N. 175 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 giugno 2012

Ordinanza del 7 giugno 2012 emessa dal Tribunale - Sez.  del  riesame
di Lecce nel procedimento penale a carico di R. G.. 
 
Processo penale - Misure cautelari  personali  -  Criteri  di  scelta
  delle misure - Obbligatorieta' della custodia cautelare in  carcere
  quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine a  delitti
  commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis  cod.
  pen., salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che  non
  sussistono esigenze cautelari - Mancata previsione  della  salvezza
  dell'ipotesi  in  cui  siano  acquisiti  elementi   specifici,   in
  relazione al caso concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
  cautelari  possono  essere   soddisfatte   con   altre   misure   -
  Irragionevole  parificazione  di  situazioni  tra  loro  diverse  -
  Irragionevole disparita' di trattamento tra soggetti che  esprimono
  il  medesimo  grado  di  pericolosita'  sociale  -  Violazione  del
  principio del minor sacrificio possibile  al  bene  della  liberta'
  personale  -  Indebita  anticipazione  della  pena  prima   di   un
  giudiziale definitivo accertamento della responsabilita' penale. 
- Codice di procedura penale, art. 275, comma 3. 
- Costituzione, artt. 3, 13 e 27, comma secondo. 
(GU n.36 del 12-9-2012 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Ha pronunziato la seguente ordinanza nei confronti di R.  G.,  n.
Campi S.na il 16 giugno 1979, sull'appello presentato  il  18  luglio
2011 avverso l'ordinanza emessa dal G.U.P.  presso  il  Tribunale  di
Lecce in data 27 giugno 2011 con la quale si rigettava  l'istanza  di
sostituzione della misura della custodia  cautelare  in  carcere  con
quella degli arresti domiciliari. 
    Con la gravata ordinanza il  G.I.P.  rilevava  che  il  ruolo  di
primordine rivestito dal R. nell'ambito del procedimento era di  tale
gravita'  da  risultare  elemento  dei  tutto  neutro  lo  stato   di
incensuratezza.  La  reiterazione   delle   condotte   constestategli
imponeva  pertanto  di  ritenere  ancora  sussistenti  le  originarie
esigenze di cautela. 
    Su appello dell'indagato, la sezione feriale di questo  Tribunale
sostituiva la  misura  originariamente  applicata  con  quella  degli
arresti domiciliari in considerazione: 
    dello stato di penale incensuratezza dell'imputato, ristretto  in
detenzione infra moenia da oltre un anno; 
    dell'atteggiamento collaborativo del predetto,  quale  evincibile
dagli atti di indagine ed istruttori richiamati nell'appello; 
    dell'intervenuto rinvio a giudizio, che  cristallizza  il  quadro
probatorio a suo carico; 
    del trattamento riservato ad altri imputati (S.  e,  di  recente,
S., la cui posizione processuale non e' dissimile da quella del  R.),
quali hanno beneficiato di un'attenuazione (S.) e, addirittura, della
revoca  della  misura   (S.),   che   fa   ritenere   sostanzialmente
ingiustificata la protrazione della restrizione in  carcere  in  capo
all'appellante. 
    Il Tribunale non accoglieva, pero',  l'istanza  di  revoca  della
misura «avuto riguardo alla consistenza  del  quadro  indiziario  (di
fatto non denegato dall'istante, avuto  riguardo  alle  dichiarazioni
auto-accusatorie dallo stesso rese agli inquirenti) ed alla  gravita'
delle imputazioni, onde soltanto esigenze di  proporzionalita'  e  di
adeguatezza  in  riferimento  al  trattamento  riservato   ad   altri
coimputati,  inducono  il   Tribunale,   valutata   la   personalita'
dell'imputato, a ritenere che le esigenze di difesa  sociale  possano
essere parimenti salvaguardate dalla  meno  afflittiva  misura  della
restrizione domiciliare presso la propria residenza». 
    Su ricorso del pubblico ministero e  del  difensore,  la  Suprema
Corte, con sentenza 22/02  -  09/03/2012,  annullava  con  rinvio  la
predetta ordinanza. 
    La  Corte  osservava:  «Fondatamente  il  pubblico  ministero  ha
denunziato la inosservanza dell'art. 275, comma 3, c.p.p.  in  quanto
il  Tribunale,  pur  avendo  ravvisato  la  permanenza  di   esigenze
cautelari,  ha  disatteso  la  presunzione  iuris  et  de   iure   di
adeguatezza della coercizione intramuraria. La relativa eccezione  di
illegittimita'  costituzionale,  tuttavia,  non  e'  rilevante  nella
specie - e nella sede del presente scrutinio  di  legittimita'  -  in
quanto e' preliminare la decisione sul punto della  ricorrenza  delle
esigenze cautelari, oggetto del ricorso dell'imputato  meritevole  di
accoglimento. 
    Risulta, infatti, fondata la censura difensiva circa il vizio  di
motivazione  in  ordine  all'accertamento  della   attualita'   delle
esigenze cautelari. 
    Al di la' del generico riferimento alla gravita'  del  fatto,  il
Collegio non ha dato  conto  del  periculum  libertatis  in  concreto
ravvisato a fronte delle positive circostanze scrutinate,  favorevoli
all'imputato». 
    A questo Tribunale  e'  pertanto  demandato  un  nuovo  scrutinio
sull'impugnazione dell'ordinanza reiettiva l'istanza di revoca  della
misura della custodia in carcere o della sua sostituzione con  quella
degli arresti domiciliari, limitatamente al profilo della sussistenza
di esigenze cautelari. 
    Vanno poste anzitutto due precisazioni. 
    La prima:  l'istanza  dell'indagato  ed  il  successivo  atto  di
appello sostenevano il venir meno di qualsivoglia esigenza cautelare,
anche in minimo grado, sulla base delle seguenti circostanze: 
    l'aver il R., reso nell'interrogatorio  del  28  luglio  2010  ed
ancor piu' in quello dell'8 aprile 2011 dichiarazioni auto  ed  etero
accusatorie; 
    la posizione del R. era ben meno grave di quello  di  S.  A.,  il
quale,  a  seguito  di  interrogatorio  nel  quale  aveva  del  tutto
scagionato l'appellante, era stato scarcerato; 
    il rilevante decorso del tempo dall'esecuzione della  misura  (un
anno al momento della presentazione dell'istanza); 
    la spontanea presentazione ai carabinieri; 
    lo stato di incensuratezza; 
    la delicata situazione familiare; 
    le sue precarie condizioni di salute. 
    La seconda: accogliendo  il  ricorso  del  pubblico  ministero  e
rinviando per un nuovo esame in ordine alla sussistenza  di  esigenze
cautelari  la  Suprema   Corte   ha   adottato   (implicitamente   ma
inequivocabilmente e, cio' che piu' rileva, in  modo  vincolante  per
questo  Tribunale)  un  indirizzo  interpretativo  del  terzo   comma
dell'art.  275  c.p.p.  di  segno  contrario  alla  tesi   difensiva,
anch'essa  prospettata  nell'atto  di  appello  in  via  subordinata,
secondo la quale «e'  possibile  applicare  gli  arresti  domiciliari
nella fase successiva all'adozione originaria della misura coercitiva
carceraria». 
    Questo Tribunale, pertanto,  non  puo'  discostarsi  dal  decisum
della  Corte  secondo  il  quale  anche  successivamente  al  momento
genetico della misura  non  e'  possibile,  in  presenza  di  residue
esigenze cautelari anche di minimo grado, adottare  in  relazione  ai
delitti di cui all' art. 51, commi 3-bis e  3-quater  c.p.p.,  misure
cautelari diverse da quella della custodia in carcere. 
    Al quesito relativo alla assoluta mancanza di esigenze  cautelari
questo Tribunale ritiene  di  confermare,  sia  pure  sulla  base  di
argomentazione diversa, il giudizio  gia'  espresso  con  l'ordinanza
annullata. 
    Va invero osservato come le circostanze addotte nell'impugnazione
come sintomatiche dell'essere  venute  del  tutto  meno  le  esigenze
cautelari o sono state gia' considerate  in  occasione  dell'adozione
dell'ordinanza genetica (la spontanea presentazione  ai  carabinieri,
lo stato di incensuratezza), o si mostrano irrilevanti (le condizioni
di  salute  dell'indagato  -   che   possono   essere   adeguatamente
salvaguardate  con  altri  istituti  processuali  -  e  le   delicate
condizioni familiari) o sono gia' state ritenute infondate da  questo
Tribunale. 
    In occasione di impugnazione di altra ordinanza del G.I.P. con la
quale  si  era  rigettata  una  precedente  istanza   di   revoca   o
sostituzione della  misura  cautelare  custodiale,  questo  Tribunale
aveva rilevato l'inattendibilita' delle dichiarazioni dello S., anche
nella parte in cui tentava  di  scagionare  il  R.,  a  fronte  delle
contrastanti ed attendibili dichiarazioni delle persone offese  (cfr.
ordinanza del 22 febbraio 2011). 
    Deve pertanto concludersi che alcun elemento  di  novita',  fatta
eccezione per il decorso del tempo, e'  intervenuto  a  dimostrazione
dell'assoluta insussistenza di esigenze cautelari. 
    Dinanzi alla  Corte  di  Cassazione  il  difensore  ha  sollevato
questione di costituzionalita' della presunzione di adeguatezza posta
dall'art. 275, comma 3, c.p.p. sulla base  delle  considerazioni  che
seguono: «Si ipotizza che la previsione contenuta nel codice di  rito
costituisca  irragionevole  esercizio  della   discrezionalita'   del
legislatore, violando, in maniera patente, gli articoli 3, 13 comma 1
e 27 comma 2 Cost.; muovendo dalle concrete evenienze  della  vicenda
oggetto del procedimento a quo, che pur essendo tali - ad avviso  del
primo giudice -  da  far  emergere  la  sussistenza  dei  presupposti
applicativi di una misura cautelare (sia quanto ai  gravi  indizi  di
colpevolezza sia quanto alle esigenze cautelari, anche se non  meglio
specificate), si ritiene  che  l'impossibilita'  per  il  giudice  di
salvaguardare  adeguatamente  i  restanti  pericoli   connessi   alla
liberta' dell'imputato attraverso l'applicazione di una  misura  meno
gravosa   della   custodia   in   carcere   rappresenti   motivo   di
irragionevolezza della disciplina censurata. 
    Ed invero, la riferita  disciplina,  in  quanto  derogatoria  del
principio  di  adeguatezza   espresso   nella   prima   parte   della
disposizione sospettata di illegittimita'  costituzionale,  imponendo
una misura piu' afflittiva in tutti i casi  previsti  dalla  medesima
disposizione, si pone in contrasto  con  l'esigenza  di  disporre  la
custodia carceraria solo come extrema ratio. 
    In relazione al profilo di asserita irragionevolezza, la norma di
cui all'art. 275, comma 3  c.p.p.  passibile  di  censura  in  quanto
sottrae al giudice il potere di adeguare la misura al caso  concreto,
pur affidando, incoerentemente, al  medesimo  organo  il  compito  di
apprezzare appieno l'esistenza stessa delle  esigenze  cautelari,  in
cio' dimostrando di non operare correttamente  il  bilanciamento  tra
liberta' personale e misure cautelari. 
    Non puo' non ricollegarsi, altresi',  all'anzidetto  profilo,  in
rapporto al medesimo parametro dell'art.  3  Cost.,  il  sospetto  di
violazione del principio di uguaglianza, giacche' la norma si risolve
con l'appiattire situazione obiettivamente e soggettivamente diverse,
sia in astratto  che  in  concreto,  determinando,  cosi',  un'eguale
risposta cautelare  per  casi  sensibilmente  diversi  tra  loro.  Ed
infine, la lettura combinata degli articoli 13 e  27  Cost.  consegna
l'esigenza di circoscrivere allo strettamente  necessario  le  misure
limitative della liberta' personale, per cui la custodia  in  carcere
ne risulta connotata come rimedio estremo, come modo di  «autotutela»
dell'ordinamento al  quale  ricorrere  soltanto  quando  nessun'altra
misura risulti idonea a tutelare le  esigenze  sottese  alla  cautela
personale. 
    La disciplina denunciata, invece, collide con siffatto principio,
stabilendo un automatismo applicativo che rende inoperanti i  criteri
di proporzionalita' e adeguatezza (pur enunciati  in  generale  dallo
stesso art. 275 c.p.p.), dai  quali  deriverebbe  la  necessita'  che
siano sempre affidati al giudice «il governo dei valori in  gioco»  e
la determinazione in concreto del minimo sacrificio possibile per  la
liberta' personale. 
    Per le argomentazioni  teste'  enunciate,  la  difesa  reputa  la
questione sia rilevante per la risoluzione  del  giudizio  in  corso,
considerato   il    legame    di    strumentalita'    (rectius    «di
pregiudizialita'»)  tra  la  sollevata  questione   di   legittimita'
costituzionale e il giudizio a quo;  l'instaurazione  incidentale  e'
necessitata   dall'inevitabile   applicazione   della    disposizione
sospettata di incostituzionalita' nel giudizio  pendente  dinanzi  al
Tribunale del riesame. 
    Il profilo della concretezza della questione emerge, altresi', se
si mette conto che il giudizio costituzionale si rivela in  grado  di
incidere  positivamente  sul   procedimento   de   quo   laddove   la
declaratoria  di  incostituzionalita'   della   norma   nei   termini
prospettati  dalla  difesa  permetterebbe  all'odierno  prevenuto  di
fruire del regime  piu'  attenuato  degli  arresti  domiciliari  ove,
all'esito del vaglio giudiziale in  sede  di  appello  cautelare,  si
ravvisassero permanenti i pericula libertatis. Non solo. 
    Dalle considerazioni precedentemente svolte non v'e' chi non veda
come  sussista  anche  l'ulteriore   condizione   di   proponibilita'
dell'incidente   di   legittimita'   costituzionale:   la   questione
certamente possiede  prima  facie  fondamento  giuridico,  mentre  il
«ragionevole dubbio» sulla costituzionalita' dell'art. 275,  comma  3
c.p.p. impedisce la  prosecuzione  del  procedimento  principale.  In
questa  prospettiva,  appare  doveroso  lo  svolgimento   di   alcune
riflessioni in tema di delitto aggravato dal metodo mafioso». 
    L'art.  7,  decreto-legge  n.  152/1991,  recante   provvedimenti
urgenti  in  tema  di  lotta  alla  criminalita'  organizzata  e   di
trasparenza e buon andamento dell'attivita'  amministrativa,  prevede
una circostanza aggravante pressoche' comune e  ad  effetto  speciale
connessa con i profili di tipicita' del delitto ex art. 416-bis  c.p.
o comunque con le attivita' delle associazioni di tipo mafioso. 
    La fattispecie si snoda in due varianti: la  prima  consiste  nel
fatto che il delitto base sia commesso «avvalendosi delle  condizioni
previste dall'416-bis del  codice  penale»;  la  seconda  attribuisce
portata  aggravante  «al  fine   di   agevolare   l'attivita'   delle
associazioni previste dallo stesso articolo».  Sopravvenute  a  quasi
dieci anni  di  distanza  dall'introduzione  nell'ordinamento  penale
della corrispondente fattispecie associativa,  le  due  articolazioni
dell'aggravante, cosiddette rispettivamente «del  metodo  mafioso»  e
«dell'agevolazione mafiosa», lasciano trasparire un  preciso  disegno
politico-criminale: assicurare una copertura  repressiva  totale  del
fenomeno criminoso contemplato,  senza  eccessiva  preoccupazione  da
parte del legislatore per i profili di possibile interferenza tra  le
distinte previsioni normative e quindi per  i  margini  di  effettiva
reciproca autonomia  delle  stesse  (crf.  De  Vero,  La  circostanza
aggravante del metodo e del fine  di  agevolazione  mafiosi:  profili
sostanziali e processuali, in Riv. It. Dir. e Proc. pen.,  1997,  01,
0042). Da una prima lettura dell'art. 7,  decreto-legge  n.  152/1991
risulta come le due varianti dell'aggravante sembrino concernere,  la
prima, una sorta  di  postfatto  della  fattispecie  di  associazione
mafiosa  finalizzata  alla  commissione   di   delitti,   in   quanto
l'avvalersi  del  metodo  mafioso  viene  presentato  come  modalita'
effettiva di commissione di un certo delitto: la seconda,  un'ipotesi
di  concorso  eventuale  nel  reato  associativo  per  cosi'  dire  a
consumazione anticipata, poiche' assume rilievo criminoso la semplice
finalita'  di  agevolazione,  senza   il   riscontro   dell'effettivo
vantaggio che l'attuazione del delitto base abbia  rappresentato  per
il sodalizio mafioso. 
    Con particolare riferimento al metodo mafioso, va evidenziato  il
carattere  di  preponderante  autonomia  della  variante  in   parola
rispetto al reato associativo mafioso; il ricorso al metodo  mafioso,
infatti, puo' essere addebitato  tanto  come  generale  connotato  di
struttura del reato associativo e/o  dei  suoi  delitti-scopo  quanto
come concreta modalita' di attuazione di taluno dei delitti  previsti
dalla legge penale che nulla hanno di condivisibile con  il  fenomeno
associativo di tipo mafioso. 
    Ed  invero,  al   dubbio   ermeneutico   circa   l'applicabilita'
dell'aggravante del metodo mafioso  soltanto  o  in  prevalenza  agli
autori delle condotte gia' riferibili all'art. 416-bis  c.p.,  ovvero
se,  al  contrario,  la  cerchia  elettiva  dei   destinatari   della
circostanza aggravante  sia  data  dai  soggetti  estranei  al  reato
associativo gli interpreti  hanno  fornito  una  risposta  pressoche'
unanime. 
    Respinte le tesi estreme, e riconosciuto che soggetti attivi  dei
delitti  aggravati  dal  metodo  mafioso  possono  essere  tanto  gli
intranei quanto gli estranei al sodalizio mafioso, conviene piuttosto
interrogarsi sul grado di complementarieta'  rispettivamente  assunto
dalle    due    sottoipotesi    nell'economia    della    fattispecie
circostanziata. 
    In dottrina si e' affermata l'idea di una  netta  prevalenza  dei
casi  in  cui  gli  autori  dei  delitti  cosi'  aggravati  risultano
appartenere all'associazione: l'opposta  ipotesi  di  estraneita'  al
gruppo criminale viene sostanzialmente ricondotta al limitato  ambito
del  delitto  compiuto  dal  soggetto   che   rivendichi   falsamente
l'appartenenza  al  sodalizio   mafioso,   in   modo   da   sfruttare
«abusivamente» un patrimonio  di  carica  intimidativa  che  non  gli
compete  (De  Liguori,  Concorso  e   contiguita'   nell'associazione
mafiosa, 1996, p. 113 ss.  e  121,  mentre  ribadisce  la  dimensione
marginale del caso di simulazione di  appartenenza  mafiosa,  ravvisa
l'ambito di  applicazione  pressoche'  esclusivo  dell'aggravante  in
relazione agli estranei all'associazione, che  operino  comunque  con
modalita' e metodi propri dei contesti mafiosi; ma  finisce  poi  per
ammettere che questo spazio applicativo e' piu' teorico che reale, di
modo   che   l'unico   e    minimo    riscontro    empirico-criminoso
dell'aggravante resta l'ipotesi di  simulazione  di  appartenenza  al
sodalizio mafioso). 
    La  giurisprudenza  inclina,  di  contro,  a   sottolineare   che
l'aggravante in esame prescinde di per se' ed  in  via  di  principio
dall'appartenenza  all'associazione  criminale,  la  cui  compresenza
resta  comunque  compatibile  con  la   disposizione   dell'art.   7,
decreto-legge n. 152/1991 (tra le altre,  Cass.  18  marzo  1994,  in
Giust. pen., 1994, II, e. 657; Id., 31 gennaio 1994, ivi, 1994,  III,
e. 586; Id., Sez. II, 17 giugno 1993, inedita). 
    Questo secondo orientamento e' stato abbracciato come quello piu'
adatto ad assicurare uno  spazio  di  applicabilita'  dell'aggravante
distinto dall'area di operativita' dell'art. 416-bis c.p. 
    A riguardo sono state avanzate  perplessita'  da  parte  di  chi,
considerando  «non  molto  realistica  l'ipotesi  di   una   condotta
improntata alla millanteria circa l'appartenenza  alla  mafia»,  teme
che l'applicazione della circostanza del metodo mafioso sfumi in  una
sorta di «contestualita' geografica e ambientale»  (cosi',  Insolera,
Diritto penale e criminalita' organizzata, 1996, p. 127): con cio' si
ipotizza l'eventualita' di un'applicazione indiscriminata ai  delitti
commessi in regioni ad alto tasso di  criminalita'  organizzata,  sul
presupposto che specialmente  talune  manifestazioni  criminose,  per
solito connesse all'attivita'  delle  associazioni  mafiose,  possano
sprigionare l'effetto intimidativo in questione indipendentemente  da
concrete  modalita'  esecutive  utilizzate  in  tale  direzione   dal
soggetto attivo del reato. 
    Se allora l'esigenza  di  una  ricostruzione  dell'aggravante  in
termini non (necessariamente) coincidenti con  il  nucleo  del  reato
associativo viene collegata ad una generale istanza, per cosi'  dire,
di «conservazione» (dei margini  di  autonomia)  della  piu'  recente
disposizione di legge, e' necessario anche fornire  indicazioni  piu'
stringenti, frutto di una meditata presa di posizione sul  ruolo  che
il c.d. metodo mafioso  e'  chiamato  a  svolgere  nei  due  distinti
contesti normativi. 
    A questo proposito va chiaramente detto  che,  al  di  la'  della
coincidenza  letterale,  l'elemento  costitutivo  previsto  dall'art.
416-bis c.p. e la circostanza aggravante ex art. 7  decreto-legge  n.
152/1991 si collocano in due ordini  di  grandezze  incommensurabili,
che ne impongono una ricostruzione in termini di reciproca autonomia. 
    La necessita' di ravvisare nella  condotta  del  soggetto  attivo
concreti elementi di intimidazione  evocatori  del  fenomeno  mafioso
consente di evitare  il  rischio,  sopra  accennato,  di  risoluzione
dell'aggravante nella mera «contestualita' geografico-ambientale» del
delitto commesso rispetto agli  ambiti  territoriali  di  piu'  acuta
evidenza della criminalita' organizzata; e cio'  senza  dover  essere
per altro verso costretti a postulare quella  effettiva  affiliazione
del reo ad una associazione mafiosa che ridurrebbe arbitrariamente lo
spazio di operativita' della circostanza. 
    Se tali premesse esegetiche sono condivisibili, allora  non  puo'
non cogliersi  l'irrazionalita'  della  scelta  legislativa  che  non
permetta al giudice di apprezzare l'ascrivibilita' del caso  concreto
all'una   od   all'altra   delle   due   sub-fattispecie    racchiuse
nell'aggravante del metodo mafioso. Ed invero, mentre  la  previsione
legale di una presunzione iuris  et  de  iure  di  adeguatezza  della
custodia carceraria  per  i  delitti  aggravati  dalla  finalita'  di
agevolare l'associazione prevista dall'art. 416-bis c.p. e per quelli
aggravati dal metodo mafioso commessi  dagli  intranei  al  sodalizio
puo'  apparire  ragionevole  perche'  giustificata  dalla   effettiva
esigenza di stroncare  il  vincolo  particolarmente  qualificato  che
sussiste tra l'associazione  mafiosa  radicata  in  un  certo  ambito
territoriale e il proprio affiliato, altrettanto non puo'  dirsi  nel
caso dei reati commessi col metodo mafioso da coloro per i  quali  si
accerta la mancanza di qualsivoglia legame con una cosca mafiosa. 
    Per quanto riguarda l'odierno  ricorrente,  la  semplice  lettura
dell'imputazione evidenzia proprio  che  il  fatto  posto  in  essere
dall'odierno   appellante,   lungi    dal    costituire    spia    di
un'appartenenza, anche non stabile, ad un sodalizio di tipo  mafioso,
ha rappresentato il frutto di un'iniziativa meramente occasionale  ed
episodica   dell'agente,   tutt'al   piu'   contaminata   da   quella
«contestualita'  geografico-ambientale»  di  cui  si  e'   detto   in
precedenza. 
    Con siffatto aspetto, dunque, non va confuso quello  connesso  ad
una eventuale  pericolosita'  piu'  marcata  del  soggetto  che,  nel
commettere uno dei delitti previsti dal codice, sfrutta le condizioni
previste dall'art. 416-bis c.p. in  chiave  di  maggiore  incisivita'
dell'azione posta in essere. 
    Al riguardo, infatti, va ribadito  quanto  gia'  affermato  dalla
Corte costituzionale: la gravita' astratta del reato, considerata  in
rapporto  alla  misura  della  pena  o  alla  natura   dell'interesse
protetto,  e'  significativa  ai  fini  della  determinazione   della
sanzione, ma inidonea a fungere da elemento preclusivo alla  verifica
del grado delle esigenze cautelari e all'individuazione della  misura
concretamente idonea a farvi fronte. 
    Il rimedio all'allarme sociale causato dal reato non puo'  essere
annoverato tra le finalita' della custodia cautelare, costituendo una
funzione istituzionale della pena,  perche'  presuppone  la  certezza
circa  il  responsabile  del  delitto  che  ha  provocato   l'allarme
(sentenze corte cost. n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011,  n.  265  del
2010). 
    Solo la ferrea delimitazione della norma  di  cui  all'art.  275,
comma 3 c.p.p.  all'area  degli  effettivi  delitti  di  criminalita'
organizzata di stampo mafioso rende manifesta la non irragionevolezza
dell'esercizio della discrezionalita' legislativa, atteso il tasso di
pericolosita' (non solo astratto ma anche empirico) per le condizioni
di base della  convivenza  e  della  sicurezza  collettiva  che  agli
illeciti di quel genere e' connaturato. 
    Ma se l'aggravante del metodo mafioso puo' venire a ricomprendere
fattispecie concrete marcatamente differenziate tra loro in punto  di
coefficiente di pericolosita' tanto da atteggiarsi come  variante  ad
ampia  latitudine  applicativa,  non  puo'  revocarsi  in  dubbio  il
carattere  accentuatamente  discriminatorio  della  previsione  della
presunzione assoluta in tema di misure cautelari. 
    Cio' che vulnera i valori costituzionali non e' la presunzione in
se', ma appunto il suo carattere assoluto, che implica una  totale  e
illogica negazione di rilievo al  principio  del  «minore  sacrificio
necessario». 
    Di contro, la previsione di  una  presunzione  solo  relativa  di
adeguatezza  della  custodia  carceraria  atta   a   realizzare   una
semplificazione del  procedimento  probatorio  suggerita  da  aspetti
ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile
da  elementi  di  segno  contrario  -  non   eccede   i   limiti   di
compatibilita' costituzionale. 
    E' pur vero che  nel  passato  la  Corte  costituzionale  ebbe  a
pronunciarsi su  analoga  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 275, comma 3 c.p.p. proprio in relazione a reato  aggravato
ex art. 7, decreto-legge n. 203/1991 (ordinanza n. 450 del 1995), sia
pure nella differente forma dell'agevolazione mafiosa, ritenendone la
manifesta infondatezza;  ebbe  ad  affermare  in  tal  caso  che  «la
previsione di adeguatezza della sola misura in argomento,  per  certi
reati di spiccata gravita indicati nella norma impugnata, non puo' in
primo luogo dirsi incoerente sul piano del raffronto  con  il  potere
affidato al giudice di valutare l'esistenza delle esigenze cautelari:
un raffronto, istituito dal giudice a quo,  fra  elementi  del  tutto
disomogenei, giacche' la sussistenza in concreto di una o piu'  delle
esigenze cautelari prefigurate dalla legge (l'an della  cautela)  non
puo',  per  definizione,  prescindere  dall'accertamento  della  loro
effettiva ricorrenza di volta in volta; mentre la scelta del tipo  di
misura  (il  quomodo  di  una  cautela,  in  concreto  rilevata  come
necessaria) non impone, ex se, l'attribuzione al giudice  di  analogo
potere di apprezzamento, ben potendo  essere  effettuata  in  termini
generali dal legislatore, nel  rispetto  della  ragionevolezza  della
scelta  e  del  corretto  bilanciamento  dei  valori   costituzionali
coinvolti». 
    Si rilevo' ancora come «la delimitazione della norma all'area dei
delitti di criminalita' organizzata di  tipo  mafioso  (delimitazione
mantenuta   nella   recente   novella)   rende   manifesta   la   non
irragionevolezza dell'esercizio della  discrezionalita'  legislativa,
atteso il coefficiente di pericolosita' per  le  condizioni  di  base
della convivenza e della sicurezza collettiva che  agli  illeciti  di
quel genere e' connaturato (sentt. n. 103 del 1993; n. 407 del 1992)»
e che non vi fosse possibilita' di denunciare eventuali disparita' di
trattamento cautelare  «a  fronte  di  ipotesi  delittuose  tra  loro
diverse ... una volta che si consideri il comune denominatore di quei
reati, cio' che costituisce la  ragione  fondante  della  scelta  del
legislatore, vale a dire l'individuazione di un'area  di  reati  che,
per comune sentire, pone a rischio, come si e' gia'  osservato,  beni
primari individuali e collettivi (secondo una linea  gia'  scrutinata
da questa Corte: sent. n. 1 del 1980 citata)». 
    Non v'e' chi non veda come la evoluzione giurisprudenziale  della
Corte  costituzionale  (interessante  ai  fini  che  in  questa  sede
interessano anche l'ordinanza n. 133/2009), alla luce  delle  quattro
decisioni intervenute nel corso degli ultimi  due  anni  di  parziale
declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma  3
c.p.p., ponga oggi  nuovi  profili  di  problematica  interpretazione
della norma processuale in esame, tanto piu' nel peculiare  caso  del
reato aggravato dal metodo mafioso. 
    Ne' tanto piu' appare dirimente l'intervento della Corte  europea
dei diritti dell'uomo, pure citata in alcune  delle  decisioni  della
consulta (6 novembre 2003, Pantano e/ Italia, n.  60851),  limitatosi
al caso specifico del reato p. e p. dall'art. 416-bis  c.p.  per  cui
«la lutte contre le fleau  que  constitue  la  criminalite'  de  type
mafieux peut, dans certains cas, appeler  a'  l'adoption  de  mesures
justifiant une derogation a la regle fixee  par  l'article  5  de  la
Convention. Dans ce contexte, la presomption legale  de  dangerosite'
peut se justifier lorsqu'elle n'est pas absolue. La mise en detention
provisoire de persone accusees de delits lies a  la  criminalite'  de
type mafieux, tend a couper les liens existants entre elles  et  leur
milieu criminel d'origine. Eu  egard  a  la  nature  de  ce  type  de
criminalite' et aux conditions critiques des enquetes  sur  la  mafia
menees par les autorites, comme celle menee contre le  requerant,  le
legislateur italien pouvait raisonnablement estimer que  les  mesures
de precaution s'imposaient  pour  une  veritable  exigence  d'interet
public. Par consequent, la Cour considere que les prorogations de  la
detention provisoire du requerant n'etaient  pas  deraisonnables,  et
elle estime qu'aucune apparence d'arbitraire ne saurait etre  decelee
en l'espece». 
    R. G. e' imputato per  estorsioni  poste  in  essere  con  metodo
mafioso, laddove la modalita' esecutiva del  reato  non  consente  di
poter dire che l'imputato sia  contiguo  all'associazione  mafiosa  o
abbia contatti con tale contesto; da qui  l'irragionevolezza  di  una
presunzione assoluta che lo pone in una condizione di  impossibilita'
ad accedere a regimi cautelari attenuati». 
    Diventa pertanto  rilevante  la  questione  di  costituzionalita'
proposta dal difensore. 
    Essa e' rilevante in quanto in assenza della suddetta presunzione
di adeguatezza il Tribunale avrebbe il potere di valutare liberamente
il grado  delle  esigenze  cautelari  residue  applicando  la  misura
cautelare ritenuta piu' idonea a fronteggiarle. 
    Va in proposito rilevato che il pericolo di reiterazione di reati
della medesima specie di quello  per  cui  si  procede  deriva,  alla
stregua dei criteri indicati dall'art. 274, lettera c), c.p.p.  dalle
specifiche modalita' e circostanze del  fatto  e  dalla  personalita'
dell'indagato. 
    Il  R.,  infatti,  e'  attualmente   imputato   nell'ambito   del
procedimento in esame di plurimi e gravi fatti di reato (associazione
per delinquere finalizzata all'usura, usura  ed  estorsione)  la  cui
condotta si e' protratta, secondo gli addebiti  cautelari,  dal  2006
sino all'emissione  della  misura  cautelare,  dimostrando  con  cio'
l'avvenuto inserimento in un contesto criminale di vaste  proporzioni
e,  in  considerazione  dei  soggetti  che   vi   partecipavano,   di
particolare capacita' criminale. Deve poi  aggiungersi  che  egli  ha
posto in essere una pluralita' di fatti di  reato  per  un  lasso  di
tempo consistente. 
    Da cio' l'impossibilita' di pervenire ad un giudizio  di  assenza
del pericolo di reiterazione di reati della medesima specie di quelli
per cui si procede. 
    E tuttavia il riconosciuto ruolo marginale  del  R.  in  uno  con
l'assenza di precedenti penali fanno chiaramente ritenere  che  dette
esigenze non siano di tale  rilevanza  ed  entita'  da  poter  essere
fronteggiate esclusivamente  con  la  piu'  afflittiva  delle  misure
cautelari previste, tanto piu'  che  non  risultano  «in  alcun  modo
circostanze  dalle  quali  prevedere  il   mancato   rispetto   delle
prescrizioni inerenti una misura cautelare  meno  afflittiva  -  come
quella in esecuzione, che non risulta allo  stato  essere  mai  stata
violata - ove il medesimo vi fosse sottoposto. 
    Da qui la rilevanza della proposta questione, dovendo  ritenersi,
per le ragioni appena esposte, altrettanto adeguata a fronteggiare le
pur persistenti esigenze cautelari  una  misura  meno  afflittiva  di
quella della custodia in carcere. 
    La questione posta appare, poi, non manifestamente infondata. 
    Sulla norma in questione piu' volte la  Corte  costituzionale  e'
stata chiamata a pronunciarsi. Con  ordinanza  n.  450  del  1995  la
Corte, cui il procedimento era stato rimesso dal Tribunale di Firenze
che aveva ravvisato una questione di costituzionalita' della norma in
esame proprio  in  riferimento  all'aggravante  di  cui  all'art.  7,
decreto-legge n. 152/1991, aveva affermato che: 
        la sussistenza in concreto  di  una  o  piu'  delle  esigenze
cautelari prefigurate dalla legge (l'an della cautela) non puo',  per
definizione,  prescindere  dall'accertamento  della  loro   effettiva
ricorrenza di volta in volta; mentre la scelta del tipo di misura (il
quomodo di una cautela, in concreto  rilevata  come  necessaria)  non
impone, ex  se,  l'attribuzione  al  giudice  di  analogo  potere  di
apprezzamento, ben potendo essere effettuata in termini generali  dal
legislatore, nel rispetto della ragionevolezza  della  scelta  e  del
corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti; 
        compete  al  legislatore  l'individuazione   del   punto   di
equilibrio  tra  le  diverse  esigenze,  della   minore   restrizione
possibile della liberta' personale e  dell'effettiva  garanzia  degli
interessi di rilievo costituzionale tutelati attraverso la previsione
degli strumenti cautelari nel processo penale (sentt. n. 1 del  1980;
n. 64 del 1970); 
        la  delimitazione  della  norma  all'area  dei   delitti   di
criminalita' organizzata di  tipo  mafioso  (delimitazione  mantenuta
nella  recente  novella)  rende  manifesta  la  non  irragionevolezza
dell'esercizio  della   discrezionalita'   legislativa,   atteso   il
coefficiente  di  pericolosita'  per  le  condizioni  di  base  della
convivenza e della sicurezza collettiva che  agli  illeciti  di  quel
genere e' connaturato (sentt. n. 103 del 1993; n. 407 del 1992); 
        la predeterminazione in via generale della  necessita'  della
cautela piu' rigorosa (salvi, ovviamente, gli istituti specificamente
disposti a salvaguardia di  peculiari  situazioni  soggettive,  quali
l'eta', la salute e cosi'  via)  non  risulta  in  contrasto  con  il
parametro dell'art. 3  della  Costituzione,  non  potendosi  ritenere
soluzione costituzionalmente obbligata quella di  affidare  sempre  e
comunque  al  giudice  la  determinazione  dell'accennato  punto   di
equilibrio  e  contemperamento  tra  il  sacrificio  della   liberta'
personale  e  gli  antagonisti  interessi  collettivi,  anch'essi  di
rilievo costituzionale; 
        la  censura  di  disparita'  di  trattamento,  per   l'eguale
«risposta cautelare» a fronte di ipotesi delittuose tra loro  diverse
non puo' trovare accoglimento una volta che si  consideri  il  comune
denominatore di quei reati, cio' che costituisce la ragione  fondante
della scelta del legislatore, vale a dire l'individuazione di un'area
di reati che, per comune sentire, pone a rischio,  come  si  e'  gia'
osservato, beni primari individuali e collettivi (secondo  una  linea
gia' scrutinata da questa Corte: sent. n. 1 del 1980 citata); che  il
rilievo che precede vale anche alla luce  della  ulteriore  selezione
qualitativa operata attraverso la recente legge n. 332 del 1995. 
    Con  la  sentenza  n.  265/2010   e'   stata   invece   affermata
l'incostituzionalita' della norma, limitatamente ai  delitti  di  cui
agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater c.p.,  nella
parte in cui non consente l'applicazione di misure diverse da  quelle
della custodia in  carcere  per  l'ipotesi  in  cui  siano  acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti
che le  esigenze  cautelari  possono  essere  soddisfatte  con  altre
misure. 
    Cosi' motivava la Corte: «Secondo  la  giurisprudenza  di  questa
Corte, "le presunzioni assolute, specie quando  limitano  un  diritto
fondamentale della persona, violano il principio di  eguaglianza,  se
sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se  non  rispondono  a  dati  di
esperienza  generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod
plerumque  accidit".   In   particolare,   l'irragionevolezza   della
presunzione assoluta si coglie tutte le volte in  cui  sia  "agevole"
formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione
posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010). 
    Per questo verso, alle figure criminose che interessano non  puo'
estendersi la ratio gia' ritenuta, sia  da  questa  Corte  che  dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo, idonea a giustificare la  deroga
alla disciplina ordinaria quanto ai procedimenti relativi  a  delitti
di mafia in senso stretto: vale a dire  che  dalla  struttura  stessa
della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche -  connesse
alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di  tipo  mafioso
implica un'adesione permanente ad un  sodalizio  criminoso  di  norma
fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta  rete
di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice
- deriva, nella generalita' dei casi concreti ad  essa  riferibili  e
secondo una regola  di  esperienza  sufficientemente  condivisa,  una
esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe  adeguata  solo  la
custodia in carcere (non essendo le  misure  "minori"  sufficienti  a
troncare i rapporti tra  l'indiziato  e  l'ambito  delinquenziale  di
appartenenza, neutralizzandone la pericolosita'). 
    Con  riguardo  ai  delitti  sessuali  in  considerazione  non  e'
consentito pervenire ad analoga conclusione. La regola di esperienza,
in questo  caso,  e'  ben  diversa:  ed  e'  che  i  fatti  concreti,
riferibili alle fattispecie in questione  (pur  a  prescindere  dalle
ipotesi  attenuate  e  considerando  quelle   ordinarie)   non   solo
presentano  disvalori  nettamente   differenziabili,   ma   anche   e
soprattutto  possono  proporre  esigenze  cautelari  suscettibili  di
essere soddisfatte con diverse misure. 
    La  ragionevolezza  della  soluzione  normativa  scrutinata   non
potrebbe essere rinvenuta neppure, per altro  verso,  nella  gravita'
astratta del reato, considerata sia in  rapporto  alla  misura  della
pena, sia - come mostra  invece  di  ritenere  l'Avvocatura  generale
dello Stato - in rapporto alla natura (e, in particolare, all'elevato
rango) dell'interesse tutelato. Questi parametri giocano un ruolo  di
rilievo, ma neppure esaustivo, in sede di giudizio  di  colpevolezza,
particolarmente per la determinazione della sanzione,  ma  risultano,
di per se', inidonei a fungere da elementi preclusivi ai  fini  della
verifica della sussistenza di esigenze cautelari e - per  quanto  qui
rileva - del  loro  grado,  che  condiziona  l'identificazione  delle
misure idonee a soddisfarle». 
    Analoghe considerazioni la Corte  svolgeva  con  le  sentenze  n.
164/2011, con la  quale  si  dichiarava  l'incostituzionalita'  della
norma in relazione  al  delitto  di  cui  all'art.  575  c.p.,  e  n.
231/2011, in relazione a quello p. e p.  dall'art.  74,  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990. 
    Ritiene il Tribunale che  quanto  ripetutamente  affermato  dalla
Corte costituzionale in ordine alla ontologica  non  riconducibilita'
dei delitti contro la liberta' sessuale  e  di  quelli  di  cui  agli
articoli 74 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 e 575
c.p. a quelli espressione dell'appartenenza ad associazioni  di  tipo
mafioso, o della condivisione dei disvalori da queste  fatti  propri,
possa  agevolmente  ribadirsi  anche   con   riferimento   a   quella
particolare  manifestazione  della  condotta  criminosa   consistente
nell'avvalersi delle condizioni di assoggettamento indicate dall'art.
416-bis c.p. 
    Anche tali delitti, invero, hanno o possono avere  una  struttura
individualistica e sono  tali,  per  le  loro  connotazioni,  da  non
postulare    necessariamente    esigenze    cautelari    affrontabili
esclusivamente con la custodia in carcere. 
    L'aggravante   in   parola,   consistendo   in   una    peculiare
manifestazione  dell'azione  antigiuridica,  puo'   accompagnare   la
commissione di qualsiasi fattispecie delittuosa prevista  dal  codice
penale. 
    La locuzione «delitti di mafia» cui  si  fa  ripetutamente  cenno
nelle decisioni della Corte costituzionale finisce con il  parificare
nella sua genericita', sotto  il  profilo  del  disvalore  sociale  e
giuridico, manifestazioni delittuose del tutto  differenti  tra  loro
sia con riferimento alla loro portata criminale che  con  riferimento
alla pericolosita' dell'agente. 
    E' sufficiente la mera  evocazione,  al  fine  di  accrescere  la
portata  intimidatoria   della   condotta   posta   in   essere,   di
un'organizzazione criminale reale o  supposta  ma  con  la  quale  in
realta' l'agente non abbia alcun collegamento perche' tale aggravante
risulti integrata. La giurisprudenza di  legittimita'  sul  punto  e'
costante  nell'affermare  che  «la  circostanza  aggravante  di   cui
all'art. 7 decreto-legge 13 maggio 1991, conv.  in  legge  12  luglio
1991,  n.  203,  qualifica  l'uso   del   metodo   mafioso,   fondato
sull'esistenza in una data zona di  associazioni  mafiose,  anche  in
riguardo alla condotta  di  un  soggetto  non  appartenente  a  dette
associazioni» (Cass. pen., sez. I, sent. n.  4898/2009,  rv.  243346;
nei medesimi termini cfr. sez. I, sent.  n.  5881/2011,  rv.  251830;
sez. I, sent. n. 16883/2010, rv. 246753). 
    Il fatto in esame e' esemplificativo di un siffatto  orientamento
atteso che al R. e' contestato di aver prospettato alla vittima,  nel
caso non avesse trovato i soldi  per  coprire  i  titoli  di  credito
rimasti impagati,  gravi  ritorsioni  consistite  nell'intervento  di
ulteriori «amici» di N. appartenenti alla criminalita' organizzata. 
    Poiche', tuttavia, al R., soggetto incensurato, non e'  in  alcun
modo attribuito di appartenere ad un sodalizio  mafioso  o  di  avere
contiguita' con esso, alla sua posizione non si attagliano  in  alcun
modo le considerazioni svolte  dalla  Corte  costituzionale  e  dalla
stessa  C.E.D.U.  per  giustificare  la   presunzione   assoluta   di
adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere.  Non  si  vede,
infatti, quali legami con l'associazione di tipo mafioso l'appellante
debba recidere posto che essi non sono stati in alcun  modo  ritenuti
esistenti. 
    Se tale presunzione - nella sua assolutezza - e'  stata  ritenuta
ingiustificata persino nei confronti di appartenenti ad  associazioni
dedite al traffico di  stupefacenti  non  si  vede  come  essa  possa
operare nei confronti di chi in ipotesi agisca individualmente  e  si
«limiti» ad evocare - a meri fini funzionali al successo  dell'azione
delittuosa - un'entita' della quale non fa parte. 
    Il Tribunale ritiene che tale sola manifestazione di una condotta
che altrimenti sarebbe sfuggita a  tale  presunzione  non  possa  far
considerare la pericolosita' sociale del suo autore talmente  elevata
da  richiedere  inevitabilmente  l'applicazione  della  custodia   in
carcere. Proprio la possibilita' di formulare  una  ipotesi  concreta
che smentisce la generalizzazione  posta  a  base  della  presunzione
assoluta posta dalla disposizione in  esame  rende  conto  della  sua
irragionevolezza. 
    Se la compatibilita' con i valori costituzionali  dell'art.  275,
comma 3, c.p.p. e'  stata  ravvisata  solo  in  considerazione  della
peculiare  struttura  della  fattispecie  e  delle  sue  connotazioni
criminologiche  connesse  alla  circostanza  che  l'appartenenza   ad
associazioni di tipo mafioso implica  un'adesione  permanente  ad  un
sodalizio criminoso di  norma  fortemente  radicato  nel  territorio,
caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali  e  dotato
di particolare forza intimidatrice, e nella ritenuta esistenza di una
regola di esperienza sufficientemente condivisa secondo la  quale  le
misure «minori» non  sono  sufficienti  a  troncare  i  rapporti  tra
l'indiziato    e    l'ambito    delinquenziale    di    appartenenza,
neutralizzandone la pericolosita', non si vede come tale ratio  possa
ricorrere nel caso in cui tale appartenenza e tale  adesione  non  vi
siano. 
    Ne consegue  un'ingiustificata  parificazione  tra  chi  a  dette
associazioni abbia aderito o intenda agevolare e chi,  invece,  senza
appartenere  ad  esse  intenda  approfittare  della   condizione   di
assoggettamento dalle medesime creato per portare piu'  efficacemente
a compimento il proprio proposito criminoso: comportamento ovviamente
grave ed indice di pericolosita' ma non necessariamente  ed  in  ogni
caso maggiore di chi abbia fatto parte di un'associazione  dedita  al
traffico di stupefacenti. 
    E' ben vero che nella prospettiva della  vittima  del  reato  una
condotta connotata da «mafiosita'» risulta ugualmente ed allo  stesso
modo lesiva del suo bene giuridico, sia che sia stata posta in essere
da persona appartenente ad un'associazione di quel tipo oppur no,  ma
tale uguale percezione attiene evidentemente alla gravita' del  fatto
ed all'allarme sociale che esso suscita ma noie gia' al  pericolo  di
reiterazione dei reati da parte del suo  autore.  La  diversita'  dei
piani e' del tutta evidente e  la  loro  irragionevole  parificazione
finisce con il produrre, come e'  stato  notato,  una  ingiustificata
risposta sanzionatoria  anticipata  rispetto  al  pieno  accertamento
della penale responsabilita'. 
    Richiamate,  pertanto,   e   fatte   proprie   le   condivisibili
argomentazioni svolte dal difensore, il Tribunale ritiene che  l'art.
275, comma 3, c.p.p., nell'imporre necessariamente all'autore  di  un
delitto commesso  avvalendosi  delle  condizioni  previste  dall'art.
416-bis c.p., quando sussistano esigenze cautelari  anche  di  infimo
grado, la piu' afflittiva  delle  misure  cautelari  impedendo  cosi'
all'autorita' giudiziaria  chiamata  ad  applicare  dette  misure  di
valutare se  nel  caso  concreto  risultino  elementi  specifici  che
facciano ritenere altrettanto idonee a soddisfarle altre misure  meno
afflittive, violi: 
    l'art.  3  Cost.,  sia  per  l'irragionevole   parificazione   di
situazioni tra loro diverse (all'interno delle ipotesi per  le  quali
la presunzione assoluta opera) che  per  l'altrettanto  irragionevole
disparita' di trattamento tra  soggetti  che  esprimano  il  medesimo
grado di pericolosita' sociale; 
    l'art. 13 Cost., per  la  lesione  dell'affermato  principio  del
minor sacrificio possibile al bene della liberta' personale 
    l'art.  27,  comma  2,  Cost.,  in  quanto  l'applicazione  della
custodia in carcere in mancanza di una effettiva e concreta  esigenza
cautelare costituisce una indebita anticipazione di  una  pena  prima
ancora di un giudiziale definitivo accertamento della responsabilita'
penale. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli articoli 134 Cost. e 23 n. 87/1953 dichiara rilevante e
non   manifestamente   infondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale, nei termini di cui  in  motivazione,  dell'art.  275,
comma 3, c.p.p. nella parte in cui prescrivendo che quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine a delitti commessi avvalendosi
delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p. e' applicata la  misura
cautelare della  custodia  in  carcere,  salvo  che  siano  acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non
fa salva l'ipotesi in cui  siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    Sospende il presente procedimento. 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale. 
    Ordina che a cura della cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei  ministri  e
comunicata ai Presidenti del Senato della Repubblica e  della  Camera
dei deputati. 
        Cosi' deciso in Lecce, addi' 4 maggio 2012 
 
                    Il Presidente est.: Piccinno