N. 164 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 gennaio 2012
Ordinanza del 30 gennaio 2012 emessa dal Tribunale di Napoli nel procedimento civile promosso da Carrassi Fabio contro Garofalo Sabrina, Pastore Antonio Maria e Milano Assicurazioni S.p.a.. Procedimento civile - Appellabilita' - Sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equita' a norma dell'art. 113, comma secondo, c.p.c. - Regime introdotto dal decreto legislativo n. 40 del 2006 - Possibilita' di appello solo per motivi specifici (c.d. appello a motivi limitati) - Mancata previsione dell'appellabilita' per i casi che, se ricorrenti per sentenze pronunciate in appello o in unico grado, renderebbero ammissibile la revocazione in base all'art. 395 [in particolare, n. 4] c.p.c. - Contrasto con i canoni di ragionevolezza e di eguaglianza - Difetto di coerenza logico-sistematica tra gli interventi susseguitisi in materia - Violazione della garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti e del giusto processo - Contrasto con il principio secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge. - Codice di procedura civile, art. 339, comma terzo, nel testo di cui all'art. 1 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40. - Costituzione, artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 101, comma secondo, 111, primo comma, e 117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali [resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848].(GU n.35 del 5-9-2012 )
IL TRIBUNALE Ha reso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 24447-2008 del ruolo generale degli affari contenziosi avente ad oggetto: appello g.d.p. tra Carrassi Fabio (avv. Alfredo Sacchi), appellante, e Garofalo Sabrina e Pastore Antonio Maria (avv. Giovanni Coppola), appellati, nonche' Milano Assicurazioni S.p.a. (avv. Luigi Tuccillo), appellata. Vista la sentenza non definitiva in pari data, con la quale, risolvendosi una «questione» (art. 279, comma 2, n. 4 in relazione al n. 2 del codice di procedura civile) di carattere processuale, si e' dichiarato essere stata la sentenza di primo grado, impugnata con appello, pronunciata in equita' dal giudice di pace ex art. 113, comma 2 del codice di procedura civile; Ritenuto in fatto e diritto 1. Come acclarato con sentenza non definitiva emessa in pari data, la presente vicenda processuale promana dalla proposizione, innanzi al Giudice di pace di Napoli, con citazione ritualmente notificata in data 9-15 marzo 2006, di domanda avanzata dalle odierne appellate Garofalo e Pastore di condanna della odierna parte appellante Carrassi, quale responsabile, e della sua consorte in lite Milano Assicurazioni S.p.a., quale impresa assicuratrice per la r.c.a., al risarcimento di danni derivanti da un sinistro occorso in Napoli, via Ruoppolo, in data 27 febbraio 2005. Radicatosi il contraddittorio sulla costituzione e resistenza del Carrassi e della Compagnia di assicurazioni, espletata istruttoria mediante audizione, all'udienza del 16 maggio 2007, del Carrassi Fabio e del Pastore Antonio Maria, quali parti interrogate formalmente, e della teste Contemi Francesca nonche', all'udienza del 24 settembre 2007, della teste Ciotola Iolanda e del teste Caccavale Paolo, all'esito del processo il giudice onorario con sentenza n. 7616 del 4 febbraio 2007 («sic»; in effetti, 4 febbraio 2008) - 7 febbraio 2008 accoglieva la domanda, condannando solidalmente il Carrassi e la Milano S.p.a. al pagamento di euro 800 a favore della Garofalo e di euro 400 a favore del Pastore, oltre accessori e spese. Avverso detta sentenza proponeva gravame l'appellante in epigrafe innanzi a questo Tribunale con atto notificato il 13 giugno 2008, deducendo, nell'ambito del primo motivo di appello, essere stata accolta la domanda «sulla scorta di dichiarazioni testimoniali mai rese» (p. 3); e, nell'ambito del secondo motivo di appello, avere «il Giudice di pace ... erroneamente rilevato che il teste Ciotola Iolanda "ha reso una puntuale e concordante deposizione sulla dinamica del sinistro, compatibile con i danni, desumibili dai rilievi fotografici agli atti di causa, confermando la dinamica cosi' come prospettata dagli attori", avendo invece ella dichiarato: "sulla prima circostanza, nulla so in quanto non ero presente all'incidente. Sulla seconda circostanza, nulla posso precisare; ricordo che nel pomeriggio mi trovavo a casa di mia cugina Sabrina Garofalo ed assistetti ad una telefonata di cui non posso precisare il contenuto, ma sentii mia cugina alterarsi. Null'altro so".» (p. 4 atto di appello). Sempre nell'ambito del secondo motivo d'appello, l'appellante rilevava che pure in ordine alla deposizione della teste Contemi il Giudice di pace aveva «fondato il proprio convincimento ... esclusivamente su circostanze non risultanti dai verbali di causa e da nessun'altra fonte probatoria, inventandole di sana pianta» (p. 5 atto di appello). Costituitisi anche in appello i sigg. Pastore e Garofalo, gli stessi deducevano, tra l'altro, l'inammissibilita' dell'appello, per essere stata la sentenza di prime cure emessa in equita' ed essendo i motivi di appello estranei a quelli, a critica vincolata, di cui all'art. 339 nuovo testo del codice di procedura civile. Si costituiva anche la Compagnia assicuratrice Milano S.p.a., che chiedeva accogliersi l'appello. Rassegnate dalle parti una prima volta le conclusioni, con ordinanza in data 5 luglio 2010, non essendo applicabile al presente procedimento la disposizione dell'art. 101 del codice di procedura civile in vigore per le cause proposte dal 4 luglio 2009, veniva fissata udienza al fine di sottoporre al contraddittorio delle parti la questione, eventualmente rilevabile d'ufficio, dell'interpretazione costituzionale da darsi, o - in caso di impossibilita' di tale interpretazione - di eventuali profili di incostituzionalita' della disciplina introduttiva dell'appello a motivi limitati (art. 339, comma 3 del codice di procedura civile), tra i quali non sono inclusi i medesimi motivi di cui all'art. 395 del codice di procedura civile (e, in particolare, quello di cui al n. 4 dell'art. 395 stesso, laddove la parte appellante lamenta un errore di fatto risultante dagli atti di causa), a fronte di una disciplina della revocazione ordinaria che - in quanto originariamente coordinata con una disciplina dell'appello a critica libera - da' accesso alla stessa solo avverso sentenze pronunciate in appello o in unico grado. Sentite le parti, le stesse assumevano sul punto le seguenti posizioni: il Carrassi condivideva i dubbi di legittimita' costituzionale, ma cio' «in via astratta» (cfr. comparsa depositata il 31 gennaio 2011, p. 1), ritenendo essere la questione non rilevante, per essere stata la sentenza impugnata pronunciata secondo diritto, fondando tale rilievo sul fatto che era indeterminata la domanda del Pastore, per esserne possibile un accoglimento per somma maggiore «da definirsi in corso di causa» e, comunque, non potendo alcunche' desumersi dalla dichiarazione di valore «esente» ai fini del contributo unificato; i Pastore-Garofalo pure condividevano i dubbi, ma ritenevano possibile una loro rilevanza solo qualora la controparte avesse proposto revocazione, pur al di fuori dei casi previsti, e non gia' un appello inammissibile in quanto proposto avverso sentenza in equita', al di fuori dei motivi a critica limitata di cui all'art. 339 del codice di procedura civile (cfr. memoria depositata il 29 ottobre 2010). Con sentenza non definitiva coeva alla presente ordinanza veniva dichiarato, come gia' accennato in epigrafe, essere stata la sentenza di primo grado, impugnata con appello, pronunciata in equita' dal giudice di pace ex art. 113, comma 2 del codice di procedura civile. 2. L'acclaramento, giusta provvedimento avente veste di sentenza, e quindi costituente giudicato interno inderogabile ai fini del prosieguo del giudizio sino a sua eventuale rimozione, dell'essere stata la sentenza in primo grado pronunciata in equita', costituisce la prima valutazione, in punto di rilevanza, in ordine al dubbio di legittimita' costituzionale a sollevarsi. Invero, l'applicabilita' al procedimento in esame della disposizione, innovativa e limitativa dei motivi ammissibili di appello, dell'art. 339, comma 2 del codice di procedura civile, come introdotta dal decreto legislativo n. 40 del 2006, della cui legittimita' costituzionale si dubita, discende da detto accertamento in ordine all'essere stata emessa la sentenza di prime cure nel quadro di applicabilita' dell'art. 113, comma 2 del codice di procedura civile, cio' su cui le parti hanno dibattuto. Benche' la constatazione dell'esistenza di un giudicato interno sul punto, quale derivante da sentenza non definitiva, sia sufficiente in punto di notazione di rilevanza in proposito, puo' comunque accennarsi, in estrema sintesi, il percorso argomentativo che ha condotto, con la sentenza non definitiva che ad ogni buon conto si richiama (e che, come da ordine alla cancelleria, si disporra' inserirsi in copia conforme in atti ed allegarsi alla presente ordinanza a pienamente documentare la «relatio»), a ritenere soggette a giudizio in equita' le due domande, in litisconsorzio facoltativo, proposte dalla Garofalo e dal Pastore: la prima, in quanto indicata in valore pecuniario che, anche sommato all'equivalente pecuniario di interessi e rivalutazione al momento della domanda, computati secondo i noti parametri legali e ISTAT, non raggiungeva gli euro 1.100; la seconda, pur non indicata in valore pecuniario, in quanto ristretta da inequivoca clausola di contenimento entro la competenza per equita' del giudice di pace, contenimento riferibile - giusta giurisprudenza della SC. - alle istanze accessorie di rivalutazione e interessi, siccome pedisseque a domanda risarcitoria non espressa in moneta. E' dunque rilevante, ai fini della definizione del processo, l'applicazione all'appello che qui si esamina dell'art. 339 cit. 3. Altra valutazione da effettuarsi, in termini di rilevanza della proponenda questione di costituzionalita', concerne il sussistere, nell'ambito dei motivi di appello, di una doglianza (o meglio di piu' d'una doglianza, ma accomunate da un medesimo profilo) relativa a vizi della sentenza impugnata che, se fosse possibile l'appello a critica limitata ex art. 339 del codice di procedura civile, anche per motivi corrispondenti a quelli di cui al rimedio per revocazione ex art. 395 - e in particolare n. 4 - del codice di procedura civile, darebbero luogo (nei limiti in cui un tale opinare, in sede di formulazione di dubbio di costituzionalita', non costituisce anticipazione dell'eventuale sentenza a rendersi) ad accoglimento della doglianza. In argomento, come detto, il Carrassi, nell'ambito del primo motivo di appello, ha lamentato essere stata accolta la domanda «sulla scorta di dichiarazioni testimoniali mai rese» (p. 3); e, nell'ambito del secondo motivo di appello, avere «il Giudice di pace ... erroneamente rilevato che il teste Ciotola Iolanda "ha reso una puntuale e concordante deposizione sulla dinamica del sinistro, compatibile con i danni, desumibili dai rilievi fotografici agli atti di causa, confermando la dinamica cosi' come prospettata dagli attori", avendo invece ella dichiarato: "sulla prima circostanza, nulla so in quanto non ero presente all'incidente. Sulla seconda circostanza, nulla posso precisare; ricordo che nel pomeriggio mi trovavo a casa di mia cugina Sabrina Garofalo ed assistetti ad una telefonata di cui non posso precisare il contenuto, ma sentii mia cugina alterarsi. Null'altro so".» (p. 4 atto di appello). Anche in ordine alla deposizione della teste Contemi l'appellante si doleva che il Giudice di pace aveva «fondato il proprio convincimento ... esclusivamente su circostanze non risultanti dai verbali di causa e da nessun'altra fonte probatoria, inventandole di sana pianta» (p. 5 atto di appello). In fatto, e nei limiti anzidetti in cui cio' non anticipa la sentenza eventualmente a rendersi, puo' qui rilevarsi che effettivamente, dall'esame dei verbali di causa, si evince che la deposizione della teste Ciotola (ud. del 24 settembre 2007) - lungi dal rendere una «puntuale e concordante deposizione sulla dinamica del sinistro, compatibile con i danni» (cosi' nella sentenza impugnata) - legge: «sulla prima circostanza, nulla so in quanto non ero presente all'incidente. Sulla seconda circostanza, nulla posso precisare; ricordo che nel pomeriggio mi trovavo a casa di mia cugina Sabrina Garofalo ed assistetti ad una telefonata di cui non posso precisare il contenuto, ma sentii mia cugina alterarsi. Null'altro so». Se ne desume la non implausibilita' della deduzione, contenuta nell'atto di appello, per cui la sentenza si baserebbe su deposizione mai resa. A tanto puo' aggiungersi, sempre in fatto, che effettivamente anche la lettura, data dal giudice non professionale, alla deposizione della teste Contemi, come rilevato nell'atto di appello, «introduce» nella deposizione stessa non gia' elementi valutativi, ma dati fattuali (provenienza del ciclomotore dal lato dei giardinetti, attraversamento da parte dell'auto del Carrassi di interspazio tra le aiuole) non desumibili, neppure indirettamente, dal verbale. 4. Su tale substato fattuale, deve poggiare la notazione in diritto - pur essa essenziale in tema di rilevanza della questione a sollevarsi - per cui e' sostanzialmente consolidato l'orientamento della S.C. (v. ad es. la pronuncia - da cui il seguente estratto - di Cass. n. 10127 del 25 giugno 2003, oltre i precedenti ivi cit. e che si riporteranno) secondo il quale in «un errore revocatorio, denunciabile ai sensi dell'art. 395, n. 4 del codice di procedura civile» puo' «il giudice [...] incorrere [...] anche nell'esame delle prove testimoniali nella fase preliminare della lettura delle deposizioni raccolte e della percezione del loro incontestabile significato letterale e logico; o perche' non abbia letto compiutamente il testo della dichiarazione assunta a verbale o ne abbia travisato il senso letterale inequivocabile per disattenzione o per inconsapevole difetto di riflessione o, ancora, come si deduce essere avvenuto nella specie, per avere attribuito al teste dichiarazioni da costui mai rese. In tali sensi e' l'orientamento di questa Corte manifestato con le sentenze n. 7679 del 1986 e n. 476 del 1996, cui questo Collegio aderisce, pur non ignorando il contrario orientamento espresso da Cass. n. 1099 del 1994.». Al di la' dell'isolata pronuncia contraria del 1994, l'indirizzo consolidato risulta ben attestato anche nella giurisprudenza precedente (v. ad es. Cass. n. 7679 del 18 dicembre 1986 e n. 6922 del 24 novembre 1986), che ha in sostanza elaborato quello che e' oggi diritto vivente, nel senso che l'errore di fatto nell'esame delle prove testimoniali - che legittima il rimedio di cui all'art. 395, n. 4 codice di procedura civile - e' configurabile, anche se soltanto limitatamente all'attivita' preliminare della lettura delle deposizioni raccolte e della percezione del loro incontestabile significato letterale e logico da parte del giudice, e non pure in relazione alla attivita' successiva dello stesso, consistente nell'interpretazione e valutazione del contenuto delle deposizioni testimoniali ai fini della formazione del proprio convincimento. 5. Applicando ai fatti di causa il predetto principio interpretativo dell'art. 395, n. 4 del codice di procedura civile, che ne fornisce la lettura secondo il diritto vivente, non e' chi non veda che, avendo precisamente il Carrassi dedotto un vizio revocatorio nella lettura (quantomeno) della deposizione della teste Ciotola, se non anche di quella della teste Contemi, sussisterebbero (si ribadisce, senza che cio' possa anticipare un'emittenda sentenza sul punto) gli estremi (almeno) per la revocazione della sentenza e, piu' precisamente, per l 'accoglimento di un motivo di appello, ove ammissibile, fondato su motivo corrispondente a quello di cui al n. 4 dell'art. 395 del codice di procedura civile: invero, dall'esame del rapporto tra il peso attribuito alla «supposta» deposizione della Ciotola, la quale e' meramente corroborata dalla lettura della deposizione Chintemi (in cui pure sono inseriti elementi fattuali supposti, e non risultanti dagli atti), e la decisione, si evince con chiarezza la decisivita' della prima deposizione, nel senso che e' essa, nella logica della sentenza, la «puntuale e concordante deposizione sulla dinamica del sinistro, compatibile con i danni» che consente la decisione, in relazione al peso secondario della deposizione Chintemi (ed all'omissione di ogni valutazione - puo' soggiungersi d'ufficio - circa l'ulteriore deposizione di teste, anch'egli ignaro dei fatti principali, Caccavale, neppure menzionato nel provvedimento del giudice di pace). Dunque, quand'anche l'errore (corrispondente a quello revocatorio) sussistesse in relazione alla supposizione di una (diversa da quella effettiva) deposizione della sola Ciotola, il giudizio (che in un procedimento di revocazione sarebbe rescissorio) sarebbe aperto ad ogni diversa valutazione probatoria (tenuto conto anche, come detto, del tenore della deposizione Chintemi, non facente riferimento a taluni dettagli fondamentali, e del tenore - negletto dal g.d.p. - della deposizione poco informata del teste Caccavale). Tanto vale, in definitiva, a rendere decisivo, ai fini del giudizio, il sussistere o meno della possibilita' (sussistente, come detto, ove fossero deducibili i motivi di revocazione ex art. 395 nell'ambito dell'appello a motivi limitati ex art. 339 del codice di procedura civile) di accogliere (almeno alcune del)le doglianze della parte appellante in merito agli errori di fatto in tema di deposizioni testimoniali. 6. Cio' posto, deve dirsi che, in un appello senza la limitazione dell'art. 339 del codice di procedura civile, le doglianze in parola sarebbero state certamente esaminabili. In una siffatta logica di libera esaminabilita' nell'appello tradizionale a motivi aperti (anche) di motivi corrispondenti a quelli a base del rimedio revocatorio era, del resto, costruito il sistema processuale civile italiano prima della novellazione dell'art. 339 cit. Esse, invece, non sono esaminabili, ad avviso del Tribunale, nell'ambito dell'appello a motivi limitati introdotto, in detta disposizione, dal decreto legislativo n. 40 del 2006. Com'e' noto, la previsione di un appello a motivi limitati costitui' la reazione dell'ordinamento alla sentenza della Consulta n. 206 del 6 luglio 2004 che - nel ritenere incompatibile con la Costituzione la lettura restrittiva che le SS.UU. della S.C. avevano dato, con la sentenza del 15 ottobre 1999, n. 716, della sindacabilita' delle decisioni in equita' del giudice di pace - «reintroduceva» la necessita' di un controllo (oltre che sull'applicazione delle norme costituzionali, comunitarie e processuali) anche circa l'applicazione dei principi regolatori o informatori della materia e, quindi, attribuiva alla stessa S.C., dinanzi alla quale soltanto erano all'epoca ricorribili le sentenze in equita' dei giudici non togati, un carico di lavoro dalla stessa S.C. ritenuto incompatibile con il ruolo nomofilattico. Ne discendeva l'esigenza, percepita dal legislatore, di sgravio della S.C. e l'attribuzione, per via di novellazione, al giudice d'appello di un controllo con le medesime indicate caratteristiche di «limitazione» dei motivi di critica, tratti dalla sentenza delle SSUU del 1999, con l'aggiunta dei «principi regolatori della materia». 7. Antecedentemente alla novellazione dell'art. 339 del codice di procedura civile, pacificamente (v. Cass. n. 13433 dell'8 giugno 2007) si riteneva che avverso le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equita' - all'epoca inappellabili - fosse pienamente ammissibile la domanda di revocazione; il requisito di ammissibilita' di legge e', infatti, che si tratti di sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado (art. 395, comma 1 del codice di procedura civile); e le sentenze in equita' erano da ritenersi, all'epoca, pronunciate in unico grado. Oggi, affermandosi che la sentenza equitativa del giudice di pace non e' ne' una sentenza pronunciata in grado di appello ne' una sentenza pronunciata in unico grado (atteso che essa e', sia pure per motivi limitati, appellabile e, dunque, e' sentenza di primo grado - cosi', al fine analogo di escludere la ricorribilita' in cassazione, Cass. n. 13019 del 4 giugno 2007 e nn. 10774-10775 del 24 aprile 2008), la sentenza equitativa non deve ritenersi impugnabile per revocazione, in particolare, per quanto qui interessa, ex art. 395, n. 4 del codice di procedura civile. Ne' pare possibile una lettura (da ritenersi quale interpretazione conforme a Costituzione, che eliderebbe la necessita' del proponendo dubbio di costituzionalita') dell'art. 395 cit., che faccia dire ad esso che la sentenza equitativa del giudice di pace, come detto appellabile, sia da parificarsi a sentenza emessa in unico grado; si tratterebbe, invero, di un'indebita operazione di ortopedia ermeneutica, che andrebbe oltre i limiti dell'interpretazione estensiva, segnati dal testo della norma, e sconfinerebbe in sostanza in un'applicazione analogica vietata dall'art. 14 disp. prel. c.c. in riferimento a disposizioni tassative e quindi eccezionali quali quelle offerenti il rimedio revocatorio (cfr. per la qualificazione di eccezionalita' della disciplina, Cass. SS.UU. n. 16402 del 25 luglio 2007). Da altro punto di vista, poi, parificare interpretativamente la sentenza resa in equita' dal giudice di pace ad una sentenza in unico grado avrebbe come implicazione quella di ammettere il c.d. «concorso di impugnazioni» (appello a motivi limitati e revocazione) avverso la medesima sentenza, concorso che l'ordinamento processualcivilistico prevede in via isolata ed eccezionale anch'essa, previo approntamento di norme volte a coordinare lo svolgimento dei procedimenti relativi: si pensi, al di la' della peculiare disciplina di coordinamento di cui all'art. 43 del codice di procedura civile, tra regolamento facoltativo di competenza e le impugnazioni ordinarie, alla minuta regolamentazione dell'art. 398, comma 4 del codice di procedura civile, che fornisce il quadro di agibilita' del concorso tra revocazione e ricorso per cassazione; coordinamento che in nessun modo, in via interpretativa, potrebbe essere assicurato da un giudice che volesse tentare la descritta opzione ermeneutica di parificazione della sentenza in equita' del giudice di pace a quella resa in unico grado. Non puo', in tal senso, dunque, avere seguito l'opzione interpretativa, proposta in causa dai Pastore-Garofalo, secondo cui la parte appellante avrebbe dovuto, per far valere i vizi pure ammessi di incostituzionalita' del sistema risultante dalla novellazione del 2006, proporre una istanza in revocazione, pur inammissibile, per poi solo in detta sede processuale sollevare l'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 395 del codice di procedura civile, in quanto non prevedente la revocazione avverso le sentenze equitative del giudice di pace. Invero, pare al Tribunale che l'art. 395 del codice di procedura civile, nel non prevedere - pur dopo la novellazione dell'art. 339, comma 3 del codice di procedura civile - la revocazione delle sentenze in equita' necessaria del g.d.p., non si ponga - per quanto una siffatta considerazione debba valere ai fini del giudizio di rilevanza ai fini della proponendo questione di incostituzionalita' - contro alcun precetto costituzionale, essendo coessenziale al sistema che la revocazione e l'appello siano mezzi di impugnazione tra loro coordinati nel senso dell'esserne esclusa la contemporanea proponibilita' (cio' che, in qualche modo, i Pastore-Garofalo presuppongono), dandosi precedenza, come si dira', all'appello come rimedio generale (e - si diceva da parte della dottrina prima della novellazione - illimitato) all'ingiustizia della decisione. Non puo' sul punto obliarsi la disciplina dell'art. 396 del codice di procedura civile, esplicitamente dettata a coordinare le due impugnazioni, nel senso che: a) e' esclusa in generale la revocazione per le sentenze ancora appellabili; b) e' ammessa la revocazione per le sentenze appellabili, ma per le quali sia scaduto il termine per l'appello, solo quando si tratti dei casi dei nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 (revocazione straordinaria) e la condizione dante luogo all'esperibilita' del rimedio si sia verificata dopo la scadenza stessa; c) se i fatti danti luogo a revocazione nei casi dei nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 avvengono durante il corso del termine per l'appello, il termine stesso e' prorogato per consentire la loro deducibilita' in appello, esclusa la revocazione; d) nei casi di cui ai nn. 4 e 5 dell'art. 395 (revocazione ordinaria), il rimedio generale e' l'appello, restando riservato il rimedio revocatorio alle sole sentenze rese in unico grado o in grado di appello, ad esclusione di quelle appellabili e non appellate. Come accennato, il detto sistematico coordinamento tra mezzi di impugnazione risulta(va) ispirato al principio per cui la sentenza ancora appellabile non e' in alcun modo suscettibile di revocazione, potendo gli eventuali motivi di revocazione essere fatti valere con l'appello, previsto (almeno prima della novellazione dell'art. 339, comma 3 del codice di procedura civile) come rimedio generale antecedentemente illimitato all'ingiustizia della decisione (cosi' ad es. Cass. n. 3104 del 3 marzo 2001). E', dunque, da ritenersi che, anche a seguito della «limitazione» dei motivi d'appello ammissibili avverso le (sole) sentenze equitative del giudice di pace, non essendo intervenuto (direttamente) il legislatore sugli artt. 395 ss. del codice di procedura civile, il principio stesso, ampiamente ritenuto conforme alla Costituzione, resti fermo almeno nella parte in cui avverso la sentenza ancora appellabile non sia ammissibile revocazione, rimedio, come detto eccezionale. In tal quadro, la limitazione dell'appello e la definizione delle sue modalita' attuative da parte del legislatore avrebbero dovuto esse tener conto dell'esistenza di un rimedio revocatorio solo in casi eccezionali, in armonia con la disciplina costituzionale; non puo', cioe', ragionarsi nel senso inverso - in qualche modo sotteso alla posizione dei Pastore-Garofalo - per cui, a seguito della introduzione di un appello «limitato», la novellazione ridondi in dubbi di costituzionalita' in ordine a norme preesistenti, espressive peraltro di cardini del sistema processuale. Non diversamente del resto, in omaggio ad evidenti principi di sistematicita' e di «minimo mezzo», aveva argomentato la Consulta con la citata sentenza n. 206 del 6 luglio 2004 che - nel ritenere incompatibile con la Costituzione la lettura restrittiva che le SS.UU. della S.C. avevano dato, con la sentenza del 15 ottobre 1999, n. 716, della sindacabilita' delle decisioni in equita' del giudice di pace - era intervenuta a tal fine sulla norma novatrice (art. 113, comma 2, c.p.c) che aveva - nella interpretazione assunta dal rimettente come diritto vivente - escluso la rilevanza dei principi regolatori della materia dall'ambito del giudizio di equita', e quindi la relativa sindacabilita' in cassazione; non gia' sulla norma (art. 339, comma 3, c.p.c) che aveva addirittura escluso l'appellabilita' della relative sentenze. Deve allora darsi per appurata la non esperibilita' della revocazione ordinaria contro le sentenze equitative del giudice di pace rese secondo equita', in quanto soggette ad appello pur se limitato (ed un «obiter», del tutto incidentale ed aperto a piu' letture, che secondo solo una delle possibili letture potrebbe deporre nel senso della proponibilita' avverso la medesima sentenza equitatitiva dell'appello a motivi limitati e della revocazione ordinaria, con un coordinamento tra i mezzi non precisato, contenuto nell'ordinanza della S.C. n. 13019 del 4 giugno 2007, non puo' ritenersi costituire diritto vivente). Poiche' dunque la lesione di parametri costituzionali, come si specifichera', sembra derivare, nel caso che ne occupa, solo dalla limitazione dei motivi d'appello, introdotta nell'art. 339, comma 3 del codice di procedura civile, dalla novellazione del 2006, su quest'ultima norma deve concentrarsi l'esame di rilevanza, e per quanto in appresso anche di non manifesta infondatezza, dei dubbi di incostituzionalita' posti dall'intervento novellatore medesimo. 8. Invero, l'applicazione dell'art. 339, comma 3, nuovo testo del codice di procedura civile, al caso di specie si impone, non essendo possibile - per quanto detto - alcuna interpretazione adeguatrice degli artt. 395 ss. del codice di procedura civile, norme queste ultime che non consentono, avverso la sentenza equitativa del giudice di pace, la proposizione della revocazione (contemporaneamente o successivamente rispetto all'appello a motivi limitati, come nell'opzione interpretativa dei Pastore-Garofalo). Deriverebbe dall'applicazione dell'art. 339 infatti - ed in cio' sta il passaggio finale degli argomenti a sostegno della rilevanza del dubbio a proporsi - l 'inammissibilita', come si dira', di motivi di appello avverso sentenze equitative del giudice di pace corrispondenti a quelli che danno accesso alla revocazione (ed in particolare quella ordinaria di cui al n. 4 dell'art. 395 del codice di procedura civile), atteso che i vizi non rientrano in uno dei motivi di appello ammissibili (violazione di norme costituzionali, comunitarie o procedimentali). La supposizione, nella sentenza impugnata, di un fatto la cui verita' e' incontrastabilmente esclusa, se il fatto non costitui' un punto controverso (come nel caso di specie nessuna controversia insorse sul tenore testuale delle dichiarazioni testimoniali), non puo' qualificarsi violazione di norme sul procedimento, atteso che trattasi di errore di fatto, concernente la percezione del tenore testuale degli atti da parte del giudice, e non gia' di erronea applicazione di norme procedimentali: essa neppure puo' qualificarsi come violazione di norme costituzionali o comunitarie, ne' di principi regolatori della materia, non ravvisandosi norme della specie direttamente attinte dall'errore percettivo del giudicante. Del resto, la dottrina ha chiarito che, afferendo i vizi revocatori della specie all'attivita' meramente percettiva del giudicante, essi non sussistono allorche' si tratti, invece, di formulazione di giudizi sul piano logico-giuridico; cio' che vale anche reciprocamente: in altri termini, errori percettivi e violazioni di norme non sussistono insieme, nel senso che, se sussiste un errore percettivo decisivo (che cioe' si ponga direttamente come ragione per l'applicazione di una norma o la formulazione di un giudizio, in luogo di altra inferenza logico-giuridica) e' rilevante quale vizio della decisione solo l'errore e non la violazione della norma; se l'errore non sussiste, rileva di converso solo la violazione delle norma. Non ricorrendo alcuno dei requisiti di ammissibilita' dell'appello a motivi limitati che la norma denuncianda prevede, l'appello dovrebbe essere inammissibile «in parte qua». Mentre, dunque, nell'assetto ante-2006, pur non essendo affatto previsto l'appello avverso le sentenze in equita' necessaria del giudice di pace, ed essendo il ricorso in Cassazione avverso le medesime assoggettato (per il diritto vivente formatosi sull'art. 113 del codice di procedura civile, e per effetto della sentenza additiva di Corte cost. n. 206 del 6 luglio 2004) a limitazioni analoghe a quelle oggi previste per il giudizio d'appello dall'art. 339 del codice di procedura civile, era ben possibile - attraverso la revocazione (in particolare, quella ex art. 395, n. 4 del codice di procedura civile), ammissibile trattandosi di sentenza unico grado, inappellabile - impugnare una sentenza frutto di un errore percettivo da parte del giudice, dopo la novellazione del 2006 l'art. 339 del codice di procedura civile, in quanto inserito nel sistema preesistente, non consentirebbe piu' un rimedio; non con la revocazione, inammissibile trattandosi di sentenza appellabile; non con l'appello, essendo esso a motivi limitati non comprendenti i vizi revocatori. Gli sforzi interpretativi di adeguamento ai parametri costituzionali i quali meglio di seguito si specificheranno, come innanzi condotti sia sull'art. 339 in relazione all'art. 113 del codice di procedura civile, sia sugli artt. 395 ss. del codice di procedura civile, non consentono, per quanto detto, diverso approdo ermeneutico, stanti in particolari i tenori testuali delle norme citate. Puo' soggiungersi che l'essere affetta la decisione del giudice di pace a vizi revocatori neppure potra' denunciarsi, una volta definito l'appello a motivi limitati da parte del Tribunale, in sede di ricorso per cassazione o per revocazione avverso la sentenza del Tribunale; il vizio revocatorio che affligge la sentenza del giudice di pace, essendo il relativo esame sarebbe precluso in appello, «a fortiori» dovrebbe ritenersi non deducibile in cassazione, posto peraltro che esso riguarderebbe non la decisione di appello, ma quella di prime cure; quest'ultima considerazione essendo idonea ad escludere anche una revocabilita', per cosi' dire, «riflessa» della sentenza di appello per vizi afferenti la sentenza di primo grado. 9. Una siffatta conclusione contrasterebbe pero', ad avviso del Tribunale, con significativi parametri costituzionali; cio' che convince, per quanto si dira', oltre che della rilevanza, anche della non manifesta infondatezza del dubbio a prospettarsi al Giudice delle leggi. La mancata previsione, nell'ambito dell'art. 339 del codice di procedura civile, tra i motivi limitati ammissibili a sostegno dell'appello avverso sentenze in equita' del giudice di pace (anche) dei motivi di cui all'art. 395 del codice di procedura civile (e in particolare, per quanto qui rileva, del n. 4 dell'art. 395 cit.), invero, anzitutto pare contrastare con i canoni di ragionevolezza e di eguaglianza, com'e' noto strettamente correlati tra loro, di cui all'art. 3, comma 1 Cost. La scelta, quand'anche inconsapevole o frutto di errore tecnico, del legislatore, di privare alcuni utenti della giustizia (quelli che abbiano visto decisa la propria causa da sentenza in equita' necessaria del giudice di pace) di uno strumento rimediale (l'appello esteso - almeno - anche a motivi sovrapponibili ai casi di cui all'art. 395 del codice di procedura civile, oltre che a violazione di norme procedimentali, costituzionali e comunitarie) concesso agli utenti della giustizia la cui causa sia stata decisa in diritto, infatti, non pare correlata alla «ratio legis»che ha consentito di distinguere, per altri versi, le due posizioni. Tale «ratio», che e' stata quella di creare un giudizio piu' agile, privo del riferimento obbligatorio all'intero ordinamento giuridico sostanziale, ed ancorato solo ai principi regolatori della materia, si correla, infatti, all'esigenza di differenziare le impugnazioni, evitando che l'appello avverso la sentenza equitativa del giudice di pace sia una nuova sede di valutazione di parametri equitativi oramai definitivamente forgiati dal primo giudice sul caso concreto, facendone una sede di revisione da parte del giudice superiore delle sole ingiustizie della sentenza che siano frutto di violazioni di norme processuali o, per quelle sostanziali, apicali del sistema. Appare pero' detta «ratio» deporre a favore, piuttosto che contro, rispetto alla parificazione a detti motivi limitati di appello di quelli di cui all'art. 395 del codice di procedura civile (e, per quanto qui occorre, del suo n. 4), riferiti anch'essi ad eventi tanto gravemente condizionanti la sentenza (si pensi al dolo delle parti e del giudice, alla scoperta di falsita' di prove o al ritrovamento di prove rese inaccessibili da fatto dell'avversario, oltre al caso della supposizione di fatti insussistenti di cui alla presente fattispecie) da imporre anch'essi una scelta legislativa razionale di inclusione nell'ambito dei motivi limitati di appello ex art. 339. Anche dai lavori preparatori, del resto, non emerge la spiegazione di alcun punto di vista idoneo a differenziare le situazioni in via ragionevole. Ed e' noto che, secondo la giurisprudenza della Corte cost. che correla il principio di ragionevolezza a quello di eguaglianza, quest'ultimo principio e' violato quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini (e nel caso di specie, ad utenti della giustizia anche non cittadini o a essi equiparati) che si trovino in situazione eguale. Il parametro dell'art. 3, poi, appare violato anche da altro punto di vista: come sempre afferma la Consulta, valore essenziale dell'ordinamento giuridico e' anche la coerenza tra le parti di cui si compone. La situazione di incoerenza logico-sistematica, correlata ad un adeguato apparato rimediale per i casi di cui all'art. 395 che connotino l'emanazione di una sentenza in equita' necessaria del giudice di pace, e quindi la connessa irrazionalita' di disciplina, discende anche, per quanto detto, da ripetuti e successivi interventi del legislatore (di novazione dell'art. 113 del codice di procedura civile, su cui poi si formava diritto vivente delle SS.UU. della S.C.), del Giudice delle leggi (di dichiarazione di incostituzionalita' dell'art. 113 cit., come letto da detto diritto vivente), e nuovamente del legislatore (di novazione dell'art. 339 del codice di procedura civile). Orbene, per quanto detto circa la genesi dell'impossibilita' - senza che se intraveda la logica rispetto alla «ratio legis» - di far valere i vizi revocatori in sede di appello a motivi limitati, e' evidente che ci si trova di fronte ad un difetto di correlazione logico-giuridica tra l'ultimo intervento normativo (che rendeva appellabile limitatamente la sentenza equitativa) e l'impianto preesistente (che vieta la revocazione delle sentenze appellabili), non superabile interpretativamente, e senza alcun coordinamento tra le norme interessate (artt. 339 e 395 del codice di procedura civile), tale da concretare l'illogicita-vizio della legge, censurabile in sede di controllo di costituzionalita', che ricorre tutte le volte che sia riscontrabile una contraddizione tra prescrizioni positive all'interno di un medesimo testo normativo, prima insussistente (illogicita' «intra legem»). 10. La non appellabilita' (anche) per i motivi di cui all'art. 395 del codice di procedura civile, delle sentenze di equita' necessaria pare altresi' porsi, ad avviso del Tribunale, in contrasto con gli artt. 24, comma 1, 111, comma 1 e 117, comma 1 Cost., quest'ultimo in quanto in relazione di interposizione rispetto all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, cui l'Italia aderisce, ed al diritto vivente derivatone. La possibilita' che sia dato ad un giudice di pronunciare - pur equitativamente - senza una possibilita' di eliminazione dal mondo giuridico della decisione dello stesso, se disancorata dai fatti obiettivamente sussistenti, dalla genuinita' e lealta' delle prove e dalla stessa immunita' della decisione dal dolo delle parti o del giudice, si risolverebbe, infatti, nella sostanziale negazione della garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti e del giusto processo, che in tanto sono assicurati - come impongono le norme costituzionali e convenzionali predette - in quanto l'ordinamento presidi varchi quali quelli che, nel diritto processuale civile italiano, hanno trovato tradizionale garanzia in riferimento a tutte le sentenze - sino alla cennata novellazione dell'art. 339 del codice di procedura civile del 2006 - nell'art. 395 del codice di procedura civile, coordinato con la preesistente disciplina dell'appello «aperto», di modo che con il ricorso all'uno o all'altro rimedio, a seconda dell'essere previsto o meno il doppio grado di giurisdizione di merito, i vizi fossero comunque prontamente rimovibili. 11. Come da altro punto di vista ritenuto dalla Consulta con la citata sentenza n. 206 del 2004, poiche' l'attuale impianto processuale imperniato sull'applicazione dell'art. 339 del codice di procedura civile, nel testo in essere consentirebbe al giudice di pace di pronunciare in equita' restando esentato, nell'esercizio dell'equita' stessa, in sostanza, dal rispetto di fondamentali canoni normativi (talvolta correlati anche a norme penali) quali l'immunita' del «decisum» da dolo e falsita' di prove, oltre che di errori e altri consimili vizi, condensati nell'art. 395 del codice di procedura civile, i quali semmai rileverebbero nella sola sede penale o del successivo risarcimento dei danni, l'art. 339 del codice di procedura civile, potrebbe porsi in contrasto anche con l'art. 101 cpv. Cost., secondo il quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Nel caso di specie, il giudice, per giunta non professionale, per mancanza di un efficace apparato rimediale, resterebbe eccessivamente «legibus solutus», al di la' di qualsiasi ragionevole concezione del giudizio d'equita' (cfr. supra). 12. Il presente procedimento, dunque, non puo' essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale, rilevante e non manifestamente infondata, e deve essere pertanto sospeso, dandosi i provvedimenti di cui al dispositivo.
P. Q. M. a) Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; Promuove d'ufficio, in quanto rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, comma 1, 24, comma 1, 101, comma 2, 111 comma 1 e 117, comma 1 della Costituzione, quest'ultimo parametro in quanto in relazione di interposizione rispetto all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 339, comma 3 del codice di procedura civile, nel testo di cui all'art. 1, decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, applicabile al presente procedimento, nella parte in cui non prevede che le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equita' a norma dell'art. 113, comma 3 del codice di procedura civile, siano appellabili anche per i casi che, se ricorrenti per sentenze pronunciate in appello o in unico grado, renderebbero ammissibile la revocazione in base all'art. 395 del codice di procedura civile; b) Ordina la notificazione del presente provvedimento, in copia conforme integrale, comprensiva di copia conforme integrale della coeva sentenza non definitiva (altra copia conforme di quest'ultima dovendo inserirsi in allegato all'originale di quest'ordinanza a sua volta inserita nel fascicolo d'ufficio), alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alle parti di causa; c) Ordina la comunicazione della presente ordinanza e della coeva sentenza, in copia, ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica; d) Ordina, all'esito, la trasmissione degli atti - ivi comprese le prove delle anzidette notificazioni e comunicazioni - alla Corte costituzionale in Roma; e) Ordina, per l'effetto, la sospensione del procedimento; f) Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui innanzi. Cosi' deciso in Napoli, in data 9 agosto 2011. Il Giudice: Sabato