzionali che  tutelano
l'autonomia e  la  indipendenza  della  Magistratura  possono  essere
bilanciati dal legislatore con altri valori costituzionali in ipotesi
confliggenti; quale, fra questi,  puo'  esservi,  specie  in  momenti
congiunturali di crisi economica, quello del rispetto delle  esigenze
di bilancio e di contenimento della spesa pubblica nei  limiti  delle
risorse finanziarie attingibili. 
    Se, infatti, cio', in astratto, appare ammissibile,  pur  con  le
dovute cautele, nondimeno in  concreto  la  evidenziata  ratio  degli
interventi   unitamente   al   loro   atteggiarsi   rende   manifesta
l'irrazionalita'  della  scelta   di   intervenire   sui   meccanismi
retributivi del magistrati, al di fuori del coinvolgimento di tutti i
contribuenti secondo i principi  di  pari  capacita'  contributiva  e
progressivita' di cui all'art. 53 della Costituzione e al di fuori di
una riforma organica e razionale della materia regolata  dalla  legge
1981, n. 27 e dettata in attuazione diretta degli  artt.  101  e  104
della Costituzione. Le norme censurate in nome di  asserite  esigenze
finanziarie e di bilancio, hanno operato una compressione dei  valori
costituzionalmente garantiti  dell'indipendenza  ed  autonomia  della
Magistratura in una maniera del tutto irrazionale,  sproporzionata  e
discriminatoria, con particolare riferimento ai seguenti profili:  a)
disparita' di trattamento nei confronti dei contribuenti aventi  pari
capacita' contributiva; b) disparita' di  trattamento  nei  confronti
dei contribuenti aventi pari capacita' di reddito da lavoro (autonomo
e privato); c) disparita' di trattamento nei confronti  dei  pubblici
dipendenti  aventi  pari  capacita'  di   reddito   da   lavoro;   d)
irrazionalita'  «quantitativa»  del  taglio  che,  pur  disposto  per
esigenze di tutta la collettivita', pesa in maniera consistente  solo
sugli stipendi  dei  pubblici  dipendenti  (ed  ancora  di  piu'  sui
magistrati) e finisce con l'apportare esigue risorse alle casse dello
Stato, in luogo di una minima ed  indolore  imposizione  su  tutti  i
contribuenti sicuramente piu' idonea allo scopo  di  risanamento  del
bilancio; e) irrazionalita' per «abuso della  funzione  legislativa»;
f)  irrazionalita'  «interna»  alle  misure   aventi   caratteri   di
regressivita' da un lato, finendo con l'incidere in maniera piu'  che
proporzionale sugli  stipendi  piu'  bassi,  e  di  mera  casualita',
imprevedibilita'  ed  illogicita'  dall'altro;  g)  alterazione   del
rapporto  di  proporzionalita'  tra   prestazione   e   retribuzione,
incidente  in  misura  proporzionalmente  maggiore   sui   magistrati
percettori di  reddito  inferiore;  g)  irragionevole  incisione  sui
diritti quesiti. 
    Non manifesta infondatezza della questione  di  costituzionalita'
dell'art. 9, comma 22 del d.l. 31 marzo 2010, n. 78, come  convertito
con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 12,  per  violazione
degli artt. 3, 53, I e II comma della Costituzione. 
    Le disposizioni censurate, hanno natura tributaria. 
    Infatti  le  misure  qui  in   esame   (blocco   dell'adeguamento
automatico per il triennio 2011-2013, introduzione di  tetti  per  il
biennio  2014/2015  e  taglio   dell'indennita'   speciale   di   cui
all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27) si conformano  ai
criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale per qualificare
come tributarie alcune entrate: «doverosita'  della  prestazione,  in
mancanza  di  un  rapporto  sinallagmatico  tra  le   parti   e   nel
collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad
un  presupposto  economicamente  rilevante»   (ex   plurimis,   Corte
costituzionale, sentt. nn.  141/2009,  335/2008,  64/2008,  334/2006,
73/2005). 
    Le  trattenute  in  questione  sono  effettuate  dallo  Stato   a
prescindere da qualsivoglia rapporto sinallagmatico, essendo  imposte
in via autorititativa. 
    La  stesse  poi,  in  relazione  al  presupposto   economicamente
rilevante della  percezione  del  reddito  da  lavoro,  si  collegano
senz'altro alla spesa pubblica, come fatto  palese  dall'incipit  del
comma  2  dell'art.  9   che   recita:   «In   considerazione   della
eccezionalita' della situazione  economica  internazionale  e  tenuto
conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di
finanza pubblica concordati in sede europea». 
    Conclusivamente le norme in esame hanno istituito dei tributi, di
cui presentano le caratteristiche essenziali, «e cioe' la doverosita'
della prestazione e il collegamento di questa ad una pubblica  spesa,
con riferimento ad un presupposto  economicamente  rilevante»  (Corte
costituzionale 19 ottobre 2006, n. 334; nonche' sentenze  n.  26  del
1982, n. 63 del 1990, nn. 2 ed 11 del 1995, n. 37 del 1997). 
    Ne' la qualificazione operata dal legislatore come mere misure di
riduzione della spesa  pubblica,  valgono  ad  escluderne  la  natura
tributaria, atteso che qualsivoglia  imposizione  tributaria  (tassa,
tributo  o  contributo),  che  incida  sugli  stipendi  dei  pubblici
dipendenti decurtandoli, si  risolve  sul  piano  effettuale  in  una
riduzione della spesa pubblica, ma per cio' solo non muta la  propria
natura. 
    Infatti cio' che rileva non e' l'effetto  di  bilancio  che  tali
disposizioni producono ne' l'ambito soggettivo di applicazione ma  la
loro  natura  intrinseca,  da   ricavarsi   secondo   le   coordinate
ermeneutiche sopra tracciate e che conducono ad affermarne la  natura
tributaria,   come   piu'   volte   espresso   dalla   giurisprudenza
costituzionale  a  riguardo   della   qualificazione   delle   «leggi
tributarie» ai fini del giudizio  di  ammissibilita'  del  referendum
(art. 75 della Costituzione). 
    In molteplici occasioni, il Giudice delle Leggi  ha  univocamente
affermato che tale nozione e' caratterizzata dalla ricorrenza di  due
elementi  essenziali  (vedi  sentt.  nn.  26/1982,  63/1990,  2/1995,
11/1995): 1) l'imposizione di  un  sacrificio  economico  individuale
realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio; 2)
la destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al  fine  di
integrare la finanza pubblica, e cioe' allo  scopo  di  apprestare  i
mezzi per  il  fabbisogno  finanziario  necessario  a  coprire  spese
pubbliche. Entrambi tali presupposti sono,  come  evidenziato  sopra,
ravvisabili nelle disposizioni di cui al comma  22  dell'art.  9  del
d.l.  n.  78/2008.  Pertanto,  le  norme  in  esame   devono   essere
assoggettate ai principi  costituzionali  dettati  dall'art.  53,  il
quale articolo al primo comma statuisce  che  «tutti  sono  tenuti  a
concorrere alle spese  pubbliche  in  ragione  della  loro  capacita'
contributiva», ed al secondo che «il sistema tributario e'  informato
a criteri di progressivita'». 
    A tale stregua si appalesa l'illegittimita' costituzionale  delle
censurate disposizioni di cui al comma 22 dell'art.  9  che  incidono
sul reddito di una sola  micro  categoria  sociale  (che  conta  poca
migliaia di contribuenti), quella dei magistrati. 
    Il legislatore del 2010 ha scelto, a parita' contributiva  ed  in
spregio  all'art.  53  della   Costituzione,   per   contribuire   al
risanamento delle casse dello Stato, di colpire solo una  determinata
classe sociale, i dipendenti pubblici (quanto al  comma  2  dell'art.
9), ed in particolare e  per  quanto  qui  direttamente  rileva,  con
misure ancora piu' incisive rispetto agli stessi dipendenti pubblici,
una ancora piu' particolare e ristretta  classe  di  contribuenti,  i
magistrati (quanto al comma 22 dell'art. 9), cosi'  realizzando  come
si dira' appresso un  tributo  odioso  e  speciale  ratione  subiecti
(T.A.R.  Campania,  ordinanza  di  rimessione  n.   1162/2011),   con
l'aggravante  di  avere  individuato,  tra  tutte  le  categorie   di
contribuenti  possibili,  l'unica  la  cui  tutela  del   trattamento
stipendiale risponde a principi di natura  costituzionale  specifici,
ulteriori (l'autonomia e l'indipendenza  della  Magistratura  di  cui
agli artt. 101 comma 2 e 104 comma 1) e  piu'  pregnanti  rispetto  a
quelli generali di cui all'art. 36 della Carta fondamentale. 
    In conclusione deve dirsi che, invece di prendere come  parametro
per  l'imposizione  fiscale   un   medesimo   indice   di   capacita'
contributiva e conseguentemente incidere su  «tutti»  i  contribuenti
versanti nella medesima condizione,  le  norme  in  questione  -  con
misure continuative, prolungate nel triennio 2011-2013 (con possibile
estensione al  2014)  ed  in  parte  al  biennio  2014/2015,  nonche'
irrazionali sotto molteplici profili come si evidenziera' dappresso -
sono state rivolte ad una ben limitata «classe di persone»,  colpendo
esclusivamente il loro reddito e con cio' violando l'art. 53, I comma
della Costituzione. 
    La norma di cui al comma 22 dell'art.  9  riguardante  il  taglio
dell'indennita' di cui all'articolo 3 della legge 19  febbraio  1981,
n. 27 si pone, in secondo luogo, in contrasto anche con  il  precetto
di  progressivita'  contenuto  nel  comma  2   dell'art.   53   della
Costituzione, dal momento che essa colpisce nella stessa misura fissa
(del 15% per l'anno 2011, del 25% per  l'anno  2012  e  del  32%  per
l'anno 2013) tutti gli appartenenti alla categoria. 
    E'  noto  che  la  predetta  indennita'  costituisce   componente
«normale», certa e costante del trattamento economico retributivo dei
magistrati (cfr. sul punto Corte cost. ordd. 23 ottobre 2008, n.  346
e 14 maggio 2008, n. 137; C.d.S., Sez. IV, 6 ottobre 2003  n.  5841),
ancorche' introdottavi a titolo «speciale»  (in  quanto  preordinata,
come espressamente affermato dall'art. 3 della legge  n.  27/1981,  a
compensare i magistrati degli «oneri che gli stessi incontrano  nello
svolgimento della loro attivita'»). 
    Il taglio di tale indennita' in misura  identica  per  tutti  gli
appartenenti alla categoria produce un  risultato  evidente:  i  piu'
giovani che  sono  agli  inizi  della  carriera  e  che  percepiscono
stipendi nettamente inferiori si trovano a pagare le stesse somme  di
coloro che si trovano in uno stadio avanzato o finale della  carriera
e percepiscono stipendi anche di molto superiori. 
    Siffatto risultato «regressivo» viola apertamente il principio di
progressivita'  dei  tributi  di  cui  all'art.  53,  comma  2  della
Costituzione  letto  unitamente  al   principio   di   ragionevolezza
intrinseca di cui all'art. 3. 
    Ne' vale sostenere  che  «i  criteri  di  progressivita'  debbono
informare il "sistema tributario" nel suo complesso e non  i  singoli
tributi»  (Corte  costituzionale  15  aprile  2008  n.   102;   Corte
costituzionale, 6 aprile 1995 n. 197). 
    Infatti dal momento che il legislatore ha deciso di incidere  sul
presupposto economico del reddito da lavoro, per coerenza di  sistema
e ragionevolezza intrinseca della nonna avrebbe dovuto configurare il
tributo siccome progressivo, atteso che tale natura ha  l'I.r.p.e.f.,
ossia la principale imposta sul  reddito  delle  persone  fisiche,  e
quindi anche sul reddito da lavoro dipendente (Corte  costituzionale,
13 gennaio 2006 n. 2). 
    Della   non   manifesta   infondatezza   della    questione    di
costituzionalita' del comma 22 dell'art. 9 del d.l. 31 marzo 2010, n.
78, come convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010,  n.
122, per violazione, sotto diversi profili, degli artt.  2,  3  e  36
della Costituzione. 
    A prescindere dalla natura tributaria o meno  delle  disposizioni
del  comma  22  dell'art.  9  del  d.l.  n.  78/2010  censurate   dai
ricorrenti,  le  stesse  appaiono  configgere  con  i   principi   di
eguaglianza, ragionevolezza legislativa e  di  solidarieta'  sociale,
politica ed economica di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. 
    L'esigenza che ha  mosso  il  legislatore  nella  predisposizione
delle misure oggetto di esame e' quella di fronteggiare la  ben  nota
crisi economica nazionale ed internazionale, ed  in  particolare  dei
paesi della zona euro; e' altrettanto noto che siffatta  esigenza  ha
ispirato e continua ad ispirare tutte le ultime manovre finanziarie e
correttive. 
    Pertanto,  l'avere  ristretto   la   contribuzione   diretta   al
risanamento delle casse dello Stato  agendo  sulle  retribuzioni  dei
soli  pubblici  dipendenti,  ed  ancora  piu'   afflittivamente   dei
magistrati, assurge in primo luogo  a  contemporanea  violazione  del
principio di uguaglianza tra i cittadini e del dovere di solidarieta'
politica, sociale ed economica di cui rispettivamente agli artt. 3  e
2 della Costituzione. 
    Detto diversamente l'avere deciso, per le  finalita'  finanziarie
di cui sopra, di incidere  solo  sui  redditi  da  lavoro  dipendente
pubblico ed in misura maggiore sui redditi da lavoro  dipendente  dei
soli magistrati, con esclusione delle identiche condizioni di tutti i
percettori di reddito aventi la  stessa  capacita'  contributiva,  si
pone in contrasto, oltre che con il gia' citato disposto di cui al  I
comma dell'art. 53 Cost., piu' a monte con i basilari precetti di cui
agli artt. 2 e 3 della Costituzione. Se la ben nota  crisi  economica
(cui la legge si riferisce con il richiamo alla «eccezionalita' della
situazione   economica   internazionale»)   ha   dettato   l'esigenza
inderogabile della riduzione di  spesa,  non  v'e'  dubbio  che  tale
evento  riguarda  la  collettivita'  nel  suo  insieme.  E'  pertanto
ingiusto - e percio' illegittimo, secondo i principi ordinamentali  -
che lo Stato intenda accollare le misure di riduzione della  spesa  -
che andranno a vantaggio di tutti - solo ad una parte  dei  cittadini
(i pubblici dipendenti, i quali peraltro non rappresentano certamente
la categoria piu' facoltosa del Paese), ed in misura ancora  maggiore
ad una cerchia ristrettissima dei predetti pubblici dipendenti, ossia
ai magistrati. 
    L'approccio del legislatore d'urgenza, da  tale  angolo  visuale,
collide anche con l'art. 2 della Costituzione e  con  i  principi  di
solidarieta'  sociale,  politica  ed  economica  ivi  scolpiti,   cui
corrispondono   ben   precisi   «doveri   inderogabili»   (la   forza
dell'espressione impiegata dal Costituente non lascia adito a  dubbi:
se i doveri sono «inderogabili» nessuno puo' esserne esentato). 
    Questi, che pure fanno  capo  all'intera  comunita',  sono  stati
disinvoltamente frustrati da un legislatore che, collocando i  disagi
in capo a «pochi»,  ha  invece  distribuito  i  benefici  in  capo  a
«tutti». Cio' che appare in netta contraddizione  con  l'insegnamento
della  Corte  costituzionale  secondo  cui  gli  inderogabili  doveri
imposti nell'art. 2 Cost. esigono che «l'ordinato vivere  comune  sia
salvaguardato» e che «i pesi conseguenti  siano  equamente  ripartiti
tra tutti, senza privilegi». 
    La violazione del principio  di  eguaglianza  per  disparita'  di
trattamento e la violazione del principio di solidarieta' sociale  ed
economica diventano, se possibile, ancora piu'  evidenti  laddove  si
compari la situazione  dei  ricorrenti  con  gli  altri  titolari  di
reddito da lavoro (autonomo o dipendente privato): lapalissiano e' il
contrasto con i basilari precetti di cui  agli  artt.  2  e  3  della
Costituzione. 
    Ancora una volta, tenendo conto della finalita' «di cassa» che e'
a fondamento di un prelievo disposto addirittura  per  decreto-legge,
non si ravvisa alcuna ratio  giustificativa  per  la  quale  anche  i
lavoratori del settore privato (dipendenti o  autonomi)  non  debbano
essere  assoggettati  a  riduzioni  stipendiali,  con  corrispondente
introito a vantaggio dell'Erario, e cio' tenuto anche  conto  che  le
retribuzioni   del   settore   privato,   specialmente   ai   livelli
dirigenziali  e  manageriali  delle  imprese,  per  non  parlare  dei
professionisti piu' facoltosi (ad esempio i notai e i  farmacisti  ma
anche i piu' affermati tra gli avvocati, i  medici  specialisti,  gli
ingegneri, gli architetti), sono enormemente piu' elevate  di  quelle
del settore pubblico, apparendo  quindi  in  grado  di  garantire  un
maggiore gettito alle finanze pubbliche; gettito che - in  definitiva
- ricade tra gli obiettivi di stabilizzazione  finanziaria  avuti  di
mira dalla norma censurata (realizzare proventi e  risparmiare  spesa
pubblica, infatti, si equivalgono in termini  di  risultanze  finali,
ossia guardando alla capienza delle casse pubbliche). 
    Le disposizioni in parola, poi, violano  le  predette  coordinate
costituzionali anche perche' trattano in maniera  ingiustificatamente
diversa categorie di pubblici dipendenti pur a fronte di una identica
situazione reddituale. 
    Come si e' osservato sopra, infatti, il d.l. 31  marzo  2010,  n.
78, come convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010,  n.
122, prevede al comma 1 dell'art. 9 per tutti i  pubblici  dipendenti
il blocco dell'aumento degli stipendi (Per gli anni 2011, 2012 e 2013
il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti, anche di
qualifica  dirigenziale,  ivi  compreso  il  trattamento  accessorio,
previsto dai rispettivi ordinamenti delle  amministrazioni  pubbliche
inserite   nel   conto   economico   consolidato    della    pubblica
amministrazione,  come   individuate   dall'Istituto   nazionale   di
statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1  della  legge
31 dicembre 2009, n.  196,  non  puo'  superare,  in  ogni  caso,  il
trattamento ordinariamente spettante per l'anno 2010, al netto  degli
effetti derivanti da eventi straordinari della dinamica  retributiva,
ivi  incluse  le  variazioni  dipendenti  da   eventuali   arretrati,
conseguimento di funzioni diverse in corso d'anno, fermo in ogni caso
quanto previsto  dal  comma  21,  terzo  e  quarto  periodo,  per  le
progressioni di carriera comunque denominate,  maternita',  malattia,
missioni  svolte  all'estero,  effettiva  presenza  in  servizio,   e
dall'articolo 8, comma 14, fatto salvo quanto previsto dal comma  17,
secondo periodo). 
    Alla  stregua  della  citata  previsione,  dunque,  nel  triennio
2011-2013 i trattamenti  retributivi  dei  pubblici  dipendenti,  ivi
compreso quello dei dirigenti, sino alla soglia di 90.000 euro  lordi
annui non possono aumentare, ma nemmeno possono decrescere. 
    Per contro, in forza del combinato  disposto  delle  disposizioni
censurate di cui al comma 22  dell'art.  9  (blocco  dell'adeguamento
automatico e  taglio  dell'indennita'  giudiziaria),  il  trattamento
economico dei magistrati che non maturino scatti  o  progressioni  di
carriera negli anni in parola (ed in ogni caso  per  tutto  il  tempo
precedente tali momenti) e' sicuramente soggetto a riduzione. 
    Il risultato aberrante e' che l'unica categoria  -  tra  tutti  i
contribuenti dello Stato che percepiscono fino a  90.000  euro  annui
lordi per lavoro dipendente  -  che  a  causa  della  generale  crisi
economica vede ridursi il proprio trattamento economico e' quella dei
magistrati, ossia l'unica categoria la  cui  tutela  del  trattamento
stipendiale risponde a principi di natura  costituzionale  specifici,
ulteriori (l'autonomia e l'indipendenza  della  Magistratura  di  cui
agli artt. 101 comma 2 e 104 comma 1) e  piu'  pregnanti  rispetto  a
quelli generali di cui all'art. 36 della Carta fondamentale. 
    La disparita' sussiste anche  con  riferimento  a  quei  pubblici
dipendenti (quali ad esempio i dirigenti) che  percepiscono  piu'  di
90.000 o 150.000 euro annui lordi e che sono, al pari dei magistrati,
tenuti a versare il contributo di solidarieta'  di  cui  al  comma  2
dell'art. 9. 
    I  magistrati,  infatti,  a  differenza  degli   altri   pubblici
dipendenti e pur in presenza della medesima situazione  reddituale  e
contributiva, vedono sommarsi al contributo  di  solidarieta'  ed  al
blocco dell'adeguamento  retributivo  anche  i  tagli  all'indennita'
giudiziaria di cui al comma 22 dell'art. 9, con  la  conseguenza  che
per essi la riduzione dello stipendio e' sensibilmente maggiore. 
    Le misure oggetto  di  disposizioni  del  comma  22  dell'art.  9
censurate  dai  ricorrenti  (relative  al  blocco  degli  adeguamenti
automatici per il triennio 2011-2013, all'introduzione di tetti  agli
stessi per il biennio 2014/2015 ed al taglio dell'indennita'  di  cui
all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981,  n.  27)  si  presentano
poi, sotto svariati profili, in contrasto con il basilare  canone  di
ragionevolezza legislativa di cui all'art. 3 della Costituzione. 
    L'avere ristretto la contribuzione diretta al  risanamento  delle
casse  dello  Stato  agendo  sulle  retribuzione  dei  soli  pubblici
dipendenti, ed in particolare dei  magistrati,  oltre  ad  essere  in
contrasto  con  gli  artt.  2  e   3   della   Costituzione,   appare
intrinsecamente irragionevole. 
    Le esigenze «prioritarie di  raggiungimento  degli  obiettivi  di
finanza pubblica concordati in sede europea», in  quanto  proprie  di
tutto lo Stato comunita', avrebbero logicamente  richiesto  una  equa
contribuzione di tutti i cittadini percettori di  reddito,  o  quanto
meno di tutti i cittadini percettori di reddito da  lavoro  (a  voler
ritenere legittima una simile scelta di campo  del  legislatore),  il
che per  altro  avrebbe  consentito  di  raggiungere  anche  maggiori
introiti  con  un  accettabile  e  minimo  sacrificio  per  tutti   i
contribuenti. 
    E' ovvio, infatti, che allargando la platea  dei  contribuenti  a
tutti i soggetti  percettori  di  reddito  o  di  reddito  da  lavoro
(milioni  di  persone),  il  notevole  peso  specifico  delle  misure
gravanti sui magistrati (poche migliaia)  e  di  quelle  gravanti  su
tutti i pubblici impiegati avrebbe potuto essere ripartito in maniera
completamente equa, solidale e quasi «indolore». 
    Non puo' che ritenersi profondamente  irrazionale  una  normativa
che, per fare fronte ad una crisi che grava su tutta la  popolazione,
impone un sacrificio rilevantissimo (fino al  taglio  del  15%  della
retribuzione netta) solo ad una categoria cosi' ridotta di  cittadini
(poche  migliaia)  e  lascia  totalmente  indenni  i  redditi  e   le
retribuzioni tutti gli altri contribuenti,  anche  di  quelli  aventi
medesima capacita' contributiva. 
    E' del pari profondamente irrazionale perche' le medesime entrate
avrebbero potuto essere reperite ripartendo il peso  dell'imposizione
su  tutta  la  platea  dei  contribuenti  mediante,  a  mero   titolo
esemplificativo,  un  innalzamento   davvero   minimo   dell'aliquota
I.r.p.e.f. o di altre misure simili che si  presentano  piu'  logiche
perche' ripartiscono in maniera equa su tutti i contribuenti il  peso
della crisi economica; senza considerare che  in  un  paese  come  il
nostro, notoriamente ad elevatissima evasione  fiscale,  al  fine  di
«fare cassa» tra le possibili opzioni del  legislatore  vi  e'  anche
quella di  affinare  gli  strumenti  di  recupero  dei  redditi,  dei
proventi e  dei  patrimoni  illecitamente  sottratti  all'imposizione
fiscale. 
    E' ancora piu' irrazionale, laddove si consideri che il  predetto
consistente taglio viene  operato  sull'unica  sparuta  categoria  di
contribuenti, la cui tutela del trattamento  stipendiale  risponde  a
principi di natura costituzionale specifici, ulteriori (l'autonomia e
l'indipendenza della Magistratura di cui agli artt. 101 comma 2 e 104
comma 1) e piu' pregnanti rispetto a quelli generali di cui  all'art.
36 della Carta fondamentale. 
    Le disposizioni in  esame,  poi,  appaiono  violare  il  basilare
canone della ragionevolezza  legislativa  di  cui  all'art.  3  della
Costituzione sotto altro e concorrente profilo. 
    La predeterminazione per legge della misura dello  stipendio  dei
magistrati  ed  il  relativo  meccanismo  di  adeguamento  automatico
rispondono all'esigenza di sottrarre la magistratura, in  una  ottica
di preservazione dei delicati equilibrio tra poteri dello Stato, alla
contrattazione collettiva. 
    In altri termini, «premesso che la determinazione degli  stipendi
spettanti ai magistrati e' sottratta alla contrattazione sindacale ed
e' rimessa ad un sistema automatico regolato direttamente dalla legge
al fine di assicurare  la  completa  autonomia  ed  indipendenza  dei
giudici dal potere esecutivo, gli artt. 11 e 12, legge 2 aprile 1979,
n. 97, nel testo innovato dall'art. 2 legge 19 febbraio 1981  n.  27,
prevedono che gli stipendi dei magistrati sono  adeguati  di  diritto
ogni  triennio  nella  misura  percentuale  pari  alla  media   degli
incrementi delle voci retributive, esclusa  l'indennita'  integrativa
speciale, ottenuti dagli altri dipendenti pubblici» (C.d.S., Sez. IV,
7 luglio 2000 n. 3834). 
    La predeterminazione per legge ed il  meccanismo  di  adeguamento
automatico  degli  stipendi,  dunque,  hanno  finalita'  di  garanzia
dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura e rappresentano
uno strumento volto a preservare  quest'ultima  dalle  insidie  della
contrattazione collettiva. 
    Il legislatore del 2010 ha invece «approfittato» dello  strumento
legislativo per ridurre il trattamento economico dei magistrati senza
il  loro  consenso,  consenso  che  paradossalmente   sarebbe   stato
necessario in sede di contrattazione collettiva. 
    Cosi' facendo lo strumento voluto dal legislatore per offrire una
guarentigia a monte  ai  valori  costituzionali  dell'indipendenza  e
dell'autonomia  della  Magistratura,  ed  a  valle   al   trattamento
economico dei magistrati  e'  stato  irrazionalmente  utilizzato  per
ledere propri tali principi ed incidere sul detto trattamento. 
    Vi e'  ancora  un  altro  profilo  di  violazione  del  principio
costituzionale di ragionevolezza intrinseca delle leggi, secondo  una
logica  per  cosi'  dire  «interna»  alla  categoria  colpita   dalle
disposizioni in esame. Come si e' avuto modo di  appurare,  le  norme
oggetto di dubbio di costituzionalita', nella misura in cui  incidono
in misura uguale su tutti i magistrati, impongono un  peso  economico
in termini  proporzionali  di  gran  lunga  superiore  a  coloro  che
percepiscono uno stipendio minore perche' agli inizi della  carriera,
con buona  pace  (prima  che  del  principio  di  progressivita'  dei
tributi) di qualsivoglia logica, ragionevolezza ed equita'. 
    Per i magistrati percettori di reddito superiore, invece, il peso
proporzionale dell'imposizione fiscale si riduce  (anziche'  crescere
come dovrebbe in forza dell'art. 53 della Costituzione e di  basilari
considerazioni  di  logica  ed  equita'),  poiche'  l'aumento   dello
stipendio compensa il  taglio  fisso  dell'indennita'  giudiziaria  e
anche l'effetto delle due aliquote  del  5%  e  del  10%  di  cui  al
contributo di solidarieta'. 
    Va  ulteriormente  considerato  che  l'imposizione   fiscale   si
atteggia in maniera ancora sensibilmente  diversa  all'interno  della
categoria, a seconda che i  magistrati  interessati  nell'ambito  del
triennio maturino o meno scatti  o  progressioni  di  carriera  ed  a
seconda di quando li  maturano,  poiche'  in  virtu'  del  metodo  di
imposizione scelto (taglio fisso dell'indennita' giudiziaria,  blocco
dell'adeguamento ed aliquote fisse del 5% e del 10%), l'ammontare del
prelievo  finisce  con  assumere  caratteri  di  imprevedibilita'  ed
illogicita'. 
    La   disposizione   che   riduce   la   misura    dell'indennita'
«giudiziaria» nel triennio  2011-2013,  poi,  appare  intrinsecamente
irragionevole anche sotto altro profilo, in violazione degli artt.  3
e 36 della Costituzione. 
    La predetta indennita' costituisce parte essenziale,  costante  e
«normale» del trattamento economico complessivo del  magistrato  (sul
punto Corte cost., ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n.
137; nonche', ex multis, Cons. Stato, Sez.  IV,  7  aprile  1993,  n.
401),  ancorche'  introdottavi  a  titolo   «speciale»   (in   quanto
preordinata, come espressamente affermato dall'art. 3 della legge  n.
27/1981, a compensare  i  magistrati  degli  «oneri  che  gli  stessi
incontrano nello svolgimento della loro attivita'»). 
    Il comma 22 dell'art. 9 non  sopprime  ne'  sospende  per  intero
l'indennita' in questione (ma anzi ne prevede l'integrale  ripristino
dopo il 2013), con cio' riconoscendone e confermandone la funzione di
ristoro degli oneri connessi con l'espletamento del servizio. 
    Decurtandola temporaneamente il  legislatore  la  rende  tuttavia
inequivocabilmente  inidonea  allo  scopo  per  il  quale  era  stata
istituita se e' vero, come e' vero, che essa e' attribuita in  misura
uguale  a  tutti  i  magistrati,  a  prescindere  dalla  qualifica  e
dall'anzianita', in  stretta  correlazione  con  (e  per  consentire)
l'effettivo svolgimento dei compiti istituzionali del magistrato. 
    Orbene, e' di tutta evidenza come la decurtazione dell'indennita'
speciale impedisca il raggiungimento dello scopo  che  la  legge  (n.
27/1981) aveva imposto di assolvere all'indennita' stessa (compensare
i magistrati degli oneri che essi incontrano nello svolgimento  della
loro attivita') ed appaia, per cio' stesso, violare il  principio  di
ragionevolezza sancito dall'art. 3 della Costituzione,  giacche'  non
risulta che gli oneri  che  i  magistrati  incontrano  od  corso  del
triennio in questione siano corrispondentemente ridotti. 
    Da altro punto di vista  l'art.  3  della  legge  n.  27/1981  ha
previsto  che  l'indennita'  speciale  sia  identica  per   tutti   i
magistrati, in quanto destinata a ristorarli degli oneri - identici -
che essi incontrano nello svolgimento della loro attivita'. 
    Con il  taglio  dell'indennita'  speciale  tocchera'  ai  singoli
magistrati far fronte, per la parte ora non coperta  dall'indennita',
agli oneri connessi con l'attivita' istituzionale, con la conseguenza
che i magistrati piu' giovani che  godono  di  un  minor  trattamento
economico complessivo avranno maggiori difficolta' a  fronteggiare  i
relativi costi: il che sembra violare ulteriormente  l'art.  3  della
Costituzione, questa  volta  sotto  il  profilo  dell'aver  riservato
uguale trattamento a  situazioni  tra  loro  oggettivamente  diverse,
atteso che la decurtazione (di un'indennita' preordinata a coprire  i
medesimi, identici oneri) pesa diversamente  in  misura  inversamente
proporzionale all'anzianita' del magistrato. 
    Tale decurtazione - atteso che l'indennita' speciale  ex  art.  3
della legge n.  27/1981  e'  stata  istituita  per  «equilibrare»  il
trattamento economico complessivo del magistrato,  che,  come  si  e'
detto, sopporta oneri atipici (diversamente  dagli  altri  funzionari
dello Stato) - sembra poi violare anche  l'art.  36  Cost.  sotto  il
profilo  della  lesione  della  «proporzione»  tra  retribuzione   ed
attivita' svolta giacche' il  comma  22  dell'art.  9,  del  d.l.  n.
78/2010, riducendo la predetta indennita' speciale e, dunque, ponendo
ora parzialmente  a  carico  dei  magistrati  il  costo  degli  oneri
organizzativi   dell'attivita'   giudiziaria   che   prima   facevano
interamente  carico  allo   Stato,   altera   inequivocabilmente   la
proporzione, anteriormente esistente, tra retribuzione complessiva  e
lavoro espletato; e la altera maggiormente, con  effetto  palesemente
discriminatorio (stante che l'indennita' speciale e' eguale per tutti
perche' compensa gli stessi oneri), nei confronti dei magistrati piu'
giovani che godono di un trattamento retributivo complessivo  minore,
rispetto ai quali, dunque, la violazione dell'art. 36 e' amplificata. 
    La predetta misura, dunque,  incide  sulla  proporzionalita'  tra
prestazione e retribuzione, poiche' (in nome peraltro di esigenze  di
cassa  quantitativamente  irrisorie   nell'ottica   complessiva   del
bilancio dello Stato) incide  solo  sull'aspetto  quantitativo  della
retribuzione,  ma  lascia  immutata  la  richiesta  di  qualita'  del
servizio e dello svolgimento  della  funzione,  facendo  gravare  sul
magistrato  i  relativi  oneri  economici  ed  organizzativi,   cosi'
intaccando anche la dignita' della persona-lavoratore  nell'esercizio
di una delle funzioni piu' delicate dello Stato. 
    In questo  solco  si  colloca  il  constante  insegnamento  della
suprema Corte di cassazione, secondo cui, in forza dell'art. 36 della
Costituzione, «in caso di emolumento compensativo  di  particolari  e
gravose modalita' di svolgimento della  prestazione,  trova  comunque
applicazione il principio di irriducibilita' della retribuzione,  con
la conseguenza che detto emolumento puo' venir  meno  solo  a  fronte
della cessazione di quelle particolari modalita'  di  lavoro»  (Cass.
Civ., Sez. Lav., 23 luglio 2009, n. 20310; Cass. Civ., Sez. Lav.,  1°
marzo 2007, n. 4281). 
    E' facile osservare come l'indennita' giudiziaria costituisca per
i magistrati un «emolumento compensativo  di  particolari  e  gravose
modalita' di svolgimento della  prestazione»,  in  quanto  rivolto  a
compensare «i particolari oneri che questi  ultimi  incontrano  nello
svolgimento concreto  della  loro  attivita'  e  dell'impegno,  senza
prestabiliti limiti temporali, ad essi ordinariamente  richiesto  per
lo svolgimento della propria funzione» (C.d.S.,  Sez.  IV,  6  maggio
2010 n. 2646), sicche' la  riduzione  dell'indennita'  giudiziaria  a
fronte di oneri immutati integra anche sotto tale profilo  violazione
dell'art. 36 della Costituzione. 
    Le  disposizione  censurate,  poi,  sembrano  violare  sotto   un
ulteriore profilo gli artt. 3 e 36 della Costituzione. 
    Esse, infatti,  incidono,  in  senso  ablativo,  sul  trattamento
economico gia' acquisito  alla  sfera  del  pubblico  dipendente  sub
specie di diritto  soggettivo;  incidono,  in  altri  termini,  sullo
status economico dei magistrati, alterando quel sinallagma che e'  il
proprium dei  rapporti  di  durata  ed  in  particolare  proprio  dei
rapporti di lavoro; basti  considerare  che  sulla  stabilita'  anche
economica  si  fondano  le  aspettative,  le  progettualita'  e   gli
investimenti - di lungo periodo, se non addirittura  di  vita  -  del
dipendente. 
    E' vero che la Corte costituzionale ha piu' volte  affermato  che
«non e' interdetto al legislatore di emanare  disposizioni  le  quali
vengano a modificare  in  senso  sfavorevole  per  i  beneficiari  la
disciplina dei rapporti, anche se l'oggetto di questi sia  costituito
da diritti soggettivi  perfetti»,  a  condizione,  pero',  che  «tali
disposizioni  non   trasmodino   in   un   regolamento   irrazionale,
frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi
precedenti, l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da
intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto» (Corte
costituzionale 27 gennaio 2001 n. 31; 7 luglio 2005 n. 264; 28 luglio
2000 n. 393; 20 luglio 1999 n. 330; 26 luglio 1995 n. 390). 
    Principi questi ribaditi dalla  Consulta  anche  con  riferimento
all'intervento  del  legislatore  sui  trattamenti  retributivi   dei
pubblici  impiegati:  «Il  divieto  di  "reformatio  in  peius"   del
trattamento economico dei pubblici dipendenti rappresenta un criterio
ermeneutico   inidoneo,   in   assenza   di    specifica    copertura
costituzionale, a vincolare il  legislatore,  il  quale  pertanto  e'
abilitato  a  modificare,  senza  lesioni  all'art.  36   Cost.,   la
disciplina dei rapporti di durata e  perfino  situazioni  di  diritto
soggettivo perfetto, ivi inclusa la variazione dell'entita'  e  della
distribuzione in voci  differenziate  del  trattamento  economico  di
categorie prima egualmente retribuite,  purche'  tali  modifiche  non
trasmodino in regole irrazionali o arbitrarie» (Corte cost. 20 luglio
1999 n. 330). 
    Numerosi  e   rilevanti   sono   i   profili   arbitrarieta'   ed
irrazionalita' che connotano le norme oggetto di censura, come si  e'
dato  conto  sopra.  Conclusivamente   deve   riconoscersi   che   il
legislatore ha inciso sui diritti soggettivi perfetti dei  magistrati
e  sulla  loro  aspettativa  legittima   alla   conservazione   della
retribuzione per tutto il tempo di durata del rapporto in maniera del
tutto irrazionale ed arbitraria, sicche' deve ritenersi che le  norme
di cui al comma 22 dell'art. 9 del d.l.  n.  78/2010  violino,  anche
sotto tale ultimo profilo, i precetti di cui agli artt. 3 e 36  della
Costituzione. 
    Alla luce di tutto quanto sopra ritenuto e  considerato,  debbono
pertanto   sollevarsi   le   relative   questioni   di   legittimita'
costituzionale, con la conseguente  sospensione  del  giudizio  e  la
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale dell'art. 9,  comma
22 del  d.l.  n.  78/2010  cit.,  quale  risultante  dalle  modifiche
introdotte con la legge di conversione, nella parte in cui dispone: 
        a) che «non sono erogati, senza possibilita' di recupero, gli
acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il  conguaglio  del  triennio
2010-2012»; 
        b) che «per il triennio  2013-2015  l'acconto  spettante  per
l'anno 2014 e' pari alla misura gia' prevista per l'anno  2010  e  il
conguaglio per l'anno 2015 viene  determinato  con  riferimento  agli
anni 2009, 2010 e 2014»; 
        c) che «l'indennita' speciale di cui all'  articolo  3  della
legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante  negli  anni  2011,  2012  e
2013, e' ridotta del 15 per cento per l'anno 2011, del 25  per  cento
per l'anno 2012 e del 32 per cento per l'anno  2013»,  con  riduzione
non operante ai fini previdenziali. 
  
                               P.Q.M. 
  
    Visti gli articoli 1 della legge costituzionale 9 febbraio  1948,
n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Ritenuta rilevante ai fini della decisione e  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  9,
comma 22 del d.l. n. 78/2010 cit., quale risultante  dalle  modifiche
introdotte con la legge di conversione, nella parte in cui dispone: 
        a) che «non sono erogati, senza possibilita' di recupero, gli
acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il  conguaglio  del  triennio
2010-2012»; 
        b) che «per il triennio  2013-2015  l'acconto  spettante  per
l'anno 2014 e' pari alla misura gia' prevista per l'anno  2010  e  il
conguaglio per l'anno 2015 viene  determinato  con  riferimento  agli
anni 2009, 2010 e 2014»; 
        c) che «l'indennita' speciale di cui all'  articolo  3  della
legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante  negli  anni  2011,  2012  e
2013, e' ridotta del 15 per cento per l'anno 2011, del 25  per  cento
per l'anno 2012 e del 32 per cento per l'anno  2013»,  con  riduzione
non operante ai  fini  previdenziali,  secondo  quanto  precisato  in
motivazione; 
    Dispone  l'immediata  trasmissione  degli  atti,  a  cura   della
Segreteria del T.A.R, alla Corte costituzionale; 
    Ordina che la presente ordinanza  sia  notificata  a  cura  della
Segreteria del T.AR, a tutte le parti in causa ed al  Presidente  del
Consiglio dei ministri e che sia comunicata al Presidente del  Senato
della Repubblica ed al Presidente della Camera dei deputati. Dichiara
la sospensione del giudizio in epigrafe, ai sensi e per  gli  effetti
dell'art. 295 c.p.c. e dell'art. 79 c.p.a. 
    La presente ordinanza e'  depositata  presso  la  segreteria  del
Tribunale che provvedera' a darne comunicazione alle parti. 
    Cosi' deciso in Genova nella camera di consiglio  del  giorno  1°
dicembre 2011. 
  
                 Il Presidente estensore: Pupilella