N. 146 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 aprile 2012

Ordinanza del 3  aprile  2012  emessa  dal  Tribunale  amministrativo
regionale per il Piemonte sul ricorso proposto da Alparone Carmela ed
altri contro Presidenza del Consiglio dei ministri,  Ministero  della
giustizia e Ministero dell'economia e delle finanze.. 
 
Bilancio e contabilita' pubblica  -  Misure  urgenti  in  materia  di
  stabilizzazione  finanziaria  e  di  competitivita'   economica   -
  Contenimento della spesa in materia di pubblico impiego - Personale
  di  cui  alla  legge  n.  27  del  1981  (magistrati  e   categorie
  equiparate) - Previsione, per  detto  personale,  che  l'indennita'
  speciale, di cui all'art. 3 della legge n. 27 del  1981,  spettante
  per gli anni 2011, 2012 e 2013 sia ridotta del  15  per  cento  per
  l'anno 2011, del 25 per cento per l'anno 2012 e del  32  per  cento
  per  l'anno  2013  -  Irrazionalita'  -  Ingiustificato   deteriore
  trattamento dei lavoratori dipendenti rispetto a quelli autonomi  -
  Violazione dei  principi  di  generalita'  e  progressivita'  della
  tassazione e  di  capacita'  contributiva,  attesa  la  sostanziale
  natura tributaria della prestazione patrimoniale imposta  -  Natura
  regressiva del tributo con riferimento all'indennita' speciale,  in
  quanto incidente in minore misura sui magistrati  con  retribuzione
  complessiva piu' elevata ed in misura maggiore sui  magistrati  con
  retribuzione complessiva  inferiore  -  Lesione  del  principio  di
  solidarieta' sociale. 
- Decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni,
  nella legge 30 luglio 2010, n. 122, art. 9, comma 2. 
- Costituzione, artt. 2, 3 e 53. 
(GU n.33 del 22-8-2012 )
 
                IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 225 del 2012, proposto da: Alparone Carmela + altri
114, rappresentati e difesi dagli avv. Carlo Emanuele Gallo, Vittorio
Angiolini, Marco Cuniberti e  Luca  Formilan,  con  domicilio  eletto
presso Carlo Emanuele Gallo in Torino, via Pietro Palmieri, 40; 
    Contro Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Capo
del  Governo  in  carica,  Ministero  della  giustizia  e   Ministero
dell'economia e delle finanze, in persona dei Ministri  pro  tempore,
rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale  dello  Stato  di
Torino presso la quale domiciliano in corso Stati Uniti n. 45; 
per il riconoscimento, previa idonea cautela, e con riserva di motivi
aggiunti 
    del diritto al  trattamento  retributivo  spettante  senza  tener
conto  delle  decurtazioni  previste  dall'art.  9,  comma   2,   del
decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78,  convertito  in legge  30  luglio
2010, n. 122, e confermate dall'art. 2,  comma  1,  decreto-legge  13
agosto  2011,  n.  138,  come  modificato  in  sede  di   conversione
dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, nonche' per la condanna  delle
Amministrazioni resistenti al pagamento delle  somme  corrispondenti,
con ogni accessorio di legge. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visti  gli  atti  di  costituzione  in  giudizio  del   Ministero
dell'economia e delle finanze, del Ministero della giustizia e  della
Presidenza del Consiglio dei ministri; 
    Relatore nella camera di consiglio del giorno 21  marzo  2012  il
dott. Vincenzo Salamone  e  uditi  per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
    I ricorrenti  sono  tutti  magistrati  ordinari,  attualmente  in
servizio presso  uffici  giudiziari  di  competenza  territoriale  di
questo  Tribunale  amministrativo  e  titolari  di   un   trattamento
economico complessivo superiore a 90.000 euro annui, come risulta dai
cedolini stipendiali che sono stati prodotti; pertanto sono  soggetti
alle misure applicative delle  disposizioni  contenute  nel  comma  2
dell'art. 9 del decreto-legge 31 marzo  2010  n.  78,  convertito  in
legge 30 luglio 2010 n. 122, secondo cui,  «in  considerazione  della
eccezionalita' della situazione  economica  internazionale  e  tenuto
conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di
finanza pubblica concordati in  sede  europea,  a  decorrere  dal  1°
gennaio 2011 e sino al  31  dicembre  2013  i  trattamenti  economici
complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica  dirigenziale,
previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni  pubbliche
(...), superiori a 90.000 euro lordi annui sono  ridotti  del  5  per
cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro,
nonche' del 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro»,  e  «a
seguito della predetta riduzione il trattamento economico complessivo
non puo' essere comunque inferiore 90.000 euro lordi annui'». 
    I ricorrenti chiedono il riconoscimento, previa idonea cautela, e
con riserva di motivi aggiunti del diritto al trattamento retributivo
spettante senza tener conto delle decurtazioni previste dall'art.  9,
comma 2, del decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, convertito in  legge
30  luglio  2010,  n.  122,  e  confermate  dall'art.  2,  comma   1,
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138,  come  modificato  in  sede  di
conversione dalla  legge  14  settembre  2011,  n.  148,  nonche'  la
condanna delle Amministrazioni resistenti al  pagamento  delle  somme
corrispondenti, con ogni accessorio di legge. 
    Il Ministero della giustizia; il Ministero dell'economia e  delle
finanze e la Presidenza del Consiglio dei ministri,  nel  costituirsi
in giudizio con il  patrocinio  dell'Avvocatura  dello  Stato,  hanno
chiesto il rigetto del ricorso. 
    Nel corso della camera di consiglio fissata  per  la  trattazione
della domanda cautelare e' stata prospettata alle parti la  possibile
definizione  della  controversia  con  sentenza  redatta   in   forma
abbreviata ovvero  con  ordinanza  propedeutica  a  detta  pronuncia,
compresa  la  possibile  rimessione  alla  Corte  costituzionale   di
eventuale questione di costituzionalita' come richiesto  dalle  parti
ricorrenti. 
    Il Collegio Ritiene non manifestamente infondata e  rilevante  ai
fini  della  decisione  del  gravame  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma 2,  del  decreto-legge  n.  78  del
2010, convertito  in  legge  n.  122  del  2010  per  violazione  del
principio di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3  Cost.),  anche  in
riferimento al  principio  di  solidarieta'  (art.  2  Cost.)  e  del
principio di capacita' contributiva (art. 53  Cost.);  ingiustificata
disparita' di trattamento tra pubblici dipendenti ed altre  categorie
di lavoratori; irragionevolezza ed illogicita' manifeste;  eccesso  e
sviamento di potere. 
    Va Premesso che le disposizioni contenute nel comma 2 dell'art. 9
del decreto-legge 31 marzo 2010 n. 78, convertito in legge 30  luglio
2010 n. 122 si applicano a tutti i dipendenti,  «anche  di  qualifica
dirigenziale», delle amministrazioni pubbliche  «inserite  nel  conto
economico   consolidato   della   pubblica   amministrazione,    come
individuate dall'Istituto nazionale di Statistica (ISTAT),  ai  sensi
del comma 3, dell'art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196»;  tra
i dipendenti  cui  la  disposizione  si  applica,  come  peraltro  ha
chiarito la stessa Amministrazione, vi sono quindi anche i magistrati
ordinari, cui l'art. 9 dedica, poi, l'ulteriore specifica  previsione
di cui al comma 22. 
    Il decreto-legge n. 78 del 2010 e' stato adottato, come recita il
preambolo,  in  considerazione  della  «straordinaria  necessita'  ed
urgenza di emanare  disposizioni  per  il  contenimento  della  spesa
pubblica e per  il  contrasto  all'evasione  fiscale  ai  fini  della
stabilizzazione  finanziaria,   nonche'   per   il   rilancio   della
competitivita' economica»: nel quadro  di  una  serie  di  previsioni
finalizzate al contenimento e alla riduzione della spesa pubblica, si
colloca appunto l'art. 9, relativo al «contenimento  delle  spese  in
materia di pubblico impiego», che impone ai soli dipendenti  pubblici
sacrifici di considerevole entita', a  partire  dal  blocco  di  ogni
meccanismo di adeguamento retributivo e di progressione  stipendiale,
fino, appunto, alle decurtazioni di cui all'art. 9, comma  2,  per  i
dipendenti il cui trattamento economico complessivo superi  i  90.000
euro. 
    Nessuna previsione analoga e' prevista, invece, per i  lavoratori
dipendenti del settore privato e per i lavoratori  autonomi,  il  cui
reddito, quindi,  nel  triennio  considerato  non  solo  non  subira'
decurtazioni di sorta, ma anzi potra' addirittura aumentare. 
    Lamentano  i  ricorrenti  che  proprio  in   considerazione   del
carattere discriminatorio della misura in esame, a poco  piu'  di  un
anno di distanza dall'emanazione del decreto-legge n. 78 del 2010,  e
a pochi mesi dall'inizio del periodo di operativita' della prescritta
decurtazione stipendiale, il Governo si accingeva a porre  rimedio  a
tale sperequazione, con l'abolizione del citato ad. 9,  comma  2  del
decreto-legge n. 78 del 2010  e  la  sua  sostituzione  con  il  c.d.
«contributo   di   solidarieta'»,   ovvero   un   prelievo    fiscale
straordinario applicabile a tutti i redditi, da lavoro  dipendente  o
da lavoro autonomo, e a  tutti  i  lavoratori,  dipendenti  pubblici,
privati, autonomi. 
    L'art. 2, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 13  agosto  2011,
infatti, stabiliva che: «in considerazione della eccezionalita' della
situazione economica internazionale e  tenuto  conto  delle  esigenze
prioritarie di raggiungimento degli  obiettivi  di  finanza  pubblica
concordati in sede europea, a decorrere dal 2011 e fino al  2013,  in
deroga all'art. 3 della legge 27 luglio 2000,  n.  212,  sul  reddito
complessivo di cui all'art. 8  del  testo  unico  delle  imposte  sui
redditi approvato con decreto  del  Presidente  della  Repubblica  22
dicembre  1986,  n.  917,  e  successive  modificazioni,  di  importo
superiore a 90.000 euro lordi  annui,  e'  dovuto  un  contributo  di
solidarieta' del 5  per  cento  sulla  parte  eccedente  il  predetto
importo fino a 150.000 euro, nonche' del 10  per  cento  sulla  parte
eccedente 150.000 euro. contributo di solidarieta' e' deducibile  dal
reddito complessivo, ai sensi dell'art. 10 del citato testo unico  n.
917 del 1986». 
    Il medesimo comma 1 prevedeva  poi  l'abrogazione,  tra  l'altro,
delle «disposizioni di cui all'art. 9, comma 2, del decreto-legge  31
maggio 2010, n. 78, convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  30
luglio 2010, n. 122». Il successivo comma 2 demandava  infine  ad  un
decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, da emanare  entro
il 30 settembre 2011, il compito  di  determinare  le  «modalita'  di
attuazione» delle disposizioni di cui sopra, «garantendo l'assenza di
oneri per il bilancio dello Stato e assicurando il coordinamento  tra
le disposizioni di cui al comma 1 e quelle  contenute  nei  soppressi
articoli 9, comma 2, del decreto-legge n. 78  del  2010,  convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, e 18,  comma  22-bis,
del decreto-legge a 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 111 del 2011». 
    L'abolizione della decurtazione prevista, per i  soli  dipendenti
pubblici, dall'art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del  2010,  e
la sua sostituzione con il «contributo  di  solidarieta'»  incidente,
nella medesima misura, su tutti i redditi, pur  senza  eliminare  del
tutto le sperequazioni tra pubblici dipendenti ed altre categorie  di
lavoratori presenti anche  in  altre  parti  del  testo  dell'ad.  9,
avrebbe consentito,  quanto  meno,  di  rimuovere  la  disparita'  di
trattamento. 
    Pur tuttavia nel corso dell'iter di approvazione del  disegno  di
legge di conversione del decreto-legge n. 78 del  2010,  su  proposta
del Governo, la formulazione originaria dell'art.  2,  comma  1,  del
decreto legge n. 78 e' stata soppressa: le  decurtazioni  stipendiali
previste dall'art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010  sono
state  confermate,  e  il  «contributo  di  solidarieta'»  e'   stato
sostanzialmente eliminato. 
    Il testo dell'art. 2, quale risultante dalle  modifiche  proposte
dal governo ed approvate in sede di conversione, prevede infatti ora,
al comma 1, che «le disposizioni di cui agli articoli 9, comma 2, del
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito,  con  modificazioni,
dalla legge  30  luglio  2010,  n.  122,  e  18,  comma  22-bis,  del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 15 luglio 2011, n.  111,  continuano  ad  applicarsi  nei
termini ivi previsti  rispettivamente  dal  1°  gennaio  2011  al  31
dicembre 2013 e dal 1° agosto 2011 al 31 dicembre 2014». 
    Il  successivo  comma  2,   sempre   «in   considerazione   della
eccezionalita' della situazione  economica  internazionale  e  tenuto
conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di
finanza pubblica concordati in sede europea», stabilisce poi  che  «a
decorrere dal 10 gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013 sul  reddito
complessivo di cui all'art. 8  del  testo  unico  delle  imposte  sui
redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917, e successive  modificazioni,  di  importo  superiore  a
300.000 euro lordi annui, e' dovuto un contributo di solidarieta' del
3 per cento sulla parte eccedente il predetto importo». 
    Il «contributo di solidarieta'», che nelle intenzioni  originarie
avrebbe dovuto assorbire le decurtazioni di cui all'art. 9, comma  2,
ripristinando la parita' di trattamento  tra  dipendenti  pubblici  e
dipendenti privati. e lavoratori autonomi, nel testo poi approvato in
sede di conversione si trasforma in un prelievo incidente  in  misura
decisamente minore (il 3%) e solo in  presenza  di  redditi  di  gran
lunga superiori (oltre i 300.000  euro):  per  tutti  i  titolari  di
redditi tra i 90.000 ed i 300.000 euro annui, la discriminazione  tra
dipendenti pubblici ed altre categorie di lavoratori permane in tutta
la sua gravita'. 
    Come rilevano i ricorrenti nel ricorso il Ministro dell'economia,
intervenendo alla seduta della V Commissione  permanente  del  Senato
del 1° settembre  2011,  nell'illustrare  l'emendamento  del  Governo
volto  alla  soppressione  del  c.d.  «contributo  di  solidarieta'»,
sosteneva  che  «la  prevista  soppressione  della  disposizione  del
decreto-legge istitutiva  del  contributo  di  solidarieta'»  sarebbe
stata compensata dalla «introduzione di ulteriori misure, rispetto  a
quelle  gia'  adottate,  di  contrasto  all'evasione   fiscale»   (in
particolare,  la  «partecipazione   dei   Comuni   all'attivita'   di
accertamento tributario», nonche'  alcune  modifiche  in  materia  di
dichiarazioni dei redditi, di sanzioni e di  prescrizione  dei  reati
tributari), e affermava che, «nel complesso, le previsioni di gettito
derivanti dalle nuove misure di contrasto all'evasione  fiscale  sono
equivalenti  a   quelle   relative   al   soppresso   contributo   di
solidarieta'». 
    Le decurtazioni di cui all'art. 9, comma 2, del decreto-legge  n.
78 del 2010 colpiscono il trattamento economico di una sola categoria
di lavoratori (i pubblici  dipendenti)  lasciando  invece  del  tutto
indenni, a parita'  di  condizioni  reddituali,  altre  categorie  di
lavoratori (segnatamente, dipendenti del settore privato e autonomi),
introducendo una disparita'  di  trattamento  che  non  trova  alcuna
ragionevole giustificazione. 
    Nel triennio 2011 - 2013, infatti, i  lavoratori  dipendenti  del
settore privato o i lavoratori  autonomi  il  cui  reddito  supera  i
90.000 euro lordi annui, non solo non subiranno  alcuna  decurtazione
del proprio trattamento economico,  ma  anzi  potrebbero  addirittura
incrementarlo. 
    Riconosce il Collegio che le misure di cui trattasi,  cosi'  come
altre misure previste dall'art. 9 in materia di trattamento economico
dei dipendenti pubblici, si inseriscono in un ambito di misure  volte
a realizzare obiettivi di contenimento  della  spesa  in  materia  di
pubblico  impiego,  «in  considerazione  della  eccezionalita'  della
situazione economica internazionale e  tenuto  conto  delle  esigenze
prioritarie di raggiungimento degli  obiettivi  di  finanza  pubblica
concordati in sede europea». 
    I  ricorrenti  espressamente  dichiarano  in  ricorso  che   «non
intendono affatto contestare che anche i magistrati, cosi' come  ogni
altra categoria di pubblici dipendenti,  possano  essere  chiamati  a
concorrere al raggiungimento di simili obiettivi». 
    Rileva il Collegio che in passato, ed in particolare negli ultimi
anni, sono  state  adottate  misure  che,  sempre  per  finalita'  di
contenimento della spesa, hanno inciso sul trattamento economico  dei
dipendenti pubblici. 
    In particolare, gia' per l'anno 2007, in  applicazione  dell'art.
1, comma 576, della legge  27  dicembre  2006,  n.  296  (finanziaria
2007), l'adeguamento retributivo previsto dall'art. 24 della legge n.
448 del 1998 e'  stato  corrisposto  solo  nella  misura  del  70  %;
successivamente, l'art. 69 della legge 6  agosto  2008,  n.  133  (di
conversione del decreto-legge n. 112  del  25  giugno  2008,  recante
«disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la  semplificazione,
la competitivita', la stabilizzazione della  finanza  pubblica  e  la
perequazione tributaria») ha stabilito, per il  c.d.  personale  «non
contrattualizzato», il differimento  di  12  mesi  della  maturazione
dell'aumento biennale o della classe di stipendio, nel limite del 2.5
%. 
    Misure  analoghe  erano  state  adottate   anche   nel   decennio
precedente: in  particolare,  il  precedente  piu'  significativo  e'
rappresentato dalla manovra effettuata nel  1993  con  l'art.  7  del
decreto-legge n. 384 del 1992, convertito in legge n. 438  del  1992,
il quale, al comma 3, stabiliva che  «per  l'anno  1993  non  trovano
applicazione le norme che comunque comportano incrementi  retributivi
in conseguenza sia di automatismi stipendiali, sia  dell'attribuzione
di trattamenti economici, per progressione  automatica  di  carriera,
corrispondenti a quelli di funzioni superiori, ove queste  non  siano
effettivamente esercitate». 
    La  Corte   costituzionale,   chiamata   a   pronunciarsi   sulla
legittimita' costituzionale delle misure introdotte dal citato art. 7
del decreto-legge n. 384 del  1992,  aveva  a  suo  tempo  dichiarato
infondata la questione (sent. n. 245 del  1997  e  ord.  n.  299  del
1999): in particolare, nella sentenza n. 245 del 1997 la  Corte,  nel
rigettare  una  questione  di  costituzionalita'  sollevata  su  tale
disposizione, con riferimento all'art.  3  cost.,  osservava  che  il
decreto-legge n. 384, «emanato in  un  momento  delicato  della  vita
nazionale» e caratterizzato nel suo  complesso  «dalla  finalita'  di
realizzare, con immediatezza, un contenimento  della  spesa  pubblica
per il 1993, nel rispetto degli obiettivi  fondamentali  di  politica
economica e  dei  vincoli  derivanti  dal  processo  di  integrazione
europea», si limitava a disporre un «blocco» con evidente  «carattere
provvedimentale del tutto eccezionale», che «esauriva i suoi  effetti
nell'anno considerato, limitandosi a impedire erogazioni per esigenze
di riequilibrio del bilancio, riconosciute da questa Corte meritevoli
di tutela a condizione che le  disposizioni  adottate  non  risultino
arbitrarie». 
    Il riferimento al carattere eccezionale e circoscritto nel  tempo
della misura e' stato poi ripreso nella successiva ordinanza  n.  299
del 1999, nella quale, richiamata la precedente sentenza del 1997, la
Corte ribadiva che norme di tale natura, volte ad imporre  «sacrifici
anche onerosi» in nome di  esigenze  di  riequilibrio  del  bilancio,
«possono ritenersi non lesive del principio di cui all'art.  3  della
Costituzione (...), a  condizione  che  i  suddetti  sacrifici  siano
eccezionali, transeunti,  non  arbitrari  e  consentanei  allo  scopo
prefisso»,  e  che  nella  specie  tali  requisiti  sarebbero   stati
rispettati «in quanto il sacrificio imposto  ai  pubblici  dipendenti
dal comma 3 del citato art. 7 e' stato limitato a un anno». 
    Ad avviso del Collegio la norma  sospetta  nella  fattispecie  di
incostituzionalita' e' diversa da quelle gia' esaminate  dalla  Corte
costituzionale. 
    Le  misure  su  cui  ha  avuto  modo  di  esprimersi   la   Corte
costituzionale non si risolvevano in una decurtazione del trattamento
economico dei dipendenti pubblici, ma  solamente  in  una  temporanea
sospensione dell'operativita' dei  meccanismi  di  adeguamento  o  di
incremento automatico delle retribuzioni:  ben  diverso  e',  invece,
l'intervento operato con l'art. 9 del decreto-legge n. 78 del 2010 il
quale, da un lato ripropone (commi 21 e 22) il medesimo «blocco»  dei
meccanismi di adeguamento retributivo e  di  progressione  automatica
(estendendone gli effetti ad un intero triennio), dall'altro  dispone
direttamente la decurtazione (nella misura del 5  o  del  10%)  della
retribuzione  di  quei  dipendenti  il  cui   trattamento   economico
complessivo superi i 90.000 (o i 150.000) euro. 
    Nelle pronunce ora richiamate la Corte a piu' riprese  sottolinea
il carattere temporaneo e del tutto limitato nel tempo (un solo anno)
del sacrificio imposto dal decreto-legge n. 384 del 1992, laddove nel
caso di cui qui  si  discute  il  sacrificio  imposto  ai  dipendenti
pubblici (non si limita a «congelare» le retribuzioni, ma  ne  riduce
l'entita') non puo' certo definirsi «temporaneo» o  «transeunte»,  in
quanto protrae i suoi effetti per un intero triennio. 
    Sussiste, infine, il dubbio di una irragionevole  discriminazione
operata dalla norma, nel momento  in  cui  un  siffatto  «sacrificio»
viene imposto non gia' a tutti i contribuenti (a parita' di capacita'
contributiva), ma esclusivamente ai dipendenti pubblici. 
    L'art. 9 del decreto-legge n. 78  del  2010,  non  introduce  una
decurtazione ragguagliata a progressioni  stipendiali,  anzianita'  o
altri aspetti del rapporto di lavoro, ma di decurtazione ragguagliata
esclusivamente all'ammontare del reddito prodotto, che e'  scollegata
dunque da un «risparmio» derivante da riassetto del rapporto  impiego
e, consistendo in un  mero  prelievo  forzoso  di  quanto  altrimenti
spettante, non puo'  trovare  ragione  legittima  nel  distinguo  tra
pubblico e privato. 
    Ad avviso del Collegio la scelta del legislatore di mantenere  in
vigore la decurtazione di cui all'art. 9, comma 2, del  decreto-legge
n. 78 del 2010, che colpisce i soli dipendenti pubblici, abbandonando
definitivamente l'idea di  sostituirla  con  una  forma  di  prelievo
straordinario idoneo ad incidere allo stesso modo su tutti i redditi,
non trova alcuna giustificazione sul piano del rispetto dei  principi
costituzionali di eguaglianza e di capacita' contributiva. 
    La misura in questione dell'art. 9, comma 2, del decreto-legge n.
78 del 2010 quindi, e' rimasta  invariata  anche  dopo  l'entrata  in
vigore della legge 14 settembre 2011, n. 148: essa si  applica  anche
ai magistrati ricorrenti. I redditi, da cui  eventualmente  prelevare
in funzione della crisi della finanza pubblica, non possono tra  loro
differenziarsi solo per la fonte, pubblica  o  privata,  dalla  quale
sono prodotti. 
    Al riguardo, occorre richiamare la gia'  citata  ordinanza  della
Corte costituzionale del 14 luglio 1999, n. 299: in  tale  pronuncia,
la  Corte,  chiamata  a  pronunciarsi  proprio  sul  punto  specifico
concernente la  disparita'  di  trattamento  tra  pubblici  impiegati
(colpiti dal «blocco» dei meccanismi di  incremento  retributivo)  ad
altre categorie di lavoratori  (esenti  da  misure  analoghe),  aveva
rigettato la questione sulla base di due decisive considerazioni:  la
durata, come gia' si e' detto, incomparabilmente  piu'  limitata  del
sacrificio imposto (un solo anno),  e  il  fatto  che  la  misura  in
questione si inquadrava nell'ambito di una «manovra  di  contenimento
della  spesa  pubblica»  la  quale  «non  ha  inciso  soltanto  sulla
condizione e sul patrimonio  dei  pubblici  impiegati,  ma  anche  su
quello di altre categorie di lavoratori». 
    Nel, caso in esame, entrambe le premesse in base  alle  quali  la
Corte era pervenuta al rigetto della questione appaiono  al  Collegio
insussistenti. 
    Sussiste la rilevanza della  questione  di  costituzionalita'  in
quanto coinvolge «l'unico motivo di  ricorso»  del  giudizio  a  quo,
sempreche' il giudizio a quo stesso  abbia  «un  petitum  separato  e
distinto dalla questione di costituzionalita' sul  quale  il  giudice
remittente sia legittimamente  chiamato,  in  ragione  della  propria
competenza, a decidere» (Corte Cost., sentt. n. 4 del 2000  e  n.  38
del 2009). 
    Nel presente giudizio il petitum consiste nel riconoscimento  del
diritto dei ricorrenti a  percepire  la  propria  retribuzione  senza
tenere conto delle decurtazioni disposte dal cit. comma  2  dell'art.
9,  e  ove  si  ritenga   impossibile   pervenire   diversamente   al
riconoscimento di tale diritto, la contestazione  di  illegittimita',
da ritualmente sottoporre alla competente Corte  costituzionale,  del
medesimo comma 2 dell'art. 9 del decreto-legge 31 marzo 2010  n.  78,
come convertito in legge 30 luglio 2010 n. 122. 
    A cio' va aggiunto  che  nel  corso  della  camera  di  consiglio
fissata  per  la  trattazione  della  domanda  cautelare   e'   stata
prospettata alle parti la possibile  definizione  della  controversia
con  sentenza  redatta  in  forma  abbreviata  ovvero  con  ordinanza
propedeutica a detta pronuncia, compresa la possibile rimessione alla
Corte costituzionale di eventuale questione di costituzionalita' come
richiesto dalle parti ricorrenti. 
    Visto l'art. 23 della legge costituzionale n. 87/1953; 
    Riservata ogni altra decisione  all'esito  del  giudizio  innanzi
alla  Corte  costituzionale,  alla  quale  va  rimessa  la  soluzione
dell'incidente di costituzionalita'. 
 
                             P.  Q.  M. 
 
    Dichiara  rilevante  per  la  decisione   del   ricorso   e   non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in
legge n. 122 del 2010 per violazione del principio di  eguaglianza  e
ragionevolezza (art. 3 della Costituzione), anche in  riferimento  al
principio di solidarieta' (art. 2 della Costituzione) e del principio
di   capacita'   contributiva   (art.   53    della    Costituzione);
ingiustificata disparita' di trattamento tra pubblici  dipendenti  ed
altre categorie di lavoratori. 
    Sospende il giudizio in corso. 
    Ordina che la presente ordinanza sia  notificata,  a  cura  della
Segreteria del Tribunale amministrativo, a tutte le parti in causa ed
al Presidente del Consiglio dei ministri  e  che  sia  comunicata  al
Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della  Camera
dei deputati. 
    Dispone la immediata trasmissione degli atti, a cura della stessa
Segreteria, alla Corte costituzionale. 
    Cosi' deciso in Torino nella camera di consiglio  del  giorno  21
marzo 2012. 
 
                 Il Presidente, estensore: Salamone