N. 137 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 dicembre 2011
Ordinanza del 12 dicembre 2011 emessa dal Giudice dell'esecuzione del Tribunale di Napoli - Sez. distaccata di Pozzuoli - nel procedimento di esecuzione proposto da Buonanno Roberto contro ASL NA 2 Nord e Banco di Napoli spa. Bilancio e contabilita' pubblica - Regioni sottoposte a piani di rientro del disavanzo sanitario e commissariate alla data di entrata in vigore della legge censurata - Previsione del divieto di intraprendere e proseguire azioni esecutive nei confronti di aziende sanitarie locali ed ospedaliere delle regioni stesse, fino al 31 dicembre 2012 - Previsione che i pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni stesse alle aziende sanitarie locali ed ospedaliere effettuati prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 78/2010, convertito in legge n. 122/2010, non producono effetti dalla data suddetta fino al 31 dicembre 2012 e non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale ed i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalita' istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo - Ingiustificato trattamento di privilegio degli enti regionali rispetto ai comuni debitori - Incidenza sul diritto di azione e di difesa in giudizio - Lesione del principio di liberta' di iniziativa economica privata - Violazione del principio di ragionevole durata del processo - Violazione di obblighi internazionali derivanti dalla CEDU. - Legge 13 dicembre 2010, n. 220, art. 1, comma 51, come modificato dall'art. 17, comma 4, lett e), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111. - Costituzione, artt. 2, 3, 24, primo comma, 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.28 del 11-7-2012 )
IL TRIBUNALE Ha pronunziato la seguente ordinanza: F a t t o In forza di titolo esecutivo del 6/20 settembre 2007 e previa notifica dell'atto di precetto, con pignoramento eseguito il 10/15 luglio 2008, l'avv. Roberto Buonanno procedeva ad espropriare le somme in possesso del terzo, s.p.a. Banco di Napoli, quale Tesoriere dell'ASL NA 2 Nord, debitrice esecutata. Il terzo rendeva una dichiarazione di quantita' positiva. Nelle more, entrava in vigore l'art. 2, comma 89, della legge n. 191/2009, con il quale veniva introdotto il divieto di intraprendere e di proseguire le azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni gia' sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari «per un periodo di dodici mesi dalla data di entrata in vigore della ... legge», termine che, dall'art. 1, comma 23-vicies del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 194, veniva ridotto a mesi due. Successivamente, con l'art. 11 del d.l. n. 78/2010 (convertito in legge n. 122 del 2010) il divieto di intraprendere e di proseguire le azioni esecutive veniva reintrodotto con efficacia temporale sino al 31 dicembre 2010. Detta norma, per quanto qui interessa, veniva sostanzialmente riprodotta dall'art. 1, comma 51, della legge 13 dicembre 2010, n. 220, con il quale la preclusione alle azioni esecutive veniva fissata fino al 31 dicembre 2011, termine attualmente prorogato sino al 31 dicembre 2012 in forza dell'art. 17 del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111. Il creditore procedente eccepiva: il contrasto della norma con gli artt. 2, 24 e 111 Cost., anche secondo il diritto vivente, alla luce di Cass. S.U. n. 23726 del 2007; il contrasto della stessa norma con l'art. 6, par. 1, della CEDU alla luce dei parametri di cui agli artt. 24 e 117, primo comma, Cost.; l'ulteriore contrasto della norma con gli artt. 3, 24, 97, 111, 113 e 117, secondo comma, Cost., sotto piu' profili; il contrasto della norma con la direttiva europea n. 35 - 00/35/CE del 29 giugno 2000 (in G. UE 8 agosto 2000, n. 200), recepita con d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231. All'udienza del 9 dicembre 2011, questo giudice si riservava di provvedere. D i r i t t o L'art. 1, comma 51, della legge 13 dicembre 2010, n. 220, recita: «Al fine di assicurare il regolare svolgimento dei pagamenti dei debiti oggetto della ricognizione di cui all'art. 11, comma 2, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, per le regioni gia' sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, sottoscritti ai sensi dell'art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni, e gia' commissariate alla data di entrata in vigore della presente legge, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere delle regioni medesime fino al 31 dicembre 2011. I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni di cui al presente comma alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, effettuati prima della data di entrata in vigore del decreto legge n. 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122/2010, non producono effetti dalla suddetta data sino al 31 dicembre 2011 e non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalita' istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo». Il comma quarto dell'art. 17 del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, ha, poi, previsto: «(...) Al fine di assicurare, per gli anni 2011 e 2012, l'effettivo rispetto dei piani di rientro dai disavanzi sanitari, nonche' dell'intesa Stato-Regioni del 3 dicembre 2009, sono introdotte le seguenti disposizioni: (...) e) al comma 51 dell'articolo 1 della legge 13 dicembre 2010, n. 220, sono apportate le seguenti modificazioni: 1) dopo le parole: «dalla legge 30 luglio 2010, n. 122,» sono inserite le seguenti: «nonche' al fine di consentire l'espletamento delle funzioni istituzionali in situazioni di ripristinato equilibrio finanziario»; 2) nel primo e secondo periodo, le parole: «fino al 31 dicembre 2011» sono sostituite dalle seguenti: «fino al 31 dicembre 2012» (...). La questione di costituzionalita' dell'art. 1, comma 51, legge n. 220/2010, cosi' come modificato ed integrato dall'art. 17, d.l. n. 98/2011 convertito nella legge n. 111/2011, e' senza dubbio rilevante ai fini del presente giudizio in quanto dalla pronunzia della Corte costituzionale dipende l'alternativa tra la declaratoria di improcedibilita' dell'azione esecutiva e l'accoglimento dell'istanza di assegnazione delle somme (ex art. 553 c.p.c.) avanzata dal creditore pignorante - prima dell'entrata in vigore dei divieti introdotti dall'art. 2, comma 89, legge n. 191/2009, come modificato dall'art. 1, comma 23-vicies, del d.l. n. 194/2009, dall'art. 11 del d.l. n. 78/2010 convertito in legge n. 122/2010 nonche' dall'art. 1, comma 51, della legge n. 220/2010, cosi' come successivamente modificato ed integrato dall'art. 17 del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge n. 111/2011 - sulla base di un titolo esecutivo di condanna munito dell'autorita' di giudicato e alla luce della dichiarazione di quantita' positiva resa dal terzo pignorato. In altri termini, mentre l'accoglimento delle questioni di costituzionalita' comporterebbe l'assegnazione delle somme pignorate al creditore procedente e, per l'effetto, la soddisfazione del diritto dallo stesso fatto valere in executivis, ricorrendone tutti i presupposti, viceversa l'applicazione tout court della norma alla fattispecie in esame non potrebbe che condurre ad una pronuncia di improseguibilita' dell'azione esecutiva. Il richiesto vaglio di costituzionalita' da parte della Corte della norma censurata appare imprescindibile a questo remittente, non essendo possibile un'interpretazione costituzionalmente orientata della stessa ovvero un'interpretazione alternativa conforme ai parametri costituzionali. Al riguardo, non ignora questo giudice la soluzione prospettata da altra autorita' giurisdizionale (cfr. sentenza 11 luglio 2011 emessa dal Tribunale di Napoli Sezione Distaccata di Pozzuoli) secondo cui per la operativita' della sospensione dell'azione esecutiva e, quindi, per l'applicabilita' dell'art. 1, comma 51, legge n. 220/2010 e' necessaria la conclusione della procedura di ricognizione dei debiti relativi ai piani di rientro sanitari con contestuale predisposizione di un piano di individuazione delle modalita' e tempi pagamento. Tuttavia, tale conclusione non e' condivisa da questo giudice, che ritiene, invece, l'applicabilita' della ora richiamata norma alla vicenda in esame nonostante la mancata «ricognizione» dei debiti prevista dal d.l. n. 78/2010 e la mancata adozione del piano di riparto. L'art. 11 comma 2 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, richiamato dall'art. 1 comma 51, legge n. 220/2010, infatti, afferma che la ricognizione dei debiti doveva avvenire entro 15 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto-legge ma aggiunge anche: «Al fine di agevolare quanto previsto dal presente comma (...), fino al 31 dicembre 2010 non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime». Il legislatore, pertanto, da un lato, ha voluto compulsare le ASL a provvedere con celerita', ma dall'altro ha comunque temporaneamente bloccato le esecuzioni proprio per «agevolare» detta ricognizione. Secondo il remittente, quindi, la norma in questione non va interpretata come condizione o presupposto per l'operativita' della sospensione ma come semplice norma ordinatoria (foriera di eventuali conseguenze interne della P.A. in caso di sua inosservanza) e che il termine finale ultimo entro cui puo' intervenire tale ricognizione (ed i successivi piani di rientri) va fatto coincidere con il termine ultimo di operativita' della sospensione stessa. Cio' posto, rispetto alle censure sollevate dal ricorrente, ritiene questo giudice che la questione non sia manifestamente infondata con riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 111, 117, primo comma, c.p.c. per le ragioni di seguito esplicitate. 1. - In primo luogo, la scelta del legislatore di vietare le azioni esecutive non puo' non compromettere il diritto sostanziale e come tale si pone in contrasto con gli artt. 2 e 111 Cost. secondo il diritto vivente, alla luce della sentenza della Cass. S.U. n. 23726 del 2007. Con tale sentenza, rivestita dell'autorevolezza del «precedente» (e' sufficiente richiamare, al riguardo, gli artt. 360-bis c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., Cass. n. 3030 del 2011, Cass. n. 19051 del 2010), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, benche' nella diversa prospettiva di disciplinare l'azione cognitiva del creditore, hanno avuto modo di affermare e riconoscere le piu' moderne caratteristiche della nozione di «giusto processo» alla luce degli artt. 2 e 111 Cost. Ed in effetti, nel rimeditare intorno ad una ordinaria questione di procedura (attinente alla parcellizzazione di un credito unitario), il Supremo Collegio ha ritenuto di dovere innovare del tutto il suo precedente orientamento (espresso da Cass. 108/2000), alla luce del «quadro normativo nel frattempo evolutosi» ed in considerazione «sia di una sempre piu' accentuata e pervasiva valorizzazione della regola di correttezza e buona fede - siccome specificativa (nel contesto del rapporto obbligatorio) degli "inderogabili doveri di solidarieta'", il cui adempimento e' richiesto dall'art. 2 Cost. - sia in relazione al canone del "giusto processo", di cui al novellato art. 111 Cost. in relazione al quale si impone una lettura "adeguata" della normativa di riferimento, nel senso del suo allineamento al duplice obiettivo della "ragionevolezza della durata" del procedimento e della "giustezza" del "processo", inteso come risultato finale (della risposta cioe' alla domanda della parte), che "giusto" non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per l'esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreche' la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi». A tal riguardo, ha soggiunto: «Per il primo profilo, viene in rilievo l'ormai acquisita consapevolezza della intervenuta costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarieta' di cui all'art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce all'un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti, inglobanti anche obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando cosi' il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse del partner negoziale (cfr., sull'emersione di questa linea di indirizzo, Cass. 3775/94, id., 1995, I, 1296; 10511/99, id., 2000, I, 1929; sez. un. 18128/05, id., 2005, I, 2985). Se, infatti, si e' pervenuti, in questa prospettiva, ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi (cfr., in particolare, Cass. 3775/94 e 10511/99, cit.), a maggior ragione deve ora riconoscersi che un siffatto originario equilibrio del rapporto obbligatorio, in coerenza a quel principio, debba essere mantenuto fermo in ogni successiva fase, anche giudiziale, dello stesso (cfr. Cass. 13345/06, id., Rep. 2006, voce Contratto in genere, n. 492) e non possa quindi essere alterato, ad iniziativa del creditore, in danno del debitore ... Oltre a violare, per quanto sin qui detto, il generale dovere di correttezza e buona fede, la disarticolazione, da parte del creditore, dell'unita' sostanziale del rapporto (sia pur nella fase patologica della coazione all'adempimento), in quanto attuata nel processo e tramite il processo, si risolve automaticamente anche in abuso dello stesso» da cui l'inammissibilita' delle domande di pagamento. Tali affermazioni di grande portata sul piano teorico-ricostruttivo, ad avviso della scrivente, si attagliano perfettamente, benche' esaminate da una visuale opposta, anche al caso del comma 51 dell'art. 1 in questione come modificato ed integrato dall'art. 17 del d.l. n. 98/2011 (oltre che del precedente art. 11, legge n. 122/2010). Ed invero, se abuso del processo equivale in sostanza ad abuso del diritto (e, dunque, se e' vero che non vi puo' essere un «processo giusto» se vi e' abuso del diritto), e' indubbiamente destinato ad aver rilievo, specularmente, anche il principio secondo cui allorquando viene soppresso il processo non puo' non ritenersi che sia stato soppresso anzitutto il diritto. E' vero che formalmente il divieto di intraprendere e sospendere azioni esecutive in danno delle aziende sanitarie locali e ospedaliere e' solo una sospensione dell'azione esecutiva fino al 31 dicembre 2011 (ora 31 dicembre 2012) ma in realta' esso si traduce in una soppressione del diritto, considerati la rilevante durata dello stesso e la dipendenza economica dei creditori dal rapporto contrattuale con le aziende sanitarie locali. Orbene, alla luce degli artt. 2 e 111 Cost., i principi affermati dai giudici di legittimita' pongono un argine invalicabile ad ogni ingiustificata eccezione alla generale ammissibilita' della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche sostanziali (eccezione da ritenersi ovviamente piu' grave laddove attenga, come nel caso di specie, alla tutela giurisdizionale esecutiva). Mutata, pertanto, profondamente la concezione del rapporto tra diritto sostanziale e processo, la conseguenza non puo' che essere che la qualificazione della nuova situazione soggettiva del «diritto di adire i tribunali» debba necessariamente essere intravista anche come diritto attinente alla liberta' del singolo (tutelato proprio dall'art. 2 Cost.). Se cio' e' vero, neppure puo' dubitarsi che l'attrazione del citato diritto nella sfera dei diritti civili comporta per gli Stati non solo un dovere di mera non ingerenza ma, altresi', un obbligo di prestazione e di risultato che gli Stati sono impegnati a rispettare e che, ovviamente, non possono essi stessi reprimere. In definitiva, avendo preso corpo una visione della realta' che rifiuta di considerare diritto sostanziale e processo come entita' separate, non puo' che riconoscersi tradotta la regola secondo cui la negazione del diritto di agire si identifica necessariamente con la negazione del diritto sostanziale. Alla luce di tali rilievi, non vi e' dubbio, pertanto, che il comma 51 dell'art. 1 citato sia in palese contrasto con gli artt. 2 e 111 Cost. atteso che, nel sopprimere il diritto di accesso ai Tribunali: a) reprime il diritto sostanziale del creditore al soddisfacimento della sua pretesa, finendo in un certo qual modo per negarlo; b) compromette l'effettivita' della tutela giuridica che l'ordinamento statale, invece, e' tenuto ad apprestare (rappresentando, ovviamente, l'altra faccia dell'abuso del processo, proprio secondo le affermazioni di Cass. n. 23726/2007, tutte successivamente condivise). 2. - Evidente, poi, risulta il contrasto del medesimo art. 1 con l'art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, alla luce del parametro di cui all'art. 2 Cost. Le regole enunciate hanno anche un fondamento «europeo». 2/a) La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali enuncia, sotto l'art. 6, la garanzia del «giusto processo» con tutte le sue articolazioni. Veniva tradizionalmente riconosciuto che le garanzie assicurate da detta norma fossero destinate ad operare solo nel corso di un processo in atto, nel rispetto di fondamentali principi, quali la terzieta' del giudice, l'audiatur et altera pars, la pubblicita' del giudizio e la sua ragionevole durata. La prospettiva peculiare in cui, cioe', si era tradizionalmente collocato il precetto non era stata quella del «diritto al processo», bensi' quella delle «garanzie nel processo». I profondi mutamenti sociali hanno, pero', indotto a piu' di una rivisitazione, sicche' anche gli organi di giustizia sovranazionali hanno innovato. La regola e' stata cosi' interpretata, via via, in maniera sempre meno restrittiva, sino a coinvolgere il «diritto al processo» e con questo il «diritto all'azione»; quest'ultima intesa come categoria essenziale del diritto e, cioe', come elemento di raccordo tra le situazioni giuridiche sostanziali e, piu' specificamente, i diritti soggettivi. Anche gli organi di giustizia sopranazionali, infatti, non si sono piu' limitati a consolidare l'originario corredo garantistico. La loro opera ha iniziato ad arricchirsi di contenuti che hanno ridisegnato il significato e la portata della norma, consentendo che entrasse in scena il tema dell'azione, anzitutto come garanzia del cittadino del tutto sottratta al volere dei legislatori nazionali (1) . E' stato, cosi', ripetutamente ritenuto che escludere la sussistenza del diritto di accesso ai tribunali significa compromettere l'operativita' e, prima ancora, la ragion d'essere delle garanzie enunciate dall'art. 6 della Convenzione, finendo per incidere gravemente sul diritto sostanziale. Stando cosi' le cose, anche secondo l'art. 6 della Convenzione, non e' piu' sufficiente che le garanzie del giusto processo operino solo se ed in quanto gli ordinamenti nazionali prevedano una mera potenzialita' di accesso alla giurisdizione e le garanzie nel processo. Anche l'art. 6 e' stato considerato un argine invalicabile ad ogni ingiustificata eccezione alla generale ammissibilita' della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche sostanziali. 2/b) Fabbricato il «diritto di adire i tribunali» («droit d'acces aux tribunaux») come parte essenziale ed integrante delle garanzie consacrate nell'art. 6, gli interpreti sopranazionali ne hanno determinato ulteriormente la fisionomia, esplicitandone i contenuti. In quest'opera di interpretazione, ha assunto un ruolo centrale anche il «principio dell'effettivita'». Esso sta a significare che, fra le garanzie che un sistema giurisdizionale di tutela deve offrire, deve sempre esserci «l'esistenza di una certa effettivita'». Non v'e' dubbio, allora, che proprio la doverosa attenzione per il canone dell'effettivita' sia anch'essa destinata a ridimensionare ulteriormente la rilevanza del tradizionale distinguo tra «norme sostanziali» e «norme processuali», tra «tutela sostanziale» e «tutela processuale». Si ricava, dunque, che l'art. 6 e' suscettibile di violazione non soltanto laddove siano irragionevoli le modalita' tecniche di esercizio dei poteri processuali, ma soprattutto nei casi in cui la configurazione stessa delle posizioni giuridiche sostanziali sia tale da pregiudicarne la tutela. Ed e' ovvio, per stare al caso di specie, che la posizione del creditore, nei confronti di un'ASL, non puo', in ragione del soggetto debitore, essere (o restare) senza tutela. 2/c) Il canone dell'effettivita' guida oramai stabilmente l'opera dell'interprete anche su un altro fronte: quello della individuazione degli obblighi di prestazione a carico degli Stati. Ed invero, quello di garantire l'accesso ai tribunali e' (anche) un obbligo di prestazione e di risultato che gli Stati sono impegnati a rispettare (2) . In tale prospettiva, il diritto di accesso al giudice, concesso a tutela del diritto sostanziale, e' il solo strumento per la stessa affermazione di quest'ultimo che, per dirla ancor piu' efficacemente, senza il processo non esiste. Alla luce di tali rilievi, non puo' dubitarsi che il comma 51 dell'art. 1 sia in palese contrasto anche con l'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, atteso che nel precludere l'accesso ai Tribunali: a) reprime il diritto sostanziale del creditore al soddisfacimento della sua pretesa; b) compromette l'effettivita' della tutela giuridica che l'ordinamento statale, invece, e' tenuto certamente ad apprestare. Orbene, considerato che l'adesione dell'Unione Europea alla CEDU stabilita con l'art. 6 del Trattato di Lisbona ha, allo stato, valenza meramente programmatica, in ragione del mancato completamento del procedimento - complesso ed articolato - previsto dal protocollo n. 8 del medesimo Trattato: chiaro, in tal senso, il costante insegnamento della Consulta, la quale ha piu' volte - ed anche dopo la vigenza del Trattato di Lisbona - chiarito che le norme della CEDU integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali: da cio' deriva che in ipotesi di norma interna contrastante con la CEDU, e' evidente il giudice nazionale non puo' certo disapplicare la norma interna ma, ove non sia possibile una interpretazione della stessa in modo conforme alla disposizione internazionale, deve sollevare una questione di legittimita' costituzionale rispetto al parametro di cui all'art. 117, comma 1, Cost. (si leggano, in specie, le pronunce della Corte costituzionale nn. 80/2011; 1/2011; 196/2010; 187/2010; 138/2010; 93/2010; 317/2009; 348-349/2007). Ritenuto che non sia possibile, nel caso in esame, interpretare l'art. 1, comma 51, legge n. 220/2010 in modo conforme alla disposizione dell'art. 6 CEDU, non essendo cio' sia permesso dal testo della norma, va, dunque, sollevata la questione di costituzionalita' dell'art. 1, comma 51, legge n. 220/2010 rispetto all'art. 117, comma 1, Cost. 3. - Ulteriori dubbi investono poi la conformita' della disposizione in esame con l'art. 3 Cost. La Corte costituzionale, con sentenza n. 285/1995, ha affermato che le posizioni giuridiche delle unita' sanitarie locali e degli enti locali sono del tutto omogenee e che, pertanto, qualsiasi diversita' di disciplina (nel caso affrontato dalla richiamata pronunzia, era controversa la legittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge n. 67/1993) e' senza dubbio lesiva dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza. Analoga affermazione e' stata espressa dai medesimi giudici delle leggi in occasione della sentenza n. 69/1998 allorquando questi, ribadita «l'omogeneita' delle due situazioni giuridiche (delle unita' sanitarie locali e degli enti locali)», hanno affermato l'illegittimita' di ogni disciplina discriminatrice, sicche' (con riferimento all'art. 113 del d.lgs. n. 77 del 25 febbraio 1995) hanno riconosciuto l'illegittimita' del trattamento differenziato e, pertanto, l'incostituzionalita' della nonna censurata, in relazione all'art. 3 Cost. Identico giudizio e' stato espresso dalla Corte costituzionale anche in occasione della sentenza n. 211 del 18 giugno 2003. Anche in tale circostanza, infatti, la Corte ha avuto modo di «osservare che, stante la omogeneita' delle situazioni giuridiche riferibili, rispettivamente, alle unita' sanitarie locali ed agli enti locali, del tutto irragionevole risulta la disparita' di trattamento della disciplina censurata nella parte in cui dispone la impignorabilita' delle somme di danaro destinate alla realizzazione degli scopi essenziali degli enti locali senza condizionarla, in conformita' a quanto previsto per le unita' sanitarie locali, alla inesistenza di pagamenti c.d. preferenziali e cioe' effettuati da tali enti senza l'osservanza di un determinato ordine cronologico». Le medesime considerazioni si ripropongono con riferimento alla disciplina ora impugnata, che attiene solo al regime di esecutabilita' delle AA.SS.LL. «Per effetto di essa, infatti, si determina, in violazione della garanzia della par conditio creditorum, la identica, irragionevole, disparita' di trattamento fra ente locale ed azienda sanitaria, gia' dichiarata incostituzionale» (Corte cost. n. 211 del 18 giugno 2003). 4. - Di palmare evidenza risulta, poi, la violazione dell'art. 24, primo comma, Cost. nell'ipotesi - ricorrente nel caso in esame - di pignoramento eseguito in epoca anteriore all'entrata in vigore della legge n. 220/2010, cosi' come modificata ed integrata nei termini di cui sopra. La norma non solo istituisce un divieto di azione esecutiva ma in piu' prevede che, nei confronti delle aziende sanitarie locali, non possano essere «proseguite azioni esecutive» gia' intraprese. Il dato testuale normativo non lascia margini di dubbio sul fatto che le azioni esecutive pendenti, vale a dire quelle gia' intraprese prima della legge, non possano proseguire e debbano, pertanto, in ogni caso cessare. La violazione del parametro di cui all'art. 24 appare, allora, oltre modo grave (anche secondo Cass. 15811/2010 e Cass. 6514/2011, infatti, «non e' consentito cambiare le regole del gioco a partita gia' iniziata»). In effetti, oltre al pregiudizio e al discrimine della posizione del creditore impedito nell'azione, quella da quest'ultimo gia' legittimamente intrapresa e' destinata a compiersi con un traumatico provvedimento di chiusura del processo in relazione a fatti, attivita' e comportamenti niente affatto riconducibili al creditore. 5. - Nella stessa prospettiva delineata sotto il punto che precede, l'art. 1, comma 51, legge n. 220/2010, inoltre, sembra integrare una violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost. alla luce dell'art. 6 CEDU. In effetti, il comma 51 cit., nella parte in cui, come si e' gia' osservato, dispone l'applicabilita' ai giudizi in corso del divieto dell'azione esecutiva, impedendo che questa possa proseguire, viola ulteriormente i principi del giusto processo: ed invero, modificando le regole del gioco in pendenza del giudizio, altera le condizioni di parita' delle parti davanti al giudice (cfr. Corte cost. n. 311 del 2 dicembre 2009), producendo peraltro conseguenze del tutto impreviste ed irragionevoli, quali quelle relative alle spese processuali destinate a restare a carico del creditore procedente. (1) Gia' nel 1975, la Corte di Strasburgo, con la storica pronuncia Golder (n. 18 del 21 febbraio 1975), decreto' l'ingresso nell'ordine costituzionale europeo del «diritto di accedere al giudice». Affermo' che l'art. 6, accanto al giusto processo, garantiva altresi' «un droit d'acces aux tribunaux a' toute personne desireuse d'introduire une action relative a' une contestation portant sur ses droits et obligations de caractere civil» e che «il diritto di accesso costituisce un elemento inerente al diritto enunciato dall'art. 6, § 1». A tal riguardo, considero' che la disposizione esprimeva, prima ancora del diritto «che il procedimento giudiziale sia svolto equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole», il distinto e preliminare diritto di ogni individuo «a' ce que sa cause soit entendue» non gia' da un'autorita' qualsiasi, bensi' «par un tribunal». A supporto di tale disegno ricostruttivo, la Corte fece leva sull'oggetto e sullo scopo della Convenzione ed invoco', a tal fine, il principio della «preeminence du droit» (o della «rule of law»), richiamato dal preambolo della Convenzione. Preciso' che il richiamo a tale principio non poteva considerarsi un «mero riferimento retorico, privo d'interesse per l'interprete della Convenzione», esprimendo, invece, persino un «obiettivo». Per conferire un fondamento ancor piu' solido a tale soluzione ermeneutica, la Corte fece ricorso all'argomentazione ispirata al nuovo «principio dell'implicazione». Si legge nella motivazione della pronunzia citata che, qualora l'art. 6 § 1 fosse inteso come riferibile soltanto ai procedimenti gia' iniziati, «ogni Stato contraente potrebbe, senza violare tale disposizione, o sopprimere i suoi organi giurisdizionali o sottrarre alla loro competenza la cognizione di certe categorie di controversie di carattere civile». Non si comprenderebbe allora, aggiunse la Corte, «come l'art. 6, § 1, possa descrivere in dettaglio certe garanzie accordate alle parti di un'azione civile in corso, senza tutelare preliminarmente cio' che soltanto permette in realta' di beneficiarne: l'accesso al giudice». (2) Impedimenti di fatto (ossia impedimenti di carattere economico-sociale), sempre come ha avvertito la medesima Corte in un'altra delle sue grandi pronunce - la sentenza «Airey» n. 32 del 1979 - possono implicare una grave violazione dell'art. 6 citato alla stessa stregua di impedimenti giuridici. La Convenzione, infatti, mira a garantire «diritti che non siano meramente teorici ed illusori, bensi' pratici ed effettivi»; la necessaria concretezza ed effettivita' di tali diritti (garantiti) percio' «e' destinata ad assumere particolare rilevanza in relazione al diritto di accesso alla giustizia che occupa un posto preminente in una societa' democratica».
P. Q. M. Il giudice dichiara rilevante per il giudizio e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 2, 3, 24, comma 1, 111, 117, comma 1 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 51, della legge 13 dicembre 2010, n. 220, cosi' come modificato ed integrato dall'art. 17 del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, nei sensi e per le ragioni illustrate nella parte motiva; Ordina alla Cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' di darne comunicazione al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera dei Deputati; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Sospende il giudizio in corso. Si comunichi a cura della Cancelleria. Pozzuoli, addi' 12 dicembre 2011 Il giudice