N. 269 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 settembre 2012

Ordinanza del 10 settembre 2012 emessa dalla Corte  di  cassazione  -
sezioni unite penali nel procedimento penale a carico di L. M.. 
 
Processo penale - Misure cautelari  personali  -  Criteri  di  scelta
  delle misure - Obbligatorieta' della custodia cautelare in  carcere
  quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti
  commessi  al  fine  di  agevolare  l'attivita'  delle  associazioni
  previste dall'art. 416-bis cod. pen.,  salvo  che  siano  acquisiti
  elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari  -
  Mancata  previsione  della  salvezza  dell'ipotesi  in  cui   siano
  acquisiti elementi specifici, in relazione al  caso  concreto,  dai
  quali risulti che le esigenze cautelari possono essere  soddisfatte
  con altre misure - Ingiustificata  parificazione  dei  procedimenti
  relativi  ai  delitti  aggravati   ai   sensi   dell'art.   7   del
  decreto-legge n. 152 del 1991 a quelli  concernenti  i  delitti  di
  mafia - Irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare
  delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi  punitivi
  considerati - Violazione  del  principio  di  inviolabilita'  della
  liberta' personale - Violazione del principio di non colpevolezza. 
- Codice di procedura penale, art.  275,  comma  3,  come  modificato
  dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio  2009,  n.  11,
  convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38. 
- Costituzione, artt. 3, 13, primo comma, e 27, comma secondo. 
(GU n.48 del 5-12-2012 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE  
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto  da  L.
M., nato ad Alcamo il 24/10/1977 avverso l'ordinanza  del  14/10/2011
del Tribunale di Palermo. 
    Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 
    Udita la relazione svolta dal consigliere Vincenzo Romis; 
    Udito il Pubblico Ministero, in  persona  dell'Avvocato  Generale
Massimo Fedeli, che ha chiesto il rigetto del ricorso; 
    Uditi i difensori, avv. Giuliano Dominici e avv. Fabio Calderone,
i quali hanno concluso per l'accoglimento dei motivi di ricorso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. Il Tribunale di Palermo, in funzione di  giudice  dell'appello
cautelare, accoglieva, con provvedimento del 14 ottobre 2011  -  dep.
il 2 novembre  successivo  -  l'impugnazione  proposta  dal  pubblico
ministero avverso l'ordinanza del 26 settembre 2011, con la quale  il
Giudice per le indagini  preliminari  del  medesimo  Tribunale  aveva
applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari, in luogo  di
quella della custodia carceraria inizialmente disposta, nei confronti
di L. M., condannato in esito a giudizio abbreviato per il  reato  di
favoreggiamento personale aggravato dalla circostanza di cui all'art.
7  del  d.l.  n.  152  del  1991,  cosi'  riqualificata  l'originaria
imputazione di partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso. 
    Il Tribunale, dopo aver rilevato che anche per i reati  aggravati
secondo la previsione di cui all'art. 7 del citato decreto  opera  la
presunzione assoluta di adeguatezza della  custodia  in  carcere,  ai
sensi dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., concludeva  nel  senso
che  detta  misura  non  poteva  essere  sostituita,  in   corso   di
esecuzione, con altra meno afflittiva. 
    2. Avverso detta ordinanza ricorre per cassazione, per mezzo  del
difensore,  il  L.,  deducendo  violazione  di  legge  e  difetto  di
motivazione con argomentazioni che possono cosi' sintetizzarsi: a) la
sentenza  di  condanna  ha  riqualificato  il   fatto,   evidenziando
l'assenza  di  significativi  contatti  del  L.  con  la  consorteria
mafiosa; b) la recente giurisprudenza costituzionale ha  individuato,
nelle  presunzioni   di   adeguatezza,   aspetti   della   disciplina
processuale contrastanti con il principio  di  uguaglianza,  ove  non
rispondano a "dati di esperienza generalizzati"; c) la presunzione di
adeguatezza,  nel  caso  di  specie,  sarebbe  irragionevole,  stante
l'assenza di collegamenti con la  criminalita'  organizzata  di  tipo
mafioso; d) l'ordinanza impugnata non avrebbe valutato  le  deduzioni
difensive circa la  prospettata  insussistenza  dei  presupposti  per
l'adozione di misure cautelari. 
    Con atto successivo, il ricorrente, per mezzo di altro difensore,
ha depositato motivi nuovi  con  i  quali,  richiamato  il  contrasto
giurisprudenziale  in  materia  e  dedotta  la  necessita'   di   una
rimessione  del  ricorso  alle  Sezioni  Unite,  ha  sottolineato  il
carattere eccezionale della  disposizione  contenuta  nell'art.  275,
comma 3, cod. proc. pen. e, dunque, l'impossibilita' di farne oggetto
di interpretazione estensiva e di applicazione analogica per regolare
anche le ipotesi diverse  da  quella  della  primigenia  applicazione
della misura e quindi le vicende successive del regime cautelare. 
    3. La Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato  assegnato
in relazione ai criteri tabellari,  con  ordinanza  n.  7586  del  14
febbraio 2012, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite,  rilevando
un contrasto circa l'esistenza o meno di  un  automatismo  legale  in
riferimento  anche  al  perdurare   della   presunzione   legale   di
pericolosita' in ordine ai delitti di matrice mafiosa, 
    Con decreto del 29 febbraio 2012, il Primo Presidente ha disposto
la restituzione del procedimento alla Seconda Sezione Penale per  una
nuova valutazione circa la sussistenza e  attualita'  del  denunciato
contrasto, alla luce del principio di diritto affermato dalle Sezioni
Unite di questa Corte, n. 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, secondo cui
«anche nel momento della sostituzione della misura cautelare  giocano
le presunzioni» di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.;  «una
diversa soluzione, evidentemente, renderebbe del tutto irrazionale il
sistema». 
    In merito a detto decreto presidenziale la difesa del  ricorrente
ha depositato note, osservando, tra l'altro, che, a  suo  avviso,  la
presunzione  assoluta  di  adeguatezza  della  custodia  in   carcere
potrebbe trovare giustificazione soltanto nei  casi  di  condotte  di
appartenenza ad associazioni di tipo mafioso e non anche nei casi  di
addebiti qualificati dalla circostanza aggravante di  cui  al  citato
art. 7: ha chiesto quindi la rimessione della  questione  alla  Corte
Costituzionale. 
    Con ordinanza del 18 aprile 2012, dep. l'11 maggio successivo, la
Seconda Sezione Penale, pur dopo il decreto del Primo  Presidente  di
restituzione del procedimento -  di  cui  sopra  si  e'  detto  -  ha
nuovamente  rimesso  il  ricorso  del  Lipari  alle  Sezioni   Unite,
rilevando che, alla luce della recente giurisprudenza  costituzionale
sull'art. 275, terzo comma, cod. proc. pen., il momento  genetico  di
applicazione della misura  cautelare  e  le  vicende  successive  del
titolo dovrebbero essere  autonomamente  considerati  in  riferimento
alla ragione che  giustifica  la  deroga  alla  disciplina  ordinaria
prevista per i procedimenti  di  mafia.  La  massima  di  esperienza,
secondo cui il vincolo di appartenenza a un sodalizio criminoso  puo'
essere interrotto soltanto dalla misura cautelare della  custodia  in
carcere, sarebbe  altamente  persuasiva  in  riferimento  al  momento
applicativo, non cosi' relativamente al periodo  successivo,  proprio
perche'  il  vincolo  associativo   sarebbe   stato   nel   frattempo
contrastato dall'applicazione della misura. La parificazione dei  due
momenti  ai  fini  della  presunzione  legale  di   adeguatezza   non
risulterebbe  allora   giustificata   secondo   il   criterio   della
ragionevolezza. Peraltro, non sembrerebbe ragionevole l'estensione di
questo  trattamento  derogatorio,   dagli   addebiti   cautelari   di
appartenenza ad associazioni  di  tipo  mafioso,  agli  addebiti  per
qualsivoglia delitto che sia soltanto aggravato dall'uso  del  metodo
mafioso o dalla finalita' di agevolazione di un'associazione mafiosa,
secondo la previsione di cui all'art. 7 della legge n. 203 del  1991,
perche' in tali ultime ipotesi non sarebbe ravvisabile la  necessita'
di recidere un vincolo nemmeno contestato. 
    4. Con decreto  del  14  maggio  2012,  il  Primo  Presidente  ha
assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando  l'odierna  udienza
per la trattazione in camera di consiglio. 
    5. In data 3 luglio 2012 sono  state  depositate  ulteriori  note
difensive da uno dei difensori, con le quali  sono  state  richiamate
tutte le precedenti argomentazioni svolte con  il  ricorso  e  con  i
motivi nuovi, ed e' stato inoltre evidenziato quanto segue: a) con la
recente  sentenza  n.  110  del  2012,  la  Corte  Costituzionale  ha
sottolineato che le precedenti  declaratorie  di  incostituzionalita'
concernenti l'art. 275, comma 3, del  codice  di  rito,  non  possono
estendersi alle altre fattispecie criminose ivi disciplinate e che la
lettera della norma impugnata - il cui significato  non  puo'  essere
valicato neppure per  mezzo  dell'interpretazione  costituzionalmente
conforme - non consente in via interpretativa di conseguire l'effetto
che  solo  una  pronuncia  di  illegittimita'   costituzionale   puo'
produrre: in  proposito,  il  difensore  ha  pertanto  richiamato  la
questione  di  legittimita'   costituzionale   della   normativa   di
riferimento quale gia' prospettata con  le  precedenti  note;  b)  la
imputazione originariamente elevata a carico  del  L.  e'  stata  poi
derubricata in favoreggiamento personale aggravato  dall'art.  7  del
d.l. n. 152 del 1991, con conseguente riconosciuta estraneita' del L.
stesso alla compagine associativa mafiosa: vengono quindi riprese  le
argomentazioni  della  Corte  Costituzionale  circa  le   presunzioni
assolute  e  si  osserva  che,  quanto  al  L.,  la  presunzione   di
adeguatezza della piu' grave misura  cautelare  rimarrebbe  collegata
all'aggravante ritenuta in sentenza; c) nel ritenere giustificato  il
regime  derogatorio  in  rapporto  ai  delitti  di  mafia,  la  Corte
Costituzionale  ha  in  particolare  valorizzato  l'appartenenza  del
soggetto ad associazioni mafiose, situazione  non  riscontrabile  nel
caso del L. in conseguenza della derubricazione  del  reato;  d)  nel
corso  della  vicenda  cautelare  andrebbe   sempre   verificata   ed
assicurata la conformita' della misura ai principi di  adeguatezza  e
proporzionalita', potendo il  giudice  disporre,  nel  prosieguo,  di
elementi di valutazione delle esigenze cautelari  diversi  da  quelli
presenti al momento dell'applicazione della misura restrittiva: ed in
proposito si sostiene che, diversamente opinando, ci si  porrebbe  in
contrasto con i principi affermati dalla Corte  Costituzionale  nelle
numerose sentenze in materia nonche' con l'indirizzo di  fondo  della
stessa sentenza Ambrogio delle Sezioni  Unite.  A  conclusione  delle
note quali appena illustrate, il difensore ha ribadito  la  richiesta
principale di accoglimento del ricorso e, in  subordine,  ha  chiesto
che venga sollevata questione di  legittimita'  costituzionale  della
normativa di riferimento - artt. 275, comma 3, e 299, comma  2,  cod.
proc. pen. - sotto i seguenti profili:  1)  nella  parte  in  cui  e'
prevista l'obbligatorieta' della custodia in carcere per ogni delitto
aggravato dal citato art. 7 ovvero, in piu' stretta relazione al caso
di  specie,  «commesso  al  fine  di  agevolare   l'attivita'   delle
associazioni previste dall'art. 416-bis cod. pen.»; 2) nella parte in
cui non prevede che l'obbligatorieta' della misura della custodia  in
carcere operi soltanto in occasione del provvedimento genetico, e non
quando siano invece successivamente acquisiti elementi specifici  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. Il tema di indagine e di decisione sul quale le Sezioni  Unite
sono state chiamate a pronunciarsi consiste nello  stabilire  «se  la
presunzione di adeguatezza della custodia in  carcere  ex  art.  275,
comma 3, cod. proc. pen. operi solo in  occasione  dell'adozione  del
provvedimento genetico della misura coercitiva o  riguardi  anche  le
vicende successive  che  attengono  alla  permanenza  delle  esigenze
cautelari» (nella concreta fattispecie relativa a reato aggravato  ai
sensi dell'art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. dalla  legge
12 luglio 1991, n. 203). 
    Pertanto, i riferimenti normativi di  carattere  procedurale  sui
quali bisogna focalizzare l'attenzione in questa sede sono gli  artt.
275, comma  3,  e  299,  comma  2,  cod.  proc.  pen.,  disposizione,
quest'ultima, in cui risulta espressamente richiamato lo stesso  art.
275, comma 3. 
    2. L'art. 275 cod. proc. pen. indica i  criteri  cui  il  giudice
deve attenersi per individuare  la  misura  da  ritenersi  idonea  in
relazione alla  natura  ed  al  grado  delle  esigenze  cautelari  da
soddisfare nel caso concreto; nel comma 3 dello  stesso  articolo  e'
pero' stabilita una presunzione assoluta di  adeguatezza  della  sola
misura della custodia in carcere per i delitti ivi  elencati,  «salvo
che siano acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari» dunque, per tali delitti, e' obbligatoria la piu'
afflittiva  delle  misure  cautelari,  purche'  sussistano   esigenze
cautelari, a nulla rilevando la natura ed il grado delle stesse. 
    Il comma 2 dell'art. 299 cod.  proc.  pen.  e'  cosi'  formulato:
«Salvo quanto previsto dall'art. 275, comma  3,  quando  le  esigenze
cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata  non  appare
piu' proporzionata all'entita' del  fatto  o  alla  sanzione  che  si
ritiene possa essere irrogata, il giudice sostituisce la  misura  con
un'altra meno grave ovvero ne dispone  l'applicazione  con  modalita'
meno gravose». 
    In relazione alle due norme citate, e' sorto nella giurisprudenza
di questa Corte un contrasto interpretativo in ordine alla  questione
se la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in  carcere,
per i reati indicati nell'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.,  debba
trovare   applicazione   solo   in   occasione   dell'adozione    del
provvedimento genetico della misura coercitiva o  riguardi  anche  le
vicende  successive  a  tale  momento,  con  conseguente  irrilevanza
dell'eventuale attenuazione delle esigenze  cautelari  (a  meno  che,
ovviamente, le stesse non siano venute a mancare del tutto). 
    3.  Il  quadro  giurisprudenziale  che  si  e'  delineato   sulla
questione giuridica controversa puo' essere sinteticamente illustrato
come segue. 
    3.1. La tesi secondo cui la presunzione assoluta  di  adeguatezza
della custodia in carcere governa soltanto il momento iniziale  della
misura e' stata prospettata, nell'epoca piu' recente, da Sez.  6,  n.
25167 del 18/02/2010, Gargiulo, Rv. 247595: con  detta  decisione  e'
stato affermato che l'obbligatorieta' della custodia in  carcere  non
puo' avere riguardo alle vicende successive all'adozione della misura
stessa, perche' in tali ipotesi occorre valutare il decorso del tempo
e  la  concreta  sussistenza  della  pericolosita'  sociale,  con  la
conseguenza della doverosita' della verifica circa la possibilita' di
sostituzione della misura originaria con altra meno afflittiva. 
    Tale sentenza ha fatto  richiamo,  per  avvalorare  la  soluzione
adottata, a due  precedenti  datati,  e  cioe'  Sez.  6,  n.  54  del
13/01/1995, Corea, Rv. 200564 e  Sez.  1,  n.  3592  del  24/05/1996,
Corsanto, Rv. 205490 che enunciarono il seguente principio:  «qualora
in grado di appello venga affermata, nei  confronti  di  un  soggetto
sottoposto alla misura degli  arresti  domiciliari,  la  sussistenza,
esclusa nel primo giudizio, di uno dei reati per i quali l'art.  275,
comma 3, cod. proc. pen. impone la custodia cautelare in carcere,  ai
fini della  decisione  sullo  status  libertatis  dell'imputato  deve
aversi riguardo non gia' al suddetto art. 275, poiche' non  si  verte
in tema di prima applicazione di una misura cautelare di  coercizione
personale, bensi' all'art. 299, comma 4, cod. proc. pen., che prevede
la modifica peggiorativa della  precedente  misura  in  corso  quando
risultino aggravate le esigenze cautelari; ne consegue che la pura  e
semplice  intervenuta  condanna  per  uno  dei  reati  predetti,  non
accompagnata da alcun elemento sintomatico dell'emergere  di  qualche
evenienza negativamente influente sulle esigenze cautelari, non  puo'
essere idonea a modificare il quadro giuridico-processuale  esistente
al momento della concessione degli arresti domiciliari ed  a  fondare
il ripristino della custodia in carcere». In particolare, la seconda,
tra  le  due  decisioni   appena   richiamate,   fonda   il   proprio
convincimento sulla regolamentazione specifica e  autonoma  del  c.d.
ripristino, contemplato dagli artt. 300, comma 5, e 307, comma 2, del
codice di rito. Da  tale  premessa  si  trae  la  conclusione  che  i
parametri valutativi per l'accertamento delle esigenze  cautelari  di
cui all'art. 274, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., richiamate
dall'art. 300, comma 5, stesso codice, devono essere  ricavati  dalla
regola generale di cui  all'art.  299,  comma  4,  cod.  proc.  pen.,
secondo cui «il giudice, su richiesta del p.m., sostituisce la misura
applicata con altra piu' grave ovvero ne dispone  l'applicazione  con
modalita'  piu'  gravose»,  ove  «le  esigenze  cautelari   risultano
aggravate». 
    Da ultimo, detto  indirizzo  interpretativo  e'  stato  ribadito,
senza pero' il ricorso ad ulteriori  argomentazioni  a  sostegno,  da
Sez. VI, n. 4424  del  20/10/2010,  dep.  04/02/2011,  D'Angelo,  Rv.
249188. 
    3.2. In senso contrario si  e'  invece  orientata  la  prevalente
giurisprudenza. 
    Gia' Sez. 1, n. 3274 del 07/07/1992, Bigoni, Rv. 191558 preciso',
quanto alla disposizione dell'art. 275, comma  3,  cod.  proc.  pen.,
nella formulazione allora in vigore, che «la custodia in carcere, una
volta  accertata  l'esistenza  di  gravi   indizi   di   colpevolezza
dell'indagato,  non  puo'   essere   sostituita   con   gli   arresti
domiciliari»:  con  tale  decisione  fu  ritenuto  inapplicabile,  in
relazione ai reati indicati in detta  disposizione,  il  criterio  di
scelta sull'idoneita' e sull'adeguatezza della misura. 
    Nello stesso senso, a poca distanza di tempo, si espresse Sez. 1,
n. 931 del 04/03/1993, Granato, Rv. 193997, secondo cui «allorche' si
procede per uno dei reati indicati nel comma  3  dell'art.  275  cod.
proc. pen., e' preclusa la sostituzione della custodia  cautelare  in
carcere con altra misura meno grave:  la  permanenza  delle  esigenze
cautelari, ancorche' attenuate, purche' continuino a sussistere gravi
indizi di colpevolezza, comporta il mantenimento dell'originaria piu'
grave misura coercitiva. Per poter far cessare la custodia  cautelare
devono venire a mancare completamente le suddette esigenze, ma a tale
ipotesi consegue la revoca della misura imposta, a norma del comma  1
dell'art. 299 cod. proc. pen. il quale, non  prevedendo  -  per  ovvi
motivi - la  riserva  contenuta  nel  comma  2  in  ordine  ai  reati
contemplati nel comma 3 del citato art. 275, stabilisce che le misure
coercitive  (e  interdittive)  sono  immediatamente  revocate  quando
risultano «mancanti», anche per fatti sopravvenuti, le condizioni  di
applicabilita'  previste  dall'art.  273  cod.  proc.  pen.  o  dalle
disposizioni  relative  alle  singole  misure,  ovvero  le   esigenze
cautelari previste dall'art. 274 stesso codice». 
    Ancora, il principio di diritto, cosi' enunciato, fu ribadito  da
Sez. 5, n. 1753 del 12/05/1993, Giugliano, Rv. 195408, con  specifico
riferimento al reato di cui all'art. 416-bis cod.  pen.,  trattandosi
di «uno dei reati per  i  quali,  in  presenza  di  gravi  indizi  di
colpevolezza, l'unica misura applicabile e' la custodia  in  carcere,
salvo  che  siano  acquisiti  elementi  dal  quali  risulti  che  non
sussistono esigenze cautelari». Nel medesimo  senso,  a  distanza  di
anni, Sez. 3, n. 2711 del 03/08/1999, dep. 21/04/2000,  Valenza,  Rv.
216566-7 ribadi' che «la presunzione di adeguatezza  esclusiva  della
custodia cautelare in carcere nei confronti  di  soggetti  gravemente
indiziati di taluno dei reati previsti dall'art. 275, comma  3,  cod.
proc. pen. opera in tutte le fasi del procedimento penale, e non solo
in occasione  dell'applicazione  della  misura  cautelare».  E  cosi'
ancora: Sez. 5, n. 24924 del  07/05/2004,  Santaniello,  Rv.  229877;
Sez. 6, n. 9249 del 26/01/2005, Miceli Corchettino, Rv. 230938. 
    Questo indirizzo interpretativo si  e'  ulteriormente  rafforzato
con Sez. 6, n. 20447 del  26/01/2005,  Marino,  Rv.  231451,  che  ha
dichiarato   la   manifesta   infondatezza   della    questione    di
costituzionalita' dell'art. 299, comma  2,  cod.  proc.  pen.,  nella
parte in cui prevede che, nell'ipotesi di cui all'art. 275, comma  3,
cod. proc. pen., il giudice non possa sostituire la misura  cautelare
adottata  con  altra  meno  grave,  quando  le   esigenze   risultino
attenuate: e'  stato  affermato,  sul  punto,  che  dette  norme  non
costituiscono  ne'  irragionevole  esercizio  della  discrezionalita'
legislativa, ne' violazione del principio di uguaglianza, e  cio'  in
ragione dell'elevato e specifico coefficiente di pericolosita' per la
convivenza  e  la  sicurezza  collettiva  inerente   ai   reati   ivi
considerati. Con tale decisione e'  stato  ulteriormente  specificato
come,  risultando  rispettata  la  riserva  di   legge,   non   possa
apprezzarsi nemmeno la violazione dell'art. 13,  primo  comma,  della
Costituzione; con l'ulteriore precisazione  che  l'art.  27,  secondo
comma, della Costituzione, non e' applicabile alle misure  coercitive
di tipo personale adottate per finalita' cautelari. 
    Nello stesso senso si sono ancora espresse: Sez. 2, n. 16615  del
13/03/2008, Vitagliano ed altro, non massimata sul punto; Sez. 5,  n.
27146 del 08/06/2010,  Femia,  Rv.  248034;  Sez.  6,  n.  32222  del
09/07/2010, Galdi, Rv. 247596; Sez. 5, n. 34003  del  18/05/2010,  Di
Simone, Rv. 248410; Sez. 2, n.  11749  del  16/02/2011,  Armens,  Rv.
249686, secondo cui  «non  avrebbe  senso  imporre  l'adozione  della
custodia cautelare in carcere se poi fosse possibile sostituirla  con
misura meno afflittiva». 
    Da ultimo Sez. 5, n. 35190 del 22/06/2011, Ciminello, Rv. 251201,
ha ribadito che l'orientamento  prevalente,  ritenuto  nell'occasione
condivisibile, si fonda su un argomento sistematico,  costituito  dal
rilievo che l'art.  299,  comma  2,  cod.  proc.  pen.,  consente  la
sostituzione della misura, in caso  di  attenuazione  delle  esigenze
cautelari o della sopravvenuta assenza di proporzione all'entita' del
fatto o alla sanzione,  «ma  con  espressa  eccezione  proprio  delle
ipotesi contemplate dall'art. 275, comma 3». 
    4. La questione oggetto del contrasto cosi'  delineatosi  non  e'
mai stata tematicamente affrontata dalle Sezioni Unite.  Mette  conto
pero' sottolineare che di recente le Sezioni Unite, con  la  sentenza
n. 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, Rv. 250195-6, nel ragionare  sulla
portata applicativa delle interpolazioni dell'art. 275, comma 3, cod.
proc. pen., hanno avuto modo di precisare, come sopra ricordato nella
parte narrativa, quanto segue: «Anche nel momento della  sostituzione
della misura cautelare giocano le presunzioni alle quali si  e'  gia'
fatto  cenno  nel  considerare  il  momento  genetico  della   misura
cautelare: una diversa soluzione, evidentemente, renderebbe del tutto
irrazionale il sistema. Tuttavia, in tale fase  non  possono  operare
presunzioni prima  inesistenti».  Le  Sezioni  unite  hanno,  dunque,
avvalorato   l'orientamento   affermatosi   come   prevalente   nella
giurisprudenza di legittimita' che, come  si  e'  visto,  ha  origini
ormai datate. 
    5. Cosi' descritto il quadro giurisprudenziale, ritengono  queste
Sezioni  Unite   di   dover   confermare   l'opzione   interpretativa
privilegiata dalla  prevalente  giurisprudenza  e  gia'  recentemente
avallata dalle Sezioni Unite con la citata sentenza Ambrogio. 
    A tanto inducono - e fermo restando quanto gia'  argomentato  con
le sentenze che hanno dato vita all'orientamento maggioritario e  con
la stessa sentenza delle Sezioni Unite,  Ambrogio  -  le  ragioni  di
ordine letterale, sistematico e logico di seguito indicate. 
    Una corretta operazione ermeneutica, finalizzata  ad  individuare
la ratio sottesa alla norma da  interpretare,  deve  muovere  innanzi
tutto dal dato letterale. 
    Orbene, la formulazione delle disposizioni che rilevano  ai  fini
della soluzione della questione de qua non sembra possa dare adito  a
particolari difficolta' interpretative, in considerazione  della  sua
sufficiente chiarezza; ed  e'  noto  che,  in  presenza  di  un  dato
testuale sufficientemente chiaro, l'interprete deve attenersi a  tale
dato, il cui significato  va  ricostruito  senza  sovrapposizione  di
opzioni  per  le  valutazioni  politico-criminali  discendenti  dalla
stessa lettera normativa. 
    Cio' premesso, e' agevole argomentare, da una lettura complessiva
del  testo  normativo,  che  il  legislatore  ha  inteso  per   certo
attribuire alla presunzione assoluta di cui all'art.  275,  comma  3,
del codice di rito, il carattere di eccezionalita' com'e' reso palese
dall'elencazione specifica dei reati cui ha voluto ricollegare  detta
presunzione  e  dall'espressione  «salvo  che  non  siano   acquisiti
elementi dai quali risulti che non  sussistono  esigenze  cautelari».
Dunque, in deroga alla regola generale enunciata nel  comma  1  dello
stesso articolo - secondo cui il giudice,  nel  disporre  le  misure,
«tiene conto della specifica idoneita' di ciascuna in relazione  alla
natura e al grado delle esigenze cautelari» - ed in  deroga  altresi'
al principio della custodia in carcere quale extrema  ratio,  fissato
nell'incipit del comma 3, il legislatore ha ritenuto, per determinati
reati, specificamente indicati, di dover  stabilire  una  presunzione
assoluta di idoneita' della piu' afflittiva delle misure.  Da  tanto,
consegue che l'interpretazione della disposizione non puo' che essere
quella piu' rigorosa consentita dall'enunciato letterale, in  stretta
aderenza alla ratio normativa, chiaramente ravvisabile, nel  caso  in
esame, nella necessita' di ricercare un giusto contemperamento  delle
opposte esigenze del diritto alla liberta' dell'indagato (o imputato)
e della tutela della  collettivita'  (come  evidenziato  dalla  Corte
Costituzionale con l'ordinanza n. 450 del 1995). 
    Cosi' individuata la ratio della  norma,  deve  ritenersi,  quale
logica conseguenza, che detta presunzione debba operare non solo  nel
momento genetico della misura, ma per tutte le vicende successive, in
presenza di esigenze cautelari. Conclusione, questa, che risulta  poi
viepiu' rafforzata,  come  detto,  da  ragioni  di  ordine  logico  e
sistematico. Sotto il primo aspetto, e' sufficiente osservare che non
risponderebbe a criteri di logica - avuto riguardo alla  ratio  della
disposizione quale individuata gia' sulla scorta del dato letterale -
imporre,  per  delitti  ritenuti  dal  legislatore   di   particolare
gravita', l'adozione della custodia cautelare in carcere se poi fosse
possibile  sostituirla  con  misura  meno  afflittiva   (cosi'   come
evidenziato da Sez. 2, n. 11749 del 16/02/2011, Armens,  Rv.  249686,
sopra  ricordata).  Dal  punto  di  vista  sistematico,  mette  conto
sottolineare che: a) nel primo periodo del comma 3 dell'art. 275 cod.
proc. pen., con riferimento alla custodia in carcere quale misura  da
adottare solo ove ogni altra  misura  risulti  inadeguata,  e'  stata
usata la formulazione «puo' essere disposta», mentre con  riferimento
alla presunzione assoluta  di  adeguatezza  della  sola  custodia  in
carcere, di cui  al  successivo  periodo,  il  legislatore  ha  fatto
ricorso alla diversa formulazione «e' applicata»: orbene, non  sembra
che tale diversa terminologia sia senza  significato,  posto  che  il
termine "disposta" consente  di  individuare  certamente  proprio  il
momento genetico, a differenza della parola "applicata" che, infatti,
risulta poi usata anche nell'art. 299 cod. proc. pen.  dedicato  alla
"revoca e sostituzione delle misure"; b)  nell'art.  299  cod.  proc.
pen., che, come appena ricordato, pur contiene  le  disposizioni  che
disciplinano la  revoca  e  la  sostituzione  delle  misure,  vi  e',
nell'incipit del comma 2, il richiamo alla presunzione di adeguatezza
di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.  quale  eccezione  alla
possibilita' di sostituzione  della  misura  in  corso  nel  caso  di
attenuazione  delle  esigenze  cautelari  ovvero  quando  la   misura
applicata non appare piu' proporzionata all'entita' del fatto o  alla
sanzione che si ritiene possa essere irrogata: risulta dunque  chiara
l'intenzione  del  legislatore,  avuto  riguardo  alla   collocazione
dell'eccezione ed alla  formulazione  della  norma,  di  aver  voluto
rendere operativa la presunzione di adeguatezza  della  misura  della
custodia in carcere, prevista dal comma 3 dell'art. .275  cod.  proc.
pen., per i reati ivi elencati, per  l'intera  durata  della  vicenda
cautelare e non per il solo momento  iniziale  in  cui  detta  misura
viene disposta. 
    Ne' tale opzione ermeneutica  risulta  efficacemente  contrastata
dall'argomento   che,   in   alcune   delle   sentenze,   espressione
dell'indirizzo minoritario, si e' ritenuto di poter  individuare  nel
comma 4 dell'art. 299 cod. proc. pen., laddove e' previsto che, fermo
restando  quanto  e'  stabilito  nell'art.  276   cod.   proc.   pen.
(provvedimenti in caso di trasgressione alle  prescrizione  imposte),
«quando le esigenze cautelari risultano  aggravate,  il  giudice,  su
richiesta del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con
un'altra piu' grave ovvero ne dispone  l'applicazione  con  modalita'
piu' gravose». Ed invero, nell'art. 299 cod. proc. pen. accanto  alla
revoca della misura (comma 1),  e'  prevista  anche  la  sostituzione
della misura: in senso meno  afflittivo,  nel  caso  di  attenuazione
delle esigenze cautelari (comma 2) o  in  senso  piu'  severo,  e  su
richiesta del pubblico ministero,  nel  caso  di  aggravamento  delle
esigenze stesse (comma 4). Le disposizioni di cui  ai  commi  2  e  4
dell'art. 299 cod. proc. pen.  sono  dunque  simmetriche,  e  non  si
rilevano nella formulazione del comma 4 elementi persuasivi a  favore
dell'orientamento interpretativo minoritario. 
    La sostituzione di una misura con altra meno afflittiva, nel caso
di attenuazione delle esigenze cautelari, cosi' come  prevede  l'art.
299, comma 2, cod. proc. pen., e'  chiara  espressione  della  regola
generale che comporta una continua verifica, da  parte  del  giudice,
circa  il  permanere  delle  condizioni  che  hanno  determinato   la
limitazione della liberta' personale e la scelta di  una  determinata
misura cautelare. Orbene, a tale regola - che governa  l'aspetto  per
cosi'  dire  dinamico  della  vicenda  cautelare,  disciplinato   nel
contesto normativo dell'art. 299 cod. proc. pen. - il legislatore  ha
inteso  porre  un'eccezione,  attenuando  la   discrezionalita'   del
giudice, con l'introduzione di criteri legali di valutazione, e cosi'
ponendo una presunzione assoluta di adeguatezza  della  misura  della
custodia in carcere per  determinati  reati  in  quanto  ritenuti  di
particolare pericolosita' sociale:  presunzione  che  deve  ritenersi
operante  non  solo  in  occasione  dell'adozione  del  provvedimento
genetico della misura coercitiva (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.)
ma, necessariamente, anche per il prosieguo della  vicenda  cautelare
proprio perche' espressamente richiamata nel comma  2  dell'art.  299
cod. proc. pen. («salvo quanto previsto dall'art. 275 comma 3»). 
    6. Va pertanto enunciato il seguente principio:  «La  presunzione
di adeguatezza della custodia in carcere ex art. 275, comma  3,  cod.
proc.  pen.  opera  non   solo   in   occasione   dell'adozione   del
provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende
successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari». 
    7. Risolto il quesito sottoposto al vaglio delle  Sezioni  Unite,
bisogna ora  procedere  all'esame  della  questione  di  legittimita'
costituzionale prospettata dalla difesa del L., posto che, alla  luce
del principio sopra enunciato, secondo la formulazione dell'art. 275,
comma  3,  cod.  proc.  pen.,  tale  disposizione  dovrebbe   trovare
applicazione  anche  in  relazione  ai  delitti  aggravati  ai  sensi
dell'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 (convertito dalla legge
n. 203 del 1991). 
    Orbene,  ritiene  il  Collegio  che  trattasi  di  questione  non
manifestamente infondata, avuto  riguardo,  in  particolare,  proprio
all'evoluzione della giurisprudenza costituzionale in relazione  alla
portata della presunzione di cui all'art. 275, comma  3,  cod.  proc.
pen.,  essendo  intervenute  plurime  pronunce  di  declaratoria   di
parziale incostituzionalita' di tale norma. 
    La questione si presenta altresi' rilevante,  in  relazione  alla
concreta fattispecie, in considerazione del fatto che a carico del L.
e' stata ritenuta sussistente l'aggravante prevista dal citato art. 7
e tenuto conto dell'espresso richiamo dell'art. 299,  comma  2,  cod.
proc. pen., a tale presunzione, di cui si e' prima detto. 
    La Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 450 del 1995  statui'
la compatibilita' della  presunzione  in  argomento  con  i  principi
costituzionali, rilevando che  la  scelta  del  tipo  di  misura  non
implica necessariamente l'attribuzione al giudice  di  un  potere  di
apprezzamento in concreto, perche' ben puo'  essere  oggetto  di  una
valutazione in termini generali del legislatore, «nel rispetto  della
ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento  dei  valori
costituzionali coinvolti». Osservo' il Giudice delle leggi che ricade
nell'ambito della discrezionalita' legislativa  l'individuazione  del
punto di equilibrio tra diverse esigenze, e in particolare tra quella
della minore possibile restrizione della liberta' personale e  quella
della tutela degli interessi costituzionali presidiati attraverso  la
previsione degli strumenti cautelari. Muovendo da tali  premesse,  si
ritenne che la predeterminazione  in  linea  generale  dell'area  dei
delitti  di   criminalita'   organizzata   di   tipo   mafioso,   per
l'operativita'  della  presunzione  di  adeguatezza  della   custodia
cautelare carceraria,  rendesse  manifesta  la  non  irragionevolezza
dell'esercizio  della   discrezionalita'   legislativa,   atteso   il
coefficiente  di  pericolosita'  per  le  condizioni  di  base  della
convivenza e della sicurezza collettiva che  agli  illeciti  di  quel
genere e' connaturato: non puo', infatti,  dirsi  che  sia  soluzione
costituzionalmente  obbligata  l'affidamento  sempre  e  comunque  al
giudice della fissazione del punto di  equilibrio  e  contemperamento
tra il sacrificio della liberta' personale e  gli  opposti  interessi
collettivi, anch'essi di rilievo costituzionale. 
    Anni dopo, ma riprendendo giurisprudenza  consolidata,  la  Corte
costituzionale, con la sentenza n. 139 del 2010, ha ricordato che  le
«presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale
della  persona,  violano  il  principio  di  eguaglianza,   se   sono
arbitrarie  e  irrazionali»,  cioe'  se  non  rispondono  a  dati  di
esperienza  generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod
plerumque accidit. E cio' ha fatto in occasione  dello  scrutinio  di
costituzionalita' dell'art. 76, comma 4-bis, d.P.R. 30  maggio  2002,
n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia  di   spese   di   giustizia),   del   quale   ha   decretato
l'illegittimita' nella parte in cui, stabilendo che  per  i  soggetti
gia' condannati con sentenza definitiva per i  reati  indicati  nella
stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti  previsti  per
l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, non ammette la  prova
contraria. 
    Con una pluralita' di interventi, la Corte costituzionale ha  poi
recentemente ridisegnato  i  confini  delle  presunzioni  in  materia
cautelare, il cui ambito applicativo era stato ampliato, ben oltre il
settore della criminalita' mafiosa, dall'intervento  normativo  sulla
sicurezza pubblica, vale a dire dal decreto-legge  n.  11  del  2009,
convertito, con modifiche, con legge n. 38 del 2009. 
    Con  la  sentenza  n.  265  del  2010  e'  stata  dichiarata   la
illegittimita' dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.,  nella  parte
in cui  ha  esteso  la  presunzione  di  adeguatezza  della  custodia
carceraria,   senza   possibilita'   di   apprezzare   in    concreto
l'adeguatezza di altra e meno afflittiva misura, nei procedimenti per
i reati di cui all'art. 609-bis, comma 1, 609-bis e  609-quater  cod.
pen. Dopo aver  ricordato  che  nel  criterio  di  adeguatezza  trova
espressione  il  principio  del   "minore   sacrificio   necessario",
architrave del sistema cautelare personale, e  che  il  ricorso  alla
custodia carceraria deve essere residuale - eccezionale,  di  extrema
ratio - la Corte ha chiarito come tratto  saliente  del  sistema  sia
l'assenza di automatismi e presunzioni. 
    La deroga, costituita  dalle  presunzioni  di  sussistenza  delle
esigenze cautelari e di adeguatezza della  misura  carceraria  per  i
delitti di mafia in senso stretto, ha superato il vaglio della  Corte
Costituzionale e della Corte Europea dei  diritti  dell'uomo,  avendo
entrambe le Corti valorizzato le peculiarita' di tali delitti, la cui
connotazione strutturale astratta, come reati  associativi  e  dunque
permanenti, rende ragionevoli le presunzioni, e specificamente quella
di   adeguatezza   della   custodia   carceraria,   misura   ritenuta
maggiormente idonea per soddisfare l'esigenza di neutralizzazione del
periculum libertatis «connesso al verosimile protrarsi  dei  contatti
tra imputato e associazione». 
    La  Corte  Europea  aveva  avuto  gia'   modo   di   pronunciarsi
esplicitamente in tal senso, osservando che la disciplina derogatoria
in esame appariva giustificabile alla luce  «della  natura  specifica
del fenomeno della criminalita' organizzata e soprattutto  di  quella
di stampo mafioso», e segnatamente in considerazione del fatto che la
carcerazione  provvisoria  delle  persone  accusate  del  delitto  in
questione «tende  a  tagliare  i  legami  esistenti  tra  le  persone
interessate e il  loro  ambito  criminale  di  origine,  al  fine  di
minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con  le
strutture delle organizzazioni criminali  e  possano  commettere  nel
frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano c. Italia). 
    La Corte Costituzionale, appunto con  la  decisione  n.  265  del
2010,  ha  quindi  tratto  la  conclusione   dell'impossibilita'   di
estendere una ratio siffatta, calibrata sui delitti di mafia in senso
stretto,  ad  ambiti  criminosi  per  i  quali  vale  una  regola  di
esperienza  diversa,  ossia  che  essi  possono   proporre   esigenze
cautelari suscettibili di essere soddisfatte con  misure  alternative
alla custodia in carcere.  Si  tratta  di  delitti  che,  per  quanto
odiosi, sono spesso meramente individuali e  tali  da  non  postulare
esigenze affrontabili rigidamente con la massima misura. 
    Con argomentazioni del tutto simili, il Giudice delle leggi,  con
la sentenza  n.  164  del  2011,  ha  successivamente  dichiarato  la
incostituzionalita' dell'art. 275, comma 3, cod.  proc.  pen.,  nella
parte in cui non consente di  apprezzare,  nei  procedimenti  per  il
delitto di omicidio volontario, l'esistenza di elementi specifici dai
quali in concreto risulti che le esigenze  cautelari  possano  essere
soddisfatte con  misure  meno  gravose  della  custodia  in  carcere.
Nonostante la gravita' del reato - ha osservato la Corte - il delitto
di omicidio non implica e non presuppone necessariamente  un  vincolo
di appartenenza permanente a un sodalizio  criminoso  con  accentuate
caratteristiche di pericolosita', perche' puo' essere, e sovente  e',
un fatto meramente individuale. Anche in tale  circostanza  e'  stato
ricordato  che  entrambe  le  Corti  -  e  cioe'  la   stessa   Corte
Costituzionale e la Corte Europea dei diritti dell'uomo - avevano  in
vario modo valorizzato la specificita' dei delitti di mafia. 
    Sulla scia di questa giurisprudenza e' poi intervenuta ancora  la
Corte costituzionale con sentenza n. 231 del 2011  con  la  quale  e'
stata dichiarata la illegittimita' dell'art. 275, comma 3, del codice
di rito, nella parte concernente il riferimento al  procedimenti  per
il delitto di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990. Anche per  tale
delitto la presunzione assoluta di adeguatezza  della  sola  custodia
carceraria  e'  stata  considerata  non  rispondente  a  un  dato  di
esperienza generalizzato, ricollegabile alla struttura stessa e  alle
connotazioni criminologiche  della  figura  criminosa,  pur  se  essa
presuppone  uno  stabile  vincolo  di  appartenenza  a  un  sodalizio
criminoso. Con tale sentenza e' stato precisato  che  il  delitto  di
associazione finalizzata  al  traffico  di  sostanze  stupefacenti  o
psicotrope si concretizza  in  una  forma  speciale  del  delitto  di
associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura  dei
reati-fine, che non  postula  necessariamente  la  creazione  di  una
struttura complessa e gerarchicamente ordinata,  essendo  sufficiente
una  qualunque  organizzazione,  anche  rudimentale,   di   attivita'
personali e di mezzi economici, benche' semplici ed elementari. Detta
figura criminosa, ha osservato ancora  la  Corte  Costituzionale,  si
presta, pertanto, a qualificare  penalmente  fatti  e  situazioni  in
concreto i piu' diversi ed  eterogenei,  si'  che  non  e'  possibile
enucleare una regola di esperienza, ricollegabile  ragionevolmente  a
tutte le connotazioni criminologiche del  fenomeno,  secondo  cui  la
custodia carceraria sarebbe l'unico strumento idoneo  a  fronteggiare
le esigenze cautelari. 
    Mette conto sottolineare  che  il  Giudice  delle  leggi  con  la
precedente  sentenza  n.  331  del  2010  ha  fatto  venir  meno   la
presunzione assoluta di adeguatezza della custodia  carceraria  anche
in  riferimento  ai  delitti  di  favoreggiamento   dell'immigrazione
clandestina, di cui all'art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998. 
    Infine, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 110 del 2012,
e'  intervenuta  ancora  una  volta  con  una  ulteriore   (parziale)
declaratoria di incostituzionalita'  dell'art.  275,  comma  3,  cod.
proc.  pen.,  con  specifico  riferimento  alla  fattispecie  di  cui
all'art. 416 cod. pen. realizzata allo scopo di commettere i  delitti
previsti dagli artt. 473 e 474 dello  stesso  codice,  facendo  cosi'
venir meno la presunzione assoluta di adeguatezza della  custodia  in
carcere per tale reato associativo. 
    Nel riprendere le argomentazioni delle  precedenti  pronunce,  la
Corte ha significativamente precisato che le parziali declaratorie di
illegittimita' costituzionale non si  possono  estendere  alle  altre
fattispecie criminose disciplinate dall'art. 275, comma 3, cod. proc.
pen., e non prese in  esame  specificamente  dalle  dichiarazioni  di
incostituzionalita', perche' «la lettera della norma  [...],  il  cui
significato   non   puo'   essere   valicato   neppure   per    mezzo
dell'interpretazione costituzionalmente conforme [...], non  consente
in via interpretativa di conseguire l'effetto che solo una  pronuncia
di illegittimita' costituzionale puo' produrre». Ha  quindi  aggiunto
che anche per la fattispecie presa in esame puo'  dirsi  che  mancano
quelle  connotazioni  normative  (forza  intimidatrice  del   vincolo
associativo e  condizione  di  assoggettamento  ed  omerta')  proprie
dell'associazione di tipo mafioso e in grado di fornire  una  congrua
base statistica alla presunzione assoluta di  adeguatezza.  Con  tale
decisione,   la   stessa   Corte   ha    definito    "particolarmente
significativa"  la  propria  sentenza  n.   231   del   2011   (sopra
illustrata),  con  la  quale  e'  stata  dichiarata  illegittima   la
presunzione  in  argomento  in   riferimento   ad   una   fattispecie
associativa (art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990), ed  ha  evidenziato
che nell'occasione  e'  stato  in  particolare  sottolineato  che  il
delitto di associazione di tipo mafioso e' «normativamente  connotato
- di riflesso ad un dato empirico-sociologico - come quello in cui il
vincolo associativo esprime una forza di intimidazione  e  condizioni
di  assoggettamento  e  di  omerta',  che  da  quella  derivano,  per
conseguire determinati fini illeciti.  Caratteristica  essenziale  e'
proprio tale specificita'  del  vincolo,  che,  sul  piano  concreto,
implica ed e' suscettibile di produrre, da  un  lato,  una  solida  e
permanente adesione tra  gli  associati,  una  rigida  organizzazione
gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e,
dall'altro, una diffusivita' dei  risultati  illeciti,  a  sua  volta
produttiva di' accrescimento della forza intimidatrice del  sodalizio
criminoso. Sono tali peculiari connotazioni  a  fornire  una  congrua
"base statistica" alla presunzione considerata, rendendo  ragionevole
la convinzione che, nella generalita' dei casi, le esigenze cautelari
derivanti dal delitto in questione non possano  venire  adeguatamente
fronteggiate se non con la misura carceraria». 
    Ai  fini  dello  scrutinio  della   questione   di   legittimita'
costituzionale oggetto della citata sentenza  n.  110  del  2012,  la
Corte Costituzionale ha quindi precisato che le argomentazioni svolte
nella sentenza n. 231 del 2011  -  come  si  e'  visto,  diffusamente
richiamate  -  devono  ritenersi  riferibili  anche  al  delitto   di
associazione per delinquere realizzata allo  scopo  di  commettere  i
reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen. Nell'occasione, la  Corte
Costituzionale ha altresi' significativamente evidenziato  -  il  che
appare  rilevante  ai  fini  della  delibazione  della  questione  di
legittimita' costituzionale prospettata dalla  difesa  del  Lipari  -
quanto segue: «deve escludersi  che  l'inserimento  dell'associazione
per delinquere realizzata allo scopo di commettere  i  reati  di  cui
agli artt. 473 e 474 cod. pen. tra i  reati  indicati  dall'art.  51,
comma 3-bis, cod. proc. pen.  sia  idoneo  a  offrire  legittimazione
costituzionale alla norma in esame: questa Corte ha infatti  chiarito
che la disciplina stabilita dall'art. 51,  comma  3-bis,  cod.  proc.
pen. risponde a «una logica distinta ed eccentrica rispetto a  quella
sottesa alla disposizione sottoposta a scrutinio», trattandosi di una
norma «ispirata da ragioni di opportunita' organizzativa degli uffici
del pubblico ministero, anche in  relazione  alla  tipicita'  e  alla
qualita' delle tecniche di indagine richieste da taluni reati, ma che
non consentono inferenze in materia di esigenze cautelari,  tantomeno
al fine di omologare quelle relative a tutti  i  procedimenti  per  i
quali quella deroga e' stabilita». 
    8. Le ragioni che, ad avviso di queste Sezioni Unite,  sostengono
il  giudizio  di  non  manifesta  infondatezza  della  questione   di
costituzionalita' in esame, si' sostanziano,  per  una  parte,  negli
argomenti,  quali  sopra  ricordati,  che  la  stessa  giurisprudenza
costituzionale ha nel tempo utilizzato per eliminare  la  presunzione
assoluta di adeguatezza  della  custodia  cautelare  in  carcere  per
alcuni  tipi  di  reato  (con  particolare   riferimento   a   quello
associativo di cui all'art. 74 del d.P.R. n. 309/90 ed  a  quello  di
associazione per delinquere realizzata allo  scopo  di  commettere  i
reati di cui agli artt. 473 e 474 cod.  pen.,  caratterizzati  da  un
vincolo di appartenenza alla organizzazione malavitosa,  dal  Giudice
delle leggi ritenuto di per  se'  solo  inidoneo  a  giustificare  la
presunzione assoluta di  adeguatezza  della  piu'  afflittiva  misura
cautelare, in assenza delle altre connotazioni specifiche del  legame
che  caratterizza  gli  appartenenti  ad  un'associazione   di   tipo
mafioso); per altra parte, nel rilievo che anche i delitti  aggravati
ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991  -  avendo,  o
potendo avere, una struttura individualistica -  potrebbero,  per  le
loro  caratteristiche,   non   postulare   necessariamente   esigenze
cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in carcere.  La
circostanza  aggravante  in  esame  puo'  accompagnare,  invero,   la
commissione di qualsiasi fattispecie delittuosa; di talche',  ove  si
volesse ricomprendere anche i reati cosi' aggravati  nella  locuzione
"delitti di mafia", cui si fa ripetutamente richiamo nelle  decisioni
della Corte Costituzionale, si finirebbe con l'assimilare,  sotto  il
profilo del disvalore sociale e giuridico, manifestazioni  delittuose
del tutto differenti, sia con riferimento alla loro portata criminale
sia con riferimento alla pericolosita' dell'agente: la presunzione di
adeguatezza della  misura  della  custodia  in  carcere  per  delitti
commessi al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste
dall'art.   416-bis   cod.   pen.,   comporterebbe,   infatti,    una
parificazione tra chi a  dette  associazioni  abbia  aderito  e  chi,
invece,  senza  appartenere  ad  esse,  abbia  inteso  agevolare   le
attivita' delle associazioni stesse.  Parificazione  che  sembrerebbe
ingiustificata sulla scorta delle considerazioni svolte dalla  stessa
Corte Costituzionale laddove la presunzione  in  argomento  e'  stata
ritenuta ragionevole e giustificata, come ricordato, solo in presenza
di  un  legame  associativo,   peraltro   connotato   da   specifiche
caratteristiche, quali la forza intimidatrice del vincolo associativo
stesso e la condizione di assoggettamento e di omerta' che ne deriva,
che  non  sembrano  riscontrabili  in  una  condotta  delittuosa  pur
aggravata  ai  sensi  dell'art.  7  del  d.l.  n.   152   del   1991;
comportamento ovviamente grave  e  indice  di  pericolosita'  ma  non
necessariamente, ed in ogni caso maggiore, di chi sia - ad esempio  -
partecipe di un'associazione  dedita  al  traffico  di  stupefacenti,
posto che, giova ripeterlo, in  relazione  all'aggravante  contestata
sotto il profilo dell'agevolazione delle attivita' delle associazioni
previste dall'art. 416-bis cod. pen. - situazione corrispondente alla
concreta fattispecie,  avuto  riguardo  al  reato  per  il  quale  e'
intervenuta sentenza di condanna del L. - e'  escluso  un  vincolo  o
legame con l'associazione. 
    9. Oltre alla non manifesta infondatezza,  appare  ravvisabile  -
come  in  precedenza  gia'  accennato  -  anche  la  rilevanza  della
questione, posto che l'appello del P.m., avverso l'ordinanza  con  la
quale era stata concessa al L. la detenzione  domiciliare,  e'  stato
accolto dal Tribunale (con  il  provvedimento  oggetto  del  presente
ricorso) proprio muovendo  dal  presupposto  che  la  presunzione  di
adeguatezza della misura della custodia in carcere per  il  reato  di
favoreggiamento personale, in quanto aggravato al sensi  dell'art.  7
del d.l. n. 152 del 1991, deve ritenersi operante non  esclusivamente
in occasione dell'adozione del provvedimento  genetico  della  misura
coercitiva,  e  riguarda  quindi  anche  le  vicende  successive  che
attengono alla permanenza o meno delle esigenze cautelari. 
    Giova  ricordare,  infine,  che  in   merito   alla   circostanza
aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del  1991  sono  intervenute
anni addietro le Sezioni Unite di  questa  Corte  (Sent.  n.  10  del
28/03/2001, Cinalli, Rv. 218377) per risolvere la questione se  detta
aggravante, contestata per i reati fine, sia applicabile ai partecipi
di un'associazione di stampo mafioso. Dopo aver precisato che essa si
articola  in  due  diverse  forme,  l'una  a   carattere   oggettivo,
costituita dall'impiego del  metodo  mafioso  nella  commissione  dei
singoli delitti, l'altra di tipo soggettivo, che si  sostanzia  nella
volonta' specifica di favorire o facilitare l'attivita'  del  gruppo,
le Sezioni Unite hanno dato risposta positiva al quesito,  escludendo
che possa configurarsi un'ipotesi di concorso apparente di  norme,  e
specificamente  di  reato  complesso,  sulla   base   dell'indiscussa
autonomia del reato associativo  rispetto  al  reato-fine.  Hanno  in
particolare chiarito che il metodo mafioso di  cui  all'art.  416-bis
cod.  pen.  e  quello  di  cui  alla  disposizione  che  prevede   la
circostanza aggravante  integrano  due  distinte  entita':  il  primo
connota il fenomeno associativo  ed  e',  al  pari  del  vincolo,  un
elemento che permane indipendentemente  dalla  commissione  dei  vari
reati; il secondo costituisce eventuale caratteristica di un concreto
episodio delittuoso,  ben  potendo  accadere,  di  converso,  che  un
associato ponga in essere  una  condotta  penalmente  rilevante,  pur
costituente reato-fine, senza avvalersi del potere intimidatorio  del
gruppo. Lo stesso ragionamento hanno poi  sviluppato  in  riferimento
alla  forma  soggettiva  della  circostanza  aggravante   in   esame:
l'associato risponde di un contributo permanente allo scopo  sociale,
che  prescinde  dalla  commissione  dei  singoli   delitti.   Qualora
l'associato concorra in essi e la sua condotta  sia  qualificata  dal
dolo specifico di agevolare l'attivita' dell'associazione, tale fatto
psicologico si prospetta come ulteriore,  e  pertanto  puo'  essergli
addebitato in funzione di aggravamento  della  pena.  Del  resto,  il
reato associativo richiede un effettivo apporto  alla  causa  comune,
mentre la previsione aggravatrice e' relativa alla semplice  volonta'
di favorire, indipendentemente dal risultato, l'attivita' del gruppo,
e cioe' qualsiasi manifestazione  esteriore  del  medesimo,  che  non
coincide con il perseguimento dei fini sociali in cui si sostanzia il
dolo specifico di cui all'art. 416-bis cod. pen. 
    10. Alla stregua di tutte le argomentazioni sin qui svolte,  deve
conclusivamente dichiararsi rilevante e non manifestamente  infondata
la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275,  comma  3,
secondo periodo, del codice  di  procedura  penale,  come  modificato
dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti
in materia  di  sicurezza  pubblica  e  di  contrasto  alla  violenza
sessuale, nonche' in  tema  di  atti  persecutori),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in  cui
- nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi  di  colpevolezza
in ordine ai delitti commessi al fine di agevolare le attivita' delle
associazioni previste dall'art. 416-bis del codice penale (aggravante
cosi'  contestata  nella  concreta  fattispecie),  e'  applicata   la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; non  manifesta
infondatezza ravvisabile in  relazione  ai  seguenti  articoli  della
Costituzione:  art.  3,  per   l'ingiustificata   parificazione   dei
procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi dell'art.  7  del
d.l. n. 152 del 1991 a quelli concernenti i delitti di mafia  nonche'
per l'irrazionale assoggettamento ad  un  medesimo  regime  cautelare
delle diverse ipotesi concrete riconducibili  ai  paradigmi  punitivi
considerati; art. 13, primo comma, quale referente  fondamentale  del
regime ordinario delle  misure  cautelari  privative  della  liberta'
personale; art. 27, secondo comma, con  riferimento  all'attribuzione
alla coercizione personale di tratti funzionali tipici della pena. 
    Per completezza argomentativa, appare opportuno sottolineare  che
analoghe considerazioni ben possono valere anche con riferimento alla
forma aggravatrice del c.d. "metodo mafioso" (profilo non  contestato
al L.). Ed invero, la presunzione di adeguatezza della  misura  della
custodia  in  carcere  per  un  reato   in   tal   senso   aggravato,
comporterebbe una parificazione tra chi a  dette  associazioni  abbia
aderito e chi,  invece,  senza  appartenere  ad  esse,  abbia  inteso
approfittare della  condizione  di  assoggettamento,  dalle  medesime
creato, per portare piu' efficacemente a  compimento  il  proprio,  e
specifico,  proposito  criminoso  del  tutto  estraneo  al  programma
delinquenziale dell'associazione malavitosa. 
    A norma dell'art. 23 della legge  11  marzo  1953,  n.  87,  deve
dichiararsi  la  sospensione  del  procedimento   e   deve   disporsi
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale,  ferma
restando la misura cautelare in atto. 
    La Cancelleria provvedera' alla notifica di copia della  presente
ordinanza alle parti in causa  e  al  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri ed alla comunicazione della stessa ai Presidenti  delle  due
Camere del Parlamento. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'articolo  275,  comma  3,  secondo
periodo, cod. proc. pen. all'art. 7  del  decreto-legge  n.  152/1991
(convertito dalla legge n. 203/1991), in riferimento  agli  artt.  3,
13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost. 
    Sospende il giudizio in corso e dispone l'immediata  trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale. 
    Ordina che la presente ordinanza sia  notificata  alle  parti  in
causa  nonche'  al  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  e  sia
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
        Cosi' deciso il 19 luglio 2012 
 
                         Il Presidente: Lupo 
 
 
                                       Il Componente estensore: Romis