N. 164 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 gennaio 2012

Ordinanza del 30 gennaio 2012 emessa  dal  Tribunale  di  Napoli  nel
procedimento  civile  promosso  da  Carrassi  Fabio  contro  Garofalo
Sabrina, Pastore Antonio Maria e Milano Assicurazioni S.p.a.. 
 
Procedimento civile - Appellabilita' - Sentenze del giudice  di  pace
  pronunciate secondo equita' a norma dell'art. 113,  comma  secondo,
  c.p.c. - Regime introdotto dal decreto legislativo n. 40 del 2006 -
  Possibilita' di appello solo per motivi specifici (c.d.  appello  a
  motivi limitati) - Mancata  previsione  dell'appellabilita'  per  i
  casi che, se ricorrenti per sentenze pronunciate in  appello  o  in
  unico  grado,  renderebbero  ammissibile  la  revocazione  in  base
  all'art. 395 [in particolare, n. 4] c.p.c. - Contrasto con i canoni
  di  ragionevolezza  e  di  eguaglianza  -   Difetto   di   coerenza
  logico-sistematica tra gli interventi  susseguitisi  in  materia  -
  Violazione della garanzia di tutela giurisdizionale dei  diritti  e
  del giusto processo - Contrasto con  il  principio  secondo  cui  i
  giudici sono soggetti soltanto alla legge. 
- Codice di procedura civile, art. 339, comma terzo, nel testo di cui
  all'art. 1 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40. 
- Costituzione, artt. 3, primo comma, 24,  primo  comma,  101,  comma
  secondo, 111,  primo  comma,  e  117,  primo  comma,  in  relazione
  all'art. 6  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
  dell'uomo e delle liberta' fondamentali [resa esecutiva dalla legge
  4 agosto 1955, n. 848]. 
(GU n.35 del 5-9-2012 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Ha reso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta  al  n.
24447-2008 del ruolo generale  degli  affari  contenziosi  avente  ad
oggetto: appello g.d.p. tra Carrassi  Fabio  (avv.  Alfredo  Sacchi),
appellante, e Garofalo Sabrina e Pastore Antonio Maria (avv. Giovanni
Coppola), appellati, nonche' Milano Assicurazioni S.p.a. (avv.  Luigi
Tuccillo), appellata. 
    Vista la sentenza non definitiva in  pari  data,  con  la  quale,
risolvendosi una «questione» (art. 279, comma 2, n. 4 in relazione al
n. 2 del codice di procedura civile) di carattere processuale, si  e'
dichiarato essere stata la sentenza di  primo  grado,  impugnata  con
appello, pronunciata in equita' dal giudice  di  pace  ex  art.  113,
comma 2 del codice di procedura civile; 
 
                     Ritenuto in fatto e diritto 
 
    1. Come acclarato con sentenza  non  definitiva  emessa  in  pari
data, la presente vicenda  processuale  promana  dalla  proposizione,
innanzi al Giudice di  pace  di  Napoli,  con  citazione  ritualmente
notificata in data 9-15 marzo 2006, di domanda avanzata dalle odierne
appellate  Garofalo  e  Pastore  di  condanna  della  odierna   parte
appellante Carrassi, quale responsabile, e della sua consorte in lite
Milano Assicurazioni  S.p.a.,  quale  impresa  assicuratrice  per  la
r.c.a., al risarcimento di danni derivanti da un sinistro occorso  in
Napoli, via Ruoppolo, in data 27 febbraio 2005. 
    Radicatosi il contraddittorio sulla costituzione e resistenza del
Carrassi e della Compagnia di  assicurazioni,  espletata  istruttoria
mediante audizione, all'udienza del  16  maggio  2007,  del  Carrassi
Fabio  e  del  Pastore  Antonio  Maria,   quali   parti   interrogate
formalmente, e della teste Contemi Francesca nonche', all'udienza del
24 settembre 2007, della teste Ciotola Iolanda e del teste  Caccavale
Paolo, all'esito del processo il giudice  onorario  con  sentenza  n.
7616 del 4 febbraio 2007 («sic»; in effetti, 4  febbraio  2008)  -  7
febbraio 2008 accoglieva  la  domanda,  condannando  solidalmente  il
Carrassi e la Milano S.p.a. al pagamento di euro 800 a  favore  della
Garofalo e di euro 400 a favore del Pastore, oltre accessori e spese. 
    Avverso detta sentenza proponeva gravame l'appellante in epigrafe
innanzi a questo Tribunale con atto notificato  il  13  giugno  2008,
deducendo, nell'ambito del primo  motivo  di  appello,  essere  stata
accolta la domanda «sulla scorta di  dichiarazioni  testimoniali  mai
rese» (p. 3); e, nell'ambito del secondo motivo di appello, avere «il
Giudice di pace  ...  erroneamente  rilevato  che  il  teste  Ciotola
Iolanda  "ha  reso  una  puntuale  e  concordante  deposizione  sulla
dinamica del  sinistro,  compatibile  con  i  danni,  desumibili  dai
rilievi fotografici agli atti di causa, confermando la dinamica cosi'
come prospettata dagli attori", avendo invece ella dichiarato: "sulla
prima circostanza, nulla so in quanto non ero presente all'incidente.
Sulla seconda circostanza, nulla posso  precisare;  ricordo  che  nel
pomeriggio mi trovavo a  casa  di  mia  cugina  Sabrina  Garofalo  ed
assistetti ad una telefonata di cui non posso precisare il contenuto,
ma sentii mia cugina  alterarsi.  Null'altro  so".»  (p.  4  atto  di
appello). 
    Sempre nell'ambito del  secondo  motivo  d'appello,  l'appellante
rilevava che pure in ordine alla deposizione della teste  Contemi  il
Giudice  di  pace  aveva  «fondato  il  proprio   convincimento   ...
esclusivamente su circostanze non risultanti dai verbali di  causa  e
da nessun'altra fonte probatoria, inventandole di sana pianta» (p.  5
atto di appello). 
    Costituitisi anche in appello i sigg.  Pastore  e  Garofalo,  gli
stessi deducevano, tra l'altro, l'inammissibilita' dell'appello,  per
essere stata la sentenza di prime cure emessa in equita' ed essendo i
motivi di appello estranei a quelli,  a  critica  vincolata,  di  cui
all'art. 339 nuovo testo del codice di procedura civile. 
    Si costituiva anche la Compagnia assicuratrice Milano S.p.a., che
chiedeva accogliersi l'appello. 
    Rassegnate dalle  parti  una  prima  volta  le  conclusioni,  con
ordinanza in data 5 luglio 2010, non essendo applicabile al  presente
procedimento la disposizione dell'art. 101 del  codice  di  procedura
civile in vigore per le cause proposte  dal  4  luglio  2009,  veniva
fissata udienza al fine di sottoporre al contraddittorio delle  parti
la      questione,      eventualmente      rilevabile      d'ufficio,
dell'interpretazione  costituzionale  da  darsi,  o  -  in  caso   di
impossibilita' di tale interpretazione  -  di  eventuali  profili  di
incostituzionalita'  della  disciplina  introduttiva  dell'appello  a
motivi limitati (art. 339, comma 3 del codice di  procedura  civile),
tra i quali non sono inclusi i medesimi motivi di  cui  all'art.  395
del codice di procedura civile (e, in particolare, quello di  cui  al
n. 4 dell'art. 395 stesso, laddove la  parte  appellante  lamenta  un
errore di fatto risultante dagli atti di  causa),  a  fronte  di  una
disciplina   della   revocazione   ordinaria   che   -   in    quanto
originariamente coordinata con una disciplina dell'appello a  critica
libera - da' accesso alla stessa solo avverso sentenze pronunciate in
appello o in unico grado. 
    Sentite le parti, le stesse  assumevano  sul  punto  le  seguenti
posizioni: 
    il Carrassi condivideva i dubbi di  legittimita'  costituzionale,
ma cio' «in via astratta» (cfr. comparsa  depositata  il  31  gennaio
2011, p. 1), ritenendo essere la questione non rilevante, per  essere
stata la sentenza impugnata  pronunciata  secondo  diritto,  fondando
tale rilievo sul fatto che era indeterminata la domanda del  Pastore,
per  esserne  possibile  un  accoglimento  per  somma  maggiore   «da
definirsi in corso di  causa»  e,  comunque,  non  potendo  alcunche'
desumersi  dalla  dichiarazione  di  valore  «esente»  ai  fini   del
contributo unificato; 
    i Pastore-Garofalo pure  condividevano  i  dubbi,  ma  ritenevano
possibile una loro  rilevanza  solo  qualora  la  controparte  avesse
proposto revocazione, pur al di fuori dei casi previsti, e  non  gia'
un appello inammissibile  in  quanto  proposto  avverso  sentenza  in
equita', al di fuori dei motivi a critica limitata  di  cui  all'art.
339 del codice di procedura civile (cfr.  memoria  depositata  il  29
ottobre 2010). 
    Con sentenza non definitiva coeva alla presente ordinanza  veniva
dichiarato, come gia' accennato in epigrafe, essere stata la sentenza
di primo grado, impugnata con appello,  pronunciata  in  equita'  dal
giudice di pace ex art. 113, comma 2 del codice di procedura civile. 
    2. L'acclaramento, giusta provvedimento avente veste di sentenza,
e quindi costituente  giudicato  interno  inderogabile  ai  fini  del
prosieguo del giudizio sino a sua  eventuale  rimozione,  dell'essere
stata la sentenza in primo grado pronunciata in equita',  costituisce
la prima valutazione, in punto di rilevanza, in ordine al  dubbio  di
legittimita' costituzionale a sollevarsi. 
    Invero,  l'applicabilita'  al   procedimento   in   esame   della
disposizione, innovativa  e  limitativa  dei  motivi  ammissibili  di
appello, dell'art. 339, comma 2 del codice di procedura civile,  come
introdotta  dal  decreto  legislativo  n.  40  del  2006,  della  cui
legittimita' costituzionale si dubita, discende da detto accertamento
in ordine all'essere stata emessa  la  sentenza  di  prime  cure  nel
quadro di  applicabilita'  dell'art.  113,  comma  2  del  codice  di
procedura civile, cio' su cui le parti hanno dibattuto. 
    Benche' la constatazione dell'esistenza di un  giudicato  interno
sul  punto,  quale  derivante  da  sentenza   non   definitiva,   sia
sufficiente in punto di notazione di  rilevanza  in  proposito,  puo'
comunque accennarsi, in estrema sintesi,  il  percorso  argomentativo
che ha condotto, con la sentenza non  definitiva  che  ad  ogni  buon
conto si richiama  (e  che,  come  da  ordine  alla  cancelleria,  si
disporra' inserirsi in copia  conforme  in  atti  ed  allegarsi  alla
presente ordinanza a pienamente documentare la «relatio»), a ritenere
soggette a giudizio in equita'  le  due  domande,  in  litisconsorzio
facoltativo, proposte dalla Garofalo e dal Pastore: 
    la prima, in quanto indicata  in  valore  pecuniario  che,  anche
sommato all'equivalente pecuniario di interessi  e  rivalutazione  al
momento della domanda, computati secondo i noti  parametri  legali  e
ISTAT, non raggiungeva gli euro 1.100; 
    la seconda, pur non indicata  in  valore  pecuniario,  in  quanto
ristretta da inequivoca clausola di contenimento entro la  competenza
per equita' del giudice di pace,  contenimento  riferibile  -  giusta
giurisprudenza della SC. - alle istanze accessorie di rivalutazione e
interessi, siccome pedisseque a domanda risarcitoria non espressa  in
moneta. 
    E' dunque rilevante, ai  fini  della  definizione  del  processo,
l'applicazione all'appello che qui si esamina dell'art. 339 cit. 
    3. Altra valutazione da  effettuarsi,  in  termini  di  rilevanza
della  proponenda  questione  di   costituzionalita',   concerne   il
sussistere, nell'ambito dei motivi di appello, di  una  doglianza  (o
meglio di piu' d'una doglianza, ma accomunate da un medesimo profilo)
relativa a vizi della sentenza  impugnata  che,  se  fosse  possibile
l'appello a critica limitata ex art.  339  del  codice  di  procedura
civile, anche per motivi corrispondenti a quelli di  cui  al  rimedio
per revocazione ex art. 395 - e in particolare n. 4 - del  codice  di
procedura civile, darebbero luogo (nei limiti in cui un tale opinare,
in  sede  di  formulazione  di  dubbio  di   costituzionalita',   non
costituisce anticipazione  dell'eventuale  sentenza  a  rendersi)  ad
accoglimento della doglianza. 
    In argomento, come detto,  il  Carrassi,  nell'ambito  del  primo
motivo di appello, ha  lamentato  essere  stata  accolta  la  domanda
«sulla scorta di dichiarazioni testimoniali  mai  rese»  (p.  3);  e,
nell'ambito del secondo motivo di appello, avere «il Giudice di  pace
... erroneamente rilevato che il teste Ciotola Iolanda "ha  reso  una
puntuale e  concordante  deposizione  sulla  dinamica  del  sinistro,
compatibile con i danni, desumibili dai rilievi fotografici agli atti
di causa,  confermando  la  dinamica  cosi'  come  prospettata  dagli
attori", avendo invece ella  dichiarato:  "sulla  prima  circostanza,
nulla so in quanto non  ero  presente  all'incidente.  Sulla  seconda
circostanza, nulla posso precisare; ricordo  che  nel  pomeriggio  mi
trovavo a casa di mia cugina Sabrina Garofalo ed  assistetti  ad  una
telefonata di cui non posso precisare il  contenuto,  ma  sentii  mia
cugina alterarsi. Null'altro so".» (p. 4 atto di appello). 
    Anche in ordine alla deposizione della teste Contemi l'appellante
si  doleva  che  il  Giudice  di  pace  aveva  «fondato  il   proprio
convincimento ... esclusivamente su circostanze  non  risultanti  dai
verbali di causa e da nessun'altra fonte probatoria, inventandole  di
sana pianta» (p. 5 atto di appello). 
    In fatto, e nei limiti anzidetti in  cui  cio'  non  anticipa  la
sentenza  eventualmente  a   rendersi,   puo'   qui   rilevarsi   che
effettivamente, dall'esame dei verbali di causa,  si  evince  che  la
deposizione della teste Ciotola (ud. del 24 settembre 2007)  -  lungi
dal rendere una «puntuale e concordante  deposizione  sulla  dinamica
del  sinistro,  compatibile  con  i  danni»  (cosi'  nella   sentenza
impugnata) - legge: «sulla prima circostanza, nulla so in quanto  non
ero presente all'incidente. Sulla seconda  circostanza,  nulla  posso
precisare; ricordo che nel pomeriggio mi trovavo a casa di mia cugina
Sabrina Garofalo ed assistetti ad una telefonata  di  cui  non  posso
precisare il contenuto, ma sentii mia  cugina  alterarsi.  Null'altro
so». 
    Se ne desume la non implausibilita'  della  deduzione,  contenuta
nell'atto di appello, per cui la sentenza si baserebbe su deposizione
mai resa. 
    A tanto puo' aggiungersi, sempre  in  fatto,  che  effettivamente
anche  la  lettura,  data  dal  giudice   non   professionale,   alla
deposizione della teste Contemi, come rilevato nell'atto di  appello,
«introduce» nella deposizione stessa non gia' elementi valutativi, ma
dati fattuali (provenienza del ciclomotore dal lato dei  giardinetti,
attraversamento da parte dell'auto del Carrassi di interspazio tra le
aiuole) non desumibili, neppure indirettamente, dal verbale. 
    4. Su tale substato  fattuale,  deve  poggiare  la  notazione  in
diritto - pur essa essenziale in tema di rilevanza della questione  a
sollevarsi - per cui e'  sostanzialmente  consolidato  l'orientamento
della S.C. (v. ad es. la pronuncia - da cui il seguente estratto - di
Cass. n. 10127 del 25 giugno 2003, oltre i precedenti ivi cit. e  che
si  riporteranno)  secondo  il  quale  in  «un  errore   revocatorio,
denunciabile ai sensi dell'art. 395, n. 4  del  codice  di  procedura
civile» puo' «il giudice [...] incorrere [...] anche nell'esame delle
prove  testimoniali  nella  fase  preliminare  della  lettura   delle
deposizioni raccolte  e  della  percezione  del  loro  incontestabile
significato  letterale  e  logico;  o   perche'   non   abbia   letto
compiutamente il testo della dichiarazione assunta  a  verbale  o  ne
abbia travisato il senso letterale inequivocabile per disattenzione o
per inconsapevole difetto di riflessione o, ancora,  come  si  deduce
essere  avvenuto  nella  specie,  per  avere  attribuito   al   teste
dichiarazioni da costui mai rese. In tali sensi e' l'orientamento  di
questa Corte manifestato con le sentenze n. 7679 del 1986  e  n.  476
del  1996,  cui  questo  Collegio  aderisce,  pur  non  ignorando  il
contrario orientamento espresso da Cass. n. 1099 del 1994.». 
    Al di la' dell'isolata pronuncia contraria del 1994,  l'indirizzo
consolidato  risulta  ben  attestato   anche   nella   giurisprudenza
precedente (v. ad es. Cass. n. 7679 del 18 dicembre 1986  e  n.  6922
del 24 novembre 1986), che ha in sostanza  elaborato  quello  che  e'
oggi diritto vivente, nel senso  che  l'errore  di  fatto  nell'esame
delle prove testimoniali - che legittima il rimedio di  cui  all'art.
395, n. 4 codice di procedura civile -  e'  configurabile,  anche  se
soltanto limitatamente all'attivita' preliminare della lettura  delle
deposizioni raccolte  e  della  percezione  del  loro  incontestabile
significato letterale e logico da parte del giudice, e  non  pure  in
relazione  alla  attivita'  successiva  dello   stesso,   consistente
nell'interpretazione e valutazione del  contenuto  delle  deposizioni
testimoniali ai fini della formazione del proprio convincimento. 
    5.  Applicando  ai  fatti  di   causa   il   predetto   principio
interpretativo dell'art. 395, n. 4 del codice  di  procedura  civile,
che ne fornisce la lettura secondo il diritto vivente, non e' chi non
veda  che,  avendo  precisamente  il  Carrassi   dedotto   un   vizio
revocatorio nella lettura (quantomeno) della deposizione della  teste
Ciotola, se non anche di quella della teste Contemi,  sussisterebbero
(si ribadisce, senza che cio' possa anticipare un'emittenda  sentenza
sul punto) gli estremi (almeno) per la revocazione della sentenza  e,
piu' precisamente, per l 'accoglimento di un motivo di  appello,  ove
ammissibile, fondato su motivo corrispondente a quello di cui al n. 4
dell'art. 395 del codice di procedura civile: invero, dall'esame  del
rapporto tra il peso attribuito  alla  «supposta»  deposizione  della
Ciotola, la  quale  e'  meramente  corroborata  dalla  lettura  della
deposizione Chintemi (in cui pure  sono  inseriti  elementi  fattuali
supposti, e non risultanti dagli atti), e la decisione, si evince con
chiarezza la decisivita' della prima deposizione, nel  senso  che  e'
essa,  nella  logica  della  sentenza,  la  «puntuale  e  concordante
deposizione sulla dinamica del sinistro, compatibile con i danni» che
consente  la  decisione,  in  relazione  al  peso  secondario   della
deposizione Chintemi (ed all'omissione di  ogni  valutazione  -  puo'
soggiungersi d'ufficio -  circa  l'ulteriore  deposizione  di  teste,
anch'egli ignaro dei fatti principali, Caccavale, neppure  menzionato
nel provvedimento del giudice di pace). 
    Dunque,   quand'anche   l'errore   (corrispondente    a    quello
revocatorio)  sussistesse  in  relazione  alla  supposizione  di  una
(diversa da quella effettiva)  deposizione  della  sola  Ciotola,  il
giudizio (che in un procedimento di revocazione sarebbe  rescissorio)
sarebbe aperto ad ogni diversa valutazione probatoria  (tenuto  conto
anche, come detto, del tenore della deposizione Chintemi, non facente
riferimento a taluni dettagli fondamentali, e del tenore  -  negletto
dal g.d.p. - della deposizione poco informata del teste Caccavale). 
    Tanto vale, in  definitiva,  a  rendere  decisivo,  ai  fini  del
giudizio, il sussistere o meno della possibilita' (sussistente,  come
detto, ove fossero deducibili i motivi di  revocazione  ex  art.  395
nell'ambito dell'appello a motivi limitati ex art. 339 del codice  di
procedura civile) di accogliere (almeno alcune del)le doglianze della
parte  appellante  in  merito  agli  errori  di  fatto  in  tema   di
deposizioni testimoniali. 
    6. Cio' posto, deve dirsi che, in un appello senza la limitazione
dell'art. 339 del codice di procedura civile, le doglianze in  parola
sarebbero state certamente esaminabili. In  una  siffatta  logica  di
libera  esaminabilita'  nell'appello  tradizionale  a  motivi  aperti
(anche)  di  motivi  corrispondenti  a  quelli  a  base  del  rimedio
revocatorio era, del resto, costruito il sistema  processuale  civile
italiano prima della novellazione dell'art. 339 cit. 
    Esse, invece, non sono  esaminabili,  ad  avviso  del  Tribunale,
nell'ambito dell'appello  a  motivi  limitati  introdotto,  in  detta
disposizione, dal decreto legislativo n. 40 del 2006. 
    Com'e' noto, la  previsione  di  un  appello  a  motivi  limitati
costitui' la reazione dell'ordinamento alla sentenza  della  Consulta
n. 206 del 6 luglio 2004 che -  nel  ritenere  incompatibile  con  la
Costituzione la lettura restrittiva che le SS.UU. della S.C.  avevano
dato,  con  la  sentenza  del  15  ottobre  1999,   n.   716,   della
sindacabilita' delle decisioni in  equita'  del  giudice  di  pace  -
«reintroduceva»  la   necessita'   di   un   controllo   (oltre   che
sull'applicazione   delle   norme   costituzionali,   comunitarie   e
processuali) anche circa l'applicazione  dei  principi  regolatori  o
informatori della materia e, quindi,  attribuiva  alla  stessa  S.C.,
dinanzi alla quale soltanto erano all'epoca ricorribili  le  sentenze
in equita' dei giudici non togati, un carico di lavoro  dalla  stessa
S.C. ritenuto incompatibile con il ruolo nomofilattico. Ne discendeva
l'esigenza, percepita  dal  legislatore,  di  sgravio  della  S.C.  e
l'attribuzione, per via di novellazione, al giudice d'appello  di  un
controllo con le medesime indicate caratteristiche  di  «limitazione»
dei motivi di critica, tratti dalla sentenza delle SSUU del 1999, con
l'aggiunta dei «principi regolatori della materia». 
    7. Antecedentemente alla novellazione dell'art. 339 del codice di
procedura civile, pacificamente (v.  Cass.  n.  13433  dell'8  giugno
2007) si riteneva  che  avverso  le  sentenze  del  giudice  di  pace
pronunciate  secondo  equita'  -  all'epoca  inappellabili  -   fosse
pienamente ammissibile la domanda di  revocazione;  il  requisito  di
ammissibilita' di legge  e',  infatti,  che  si  tratti  di  sentenze
pronunciate in grado di appello o in unico grado (art. 395,  comma  1
del codice di procedura civile); e le sentenze in  equita'  erano  da
ritenersi, all'epoca, pronunciate in unico grado. 
    Oggi, affermandosi che la sentenza equitativa del giudice di pace
non e' ne' una sentenza pronunciata  in  grado  di  appello  ne'  una
sentenza pronunciata in unico grado (atteso che essa e', sia pure per
motivi limitati, appellabile e, dunque, e' sentenza di primo grado  -
cosi', al fine analogo di escludere la ricorribilita' in  cassazione,
Cass. n. 13019 del 4 giugno 2007 e  nn.  10774-10775  del  24  aprile
2008), la sentenza equitativa  non  deve  ritenersi  impugnabile  per
revocazione, in particolare, per quanto qui interessa, ex  art.  395,
n. 4 del codice di procedura civile. 
    Ne'   pare   possibile   una   lettura   (da   ritenersi    quale
interpretazione conforme a Costituzione, che eliderebbe la necessita'
del proponendo dubbio di costituzionalita') dell'art. 395  cit.,  che
faccia dire ad esso che la sentenza equitativa del giudice  di  pace,
come detto appellabile, sia da parificarsi a sentenza emessa in unico
grado; si tratterebbe, invero, di un'indebita operazione di ortopedia
ermeneutica,  che  andrebbe  oltre  i   limiti   dell'interpretazione
estensiva, segnati dal testo della norma, e sconfinerebbe in sostanza
in un'applicazione analogica vietata dall'art. 14 disp. prel. c.c. in
riferimento a  disposizioni  tassative  e  quindi  eccezionali  quali
quelle offerenti il rimedio revocatorio (cfr. per  la  qualificazione
di eccezionalita' della disciplina, Cass.  SS.UU.  n.  16402  del  25
luglio 2007). 
    Da altro punto di vista, poi, parificare  interpretativamente  la
sentenza resa in equita' dal giudice di pace ad una sentenza in unico
grado avrebbe come implicazione quella di ammettere il c.d. «concorso
di impugnazioni» (appello a motivi limitati e revocazione) avverso la
medesima sentenza, concorso che  l'ordinamento  processualcivilistico
prevede in via isolata ed eccezionale anch'essa, previo approntamento
di norme volte a coordinare lo svolgimento dei procedimenti relativi:
si pensi, al di la' della peculiare disciplina  di  coordinamento  di
cui all'art. 43 del  codice  di  procedura  civile,  tra  regolamento
facoltativo di competenza e le impugnazioni  ordinarie,  alla  minuta
regolamentazione dell'art. 398,  comma  4  del  codice  di  procedura
civile, che  fornisce  il  quadro  di  agibilita'  del  concorso  tra
revocazione e ricorso per cassazione;  coordinamento  che  in  nessun
modo, in via interpretativa, potrebbe essere assicurato da un giudice
che volesse tentare la descritta opzione ermeneutica di parificazione
della sentenza in equita' del giudice di pace a quella resa in  unico
grado. 
    Non  puo',  in  tal  senso,  dunque,  avere   seguito   l'opzione
interpretativa, proposta in causa dai Pastore-Garofalo,  secondo  cui
la parte appellante avrebbe  dovuto,  per  far  valere  i  vizi  pure
ammessi  di  incostituzionalita'   del   sistema   risultante   dalla
novellazione del 2006,  proporre  una  istanza  in  revocazione,  pur
inammissibile, per poi  solo  in  detta  sede  processuale  sollevare
l'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 395 del codice
di procedura civile, in quanto non prevedente la revocazione  avverso
le sentenze equitative del giudice di pace. 
    Invero, pare al Tribunale che l'art. 395 del codice di  procedura
civile, nel non prevedere - pur dopo la novellazione  dell'art.  339,
comma 3 del  codice  di  procedura  civile  -  la  revocazione  delle
sentenze in equita' necessaria del g.d.p., non si ponga - per  quanto
una siffatta considerazione debba valere  ai  fini  del  giudizio  di
rilevanza ai fini della proponendo questione di incostituzionalita' -
contro alcun precetto costituzionale, essendo coessenziale al sistema
che la revocazione e l'appello siano mezzi di impugnazione  tra  loro
coordinati  nel   senso   dell'esserne   esclusa   la   contemporanea
proponibilita'  (cio'  che,  in  qualche  modo,  i   Pastore-Garofalo
presuppongono), dandosi precedenza, come si dira',  all'appello  come
rimedio generale (e - si diceva da parte della dottrina  prima  della
novellazione - illimitato) all'ingiustizia della decisione. 
    Non puo' sul punto  obliarsi  la  disciplina  dell'art.  396  del
codice di procedura civile, esplicitamente dettata  a  coordinare  le
due impugnazioni, nel  senso  che:  a)  e'  esclusa  in  generale  la
revocazione per le sentenze ancora  appellabili;  b)  e'  ammessa  la
revocazione per le sentenze appellabili, ma per le quali sia  scaduto
il termine per l'appello, solo quando si tratti dei casi dei  nn.  1,
2, 3 e 6 dell'art. 395 (revocazione straordinaria)  e  la  condizione
dante luogo all'esperibilita' del rimedio si sia verificata  dopo  la
scadenza stessa; c) se i fatti danti luogo a revocazione nei casi dei
nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 avvengono durante il corso del  termine
per l'appello, il termine stesso e' prorogato per consentire la  loro
deducibilita' in appello, esclusa la revocazione; d) nei casi di  cui
ai nn. 4 e  5  dell'art.  395  (revocazione  ordinaria),  il  rimedio
generale e' l'appello, restando riservato il rimedio revocatorio alle
sole sentenze  rese  in  unico  grado  o  in  grado  di  appello,  ad
esclusione di quelle appellabili e non appellate. 
    Come accennato, il detto sistematico coordinamento tra  mezzi  di
impugnazione risulta(va) ispirato al principio per  cui  la  sentenza
ancora appellabile non e' in alcun modo suscettibile di  revocazione,
potendo gli eventuali motivi di revocazione essere fatti  valere  con
l'appello, previsto (almeno prima della novellazione  dell'art.  339,
comma 3  del  codice  di  procedura  civile)  come  rimedio  generale
antecedentemente illimitato all'ingiustizia della decisione (cosi' ad
es. Cass. n. 3104 del 3 marzo 2001). 
    E', dunque, da ritenersi che, anche a seguito della «limitazione»
dei  motivi  d'appello  ammissibili  avverso   le   (sole)   sentenze
equitative   del   giudice   di   pace,   non   essendo   intervenuto
(direttamente) il legislatore sugli  artt.  395  ss.  del  codice  di
procedura civile, il principio stesso, ampiamente  ritenuto  conforme
alla Costituzione, resti fermo almeno nella parte in cui  avverso  la
sentenza ancora appellabile non sia ammissibile revocazione, rimedio,
come detto eccezionale. In tal quadro, la limitazione dell'appello  e
la definizione delle sue modalita' attuative da parte del legislatore
avrebbero dovuto  esse  tener  conto  dell'esistenza  di  un  rimedio
revocatorio solo in casi eccezionali, in armonia  con  la  disciplina
costituzionale; non puo', cioe', ragionarsi nel senso  inverso  -  in
qualche modo sotteso alla posizione dei Pastore-Garofalo - per cui, a
seguito della introduzione di un appello «limitato», la  novellazione
ridondi in dubbi di costituzionalita' in ordine a norme preesistenti,
espressive peraltro di cardini del sistema processuale. 
    Non diversamente del resto, in omaggio ad  evidenti  principi  di
sistematicita' e di «minimo mezzo», aveva argomentato la Consulta con
la citata sentenza n. 206 del  6  luglio  2004  che  -  nel  ritenere
incompatibile con la  Costituzione  la  lettura  restrittiva  che  le
SS.UU. della S.C. avevano dato, con la sentenza del 15 ottobre  1999,
n. 716, della sindacabilita' delle decisioni in equita'  del  giudice
di pace - era intervenuta a tal fine sulla norma novatrice (art. 113,
comma 2,  c.p.c)  che  aveva  -  nella  interpretazione  assunta  dal
rimettente come diritto vivente - escluso la rilevanza  dei  principi
regolatori della materia  dall'ambito  del  giudizio  di  equita',  e
quindi la relativa sindacabilita' in cassazione; non gia' sulla norma
(art.  339,  comma  3,   c.p.c)   che   aveva   addirittura   escluso
l'appellabilita' della relative sentenze. 
    Deve  allora  darsi  per  appurata  la  non  esperibilita'  della
revocazione ordinaria contro le sentenze equitative  del  giudice  di
pace rese secondo equita', in  quanto  soggette  ad  appello  pur  se
limitato (ed un «obiter», del tutto  incidentale  ed  aperto  a  piu'
letture, che  secondo  solo  una  delle  possibili  letture  potrebbe
deporre nel senso della proponibilita' avverso la  medesima  sentenza
equitatitiva dell'appello  a  motivi  limitati  e  della  revocazione
ordinaria, con un coordinamento tra i mezzi non precisato,  contenuto
nell'ordinanza della S.C. n.  13019  del  4  giugno  2007,  non  puo'
ritenersi costituire diritto vivente). Poiche' dunque la  lesione  di
parametri costituzionali, come si specifichera', sembra derivare, nel
caso che ne occupa, solo  dalla  limitazione  dei  motivi  d'appello,
introdotta nell'art. 339, comma 3 del  codice  di  procedura  civile,
dalla novellazione del 2006, su quest'ultima norma deve  concentrarsi
l'esame di rilevanza, e per quanto in appresso anche di non manifesta
infondatezza, dei dubbi di incostituzionalita' posti  dall'intervento
novellatore medesimo. 
    8. Invero, l'applicazione dell'art. 339, comma 3, nuovo testo del
codice di procedura civile, al caso di specie si impone, non  essendo
possibile - per quanto detto  -  alcuna  interpretazione  adeguatrice
degli artt. 395 ss. del codice  di  procedura  civile,  norme  queste
ultime che non consentono, avverso la sentenza equitativa del giudice
di pace, la  proposizione  della  revocazione  (contemporaneamente  o
successivamente  rispetto  all'appello  a   motivi   limitati,   come
nell'opzione interpretativa dei Pastore-Garofalo). 
    Deriverebbe dall'applicazione dell'art. 339 infatti - ed in  cio'
sta il passaggio finale degli argomenti a  sostegno  della  rilevanza
del dubbio a proporsi - l 'inammissibilita', come si dira', di motivi
di  appello  avverso  sentenze  equitative  del   giudice   di   pace
corrispondenti a quelli che danno accesso  alla  revocazione  (ed  in
particolare quella ordinaria di cui al n. 4 dell'art. 395 del  codice
di procedura civile), atteso che i vizi  non  rientrano  in  uno  dei
motivi di appello ammissibili (violazione  di  norme  costituzionali,
comunitarie o procedimentali). 
    La supposizione, nella sentenza impugnata, di  un  fatto  la  cui
verita' e' incontrastabilmente esclusa, se il fatto non costitui'  un
punto controverso (come  nel  caso  di  specie  nessuna  controversia
insorse sul tenore testuale delle  dichiarazioni  testimoniali),  non
puo' qualificarsi violazione di norme sul  procedimento,  atteso  che
trattasi di errore di fatto, concernente  la  percezione  del  tenore
testuale degli atti da parte del  giudice,  e  non  gia'  di  erronea
applicazione di norme procedimentali: essa neppure puo'  qualificarsi
come  violazione  di  norme  costituzionali  o  comunitarie,  ne'  di
principi regolatori  della  materia,  non  ravvisandosi  norme  della
specie direttamente attinte dall'errore  percettivo  del  giudicante.
Del resto, la dottrina ha chiarito che, afferendo i  vizi  revocatori
della specie all'attivita' meramente percettiva del giudicante,  essi
non sussistono  allorche'  si  tratti,  invece,  di  formulazione  di
giudizi   sul   piano   logico-giuridico;   cio'   che   vale   anche
reciprocamente: in altri termini, errori percettivi e  violazioni  di
norme non sussistono insieme, nel senso che, se  sussiste  un  errore
percettivo decisivo (che cioe' si ponga direttamente come ragione per
l'applicazione di una norma o la  formulazione  di  un  giudizio,  in
luogo di altra inferenza logico-giuridica) e' rilevante  quale  vizio
della decisione solo l'errore e non la  violazione  della  norma;  se
l'errore non sussiste, rileva di converso solo  la  violazione  delle
norma. 
    Non   ricorrendo   alcuno   dei   requisiti   di   ammissibilita'
dell'appello a motivi limitati  che  la  norma  denuncianda  prevede,
l'appello dovrebbe  essere  inammissibile  «in  parte  qua».  Mentre,
dunque, nell'assetto ante-2006,  pur  non  essendo  affatto  previsto
l'appello avverso le sentenze in equita' necessaria  del  giudice  di
pace, ed  essendo  il  ricorso  in  Cassazione  avverso  le  medesime
assoggettato (per il diritto  vivente  formatosi  sull'art.  113  del
codice di procedura civile, e per effetto della sentenza additiva  di
Corte cost. n. 206 del 6 luglio 2004) a limitazioni analoghe a quelle
oggi previste per il giudizio d'appello dall'art. 339 del  codice  di
procedura civile, era ben possibile - attraverso la  revocazione  (in
particolare, quella ex  art.  395,  n.  4  del  codice  di  procedura
civile),   ammissibile   trattandosi   di   sentenza   unico   grado,
inappellabile - impugnare una sentenza frutto di un errore percettivo
da parte del giudice, dopo la novellazione del 2006  l'art.  339  del
codice  di  procedura  civile,  in  quanto   inserito   nel   sistema
preesistente,  non  consentirebbe  piu'  un  rimedio;  non   con   la
revocazione, inammissibile trattandosi di sentenza  appellabile;  non
con l'appello, essendo esso a motivi limitati non comprendenti i vizi
revocatori. 
    Gli   sforzi   interpretativi   di   adeguamento   ai   parametri
costituzionali i quali meglio di  seguito  si  specificheranno,  come
innanzi condotti sia sull'art. 339  in  relazione  all'art.  113  del
codice di procedura civile, sia sugli artt. 395  ss.  del  codice  di
procedura civile, non consentono, per quanto detto,  diverso  approdo
ermeneutico, stanti in particolari  i  tenori  testuali  delle  norme
citate. 
    Puo' soggiungersi che l'essere affetta la decisione  del  giudice
di pace a vizi  revocatori  neppure  potra'  denunciarsi,  una  volta
definito l'appello a motivi limitati da parte del Tribunale, in  sede
di ricorso per cassazione o per revocazione avverso la  sentenza  del
Tribunale; il vizio revocatorio che affligge la sentenza del  giudice
di pace, essendo il relativo esame sarebbe precluso  in  appello,  «a
fortiori» dovrebbe ritenersi  non  deducibile  in  cassazione,  posto
peraltro che esso riguarderebbe  non  la  decisione  di  appello,  ma
quella di prime cure; quest'ultima considerazione essendo  idonea  ad
escludere anche una revocabilita', per cosi' dire,  «riflessa»  della
sentenza di appello per vizi afferenti la sentenza di primo grado. 
    9. Una siffatta conclusione contrasterebbe pero', ad  avviso  del
Tribunale,  con  significativi  parametri  costituzionali;  cio'  che
convince, per quanto si dira', oltre che della rilevanza, anche della
non manifesta infondatezza del dubbio a prospettarsi al Giudice delle
leggi. 
    La mancata previsione, nell'ambito dell'art. 339  del  codice  di
procedura civile,  tra  i  motivi  limitati  ammissibili  a  sostegno
dell'appello avverso sentenze in equita' del giudice di pace  (anche)
dei motivi di cui all'art. 395 del codice di procedura civile  (e  in
particolare, per quanto qui rileva, del n.  4  dell'art.  395  cit.),
invero, anzitutto pare contrastare con i canoni di  ragionevolezza  e
di eguaglianza, com'e' noto strettamente correlati tra loro,  di  cui
all'art. 3, comma 1 Cost. 
    La scelta, quand'anche inconsapevole o frutto di errore  tecnico,
del legislatore, di privare alcuni utenti della giustizia (quelli che
abbiano  visto  decisa  la  propria  causa  da  sentenza  in  equita'
necessaria del giudice di pace) di uno strumento rimediale (l'appello
esteso - almeno - anche  a  motivi  sovrapponibili  ai  casi  di  cui
all'art. 395 del codice di procedura civile, oltre che  a  violazione
di norme procedimentali, costituzionali e comunitarie) concesso  agli
utenti della giustizia la cui causa  sia  stata  decisa  in  diritto,
infatti, non pare correlata alla «ratio legis»che  ha  consentito  di
distinguere, per altri versi, le due posizioni. Tale «ratio», che  e'
stata quella di creare un giudizio piu' agile, privo del  riferimento
obbligatorio  all'intero  ordinamento   giuridico   sostanziale,   ed
ancorato solo ai  principi  regolatori  della  materia,  si  correla,
infatti, all'esigenza di differenziare le impugnazioni, evitando  che
l'appello avverso la sentenza equitativa del giudice di pace sia  una
nuova  sede   di   valutazione   di   parametri   equitativi   oramai
definitivamente  forgiati  dal  primo  giudice  sul  caso   concreto,
facendone una sede di revisione da parte del giudice superiore  delle
sole ingiustizie della sentenza che siano  frutto  di  violazioni  di
norme processuali o, per quelle  sostanziali,  apicali  del  sistema.
Appare pero' detta «ratio» deporre a favore,  piuttosto  che  contro,
rispetto alla parificazione a detti motivi  limitati  di  appello  di
quelli di cui all'art. 395 del codice di  procedura  civile  (e,  per
quanto qui occorre, del suo n. 4), riferiti anch'essi ad eventi tanto
gravemente condizionanti la sentenza (si pensi al dolo delle parti  e
del giudice, alla scoperta di falsita' di prove o al ritrovamento  di
prove rese inaccessibili da  fatto  dell'avversario,  oltre  al  caso
della supposizione  di  fatti  insussistenti  di  cui  alla  presente
fattispecie) da imporre anch'essi una scelta legislativa razionale di
inclusione nell'ambito dei motivi limitati di appello ex art. 339. 
    Anche  dai  lavori  preparatori,  del  resto,   non   emerge   la
spiegazione di  alcun  punto  di  vista  idoneo  a  differenziare  le
situazioni  in  via  ragionevole.  Ed  e'  noto   che,   secondo   la
giurisprudenza  della  Corte  cost.  che  correla  il  principio   di
ragionevolezza a quello di  eguaglianza,  quest'ultimo  principio  e'
violato quando la legge,  senza  un  ragionevole  motivo,  faccia  un
trattamento diverso a cittadini (e nel  caso  di  specie,  ad  utenti
della giustizia anche non cittadini  o  a  essi  equiparati)  che  si
trovino in situazione eguale. 
    Il parametro dell'art. 3, poi,  appare  violato  anche  da  altro
punto di vista: come sempre afferma la  Consulta,  valore  essenziale
dell'ordinamento giuridico e' anche la coerenza tra le parti  di  cui
si compone. La situazione di incoerenza logico-sistematica, correlata
ad un adeguato apparato rimediale per i casi di cui all'art. 395  che
connotino l'emanazione di una  sentenza  in  equita'  necessaria  del
giudice di pace, e quindi la connessa irrazionalita'  di  disciplina,
discende anche, per quanto detto, da ripetuti e successivi interventi
del legislatore (di novazione dell'art. 113 del codice  di  procedura
civile, su cui poi si formava  diritto  vivente  delle  SS.UU.  della
S.C.),   del   Giudice   delle    leggi    (di    dichiarazione    di
incostituzionalita' dell'art. 113 cit., come letto da  detto  diritto
vivente), e nuovamente del legislatore (di  novazione  dell'art.  339
del codice di procedura civile). Orbene, per quanto  detto  circa  la
genesi  dell'impossibilita'  -  senza  che  se  intraveda  la  logica
rispetto alla «ratio legis» - di far valere i vizi revocatori in sede
di appello a motivi limitati, e' evidente che ci si trova  di  fronte
ad  un  difetto  di  correlazione   logico-giuridica   tra   l'ultimo
intervento  normativo  (che  rendeva  appellabile  limitatamente   la
sentenza  equitativa)  e  l'impianto  preesistente  (che   vieta   la
revocazione   delle    sentenze    appellabili),    non    superabile
interpretativamente,  e  senza  alcun  coordinamento  tra  le   norme
interessate (artt. 339 e 395 del codice di procedura civile), tale da
concretare l'illogicita-vizio della legge,  censurabile  in  sede  di
controllo di costituzionalita', che ricorre tutte le  volte  che  sia
riscontrabile   una   contraddizione   tra   prescrizioni    positive
all'interno di  un  medesimo  testo  normativo,  prima  insussistente
(illogicita' «intra legem»). 
    10. La non appellabilita' (anche) per i motivi  di  cui  all'art.
395 del  codice  di  procedura  civile,  delle  sentenze  di  equita'
necessaria pare altresi' porsi, ad avviso del Tribunale, in contrasto
con gli artt. 24, comma 1,  111,  comma  1  e  117,  comma  1  Cost.,
quest'ultimo  in  quanto  in  relazione  di  interposizione  rispetto
all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, cui l'Italia aderisce, ed al
diritto vivente derivatone. 
    La possibilita' che sia dato ad un giudice di pronunciare  -  pur
equitativamente - senza una possibilita' di  eliminazione  dal  mondo
giuridico della decisione dello  stesso,  se  disancorata  dai  fatti
obiettivamente sussistenti, dalla genuinita' e lealta' delle prove  e
dalla stessa immunita' della decisione dal dolo  delle  parti  o  del
giudice, si risolverebbe, infatti, nella sostanziale negazione  della
garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti e del giusto processo,
che in tanto sono assicurati - come impongono le norme costituzionali
e convenzionali predette - in  quanto  l'ordinamento  presidi  varchi
quali quelli che, nel  diritto  processuale  civile  italiano,  hanno
trovato tradizionale garanzia in riferimento a tutte  le  sentenze  -
sino alla cennata novellazione dell'art. 339 del codice di  procedura
civile del 2006 - nell'art.  395  del  codice  di  procedura  civile,
coordinato con la preesistente disciplina dell'appello  «aperto»,  di
modo che con il  ricorso  all'uno  o  all'altro  rimedio,  a  seconda
dell'essere previsto o meno  il  doppio  grado  di  giurisdizione  di
merito, i vizi fossero comunque prontamente rimovibili. 
    11. Come da altro punto di vista ritenuto dalla Consulta  con  la
citata  sentenza  n.  206  del  2004,  poiche'   l'attuale   impianto
processuale imperniato sull'applicazione dell'art. 339 del codice  di
procedura civile, nel testo in essere  consentirebbe  al  giudice  di
pace di pronunciare  in  equita'  restando  esentato,  nell'esercizio
dell'equita' stessa, in sostanza, dal rispetto di fondamentali canoni
normativi (talvolta correlati anche a norme penali) quali l'immunita'
del «decisum» da dolo e falsita' di prove,  oltre  che  di  errori  e
altri  consimili  vizi,  condensati  nell'art.  395  del  codice   di
procedura civile, i quali semmai rileverebbero nella sola sede penale
o del successivo risarcimento dei danni, l'art.  339  del  codice  di
procedura civile, potrebbe porsi in contrasto anche  con  l'art.  101
cpv. Cost., secondo il quale i giudici sono  soggetti  soltanto  alla
legge. Nel caso di specie, il giudice, per giunta non  professionale,
per  mancanza  di  un   efficace   apparato   rimediale,   resterebbe
eccessivamente «legibus solutus», al di la' di qualsiasi  ragionevole
concezione del giudizio d'equita' (cfr. supra). 
    12. Il presente procedimento, dunque, non  puo'  essere  definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
costituzionale, rilevante e  non  manifestamente  infondata,  e  deve
essere  pertanto  sospeso,  dandosi  i  provvedimenti   di   cui   al
dispositivo. 
 
                              P. Q. M. 
 
    a) Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Promuove d'ufficio, in  quanto  rilevante  e  non  manifestamente
infondata, in relazione agli artt. 3, comma  1,  24,  comma  1,  101,
comma 2, 111 comma 1 e 117, comma 1 della Costituzione,  quest'ultimo
parametro in quanto in relazione di interposizione rispetto  all'art.
6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e  delle  liberta'  fondamentali,  la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 339, comma 3 del codice di procedura civile,
nel testo di cui all'art. 1, decreto legislativo 2 febbraio 2006,  n.
40, applicabile al presente procedimento,  nella  parte  in  cui  non
prevede che le sentenze  del  giudice  di  pace  pronunciate  secondo
equita' a norma dell'art.  113,  comma  3  del  codice  di  procedura
civile, siano appellabili anche per i casi  che,  se  ricorrenti  per
sentenze pronunciate  in  appello  o  in  unico  grado,  renderebbero
ammissibile la  revocazione  in  base  all'art.  395  del  codice  di
procedura civile; 
    b) Ordina la notificazione del presente provvedimento,  in  copia
conforme integrale, comprensiva di  copia  conforme  integrale  della
coeva sentenza non definitiva (altra copia conforme  di  quest'ultima
dovendo inserirsi in allegato all'originale di quest'ordinanza a  sua
volta  inserita  nel  fascicolo  d'ufficio),  alla   Presidenza   del
Consiglio dei Ministri ed alle parti di causa; 
    c) Ordina la comunicazione della presente ordinanza e della coeva
sentenza, in copia, ai Presidenti della Camera  dei  Deputati  e  del
Senato della Repubblica; 
    d) Ordina, all'esito, la trasmissione degli atti -  ivi  comprese
le prove delle anzidette notificazioni e comunicazioni -  alla  Corte
costituzionale in Roma; 
    e) Ordina, per l'effetto, la sospensione del procedimento; 
    f) Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui innanzi. 
        Cosi' deciso in Napoli, in data 9 agosto 2011. 
 
                         Il Giudice: Sabato